Cordelia - le Recensioni

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AMAE (di Eliana Stragapede, Borna Babić)

Poche decine di minuti segnano la durata di questo passo a due, ma densissimi per tecnica e disegno coreografico, Amae è il primo spettacolo dell’edizione 2024 di Futuro Festival, manifestazione dedicata alla danza e alle arti performative (a cui da quest'anno si aggiungono le incursioni nelle arti visive a Palazzo Merulana). Diretto da Alessia Gatta ha il proprio centro nevralgico nei rigogliosi giardini  del parco del Teatro Brancaccio. Qui è stato montato un piccolo tendone con una platea che circonda quasi interamente lo spazio scenico, fuori gli spazi di un bar rendono sociale l’esperienza tra uno spettacolo e l’altro. In Amae c’è qualcosa che ha a che fare con la sparizione, con l’abbandono, l’abdicazione e la resa. C’è un corpo femminile, che tra le braccia di un uomo non ha peso, anzi è come se subisse un processo di liquefazione. La coppia di artisti è formata da una danzatrice italiana, Eliana Stragapede, che si è formata a Rotterdam e ora vive a Bruxelles, collaboratrice tra l’altro di Peeping Tom e dal danzatore croato Borna Babić (tra gli artisti della Ultima Vez / Wim Vandekeybus company), con questa performance hanno vinto la Copenhagen International Choreography Competition. L’idea è quella di riflettere sul concetto di co-dipendenza nelle relazioni umane e alla base dell’ideazione vi è però anche un’influenza nipponica, il libro L'anatomia della dipendenza dello psicoanalista giapponese Takeo Doi. E il titolo rimanda infatti alla parola giapponese Amae (甘え?), è un concetto che ha anche fare con la capacità di indurre gli altri a prendersi cura di noi. Il corpo della giovane donna  prima viene sollevato, dalle braccia, dai fianchi e poi perde peso improvvisamente, come a rendere inutile lo sforzo di cura ricevuto. Babić ha una presa forte ma gentile, di chi fa di tutto per rianimare un corpo che vuole solo sparire: lo svuotamento è anche mentale, di chi si è arreso. Ci sarà il tempo per il distacco, ma i due corpi in lontananza manifesteranno malessere, la fluidità si trasformerà in gesti spezzati e improvvisi. Cosa siamo senza gli altri? (Andrea Pocosgnich)

Visto a Brancaccino Open Air / Chapiteau, Futuro festival regia + coreografia Eliana Stragapede + Borna Babić |Drammaturgia Margherita Scalise | Composizione musicale Nenad Kovačić | Voce Teresa Campos | Musiche originali Nicholas Britell | Audio editing Giuseppe Santoro | Interpreti Eliana Stragapede + Borna Babić | Disegno luci Benjamin Verbrugge | Costumi Nina Lopez-Le Galliard | Una co-produzione VGC Brussels, Culture Moves Europe (European Union and Goethe Institut), L'OBRADOR Espai de Creació, Roxy Ulm and TanzLabor Ulm | Contributi fotografici David Kalwar

RIDICOLA (di Annamaria Troisi)

Accovacciata sul tavolo, in bocca le parole di Alda Merini, Mistica d’amore, un’ode per chi soffre, per «coloro che non sanno gridare/ perché nessuno li ascolta», prima che la luce si spenga risucchiando nel buio questa figura e la sua disperata umanità. Ma oltre a Merini nella drammaturgia di Annamaria Troisi si insinuano anche Erich Fried, C.S. Lewi e Fëdor Dostoevskij che con Il sogno di un uomo ridicolo fa da scintilla proprio alla creazione di Ridicola, spettacolo vincitore della passata edizione della rassegna Over ideata dal Teatro Argot. E proprio nello spazio di via Natale del Grande abbiamo visto il monologo prima che questo possa debuttare tra qualche giorno al Torino Fringe Festival: la prossimità con l’interprete e autrice permette al pubblico quell’esperienza di verità aumentata possibile solo quando di fronte a noi si svela la creazione vivida di un personaggio in cui possiamo credere. Annamaria Troisi questo personaggio lo fa nascere nel buio: leggings neri e ciabatte rosa, racconta di essere incinta ma non c’è nessuna pancia finta, solo un largo pile colorato e poi la lingua napoletana, di tenera o tagliente ironia. È la storia di una prostituta, tra la vita e la morte, con un sogno di mezzo (ecco Dostoevski) e una pistola che sparerà due volte, ma il centro propulsore non sta tanto nella trama, ma nella capacità portentosa di questa attrice di farsi cassa di risonanza di una sofferenza universale. Lo fa prima attraverso un dispositivo molto classico, quello del dialogo con personaggi assenti, invisibili al pubblico ma presenti e veri nei suoi occhi, per poi rompere questa relazione imbracciando un microfono nelle parti più liriche. Qui la vicenda si fa rarefatta, i suoi contorni lattiginosi, forse poco si capirà del bambino e del rapporto tra sogno e realtà, ma lo sguardo è rivolto agli altri, a coloro che giudicano e tutto logorano: «Divennero insensibili e indifferenti pure alle stelle del cielo che prima tanto li commuovevano». (Andrea Pocosgnich)

Visto a Teatro Argot di e con Annamaria Troisi progetto sonoro DANIVA assistente alla regia Sara Consoli produzione AMA Factory spettacolo vincitore OVER – Emergenze Teatrali 2023

UNA GIORNATA FATALE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA (di E. Barba, L. Gleijeses e J. Varley)

Sul sito di Lorenzo Gleijeses, nella scheda dello spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, leggiamo due generose testimonianze di Eugenio Barba e Giulia Varley, numi tutelari del ben noto, e certamente singolare per fisionomia, percorso artistico di Gleijeses. Nessuna concessione panegirica, ma la condivisione di tutte le perplessità e degli stalli nell’accompagnare un percorso frastagliatissimo. Impossibile inquadrare lo spettacolo in una fisiologia produttiva, nemmeno citando il famoso progetto 58° PARALLELO NORD, che dal 2015 al 2020 ne è stato incubatore, raccordando sentieri e sensibilità complesse quali quelle degli stessi Barba e Varley, Michele Di Stefano, Chiara Lagani, Luigi de Angelis e altri… Tentacolare? Certamente non meno della stessa esperienza di visione, che restituisce tutta l’evenemenzialità dell’atto creativo, fino alla domanda più larvale e destabilizzante: che senso ha questo stare in scena? La questione dell’identità e del dubbio dilagano nell’ombra sin dai primi movimenti, quando Lorenzo-Gregorio tituba sull’orlo di un fascio di luce, lasciando esordire a brani l’epifania del proprio corpo. Un corpo disciplinato e maniacale nel suo apparire prima ancora che nella partitura coreografica – è chiaro che Gleijeses nuota nel mare auto-fictionale mentre si annoda al cordone ombelicale della propria biografia da figlio d’arte, del suo rapporto con la figura-mito di Barba, della scelta professionale sospesa tra la comoda carreggiata del mestiere e il sentiero della “ricerca”. Sotto il filtro kafkiano, i 70’ minuti mettono in scena tutta la fatica di recidere quel cordone, insieme all’ambiguo piacere di lasciarsene nutrire, fatica che però si riversa sul pubblico. Una rappresentazione, dunque, la cui forza e raffinatezza drammaturgica (potenziate dai suggestivi disegni sonori e luminose di Mirto Baliani) restano imbrigliate dalla stessa autoevidenza della storia-viaggio che è il lungo lavoro a monte. Un sentiero che vale la pena risalire, ma di cui a pochi spettatori, forse, è comoda e chiara la traccia. Di tanto travaglio resta evidenza nel titolo, in quel “fatale” che sovrascrive “qualunque”, come l’amara nota a margine di un’ennesima incertezza. (Andrea Zangari)

Visto a Teatro India | regia e drammaturgia Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley; con Lorenzo Gleijeses; Crediti completi

LE MIE TRE SORELLE (di Ashkan Khatibi)

Sono 147 i pallini che abitano il corpo di Sadaf Baghbani. Sono 147 i colpi che ne hanno invaso con violenza la carne, sparati dalla milizia iraniana durante una manifestazione di protesta contro il governo. Nell’impossibilità di ricevere soccorso e medicazioni, Sadaf Baghbani continua a portarli con sé anche dopo la fuga dal Paese, cicatrici disseminate che raccontano di lei, della sua storia, del suo sopruso, di ciò che non può più essere taciuto. E non tace Ashkan Khatibi, regista e scrittore esule come lei costretto alla fuga, alla migrazione, che di quella storia decide di prendersi cura. Sadaf così salirà sul palco del Teatro Franco Parenti, le vedremo tremare le gambe e luccicare gli occhi di un’intensità lunare, eco di un dolore senza fondo. Accanto a lei vedremo poi comparire come in un sogno lontano le due sorelle minori rimaste in Iran, interpretate in scena da Nazanin Aban e Saba Poori, spiriti forti e dolci al tempo stesso che recitano in italiano, ma affondano le radici della propria rabbia anche in assoli rap in persiano (diventato per i giovani iraniani la lingua della rivolta). Un telo bianco si srotolerà su di loro come una coperta che ne avvicina distanze e dolori e i dialoghi – in un intreccio linguistico di farsi e italiano che attinge dalla materia pulsante della vita – le caleranno all’interno di un liquido amniotico condiviso. Tutto sembra tornare agli anni in cui si dormiva assieme, in cui la sera si aspettava che le luci si spegnessero per parlare dei propri desideri, delle proprie paure. Ora il bianco del telo e dei vestiti si tinge di rosso, sono le impronte dello scontro, della fuga necessaria. “A Roma, a Roma!”, ritornello di cechoviana memoria (“A Mosca, a Mosca”) e riferimento culturale in cui Khatibi vuole immergere la pièce mutandone la prospettiva, diviene un sogno che si infrange, appiglio letterario per cercare un nuovo orizzonte di speranza. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: regia e sceneggiatura Ashkan Khatibi, con Sadaf Baghbani, Saba Poori, Nazanin Aban, Taher Nikkhah, cantante Sahba Khalili Amiri, costumi Delshad Marsous, scenografia Taher Nikkhah, assistenti di scena Alma, Ava, Tina Karam Zadeh, assistenti alla regia Michele Marelli, Ghazal Shamlou, Arash Shojaei, Tina Karam Zadeh, traduzione dal persiano Michele Marelli, produzione Teatro Franco Parenti

LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG (di Massimo Odierna)

La figlia di Kioto Zhang potrebbe diventare una sorta di espressione idiomatica, un modo di dire; una perifrasi che non corrisponde al vero ma che può supportare la ricerca di una verità. Chi è la figlia di Kioto Zhang? Forse una funzione, per questa drammaturgia che attinge ai pastiche pulp à la Tarantino, ai racconti umorali bukowskiani, all’epica delle serie Anime e alla densità bianco nero delle graphic novel, presentando un mondo che, drogato dall’innovazione, non dà il tempo ai processi umani di adattarsi a quelli avveniristici, creando dolorose distanze. La scrittura scenica - che tuttavia potrebbe alleggerirsi da alcuni eccessi di virtuosismo formale - ha il merito di fare un uso sapiente del sottotesto: le intenzioni dei personaggi sono diverse dalle loro azioni e la loro emotività si manifesta in iperboli aggressive, anche se i sentimenti sono fragili e latenti metonimie. Due solitudini, quella di Thomas (Giovanni Serratore) e di Libero (Enoch Marrella), decidono di compiere un viaggio alla ricerca dell’amata perduta da Libero, ovvero Noa, la figlia di Kioto Zhang. Thomas è un alcolizzato che, mentre cerca di coinvolgere in questa missione anche Amélie, la sua ex ambientalista (Sofia Taglioni) per poterla riavvicinare a lui, passa da una donna all’altra (Federica Quartana). Intorno, i genitori, antagonisti, di Libero: una “madre suora” (Irene Ciani) penitente e timorata di Dio, un marito (Alessio Del Mastro) fissato con Baudelaire e la pederastia, e una sboccata zia maga (Ciani) che, come una Tiresia in pelliccia, vede oltre e fungerà da aiutante. Massimo Odierna lo avevamo conosciuto nel Verso Occidente di Wallace adattato dalla sua compagnia Bluteatro, e già si notava la capacità del collettivo di nutrirsi di un immaginario - visivo, letterario, filmico – che Odierna applica a questa opera originale e, osando con azzardo registico, amalgama e struttura in una tradizione teatrale (merito anche della formazione con Ronconi) e poi la “sporca” con questo folle presente, affidandola a un cast di altrettanti autori e autrici, non solo meritevoli interpreti. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Lo Spazio: con Irene Ciani, Alessio Del Mastro, Enoch Marella, Federica Quartana, Giovanni Serratore, Sofia Taglioni. Menzione speciale della giuria all’idea originale al Festival InDivenire 2023

GLI ABITANTI (di Alessio Forgione, regia Arturo Cirillo)

Alessio Forgione si confronta per la prima volta col teatro, e il suo Gli abitanti chiude la stagione al Ridotto del Mercadante con la regia di Arturo Cirillo. Con la ricerca di una drammaturgia consuntiva, tenta un teatro in cui la vita stessa, di carne vera che già esiste lontano dallo sguardo del pubblico, si potenzia nel poetico. Questa carne è di quattro brillanti attori, Martina Carpino, Luciano Dell’Aglio, Domenico Ingenito, Daniele Vicorito, che con estrema generosità e bellezza si sono prestati a un’esperienze che lascia perplessi: sembravano tutti completamente soli e mossi da qualcosa di inspiegabile, nonostante la presenza di una regia sapiente e di mestiere che ha saputo fare di un solo fascio di luce lo strumento della costruzione di uno spazio fisico dello spirito. In un buio pesante, emergono delle vite che portano con sé quelle che vorrebbero restituire le essenze di Napoli, le complessità di una città costantemente prossima a cedere sotto potenze distruttive, le complessità del contatto promiscuo di classi distanti. Si tenta una strana forma di tradizione, che fallisce. Ingenito, il cui personaggio è provvisto di maggiore spessore rispetto agli altri, è un uomo involgarito dalla solitudine alla ricerca del suo gatto: la sua è una maschera kitsch di vocazione moscatiana. Carpino e Dell’Aglio sono una coppia borghese di annoiati, mediocri e deviati. Vicorito è una figura quasi cristologica, forse di un sottoproletariato pragmatico e vigoroso. Tutto qui. La vita non esiste in questa storia di maschere anche troppo stereotipate e vecchie. Lo sforzo abile degli attori è ostacolato da una scrittura che si rifugia con leggerezza nel grottesco e nel ridicolo, che non sa dosare le emotività e si limita alla superficie delle cose. Ogni personaggio è inquadrato e limitato in uno sketch che si ripete in maniera estenuante, senza che mai questo reiterarsi produca completezza. Loro sono e basta, senza motivo, senza Napoli, senza Storia, senza niente. (Valentina V. Mancini)

Visto a Ridotto del Mercadante; Crediti: Di Alessio Forgione; Regia Arturo Cirillo; Con Martina Carpino, Luciano Dell’Aglio, Domenico Ingenito, Daniele Vicorito; Costumi Anna Verde; Regista assistente Roberto Capasso; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale;

IL VIAGGIO DI VICTOR (di Nicolas Bedos, regia Davide Livermore)

Un uomo ha subito un trauma e ha perso la memoria. Ha avuto un incidente, ma non ricorda bene, forse non era solo. Una donna l’assiste, cerca di fargli mettere a fuoco i ricordi, ricomporre i frammenti della propria biografia. L’uomo si chiama Victor, vive nel Marais parigino, ha condotto un’esistenza appagante, ricca di frequentazioni, di relazioni con attrici famose, come gli viene raccontato dagli avventori del bar del quartiere. Traditore, misogino, forse persino omofobo – tutte spacconate da maschio etero che emergono, come aculei, nel suo racconto che sprofonda pian piano nel dolore – ha poi conosciuto una donna di cui si è realmente innamorato, con cui ha fatto un figlio. Marion è il nome di lei. Ma più si avvicina a questa figura e più il nucleo del dolore diventa rovente, tanto che – mentre il pubblico scopre che è proprio Marion la figura che Victor scambia per infermiera, e che il passeggero che era con lui nell’auto al momento dell’incidente è loro figlio – l’uomo continua a negare la verità, a trincerarsi ermeticamente in una realtà alternativa. Pur essendo nella sostanza un dramma borghese, Il viaggio di Victor di Nicolas Bedos si sviluppa narrativamente come un noir, come un sofisticato gioco di specchi infranti dove l’“assassinio” non riguarda un uomo, ma le dinamiche stesse di una possibile felicità, e dove investigatore e investigato finiscono fatalmente per coincidere. Un dialogo che, nella versione di Davide Livermore, è affidato quasi interamente alla relazione tra gli attori in scena, Linda Gennari e Antonio Zavatteri, dalla recitazione livida, in equilibrio costante tra rabbia e pathos; ma che trova poi un’esplosione tridimensionale nella scenografia video (disegnata dallo stesso Livermore e da Lorenzo Russo Rainaldi) che plasma visivamente l’incidente, la caduta, l’abisso, la quiete – i vari stadi del viaggio di Victor. Una storia – tradotta da Monica Capuani – che sembra disegnare un dolore senza via d’uscita dove i frammenti della relazione amorosa, sparsi qua e là come le schegge di vetro dell’incidente, segnano una flebile, ma presente, possibilità di speranza. (Graziano Graziani)

Visto al Teatro gustavo Modena. Teatro Nazionale di Genova. Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale Traduzione Monica Capuani Regia Davide Livermore Interpreti Linda Gennari e Antonio Zavatteri Diego Cerami in video Abiti Giorgio Armani Scene Davide Livermore e Lorenzo Russo Rainaldi Disegno sonoro Edoardo Ambrosio Luci Aldo Mantovani Video maker D-Wok Regista assistente Carlo Sciaccaluga Assistente alla regia Milo PrunottobCast tecnico direttrice di scena Lorenza Gioberti capo macchinista Raffaele Giacobino capo elettricista Federico Calzini fonico Edoardo Ambrosio

DURANTE (di Pascal Rambert)

Negli episodi della trilogia di Pascal Rambert sulla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (qui l'intervista) c’è sempre il lento delinearsi di un altrove, di un’apertura che si nasconde sul fondo, verso tutto ciò che è altro dal teatro, dal palco, dalla scena. Dopo l’opera Prima, nel secondo capitolo intitolato Durante, questo “altrove” sembra squarciare il dispositivo teatrale, perché prende con prepotenza il sopravvento, come un’esplosione sonora e visiva che divampa a tutti gli effetti sul palco del Piccolo Teatro. E l’esplosione è motore di avvio della trama, allude a quell’incidente d’auto in cui la compagnia teatrale si trova coinvolta e di cui il regista, con particolare sguardo indagatorio, cerca di recuperarne le tracce agendo sulla memoria e sui pensieri degli attori. Per farlo, Rambert fa sì che in scena passato-presente-futuro dei personaggi - attraverso il loro sdoppiamento con gli allievi della Scuola di Teatro “Luca Ronconi” del Piccolo - si incontrino, in un continuo flusso di scambi, di relazioni e dialoghi che costruiscono un palco abitato da presenze fantasmali (tra cui la rimembranza di un lontano Arlecchino), avvolte da luci ora bianche ora stereoscopiche, curate da Yves Godin. “Che cosa vedi?”, chiede uno degli attori alla compagna, “Fiumi di cose che non riesco a distinguere…la tua voce non è la tua voce…tu mi senti? Tu mi ami?”. In un limbo che non è già morte ma non è neppure più vita, queste presenze sembrano muoversi senza meta né fissa dimora sul palco, come burattini di uno spettacolo mai davvero cominciato, privi di quel carattere identitario e passionale evocato in Prima, anzi più fragili, forse anche più vuoti. Di essi rimangono solo le sagome e i contorni proiettati su di un telo, in una sorta di teatro delle ombre cinesi; un tableau vivant in cui i confini si confondono fino a sparire, in cui regna forse più la fascinazione retorica della riflessione metateatrale, più l’estetica della stessa vita. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: testo e regia Pascal Rambert, traduzione Chiara Elefante, scene Pascal Rambert e Anaïs Romand, costumi Anaïs Romand, luci Yves Godin, musiche Alexandre Meyer, assistente alla regia Virginia Landi, con (in ordine alfabetico) Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi , e con gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro “Luca Ronconi” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa Miruna Cuc, Cecilia Fabris, Pasquale, Montemurro, Caterina Sanvi, Pietro Savoi, e con Ludovica Bersani, Giorgio Saglimbeni/Filippo Boncinelli, Amelia Varretta, produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, in coproduzione con structure production e Compagnia Lombardi-Tiezzi. Ph Masiar Pasquali

BRONX GOTHIC (di Okwui Okpokwasili)

«Isn’t necessarily a black play, it’s purely a relationship between these two women», così sul The Guardian. Bronx Gothic è una performance in assolo, scritta e interpretata da Okwui Okpokwasili nel 2014 (oggi anche documentario), ora ripresa in scena da una incredibile interprete, Wanjiru Kamuyu. Vista al Festival FOG della Triennale di Milano, è la storia di come due vite contrastano in una: evoca ricordi difficili dell’infanzia, spesso di natura biografia; la perdita dell’innocenza nel racconto di personaggi che sono però inventati. Attorno a pareti bianche circondate a terra da lampade riverse fra cocci e terriccio, una figura di spalle accoglie il pubblico in un nervoso e inquieto twerking, un prolungato tremore che si espande progressivamente come un terremoto capace di mandare in pezzi il corpo: pancia, dita, piedi, occhi e bocca. Respiro affannato e sudore: è tutto quanto sappiamo nei primi trenta minuti di questa performance. Un corpo si disfa, e finalmente si libera al racconto, alla spiegazione, ora necessaria. Segue la lettura ‘a due voci’ di appunti raccolti a terra, scambiati tra due giovanissime ragazze, appena adolescenti. Sono lettere (da qui il titolo: l’epistolario è genere letterario di molti romanzi gotici) esplicite, cupe, raccontano di corpi iniziati alla sessualità con violenza e predazione, degli apprezzamenti non richiesti, delle aggressioni verbali razziste (Okpokwasili, figlia di immigrati nigeriani, è cresciuta nel Bronx), e dei tentativi di dare senso all’orrore per restare a occhi aperti, per tenere in piedi il proprio mondo. Il corpo in scena di Wanjiru Kamuyu, gli occhi fissati sul pubblico in una denuncia uno-ad-uno, in fondo racconta dell’età dell’abisso che attende la crescita di queste due donne in corpi neri. Con una grande fiducia però nella forza delle parole, come una possibile catarsi del mondo interiore attraverso la scrittura. La cui retorica comunque non può che essere di grande pretesa emotiva, come una ricaduta che esige, e quasi pretende a forza, nel cambio di narrazione, empatia e visibilità. (Stefano Tomassini)

Visto alla Triennale di Milano, scrittura e performance originale: Okwui Okpokwasili, regia, scenografie e light design: Peter Born, interpretato da: Wanjiru Kamuyu, canzoni originali: Okwui Okpokwasili con musica di Peter Born e Okwui Okpokwasili, produzione: Sweat Variant.

DUET BEHAVIOR (Meredith Monk e John Hollenbeck)

Travolta, e fortemente impressionata, per una accoglienza quasi da stadio, Meredith Monk ha inaugurato la programmazione del 77° Ciclo di Spettacoli Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. Quest’anno affidata alla cura sapiente (e piena di vere promesse) di Ermanna Montanari e Marco Martinelli. La rassegna parte già benissimo: sembra un concerto sperimentale e interdisciplinare per ascoltatori esclusivi, eppure c’è un pieno di pubblico in attesa, in ascolto, preparatissimo. L’offerta dunque ha chiamato una risposta capace di intercettare una obliqua vitalità. L’ottantenne performer americana duetta in scena con l’amico di vecchia data, il polistrumentista John Hollenbeck, che ha pure un suo breve momento solistico (Click Song #1), ma che più in generale le fa da contrappunto gentile, in un duetto di buone maniere e di empatia tra voce e percussioni che è già anche una lezione etica. E di gioco (uno dei bis si chiude su un’irresistibile gag fra i due). La playlist è più che varia e copre quasi 50 anni di lavori, lo spirito della ricerca vocale è intatto, i suoni sempre ben piazzati con una ancora davvero impressionante gestione del fiato. La ricchezza della tecnica estesa di Monk proviene da una esplorazione che in lei è ormai uno stato dell’essere: perché conoscenza e tecnica sono solo i mezzi per raggiungere il suono autentico che è in ognuno. Pochi i gesti, bambolistici se non proprio marionettistici, sempre a sostegno di una performance contenuta e minimale. Confesso questa non essere la prima volta che assisto a un suo concerto. Eppure questa è stata la più intensa, e memorabile: questione di privilegio. Per esempio, Madwoman’s Vision (da Book of the Days del 1988), eseguita da Monk al pianoforte, è perfettamente intatta nella sua forza ipnotica, anche se la grana della voce a tratti resta come ossidata, opaca, in una dimensione felice della maturità di certo non meno trascendentale: un ammaccato fulgore nell’ora più recente della sua luminosa vita canora. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Olimpico di Vicenza Meredith Monk & John Hollenbeck "Duet Behavior 2024" 77° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, Meredith Monk (voce, pianoforte, arpa ebraica), John Hollenbeck (percussioni)

RUA DA SAUDADE (coreografia di Adriano Bolognino)

La riflessione di Adriano Bolognino sul sentimento affermativo della nostalgia per eccellenza più indefinibile e inappropriabile, è una composizione fatta tutta a contrasto. In Rua da Saudade visto tra il molto pubblico della sala grande del Comunale di Vicenza (così si sostengono i giovani artisti!), l’idea funziona benissimo: perché per il coreografo campano non si tratta tanto di un sentimento, ma invece di un improvviso momentaneo abisso, come l’inciampo in una caduta, l’ossessiva ripetizione in un gesto di scaramanzia, l’immobilità in uno stupore che resiste, l’anticipazione apotropaica nel nero, tutto per scongiurare il buio. La ricerca di una difficilissima armonia. Espressamente ispirato alla «poetica di Fernando Pessoa e la sua grande creazione estetica: l’invenzione degli eteronimi» (non personaggi ma parti di personalità, segmenti di soggettività inesplosi), qui Bolognino dimostra una maturità piena di curiosità e di sapienza, in cerca di libertà. Quattro danzatrici di diverso-colore-vestite: Rosaria Di Maro, Noemi Caricchia, Sofia Galvan e Roberta Fanzini, dànno così vita ad altrettante forme dell’inquietudine in traccia del proprio fantasma. Se la maggior parte dei pezzi musicali sono lirici, anche di un minimalismo gentile, fino al Satie più riconoscibile e d’atmosfera, la danza all’opposto è invece costruita per schemi, ed è prevalentemente geometrica, la gestica quasi sempre scattosa a volte pure rigida, con il baricentro basso in un andirivieni di veloci ripartenze (che piacerebbero senz’altro ad Arrigo Sacchi). Il disegno luci azzeccatissimo è di Gianni Straropoli: non le avverti, tutto sembra immobile sotto una luce quadrata che invece detta le situazioni proprio solo quando serve. Vi è anche una lunga parte in silenzio, che è una difficile eppure necessaria, tensiva transizione: il desiderio che si fa largo tra le tenebre. Bolognino ha una incredibile capacità di invenzione, con una decisa preferenza per ben orchestrati assieme, un sincrono ossessivo che è collante ma al momento giusto spezzato in singolarità quasi sempre danzate però tra mille spigoli, e mille pieghe. Figure della mente di una vita in potenza. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza, coreografia Adriano Bolognino, danzatrici Rosaria di Maro, Noemi Caricchia, Sofia Galvan e Roberta Fanzini, luci Gianni Staropoli, costumi Tns Brand, dramaturg Gregor Acuña-Pohl, testi a cura di Rosa Coppola, produzione Torinodanza Festival/Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Fondazione I Teatri Reggio Emilia\Festival Aperto, Orsolina28, Cornelia.

LA BUCA (Nerval Teatro)

C’è un tubo bianco in campo bianco, di lato c’è un albero, anch’esso bianco, senza foglie e dotato solo di pochi rami. È questa l’immagine che apre La Buca, spettacolo che Nerval Teatro ha portato sul palco della Fonderia delle Arti, per la rassegna Entrature > Sonore curata da Tuttoteatro.com, un nucleo di resistenza importante e ingiustamente ignorato, in una città che sta colpevolmente sciogliendo il proprio legame con la tradizione delle officine artistiche, le cantine della Roma teatrale. Un uomo entra in scena, sistema il cappotto e il cappello di fianco alla sua valigia, poi si mette in cammino, perimetrando il palco come fosse un viaggio, finché chiama qualcuno che, in silenzio, uscirà dal tubo. Appunto, la buca. L’uomo (Carlo De Leonardo) compie gesti minimali, con lentezza ripete in modo ossessivo degli atti estesi a riempire, consistere completamente il tempo, come volerlo compiere nella sua intima natura di contenitore di azioni; l’ampiezza del bianco, proprio come appunto il tempo, forza i propri confini fino a non vederne più, verso i margini, ma contrastandoli e discutendoli proprio nel mezzo, là dove il nero dell’abito e della valigia spicca nella lattiginosa uniformità. L’altra figura che emerge dalla buca (Maurizio Lupinelli) esplicita questo contrasto, ricerca la verticalità “nascendo” come larva nell’orizzontalità del tubo, fuori dal quale pone dubbi, magnifica la profondità della relazione sotto forma di dialogo; come nelle opere di Samuel Beckett, che di questo lavoro è una forte ispirazione, l’altro è allo stesso tempo un’occasione e un limite, una presenza contemporaneamente da accogliere e rifiutare. “Me ne vado”; “Ma non si può”, si diranno i personaggi. E dentro c’è il cuore di quest’opera, firmata da Lupinelli con Elisa Pol: lo spazio occupato dai corpi è ineludibile, non si può andar via dal proprio, non si può andar via da sé stessi perché le regole dell’esistenza non sono spiegabili, sono e basta. Nella buca si torna, perché dalla buca si è usciti. (Simone Nebbia)

Visto a Fonderia delle Arti per Entrature Sonore Crediti: di Maurizio Lupinelli ed Elisa Pol; con Carlo De Leonardo e Maurizio Lupinelli; regia Maurizio Spinelli; costumi Elisa Pol; disegno luci e direzione tecnica Gianni Gamberini; collaborazione artistica Barbara Caviglia

THE CITY (di Martin Crimp, regia di Jacopo Gassmann)

Scritta nel 2008, aveva debuttato al Royal Court Theatre di Londra l’opera teatrale dello scrittore e drammaturgo britannico Martin Crimp, The City. Jacopo Gassmann la riporta in scena anni dopo e con il chiaro intento di far riemergere quelle sfumature di cui la pièce inglese era intrinsecamente caratterizzata: “un'inquietudine e una crudeltà di fondo, spesso stemperate da una vena grottesca e surreale” nelle parole del regista. E ci riesce senza troppi orpelli al Teatro Elfo Puccini di Milano, agendo allo stesso tempo su di un linguaggio vertiginoso e tensivo (nella traduzione di Alessandra Serra) a cui coniuga una costruzione scenica (di Gregorio Zurla) per quadri minimalisti e spogli, ma vibranti nei colori intessuti dalle luci, curate magistralmente da Gianni Staropoli. Le scene così si rincorrono, cadono e si rifrangono una nell’altra in una sequenza quasi allucinata di quadri che si compenetrano, come le storie di cui sarebbero sfondo (e che talvolta finiscono per sovrastare). In realtà, tutto appare al pubblico come sospeso in un’eterna tensione, dalla componente narrativa a quella musicale e visiva: è teso il rapporto di coppia tra i due protagonisti, Chris e Clair, lui frustrato per l’imminente disoccupazione, lei tediata dall’incapacità del compagno di imporsi e reagire. È teso il rapporto con la vicina Jenny, figura ambigua che si presenta saltuariamente a casa ma che cela indizi di un passato e di una storia altra. È teso il rapporto tra padre e figlia, immersi come ogni personaggio dell’opera in un mare incolmabile di distanza e incomunicabilità. Condita di una particolare nevrosi che investe le relazioni umane e di oggetti “ritornanti”, caratterizzati da quel punctum di barthiana memoria, la pièce avanza fastidiosa verso lo spettatore, restituendo a pieno l’enigmaticità dell’opera di Crimp. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini, Crediti: di Martin Crimp, traduzione Alessandra Serra, regia Jacopo Gassmann, con (in ordine alfabetico) Lucrezia Guidone, Christian La Rosa, Olga Rossi e, per la prima volta in scena, Lea Lucioli, scene e costumi Gregorio Zurla, luci Gianni Staropoli, disegno sonoro Zeno Gabaglio, movimenti Sarah Silvagni, video Simone Pizzi, produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Teatro dell’Elfo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa. Ph Luca Del Pia

DARKMOON (di Matteo Fasanella)

Certe volte si dimentica che i grandi uomini, prima di essere tali, siano stati anche bambini. Si dimentica con tutti, ma più ancora con i poeti perché essi, nella scelta delle immagini e nella vocazione all’invenzione dell’invisibile, conservano proprio quella qualità di rimanere bambini a lungo, così da confondere qualunque indagine. Se questo è vero in assoluto, per Giacomo Leopardi lo è in un modo quasi paradossale, così tanto adultizzato dalla missione cui la famiglia lo volge da offuscare l’infanzia e la pubertà con uno studio che tutti ormai sanno definire “matto e disperatissimo”. Proprio a quel Leopardi si rivolge Michele Mari nel romanzo Io venia pien d’angoscia a rimirarti (1990) a cui Matteo Fasanella di Darkside ETS si è ispirato per portare sul palco di Teatrosophia il suo Darkmoon. La luna, sopra la testa e dentro i pensieri dei protagonisti: Giacomo detto Tardegardo o Salesio (Giuseppe Coppola), dai fratelli più piccoli Carlo/Orazio (Nicolò Berti) e Paolina/Pilla (Sabrina Sacchelli), affascinati e forse un po’ impauriti da un fratello amato di cui scorgono una grandezza soverchiante, anche per sé stesso. Al centro della vicenda è una storia noir, una serie di delitti che sconvolgono il piccolo borgo di Recanati, attorno proprio alla casa del Conte Monaldo che appare in tante opere del poeta. Nel testo di Michele Mari sorprende la compiutezza dei riferimenti eruditi che certo erano del giovane Leopardi, ma soprattutto la ricerca linguistica che rintraccia un italiano tardo settecentesco – la vicenda è però dei primi anni dell’Ottocento – che Fasanella sa tradurre e interpretare per la scena con cura e qualità delle scelte, motivando gli attori a caratterizzare i dialoghi attraverso una profonda nettezza vocale perché si compia quel miracolo di rendere una lingua antica così vicina a un pubblico moderno. La luce cerea sullo sfondo è sospesa nella storia, a essa mirano al contempo la tensione poetica e l’intimità negata, ossia le due facce della luna che ispirerà, a lungo, Giacomo Leopardi. (Simone Nebbia)

Visto a Teatrosophia. Crediti: Liberamente tratto da “Io venia pien d’angoscia a rimirarti” di Michele Mari; Scritto e diretto da Matteo Fasanella; con Sabrina Sacchelli, Nicolò Berti e Giuseppe Coppola; Assistente alla regia Lorenzo Martinelli; Allestimento scenico Alessio Giusto; Disegno luci Matteo Fasanella

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