AMORE COINTESTATO (di Enoch Marrella)
Alcune storie lasciano una patina di squallore sul cuore, che tiene insieme memoria presente e passata. Come se ci sedessimo su una sedia sdraio, su una terrazza, a guardare cosa è stato un amore; le antenne si agitano al vento, il traffico rumoreggia, tutto si muove tranne noi, fissati nel vuoto, in alto, da soli. E proviamo un’enorme tenerezza. È questa un’immagine che rimane impressa di Amore cointestato La corazza emotiva – Primo movimento scritto e diretto da Enoch Marrella: lui, «intellettuale di origini benestanti che vive in prima periferia e nella vita non guadagna nulla», dal fondo della scena guarda lei, Ariadna (Giulia Salvarani), «una ragazza di estrema periferia che dalla vita ha tutto da guadagnare», mentre si sfoga con il pubblico rispetto quello che sperava sarebbe stato, e invece non è. In questa sorta di triello - assistiamo a uno che guarda una che guarda noi - c’è anche una sotterranea rabbia violenta che vivacizza gli sguardi. Un illusorio controllo: possiamo mai cointestarci la fiducia in un legame che esiste solo nella sua libertà? Enoch Marrella lo rappresenta in una drammaturgia surreale, emotivamente confusa in alcuni passaggi, sovraccarica di elementi in altri, in cui la relazione con Ariadna (forse uno spettro generato dalla mente di lui a causa del fallimento amoroso) si articola tra la prima e seconda periferia, spazi geografici, e personali, agli antipodi che esprimono anche una distanza intimo familiare mai colmata. Oltre alle intelligenze umane, due intelligenze artificiali appaiono nei video esilaranti: un maestro/psichiatra/santone e una barista cinese, che assolve il compito terapeutico più dello stesso psichiatra. Per loro, Enoch è l’allievo che deve imparare, il cliente che deve sapere. Ariadna, invece, sa già tutto, ribadisce quello che voleva, ma che non ha con lui, e perciò se ne va. Nei cambi luce un po’ temerari e nelle azioni un po’ impacciate, c’è però una sincerità tra palco e platea che ci tiene legati gli uni alle altre. Come nel finale, sempre sulla terrazza, 8 persone stanno lì, fissate e unite, a tenere l’antenna, per «lasciare tutto così com’è». (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo: con Enoch Marrella, Giulia Salvarani; visual Andrea Romoli; artwork Aleksandar Stamenov; sound design Gabriele Silvestri; luci Gianni Staropoli; costumi Marta Montevecchi; coordinamento Maria Federica Bianchi; progetto grafico Marco Quintavalle; foto Valerio De Rose; teaser video Daniele Parisi, Dario Tacconelli; organizzazione Cinzia Sanna; amministrazione Luigi Schiavon; segreteria Giulia Surianello; ufficio stampa Maresa Palmacci; prodotto da Tuttoteatro.com; con il contributo della Regione Lazio – Spettacolo dal Vivo
| Cordelia | dicembre 2024
Ecco il nuovo numero mensile di Cordelia, qui troverete le nuove recensioni da festival e teatri
FRAMMENTI DI INFINITO (Aristide Rontini)
Delude il nuovo lavoro di Aristide Rontini, Frammenti di infinito. Tre atti per le lucciole, visto all’Arena del Sole di Bologna. Diviso in tre parti (volutamente) disuguali, ma (irreparabilmente) inconciliate, ha come punto di partenza l’«articolo in cui Pier Paolo Pasolini denunciava la scomparsa delle lucciole dal cielo di Roma»: per distruzione dell’habitat, e continuità dei fascismi. Il primo frammento è un assolo dello stesso Rontini, tutto fermo al centro, in una continua ricerca tra curve che inseguono linee e geometrici scatti (traiettorie di lucciole?). Confonde tanta inaspettata ossessione estetizzante, in fondo conformista che neutralizza ogni emersione di forze più luminose e pure brutali di mille nuovi possibili corpi che la scena può rendere oggi visibili. Il secondo frammento è un trio (Silvia Brazzale, Orlando Izzo, Cristian Cucco), tutto all black e mascherato da vibratili lucciole, ma la composizione che si vorrebbe intuitiva e irrazionale, «corpi sottratti alla luce diretta del riflettore», riesce invece molto elementare. Il terzo frammento è una pratica di comunità tutta risolta in una lenta e semplice frontalità (ispirata a Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, dipinto nel 1901), ed è molto difficile riconoscere i valori che vi si vorrebbero ascritti: «l’essere insieme, l’attesa, l’essenzialità e l’ascolto». Il montaggio delle tre parti prevede lunghe pause, da morirne; sono scandite da una musica di scena originale (di Vittorio Giampietro) anche bella ma a getto continuo, che infine allaga le orecchie. La sensazione allora è che nel disegnare e progettare e sperimentare troppo i formati, spezzettando e poi (ri)assemblando la performance come su di un menu, si finisca per perdere la ragione più vera del proprio lavoro, e della propria ricerca. L’«istinto e l’irrazionale» non sono mai solo quel che si è già. Ciò che nella performance emerge nascosto e intimo e ignoto e latente nella forma luminosa di un coleottero, deve poter ingaggiare le lotte di domani, e prendere a calci il mondo. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Arena del Sole. Coreografia e regiaAristide Rontinid anza (in o.a.)Silvia Brazzale, Cristian Cucco, Orlando Izzo, Aristide Rontini con la partecipazione di Kamila Burban, Valentina Cavagnis, Marieva Vivarelli, Annalisa Frascari, Roberto Penzo, Delia Adele Salsi, Sonia Salsi, Christopher Serebour, Julian Soardi musiche originali Vittorio Giampietro dramaturg Gaia Clotilde Chernetich disegno luci Lampyris Noctiluca Giulia Pastore
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