Cordelia - le Recensioni

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LA CANTAUTRICE FANTASMA (di Ivan Talarico)

Può capitare che una notizia rilevante sia tenuta nascosta all’opinione pubblica, ma può capitare in contrario che una rivelazione sconvolga ciò che ormai storicizzato esiste nel nostro comune immaginario. Eppure, tra la news segreta e la news rivelatrice, si annida il pericolo della notizia falsa che confonde, nello stesso tempo, da un lato i dubbi e dall’altro le certezze. È in questa prospettiva che si muove La cantautrice fantasma di Ivan Talarico, un teatro-canzone in apparenza situato nella tradizione gaberiana, per citare uno tra i maggiori esponenti, ma che rivela una profondità peculiare proprio nella direzione su indicata, una sorta di processo di antiarcheologia per riflettere sul tema dell’autorialità nell’arte. Cosa c’è di più popolare, in Italia, che non le canzonette? Conosciamo a memoria parole e motivi di canzoni storiche, da Modugno a De André, da Paoli a Battisti o Conte, ma se le cose non fossero come le conosciamo? Saremmo pronti ad accettarlo? Nessuno sapeva che molti di questi brani sono stati scritti dalla sconosciuta cantautrice Agata Facci! La narrazione di Talarico compone un viaggio musicale tra aneddoti più o meno noti della canzone popolare d’arte, in cui la donna appare come una sorta di ritornello nelle storie altrui; la scoperta che ne deriva passa così agli spettatori con crescente e suadente fastidio, perché via via raccogliendo i dubbi non si può non provare fastidio, dapprima per la propria incredibile ignoranza, poi perché ci si sente privati di un tratto di memoria che ormai abbiamo fatto nostro. Ecco il tema: gli autori delle canzoni, ne hanno davvero la proprietà intellettuale? E quella emotiva? Sul palco una chitarra – che diventa una piccola orchestra di corde grazie all’uso sapiente della loop station – e un pianoforte che permettono di rivivere le canzoni della sfortunata Agata Facci, amica di grandi artisti che hanno plagiato la sua arte, come se fossero riscritture al contrario, arrangiate in sottrazione, frammenti di uno stadio precedente al capolavoro originale. Ma poi, appunto, cos’è davvero originale? Forse, soltanto, questo spettacolo. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: di e con Ivan Talarico; grazie a Roberto Castello, Aldes, Giulia Zeetti

MISERELLA (Teatro dell’Argine)

Nel teatro italiano c’è chi continua a lavorare sullo stesso territorio da anni, creando spettatori e, come in questo caso, spettacoli di valore. Si distingue in questa breve genealogia il Teatro dell’Argine, dal 1994 alla guida dell’ITC di San Lazzaro di Savena, nella prima provincia bolognese, dove ha preso vita il nuovo Miserella, al debutto nazionale a Sansepolcro. Un salotto minimale arredato con un gusto di raffinato design, con tre lampadari disposti geometricamente e tre schermi verticali in fondo, apre la scena; pur naturalistico lo spazio nelle intenzioni, l’uniformità lanosa del bianco moquette vi accoglie elementi pastello di vari colori, così da arricchire l’immagine con elementi semplici ma significanti. La regia di Micaela Casalboni coordina sapientemente quattro attrici – lei stessa, con Caterina Bartoletti, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi – cui si devono anche le parole del testo, composto assieme a Nicola Bonazzi, tratto dalle interviste fatte ad altre donne, che si ascoltano in voce off, in merito all’invecchiamento, alla trasformazione del proprio corpo e al modo migliore per accogliere il tempo che compie il suo corso. Quando inizia la famosa “mezza età”? Questa domanda sibila tra le storie di ogni donna che si racconta, sotterranea emerge dalla crescente necessità di continuo allenamento o di una nuova alimentazione contro l’aumento di peso, dalla scelta di abiti adeguati alla diversa età, dai nodi alle mani o quella ruga o quel capello grigio, da tutto ciò che si trasforma senza dare il tempo di abituarsi. Casalboni dispone le attrici in una frontalità attraverso cui cercare fin da subito contatto con il pubblico, lasciando all’ironia e alla leggerezza di veicolare la sofferenza e lo smarrimento per ciò che fa diventare diversi da una mutazione ideale. Miserella è il nome di una pianta – molte ce ne sono in scena a veicolare queste parole in un divenire naturale – il “fiore di stecco” che porta in cima al gambo secco molti sorprendenti fiori. E le piante non sanno se non vita o morte, non hanno mezze età. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: parole di Caterina Bartoletti, Nicola Bonazzi, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi; con Caterina Bartoletti, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi; regia Micaela Casalboni; collaborazione alla regia Andrea Paolucci; scenografia Nicola Bruschi; costumi Sabrina Beretta; musiche originali Davide Sebartoli; luci William Sheldon; cura del gesto coreografico Daniele Ninarello

SLEEP INTHE CAR (di Virgilio Sieni)

Sul selciato del piazzale della Fondazione Sant’Anna, la Citroën Dyane 6 color amaranto fa il suo ingresso con lentezza, aprendosi un lieve varco sonoro nel frinire ininterrotto delle cicale. Sediamo a terra, sorridenti, nel caldo immobile del tardo pomeriggio, mentre si sollevano – quasi con casualità, con una sorta di benevola autonomia rispetto all’evento scenico – le note di Domenico Scarlatti. La coppia di danzatori abita lo spazio – quello intimo e angusto dell’abitacolo prima, l’orbita attorno all’auto poi – ponendo ogni accento sulla vicendevolezza, sulla relazione mutua e naturale alla quale i loro corpi sono devoti. I movimenti si dispiegano, soppesando la carnalità fino alla leggerezza, a comporre una ricognizione sentimentale delle possibilità del corpo, il proprio e quello dell’altro: luogo e strumento del più improbabile gioco, del dolore, della perdita di controllo, così come dell’impaccio e dell’evento ordinario. Vi è un sentore profondo di materialità, il presentimento perenne di una sorta di “effettività” che connota il pensiero coreografico, che offre all’astrazione della ricerca sul movimento (alle sue sublimazioni) il tracciato semplice delle consistenze terresti. Come scrive Deleuze desiderare significa «costruire un concatenamento, costruire una regione» ed è, infine, a una grazia analogica e, si direbbe, che l’immaginazione rinviene. La geografia è allusa nell’oggetto scenico (una vecchia cartina che viene dispiegata e consultata) e nella varietà di suoni che l’azione nello spazio aperto genera. È contenuta nelle premesse della performance (che vuole esplorare l’idea del sonno in auto, a varie latitudini e longitudini), ma anche nella nozione stessa di viaggio: un viaggio lento e lungo, che richiederà di dormire accampati, arrangiati, di fare della macchina una piccola casa provvisoria, di inscrivere se stessi in vari luoghi e paesaggi, lasciando che agiscano sulla propria percezione individuale, ma anche sulla propria intesa. Come a dire che non esiste un sentire che non sia situato, e non esiste un movimento che non pretenda la disponibilità all’immanenza. (Ilaria Rossini)

Visto a Fondazione Sant’Anna, Perugia – Umbria Dance Festival 2024. Crediti: coreografia di Virgilio Sieni/Compagnia Virgilio Sieni; performance site specific; in collaborarazione con Franco La Cecla; con Jari Boldrini, Sara Sguotti, Maurizio Giunti.

LA MORTE A VENEZIA (di Liv Ferracchiati)

«L’occhio è la forza. Fare dell’inconscio un discorso è come omettere l’energetica» scrive Jean François Lyotard in Discours, figure (1971). È in una prospettiva simile – una resa al cospetto dei limiti della parola – che Liv Ferracchiati, in scena nei panni di Gustav von Aschenbach, filtra il racconto di Thomas Mann, impiegando un elemento nuovo nel suo teatro, la videocamera manovrata a mano, per duplicare e sovraesporre il movimento e l’incanto di Alice Raffaelli, Tadzio contemporaneo. Il tema viene dall’antichità classica: la psicologia omerica è fondata sull’idea che la possessione – intesa come esperienza di trasformazione erotica e misterica («plenus deo») – si realizzi in una dimensione contemplativa della grazia plastica dei corpi, trascendendo, almeno nel momento estatico, la dualità che contrappone apollineo e dionisiaco. Ferracchiati si muove su questo confine, in uno studio attorno alla possibilità di esondazione di una forza entro l’altra: il parlato registrato della prima parte, la sua grazia quasi di maniera, sconfina nella voce viva e trafitta della seconda. Il momento di passaggio è affidato a Mi sei scoppiato dentro il cuore di Mina, sintetizzata però sulle frequenze dello spavento, un po’ à la Cronenberg. Se dell’inconscio non si può fare – vedi sopra – un discorso, il potere della parola sembra permanere (oltre che come tentativo) soprattutto nella sua purezza di fatto fonico e ritmico, dotato dunque di un’espressività più “spaziale” che logica. Eppure i limiti del linguaggio, come Wittgenstein vuole, sono i limiti del mondo e, in questa logica, la deposizione, da parte di Ferracchiati, dell’ironia – da sempre impiegata, nella sua ricerca, come strumento di controllo e di sollievo, e come “appiglio esistenziale” – appare anche una rinuncia ai propri domìni. Simile all’atto di coraggio che serve per spingersi oltre i confini del noto, e al disarmo con il quale ci si predispone alla contemplazione di un vuoto, all’ascolto di un silenzio, alla morte. (Ilaria Rossini)

Visto a Chiesa di San SimoneSpoleto Festival dei Due Mondi, prima assoluta. Crediti: ispirato a  La morte a Venezia di Thomas Mann; drammaturgia e regia Liv Ferracchiati; con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli; movimento Alice Raffaelli; dramaturg Michele De Vita Conti; aiuto regia Anna Zanetti e Piera Mungiguerra; assistente alla drammaturgia Eliana Rotella; scene Giuseppe Stellato; costumi Lucia Menegazzo; luci Emiliano Austeri; suono  spallarossa; voce di Tadzio Weronika Młódzik

SMARRITA E SOAVE – ADRIANO POETA TRA I POETI (di Roberto Latini)

Per conquistare il cortile Alessandro VI, incastonato nella pietra stratificata di Castel Sant’Angelo, occorre percorrere una traiettoria circolare, una spirale che ripetutamente nasconde e rivela. Labirinto di storia, il percorso attraversa i secoli, tra lo sfarzo delle sale papali e l’asperità dei torrioni, fino al cuore di uno dei monumenti simbolo di Roma; qui va in scena la quarta edizione di Sotto L’Angelo di Castello, rassegna pensata per far dialogare le arti teatrali, coreutiche e musicali con l’arte museale. Un luogo di apparizioni, come quella dell’arcangelo che, salvando la città dalla peste, si impose sulla nomenclatura originaria del mausoleo, la dedica all’imperatore Adriano che lo volle e qui riposa. Roberto Latini guadagna il palcoscenico senza sforzo, anima rediviva, apparizione insieme terrena ed eterea. È Adriano, parla in prima persona, saluta il pubblico da padrone di casa e si racconta, con fare quotidiano, tra biografia e letteratura. Poi, un passo di lato, lo sguardo spinto più dentro e più in là, la poesia prende la scena, in un altro lungo labirinto di versi incuranti di ogni coerenza temporale, tessuti insieme dalla voce di Latini, quell’impasto misterioso e mutevole, aspro e dolce insieme, assecondato o incalzato dalle corde di violino e violoncello. Fuori dalla storia, la parola è mantra di un sentire senza cronologia, scava e solleva, dona e chiede, puro esercizio di umanità, di umano sentire, e di bellezza carpita, trattenuta nei secoli e infine liberata. L’artificio fonico, firma distintiva di Latini e Misiti, asseconda un percorso libero da vincoli e riferimenti, fluttuante, disturbante e lenitivo insieme. Un momento sospeso, effimero, in un contesto che si vorrebbe meno esclusivo, ristretto, eccezionale. (Sabrina Fasanella)

Visto a Castel Sant’Angelo - Sotto L’Angelo di Castello. Di e con Roberto Latini. Musiche di Gianluca Misiti eseguite dal vivo da Luisiana Lorusso (violino) e Claudia Della Gatta (violoncello). Luci e direzione tecnica Max Mugnai. Produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi

U. (di Alessandro Sciarroni)

Sconcertante. Infatti è un concerto di voci. Tutto è fermo. Eppure tutto si muove. Tutto è sospeso, ma tutto scorre. Tutto canta, tutto suona. Senza variazioni, fino alla fine, ininterrotto: 11 brani (canti corali tratti dal repertorio contemporaneo), 7 cantanti, disposti frontali, come un coro, e sono bravissimi: Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli. Un repertorio attualissimo e senza virtuosismi. Le parole qui contano moltissimo. Sulla parte alta del fondo si proiettano i titoli dei brani, gli autori, l’anno di edizione, preceduti da qualche riga poetica introduttiva (tutto mai disutile). E con anche la numerazione parziale dei brani (forse un po’ burocratica, certo per controllare l’ansia di ognuno). Il nuovo lavoro di Alessandro Sciarroni, U. (è forse la prima lettera di Un canto: massimo della sobrietà e ostentata umiltà che coincide, come per i santi, col massimo della superbia) è un ennesimo riuscito tentativo di tenere a bada il nero, l’abisso, la notte, di uscire dal peso della vita, forse personalissimo (Sciarroni non è proprio la persona più solare del mondo), eppure peso di tutti. In questa esibizione non c’è spazio (quasi non si muovono); tutto avviene nel tempo: del canto, delle voci, queste sì, spazializzate, ed è una continua disseminazione di idee, e di immagini, e di pensieri pensosi ed esigenti. La forma (corale) è lieve ma il contenuto ha invece il suo peso. A partire dalla difficile aurora d’avvio (cantata in penombra con un faro di controluce): «La notte più nera, il cuore non batte». All’ingiuntivo (e bellissimo): Ma dove andate?, per me vera pointe della serata («cosa cercate | se non avete mani per sognare?»). Quando già solo gli occhi aprono mondi: «Guarda lo sguardo | con quello | come so, | io ti parlo» (Guarda gli occhi che ho). Alla fine, resta il sottile sottilissimo (ai molti anche insopportabile) confine tra la quiete riacquistata, la luce ritrovata (Resterà la luce), e il precipizio che incombe nascosto, sempre di lì a un passo dal niente. Imperdibile. (Stefano Tomassini)

Centro storico Bassano, Operaestate Festival. di Alessandro Sciarroni con Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli casting, direzione musicale, training vocale Aurora Bauzà & Pere Jou casting, consulenza drammaturgica, training fisico Elena Giannotti styling Ettore Lombardi disegno luci e cura tecnica Valeria Foti cura, consiglio e sviluppo Lisa Gilardino

IN CIMA ALLE FAVOLE (Teatro dei Venti)

Il teatro e le arti performative da anni ormai fanno un importante uso dello strumento dell’ascolto in cuffia e i festival che propongono esperienze di racconto delle città, di ascolti collettivi resi singolari dai dispositivi, di narrazioni sulla memoria delle comunità, si sono moltiplicati. Di certo le opere di drammaturgia sonora permettono di mettere in comunicazione, con immediatezza, chi racconta con l’ascoltatore o l'ascoltatrice e lo spazio circostante.  In questo senso il lavoro del Teatro dei Venti - gruppo modenese creatore di grandiosi e suggestivi spettacoli di piazza e di un festival sull'appennino che è un piccolo gioiello di relazioni -  è un tentativo interessante di mettere in relazione una precisa comunità con un territorio, un luogo deputato all’arte contemporanea e un festival (quello di Pergine). Siamo ad Arte Sella, nella sede di Villa Strobele con il piccolo parco attorno e le sculture e installazioni; ci vengono consegnate le cuffie, possiamo muoverci nello spazio, tra un’opera e l’altra mentre ascoltiamo le voci di un gruppo di anziani e anziane delle Case di Riposo di Pergine Valsugana, Trento e Borgo Valsugana. Le voci, piene e fragili, antiche e sorridenti, raccontano favole e leggende di montagna, piccoli racconti che danno anche una spiegazione fantasiosa ad eventi e conformazioni paesaggistiche. Nell’opera ideata da Oxana Casolari e Cesare Trebeschi (tramite un laboratorio sul campo), con la collaborazione di Azzurra D’Agostino le favole si alternano a ricordi e riflessioni sulla montagna, “sono andata a piedi fino alla Cima 12, dalla quale si vedeva tutta la vallata” afferma una delle donne. Muoversi nello spazio di Arte Sella con la montagna nelle orecchie, tra memoria (di com'era la montagna decenni fa) e fantasia, è un cortocircuito non solo intellettuale, è la scoperta infatti a guidare i nostri passi sull’erba che ospita opere piccole o mastodontiche ma sempre in comunicazione (almeno questo è il tentativo) con la natura. (Andrea Pocosgnich)

Visto ad Arte Sella, Villa Strobele.   Ideazione e laboratorio creativo Oxana Casolari e Cesare Trebeschi Con la collaborazione di Azzurra D’Agostino Con Casa di riposo di Pergine, Trento e Borgo Montaggio audio Francesco Cervellino Supervisione artistica Stefano Tè Una produzione Teatro dei Venti in coproduzione con Pergine Spettacolo Aperto, Centro Servizi Culturali S. Chiara, Arte Sella Con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Emilia-Romagna Foto Giulia Lenzi

VENERE VS ADONE (di Enzo Cosimi)

La costruzione del setting è perfetta: un fondale che sembra una tenda ferrata, attorno fari a vista per delimitare uno spazio continuamente attraversato, in alto quasi una volta di lucernari, funzionale e insieme decorativa: come un’attualizzata scena elisabettiana, tutto è a vista, ma nulla è lì per creare illusione, perché tutto è fantasticheria. È la chimera restituita dalle forze materiali della performance. Il nuovo lavoro di Enzo Cosimi, Venere vs Adone, ispirato ai testi di Shakespeare, Marlene Dumas e Andy Wharol (mescolati dal sapere di Maria Paola Zedda), ha debuttato in prima assoluta al Teatro Annibal Caro per Civitanova Danza 2024, festival organizzato da Amat Marche. È lavoro molto ben scandito in quattro capitoli che impaginano la visione: il percorso è lineare (dolore, seduzione, eccesso e congedo), ma la potenza dell’immaginario all’opera allaga le orecchie e le menti. L’avvio è un lungo sgolato lamento di Venere (Alice Raffaelli); a terra e di spalle, disteso su un fianco, pensoso forse dormiente, l’Adone di Leonardo Rosadini. Da sùbito inconciliabili: da un lato, l’impossibile amore della dea che alterna desiderio e assenza (già condizioni della perdita); dall’altro, il bellimbusto mortale che insegue il miraggio di un corpo potente e sprezzante («il culto muscolare, la caccia e la violenza umana»). La più vera risposta a tanta lacerazione è la conduzione all’eccesso di una tale incompatibilità. Fino all’esperienza della morte come spazio non del rifiuto e del cordoglio, ma del selvaggio ritrovato che finalmente incendia la casa (del Padre/Patriarca/Padrone) e libera forze indomabili. Una nuova «lingua abissale» prende corpo, «per sussurrare all’ignoto, per desiderarlo e violarlo ancora». In mezzo a tanta nuova invenzione, si accompagna benissimo lo straordinario recupero di tutta una attrezzeria scenica del passato (i costumi iconici di Daniela Dal Cin, la ruota di luci di tanti lavori di Cosimi): tutto sembra ancora di oggi. Il finale inatteso di una sposa insanguinata è sui Led Zeppelin, ed è imperdibile. (Stefano Tomassini)

Teatro Anibal Caro, Civitanova Danza. Fonti William Shakespeare, Marlene Dumas, Andy Warhol Regia, coreografia, scena, video Enzo Cosimi Drammaturgia Maria Paola Zedda, Enzo CosimiI nterpreti Alice Raffaelli, Leonardo Rosadini Disegno luci Giulia Belardi, Enzo Cosimi Costumi Alessandro Lai Realizzazione costumi Giuseppina Angotzi/Sartoria Il Costume Sculture Daniela Dal Cin Sound designer Enzo Cosimi Operatore video Roberto Gentile Organizzazione Pamela Parafioriti Produzione Compagnia Enzo Cosimi, MiC, in collaborazione con AMAT Residenze Centro di Produzione Orbita/Spellbound, ATCL, KOMM TANZ 2024 Compagnia Abbondanza/Bertoni in collaborazione con il Comune di Rovereto. RAM Residenze artistiche marchigiane finanziate dalla Regione Marche e dal MiC

TRITTICO ANTICORPI (Michele Scappa, Martina Gambardella, Pierandrea Rosato)

Serata Anticorpi a Bassano per Operaestate, con un trittico di nuove forze, in futuro tutte da monitorare: Michele Scappa, Martina Gambardella e Pierandrea Rosato. Tre assoli tutti danzati, tre diversi concept e tre diversi corpi in altrettanti differenti spazî. È la meraviglia dei festival estivi questa delocazione della performance, quasi sempre generativa di nuove impressioni. Scappa compone per Emanuel Santos un pezzo coreografico quasi tutto circolare, ispirato alle fotografie di viaggio di Ettore Sottsass, There is a planet, sul prato del chiostro del Museo Civico, con il pubblico seduto su tre lati (e non senza qualche volto alieno, che improvviso compare curioso, dietro una finestra). Santos è bravissimo nel catalizzare gli sguardi, nel costruire sotto i nostri occhi lo spazio, in un movimento anche vocale che evoca distanze sùbito presenti. Colpisce la mitezza con la quale indaga ed esplora, senza sottomissione. La location di Gambardella non poteva essere più intelligente e opportuna: ai piedi della tela di Leandro Bassano, Rinvenimento del corpo di San Giovanni Damasceno, in una sala del Museo. Qui Mute (che è un acuto studio sull’attesa del gesto ante il suo compimento) diventa un impressionante corpo a corpo con le figure composte della pittura circostante. Anche il cadavere del santo sembra cadere dalla tela per ritrovare in lei nuova voce. Una muta eloquenza che nel movimento straordinario e pieno di talento di Gambardella si traduce in una fitta dinamica di piani e volumi, che dànno forma più intima alle connessioni tattili del desiderio. Quella di Rosato è invece una sapiente scrittura scenica dello spazio, per il suo Infieri rilocato nella chiesa di San Bonaventura. La rinuncia a una immediata frontalità, dà corpo a entrate e uscite di ombre, in un sapiente gioco di sparizione e di luci, lungo l’articolazione dello spazio: ombre in cerca di nuova presenza. La mirabile qualità di movimento di Rosato completa una situazione cinetica che apre e chiude densità del vuoto, in una coreografia affermativa in termini espressivi, prima di scivolare via, senza voltarsi. (Stefano Tomassini)

Centro storico Bassano, Operaestate Festival. There is a Planet Idea Michele Scappa Performer Emanuel Santos Musica originale Francesco Giubasso Produzione Company Blu. Mute Coreografia e danza Martina Gambardella Musiche originali e sassofoni Giuseppe Giroffi Oggetti e batteria Stefano Costanzo Produzione Coded Uomo Sostenuto tramite residenza creativa da Associazione Sosta Palmizi. Infieri Di e con Pierandrea Rosato Luci Pierandrea Rosato Costumi Pierandrea Rosato Musica Nina Simone Produzione Sosta Palmizi Creazione per la serata Junge choreogrph*innen, Folkwang Universität der Künste

LE BAL DE PARIS (di Blanca Li)

Anche nell’edizione 2024 la programmazione di VIDEOCITTÀ ha concesso l’imbarazzo della scelta ad un pubblico sempre più numeroso ed entusiasta, attirato tanto dalla presenza di protagonist* delle sperimentazioni più audaci nel campo audiovisivo e delle new media arts, che da un sapiente programma di talk affidate a youtuber e podcaster di successo, o infine dalla trendissima line up dell’arena concertistica. Nessun altro festival della Capitale ha saputo infiltrarsi e risignificare il proprio luogo come VIDEOCITTÀ con l’area del Gazometro. Prova ne sia la costante adunata di passanti che, durante tutta la tre giorni, ne ha ammirato suoni e bagliori traguardando l’ex aria industriale dal Ponte della Scienza – soffermandosi come da anni ad ammirare il rituale sabba illuminotecnico che transustanzia la mole di vuoto e geometria del gasometro. Nel pantagruelico programma, ci siamo soffermati su Le Bal de Paris, di Blanca Li. Grazie a un supporto hardware ben più ricco della media delle VR experience (con un sistema di motion tracking sul corpo di ciascun* partecipante, utile a tracciarne i movimenti e a proiettarli nell’ambiente virtuale), 10 spettatori vengono catapultati in uno opulento mondo virtuale. Gli avatar attraversano un primo scenario in cui scegliere quale abito indossare tra una selezione haute couture della maison Chanel, partner dell’esperienza. Segue ingresso trionfale in una maestosa sala da ballo parigina, dove il banchiere Richard de la Rivière ha imbastito una festa in onore della figlia Adèle, appena tornata in città. Qui Adèle incontrerà Pierre, sua vecchia fiamma, e l’intreccio di coreografie e ricordi dei due avatar (impersonat* da due performer compresenti in sala) costituirà l’ossatura drammaturgica e la traccia che il pubblico seguirà attivamente, muovendosi tra scenari virtuali a perdita d’occhio inscritti in poco più di 100 mq di spazio fisico. Cosa resta del viaggio nell’immaginario patinato di una Parigi un po’ belle epoque, un po’ distopia post-umana del lusso? A parte un cerchio alla testa per l’eccessiva pesantezza dell’apparecchiatura, poco idonea a 40’ in movimento, a chi scrive restano l’ammirazione per l’alta manifattura softwaristica del lavoro, insieme al dubbio che il gesto virtualmente potente di scegliere l’habitus del proprio avatar non venga rinnegato dalla necessità di circoscrivere i corpi in una gloriosissima pantomima modaiola. Una fuga ad anello che non ci porta tanto lontani da dove siamo. (Andrea Zangari)

Visto a VIDEOCITTÀ Regia e sceneggiatura Blanca Li, produzine Film Addict (Etienne Li), Backlight, Fabrique d’Images, Actrio Studio, costumi Chanel, musica Tao Gutierrez, VFX Motion capture MocapLab-Paris, Elamedia studios-Madrid, VR supervisor Aymeric Favre, 3d supervisor Florian Lebordais, animation supervisor Sebastien Parent

ODISSEA CANCELLATA ( di Emilio Isgrò regia di Giorgio Sangati)

Per l’École du Regard il ruolo portante d’un romanzo era assegnato alle cose passate in rassegna dallo sguardo. Per l’urto visuale della cancellazione della scrittura cui fin dagli anni ‘60 ricorre la creatività sottrattiva di un poeta-autore come Emilio Isgrò si può rileggere l’Odissea eliminandone l’epos, il mito e l’anacronistico suono, ricorrendo a un’odierna narrazione, magari a una parodia. Ecco perché un’opera del 2003 di Isgrò, Odissea cancellata, ha debuttato ora con regia di Giorgio Sangati, aprendo il 13 giugno il Pompei Theatrum Mundi, progetto del Teatro di Napoli diretto da Roberto Andò e del Parco Archeologico di Pompei, col pubblico assiepato soprattutto sul palco di fronte alle gradinate su cui s’imprimeva un’installazione luminosa di antichi versi del X libro di Omero che man mano venivano spenti e depennati, mentre Isgrò in posizione di direttore d’orchestra seguiva dal basso la performance del suo testo. In tema con l’otre dei venti offertogli da Eolo, l’Ulisse di Luciano Roman è qui un senzatetto poco incline al memoir del suo nomadismo, mentre riceve le visite di sei coreutici nani inquisitori, non potendo sfuggire alle apparizioni spettrali di alcune figure mediterranee sue interlocutrici ormai prive di pudore. Gli spostamenti epocali della drammaturgia in versi di Isgrò non salvano nessuno. L’Odisseo nega qualsiasi inclinazione alla guerra, ma sostiene che gli Ellenici rappresentano purtroppo la Vecchia Europa, e chiama pure in causa la Cnn, e ammette un suo cuore pedofilo per la maga bambina Circe. Penelope lo irride per la sua adolescenziale scarsa virilità. Nausica si diverte invece a testimoniare d’averlo sverginato - nel gesto della Monica Lewinsky. Polifemo si degrada ammettendo d’essergli apparso come un bambino scemo. Certe revisioni post-omeriche di Isgrò fanno talora pensare all’astio contemporaneo di Sarah Kane: Ulisse dice che Agamennone e Menelao erano in preda a un’ansia petrolifera. Rilevante il disegno luci di Luigi Biondi. (Rodolfo di Giammarco)

Visto a Pompei Theatrum Mundi. Di Emilio Isgrò regia di Giorgio Sangati, con Luciano Roman (Ulisse) e Clara Bocchino (Coro/Corista), Francesca Cercola (Coro/Nausica), Eleonora Fardella (Coro/Circe), Francesca Fedeli (Coro/Penelope), Giua Luigi Montagnaro (Coro/Polifemo), Antonio Turco (Coro/Proemio),  con la partecipazione dell’artista-autore Emilio Isgrò nel ruolo di Omero, installazione scenica di Emilio Isgrò, costumi di Eleonora Rossi, disegno luci di Luigi Biondi, musiche di Giovanni Frison

TEMPO SOSPESO (Adriana Borriello e Thierry De Mey)

Il dispositivo scenico, visivo, sonoro e coreografico è davvero imponente. Una macchina/ambiente capace di far accadere un intero mondo: fatto di oggetti, di suoni, di corpi. È una installazione lunga 20 metri e più, dal titolo Dream Catcher, ideata da Thierry De Mey (realizzata a suo tempo in collaborazione con ShSh Architecture + Scenography e Charleroi Danse), ma che la pandemia aveva troppo velocemente affondato. Adriana Borriello la riporta ora in vita potenziandone le funzioni, con una forte intuizione e anche senso della magia, puntando dritta a tutta la sua latente performatività. Nella sala B del Teatro India, il Festival Fuori Programma ha accolto il debutto di questo evento: una foresta di 1080 bambù di diversa misura, intonati e sapientemente appesi a una struttura dal tracciato proteiforme (durante il precipitare della performance se ne sono sganciati solo un paio), in una lunghezza che allarga lo sguardo, e attraversati in più momenti da 6 performer (la stessa Borriello, con Erica Bravini, Michele Ermini, Michael Incarbone, Donatella Morrone, e Ilenia Romano). Il tutto, avvolto da un sound elettroacustico che raccoglie e trasforma da mille microfoni (sugli interpreti, sulla struttura, a terra, che è un pavimento di carta) le partiture preesistenti di Edoardo Maria Bellucci, «in un sistema di feedback che crea sinestesie continue tra visione e ascolto». Anche le luci, di Théo Longuemare, per niente invasive, sono utilmente al servizio della dimensione acustica e cinetica del dispositivo. L’eccessiva lunghezza (un’ora e mezza...), però, e forse l’inutilmente apicale presenza di Borriello in scena, fanno intuire (volendo) scelte e margini di limatura. L’avvio è lento, sempre rimandato, forse sospeso, ma poi con l’arrivo perentorio di Romano e Incarbone, che letteralmente si gettano nel fitto del bosco sonoro; e poi l’intelligente, concitata irrequietezza, piena di impeto e di intensità, di Bravini, allargano dentro e sotto e fuori il dispositivo la percezione della spazialità: il tempo sospeso del titolo è dunque proprio questa strategia di sparizione della temporalità della fine nell’apertura continua di improvvise e impreviste tonalità affettive del movimento. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro IndiaFuori Programma Concept e coreografia: Adriana Borriello Installazione e musica: Thierry De Mey Sistema di amplificazione del movimento: Edoardo Maria Bellucci danzato da e creato con: Adriana Borriello, Erica Bravini, Michele Ermini, Michael Incarbone, Donatella Morrone, Ilenia Romano Luci: Théo Longuemare Scenografia: Shizuka Hariu

SEMÂ (Cie Linga)

L’ultima volta di compagnie linga a Roma era il nel ‘21, sempre all’interno di Fuori Programma, manifestazione che è diventata un ponte imprescindibile tra la danza internazionale e la Capitale. Tre anni fa all’arena del Teatro India gli svizzeri portarono Flow, un lavoro che fondava la propria idea coreografica su elementi selvaggi della natura, stormi di uccelli, branchi di pesci… animali in grado di cambiare il proprio stato collettivo improvvisamente. In continuità con un più ampio progetto, che indaga “il movimento di gruppo e la consapevolezza collettiva dei gesti”, anche in questo nuovo Semâ è l’idea del collettivo a dominare, la forza sprigionata dai singoli all’interno di sistema complesso. Nei 70 minuti che fluidamente portano il pubblico verso il tramonto è il movimento circolare delle danze dei dervisci a influenzare il disegno coreutico: Semâ è il nome della danza dei dervisci rotanti, una pratica che ha come obiettivo anche quello della meditazione (l’etimologia della parola araba e persiana tiene insieme due verbi: ascoltare e fare), ma qui non ci sono bianche gonne che ipnoticamente ruotano all’infinito, qui ci sono corse circolari, stasi, soli, corpi che ricorrono la musica sempre presente, come se la ritmica percussiva dal vivo di Philippe Foch (che ha composto la musica insieme a Mathias Delplanque) rappresenti la struttura guida di questa suggestiva ragnatela di corpi. Eppure le danzatrici e i danzatori diretti dalla polacca Katarzyna Gdaniec e dall’italiano Marco Cantalupo non puntano alla perfezione stilistica, né tantomeno alla levigata unità, talvolta sono ruvidi o addirittura poco precisi in certe improvvisazioni (mirabilmente catturate dentro la rete di una struttura molto accurata) ma hanno una splendida comunicatività, con il pubblico e nelle relazioni interne, detonante, come i floorwork iniziali che esplodono in sorprendenti salti; o come nei cerchi in cui un performer sfida gli altri, ma non per una banale battaglia, per contagiare con il movimento, in una scossa che riverbera anche nel pubblico sistemato sui tre lati della pedana. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro IndiaFuori ProgrammaIdea e coreografia: Katarzyna Gdaniec e Marco Cantalupo Musiche originali: Mathias Delplanque, Philippe Foch Con: Aude-Marie Bouchard, Csaba Varga, Cindy Villemin, Martin Angiuli, Lia Ujčič, András Engelmann, Bonni Bogya, Enzo Blond Luci: German Schwab Costumi: Geneviève Mathier

NEIGHBOURS PART l (Brigel Gjoka & Rauf “Rubberlegz” Yasit)

È la danza che vorremmo sempre meritare: sperimentale, silente, continua, inventiva, ibrida, continuamente scindibile e sapientissima. Nella rassegna estiva di danza che ha il titolo più bello, più politico, più urgente, oggi necessario e radicale: Please, Touch!, a Roma, per il Festival Fuori Programma, all’Arena del Teatro India, ho visto la prima parte del dittico Neighbours, creato e danzato da Rauf “RubberLegz” Yasit e Brigel Gjoka (sulle impronte di William Forsythe). Queste due così diverse creature, per 45 minuti, nel silenzio più suggestivo di una performance open air che si svolge su un palco tutto bianco, enorme, vuoto eppure tutto indispensabile, danzano una convincente idea di prossimità. Intorno resti di mura che isolano senza chiudere; sopra, un cielo che incombe sereno, mentre il gazometro si staglia sullo sfondo, senza sovrastare. Siamo nella città ma senza che la città irrompa coi suoi rumori e frastuoni: questa arena è davvero un luogo ideale per esortare nuove immaginazioni. Il duo, tutto linee spezzate e astratte in controcanto a più precise dinamiche morbide, fluide e istintive, è sì un partnering assiduo e insistente lungo tutto lo spazio che asseconda e accoglie, ma è anche un gioco trasformativo attraverso la percezione, la complicità, la permeabilità della volontà dell’altro. Ciò che riesce a questi due straordinarî interpreti è la misura concorde di una possibilità trasformativa. Quella dello stare insieme, dell’andare insieme, del coordinarsi insieme per fare fronte comune a ogni più piccola inflessione del movimento. E così, immediatamente reagendo, cambiare il mondo. Le braccia a volte suggeriscono onde, disegnano sfere, scalate immaginarie altrettanto interrogative che affermative. A volte le gambe battono tempi improvvisi, invitano a perentorie virate, conducono a distanze sempre sincronizzate, anche sfidando la gravità con improvvise verticali, o complicate torsioni a terra del busto. Ma soprattutto le mani hanno un ruolo complesso: il toccare è qui sempre libero, immediato, e generativo. Come la più vera amicizia, non esige consenso. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro IndiaFuori Programma Di e con: Brigel Gjoka & Rauf “RubberLegz” Yasit In collaborazione con: William Forsythe Produzione: Sadler’s Wells Co-produzione: PACT Zollverein Costumi e luci: Brigel Gjoka & Rauf “RubberLegz” Yasit Durata: 45′

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