La nave dolce è lo spettacolo di Tib Teatro di Belluno che, prendendo le mosse dall’omonimo film-documentario di Daniele Vicari, ricostruisce la vicenda della nave che nell’agosto del 1991 portò sulle coste baresi ventimila albanesi. Recensione
Tempi questi in cui parlare di migrazione si fa troppo o ancora troppo poco, tra rigurgiti reazionari che dovrebbero lasciare attonita qualsiasi opinione mediamente inculturata e buonismi reattivi a volte altrettanto inconsistenti ove non altrettanto incisivi. Un dibattito troppo espresso e “cavalcato”, seppure spesso non abbastanza indagato, in cui a volte l’efficacia politica (nel senso più proprio del termine) si trova immolata sull’altare di una demonizzazione populista del concetto di “altro” come uno specchietto per le allodole scontente dei vizi di un sistema ben più ampio. O, al contrario, si scopre sacrificata dalla santificazione intangibile di storie singole che difficilmente riescono a ergersi a reali simulacri di un’analisi pragmatica dell’accettazione e dell’integrazione. Questo è il crinale di cui l’arte tutta e non ultimo il teatro provano e devono provare a farsi carico, convertendo frasi fatte e luoghi comuni buoni o cattivi, tolleranze e intolleranze, riflessioni o assenze di pensiero, bisogni freschi e stanchezze trite in cellule comunicative per cui trovare una poetica è una necessità non semplice nel diniego della retorica, ancor più difficile nella fuga dalla retorica dell’anti-retorica.
È del 2012 La nave dolce, il film documentario di Daniele Vicari, anche Premio Pasinetti alla Mostra del cinema di Venezia di quell’anno, che ricostruisce – quasi vent’anni dopo Lamerica di Gianni Amelio – con interviste e immagini di repertorio, un episodio che ha segnato l’immaginario e la percezione della dinamica migratoria del nostro Paese in modo irreversibile. L’8 agosto del 1991 sbarca nel porto di Bari una torma di ventimila persone, partite da Durazzo dopo essere anche forzosamente salite a bordo della Vlora, nave mercantile da poco ritornata da Cuba. Oggi Tib Teatro di Belluno ha portato sul palcoscenico del Teatro Piccinni di Bari uno spettacolo col medesimo titolo (concesso da Indigo Film e Apulia Film Commission) che dalla stessa vicenda prende le mosse, traslando sul piano drammaturgico e performativo il processo narrativo filmico.
Una scena appropriatamente essenziale lascia spazio a pochi elementi indicativi, una sedia alta acqua marina, un libro con una macchina fotografica polaroid, delle gomene con dei ganci. Un unico interprete, Massimiliano Di Corato, che si divide in tre voci per altrettanti punti di vista: quello di uno degli albanesi, quello di un barese tipo e quello di un bambino, osservatore dentro e fuori dalla storia. Una prospettiva che si scinde ma che in realtà si moltiplica per cercare di passare in rassegna le diverse angolazioni possibili della ricostruzione, la quale si vuole il più possibile realistica, per quanto non asettica: dalla partenza al dirottamento da Brindisi a Bari, dall’arrivo alla confusione dei primi momenti sul suolo italiano, dalla distribuzione dei beni di prima necessità sino all’asserragliamento nello Stadio Vittoria del capoluogo pugliese, dalle controversie politiche al sentimento comune cittadino, dai tentativi di fuga al rimpatrio di circa diciottomila persone.
Un complesso drammaturgico e narrativo figlio di un lavoro di ricerca testimoniale e sul territorio ispirato dal documentario, ma strutturato anche e soprattutto nella collaborazione tra Daniela Nicosia (regista e autrice del testo) e il legame col territorio del barese Di Corato. Fra il recupero della cadenza pugliese, la dizione canonica e la riproduzione di un’inflessione albanese mai caricaturale, fra movimento e gesto, fra la parola e la costruzione dell’azione, la sua presenza si vuole al servizio della messinscena senza cali di tensione e/o di intenzione, risentendo tuttavia a tratti di un riflesso acerbo di appoggi di accademismo per fronteggiare la tenitura di un monologo non facile per lunghezza e struttura. A restare maggiormente affissa agli occhi l’immagine di una cascata di bottigliette di plastica a infrangersi a terra, a raccontare l’arsura dei corpi senz’acqua e la sete di anime col terrore dell’assenza di futuro. Una corsa, un assiepamento e poi lo sciabordio, il tumulto dell’acqua, il suo silenzio oscuro e ottundente, il ripiegamento, la paura, la speranza, la stanchezza, la negazione, un approdo salvifico, una delusione, l’assoluzione e la soluzione: un carico pesante, una marmaglia troppo evidente di umani invisibili.
Marianna Masselli
Bari, Teatro Piccinni, febbraio 2020
LA NAVE DOLCE
testo e regia Daniela Nicosia
interprete Massimiliano di Corato
scene Bruno Soriato
aiuto regia Vassilij Gianmaria Mangheras
disegno luci e suonoPaolo Pellicciari
scenotecnico Théo Longuemare
una produzione Tib Teatro