Una riflessione su due spettacoli tratti dai testi del drammaturgo Franco Scaldati: Ombre folli della Compagnia Vetrano e Randisi e Inedito Scaldati diretto da Livia Gionfrida.
Ci sono delle ombre che si agitano come nel fondo di una caverna, sono ombre fatte di parole, scritte in un siciliano che si stratifica di significati a volte limpidi e a volte oscuri, suoni misteriosi che rimangono tra le lettere, nei dittonghi, nelle semivocali e in suoni che non riescono ad essere restituiti se non da certe voci.
Sono le parole di Franco Scaldati, poeta e drammaturgo siciliano, amato da Franco Quadri che lo definiva il “poeta delle caverne”. Scaldati, che ha lavorato a Palermo dalla fine dei Sessanta fino al 2013, ha sempre fatto della sua scrittura un corpo vivo e in perenne trasformazione. Autodidatta sì, ma in grado di far coesistere buona parte delle sperimentazioni linguistiche della seconda metà del Novecento con una conoscenza profonda della letteratura moderna (specie per Shakespeare e Blake), prestando quell’afflato a personaggi che si radicavano nella Palermo del dopoguerra, tra crudezza ed elegia.
Due spettacoli in questi mesi hanno avuto come fulcro le opere di Scaldati: il primo è stato Ombre Folli, diretto e interpretato dalla Compagnia Vetrano e Randisi, che, siciliani pure loro, hanno già avvicinato la drammaturgia scaldatiana (Totò e Vicé, di cui hanno curato anche una bella ma introvabile versione cinematografica; Assassina). Il secondo spettacolo è invece un’operazione di collage da testi editi e inediti, curato dalla regista Livia Gionfrida e con il sostegno di Melino Imparato, attore storico e attuale colonna portante della originaria Compagnia Franco Scaldati (anche Gionfrida non è al primo incontro con il poeta, chiamata l’anno scorso dall’allora direttrice dello Stabile di Catania Laura Sicignano per un Pinocchio scaldatiano).
Ombre Folli è un testo scritto durante gli anni Novanta all’interno dell’esperienza Laboratorio Femmine dell’Ombra, composto per quadri distinti, che alternano immaginazioni del pensiero (dove a parlare è un alter ego dell’autore, che si dà forma di dramatis persona e continuamente si interroga sulla natura sua e di chi lo circonda), e ombre di personaggi che portano in scena la complessità delle loro vite. Sono figure ai margini della società, travestiti e meccanici, omini che cercano l’estremo conforto in un corpo artefatto, l’unico in grado di dare amore, ma diventando strumento di morte; eppure non è stata mai per Scaldati l’occasione di stendere giudizi su di loro, la critica sociale che ne emerge viene consegnata indirettamente, poggiandosi sulle vite raccontate con il filtro della memoria, che è in grado di arrivare diretto al cuore delle questioni che li animano.
Per restituire questa dimensione immaginativa e concreta, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, nel buio del palco del Teatro Tempio di Modena, scelgono di restituire quella lingua scaldatiana che è reinvenzione e ricerca del palermitano, di suoni antichi e prestiti alti, aiutando lo spettatore non siciliano attraverso un escamotage di traduzione simultanea (o tramite proiezioni), la quale però si innesta naturalmente nella messa in scena, diventando eco che rafforza e rievoca. I due allora si alternano nel parlato, ma contemporaneamente vivono di messaggi non detti, sguardi taglienti e improvvisi, pietà di azioni. Tutto è contratto, pochi oggetti servono alla scena: un tavolino con una macchina da scrivere (feticcio scaldatiano), una poltrona, qualche proiezione, candele, … I due attori-registi si fanno mezzo per queste storie, mezzo per queste vite che forse non sono mai esistite, ma che vivono nel momento in cui sono a teatro, effimere, come il gelato che mangiano alla fine, dolci, erotiche, consolanti.
C’è una figura che apparteneva in origine a Ombre folli, una lavascale che poi abbiamo ritrovato all’interno di Inedito Scaldati, prodotto e visto al Teatro Biondo di Palermo. In questo spettacolo Livia Gionfrida fa confluire quadri provenienti da alcuni testi degli anni ’90, su tutti la potente riscrittura del Macbeth, Libro Notturno, corredandolo anche di battute “apocrife”, ma che sembrano ricalcare l’orma di quello che avrebbe potuto essere il modo di Scaldati di fare teatro. Proprio per questo principio che felicemente accetta di tradire l’idea di testo fissato una volta per tutte (pratica mai appartenuta a Scaldati che continuava a riscrivere anche dopo il debutto o le pubblicazioni), lo spettacolo si apre con Melino Imparato che chiede: “finìu a pandemia? Finìu? ‘un ci n’è pandemia…”. Ma non sono le parole in sé (chiaramente non del drammaturgo palermitano), quanto tutto il presupposto, quel linguaggio para e preverbale che è provocatorio, sornione, tragico, stupito, impudente, che sa più degli altri e meno di tutti, che è in grado di raccontare anche senza dire. Tant’è vero che poi inizia una camminata di passetti e stazioni, deviazioni, sospensioni, che era quella di Franco, della sua biografia fisica, ma anche di quella creativa, era il suo modo di distribuire le parole sul foglio, quasi a suggerirne già una metrica recitativa. L’eredità sta qui, nella capacità di richiamare sul palco qualcosa di dato per scontato da chi lo ha conosciuto una vita, in grado però di conferirgli nuova forma. Così come prova Gionfrida, ricucendo storie e parole, per cui l’agone tragicomico tra il corto e il muto, dove il primo sembra prevalere sempre sulle sorti del secondo (commovente e durissimo Paride Cicirello, sul palco assieme anche a Oriana Martucci, Daniele Savarino e Imparato), si riversa nella logica del Macbeth.
Nella possibilità di dare forme in immagine alle immagini poetiche che stanno negli interstizi delle parole, tra il realismo utopico e il silenzio, si realizza quella «deformazione della parola – come sostiene padre Cosimo Scordato, teologo che a lungo ha visto e accompagnato il lavoro di Scaldati dentro al quartiere Albergheria – che sembra inafferrabile ma viene recuperata anche per vie impensabili».
Queste due produzioni, diverse nelle storie che le hanno legate all’autore, peculiari a proprio modo nelle ricerche e nelle estetiche ma non nell’afflato, né nella giusta misura di rispetto e effrazione dal pensiero primigenio, sono il risultato sottotraccia di un modo di essere (nemmeno fare) teatro che stenta a rimanere in vita dopo la morte del suo artefice. Scaldati ha sempre – con fatica o con beata caparbietà – lottato per la propria autonomia creativa, anche quando questo lo ha portato a confrontarsi meno con realtà più consolidate nei circuiti produttivi o “alla moda”. È sempre stato fermamente centrato sul proprio modus operandi, quasi anacronistico, di un teatro onnicomprensivo, capocomicale per le tensione organizzativa che risolveva cioè tutte le funzioni artistiche e gestionali al proprio interno.
A distanza di quasi un decennio dalla sua morte, l’eredità drammaturgica sta trovando nuove forme di espressione, per cui c’è chi ricerca testi inediti e prova a darne una propria visione e chi, invece, rielabora quadri distinti noti e sconosciuti, provando a reinventarne il percorso. Sono scelte entrambe necessarie, che hanno bisogno di spinte produttive articolate (per esempio Ombre Folli, nato sotto la spinta del Teatro di Roma ora invece è sostenuto da ERT in collaborazione con la compagnia), e che meritano attenzione, meritano di continuare a vivere nel rapporto sempre diverso tra scena e platee. Questo, naturalmente, ci auguriamo per entrambi, con un pensiero alla produzione di Gionfrida, che si è trovata suo malgrado stretta nella crisi economico-finanziaria che sta vivendo il Teatro Biondo in questi mesi.
L’occasione di oggi corrisponde all’anniversario di morte. Rimanendo solo parentesi isolata servirebbe a poco. Se invece diventa pretesto per una ricognizione – sempre parziale e soggetta a revisioni – dello stato delle cose è occasione preziosa: rimane pensiero vivo in azione. Del resto, la morte per Franco Scaldati non è mai stata una condizione irreversibile. Compagna della vita, altro lato della moneta che, nell’eterno possibile della scena, può giungere (anche violentemente) e poi venire meno, per ridare spazio al vivente. Personaggi muoiono e rinascono come la luce fa con l’ombra, come la tragedia si accosta al riso, la violenza alla delicatezza, la poesia alla brutalità, senza mai giudizi, ma con una profonda compassione per la complessità dell’essere umano.
Viviana Raciti
OMBRE FOLLI
visto al Teatro Tempio, Modena – marzo 2022
di Franco Scaldati
interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi
video e luci Antonio Rinaldi
produzione ERT / Teatro Nazionale
in collaborazione con Cooperativa Le Tre corde-Compagnia Vetrano/Randisi
INEDITO SCALDATI
visto al Teatro Biondo, Palermo – aprile 2022
testi di Franco Scaldati
drammaturgia e regia Livia Gionfrida
con Melino Imparato, Paride Cicirello, Oriana Martucci, Daniele Savarino
scene e costumi Emanuela Dall’Aglio
consulenza per il suono Serena Ganci
assistente alla regia Giulia Aiazzi
produzione Teatro Biondo Palermo
in collaborazione con Teatro Metropopolare