HAVE A GOOD DAY! (di V. Grainytė, L. Lapelytė, R. Barzdžiukaitė)
Tornano ad affacciarsi alla Biennale Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė and Lina Lapelytė, grazie alle quali il padiglione lituano si aggiudicò nel 2019 il Leone d’Oro per la miglior partecipazione alla mostra di arte. Le tre artiste lituane hanno portato in laguna (ma quest’anno all’interno del festival teatrale diretto da Stefano Ricci e Gianni Forti) Have a Good Day, creazione del 2013. Cambia totalmente il contesto, ma gli obiettivi e il percorso sono riconoscibili: ovvero la possibilità di inserire elementi di grande realismo in un disegno scenico che viene poi sottoposto a una torsione surreale. In una delle sale del Teatro alle Tese ci ritroviamo di fronte a una piattaforma sulla quale sono schierate in linea 10 interpreti: vestite con il tipico grembiule, in mano hanno dei fogli con dei codici a barre e uno scanner. Il primo suono che ritmicamente si fa strada in questa opera musicale per “10 cassiere, suoni del supermercato e pianoforte” è proprio il bip degli scanner. Rimarranno sempre sedute e alterneranno al canto l’abituale gesto con cui le merci vengono registrate in tutti i supermercati del mondo, in sala le luci sono quelle fredde e stranianti dei neon e un paio di responsabili della sicurezza accolgono il pubblico, uno dei due si posizionerà di fronte a un pianoforte, al lato della scena. Meno suggestiva di Sun and Sea, dal punto di vista dell’impatto scenico, qui la performance colpisce per l’intelaiatura musicale del canto, per la freddezza spettacolare con con cui le canzoni si alternano al buio e alla desolante atmosfera di sottofondo. Siamo oltre la semplice critica al capitalismo delle merci, la performance attraversa con maggiore complessità la tematica, anzi il paesaggio: le donne cantano la vita immaginaria di cetrioli e ravanelli, di direttori scontrosi e registratori di cassa, illuminando però anche le condizioni di un lavoro spesso invisibile, di chi maneggia i soldi e si ritrova i batteri sulle mani e la vescica piena. “Grazie! Buona giornata” canta ossessivamente un ritornello. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro alle Tese, Biennale 2024. Anno/Durata: 2013, 55’ - Opera per 10 cassiere, suoni del supermercato e pianoforte Ideazione: Vaiva Grainytė, Lina Lapelytė, Rugilė Barzdžiukaitė Libretto: Vaiva Grainyté Composizione, direzione musicale: Lina Lapelyté Regia, scene: Rugilé Barzdžiukaité Disegno luci: Eugenijus Savaliauskas Costumi: Daiva Samajauskaité Fonico: Arūnas Zujus Produzione: Operomanija Cassiere: Indrė Anankaitė-Kalašnikovienė, Liucina Blaževič, Vida Valuckienė, Veronika Čičinskaitė-Golovanova, Lina Valionienė, Rima Šovienė, Milda Švelnienė, Rita Račiūnienė, Svetlana Bagdonaitė, Kristina Svolkinaitė Vigilanza: Kęstutis Pavalkis (pianoforte) Nota: Spettacolo in lingua lituana sovratitolato; traduzione in lingua italiana Alessandra Cali
ANTOLOGIA NOTTURNA (di Massimo Monticelli)
A Inteatro Festival di Polverigi, la proiezione del docufilm L’isola del teatro ha testimoniato perfettamente la ricchezza degli oltre 40 anni di questo storico appuntamento. Le immagini si susseguono legando insieme artist* decisiv* per definire il contemporaneo: da Win Vandekeybus al gruppo Ariadone di Carlotta Ikeda, passando per una giovanissima (ieri come oggi bellissima) Adriana Borriello. Con Velia Papa, direttrice storica della manifestazione, ho condiviso che il momento più bello e significativo (e ce ne sono davvero molti) è in una domanda (all’epoca molto frequente) rivolta da un improvvido intervistatore al leggendario gruppo canadese La La La Human Steps: che tipo di teatro fate? Cui seguì un divertito imbarazzo e, inevitabile, lo scoppio collettivo di una risata. Non importavano più generi né confini né reti di protezione: la performance era rischio e dissenso. Nella giornata conclusiva del programma di quest’anno, ho visto in anteprima Antologia notturna di Massimo Monticelli, in scena lui stesso con la straordinaria Noemi Piva (vera forza della natura, capace di presenza ironica, di vocalità astratta, di complicità cinetica). Massimo mi spiega che il modello ‘antologico’ è quello del mordi e fuggi, leggi-quel-che-vuoi-e-passa-oltre. E infatti all’ingresso ci consegnano la zine con le poesie da loro composte durante il processo creativo. Ma qui in scena, i continui loop che si creano tra parole irriconoscibili, i delay che si inseguono di suoni come puri significanti, fanno di questo lavoro una composizione continua e autogenerativa, per sovrapposizione, sedimentazione progressiva: voci e gesti e suoni come una archeologia dell’istantaneo. È infatti sorprendente la continuità compositiva, anche pur passando per momenti molto naive (il microfono a terra da litigarsi; la solita borraccia termica per dissetarsi, e per spezzare ritmo e ricezione, altrimenti non è performance; un assolo a testa per chiudere, altrimenti non è coreografia…). Monticelli, davvero bravissimo, è al bivio: puntare alla confezione o deviare sullo sballaggio, sul disfare le forme, la poesia degli scarti? (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Teatro della Luna per Inteatro Festival 2024.Concept, regia Massimo Monticelli coreografia Massimo Monticelli in collaborazione con Noemi Piva danza, testi Massimo Monticelli e Noemi Piva disegno luci Maria Virzì produzione Anghiari Dance Hub e TIR danza
CRISALIDI (di Ciro Gallorano)
In continuità con le Biennali di Rigola il progetto College della fondazione veneziana continua a sfornare artiste e artisti in grado di catturare l'interesse. Ieri, nell'ultima edizione (a meno che non arrivino eventuali proroghe) diretta da Ricci e Forte, ha debuttato Ciro Gallorano con Crisalidi, progetto vincitore del concorso dedicato ai giovani registi e registe e i primi minuti sono stati ipnotici. Già mentre il pubblico prendeva posto nella platea del Teatro alle Tese, una scena cupa con pochi mobili e oggetti si mostrava ai nostri occhi: al centro una credenza ingiallita dal tempo, sulla sinistra una ragazza dà le spalle al pubblico; salterà la corda dando il via allo spettacolo. Siamo in un tempo altro, con una vasca da bagno d'antiquariato, dalla parte opposta una scrivania classica e severa, sul limitare del palco, verso la platea, uno specchio. Sono elementi quasi abbandonati nello spazio alla loro significanza simbolica. Gallorano (classe '88, con studi al Metastasio di Prato), mette in campo una idea di teatro immagine in cui è la visione a dettare il piano drammaturgo e nel radicale silenzio si agitano mostri e fantasmi, apparizioni di giovani e sensuali donne (interpretate da Sara Bonci e Andreyna de la Soledad), personaggi di un incubo in cui il luogo, la casa, ha un ruolo centrale perché determina le azioni teatrali. Sul catalogo si legge dell'inspirazione data dalla vita e dalle opere della celebre fotografa Francesca Woodman, allora tornano in mente certi spettacoli di Alessandro Serra (soprattutto quello dedicato ad Hopper), oppure gli incubi di Romeo Castellucci e si potrebbe andare indietro nel tempo fino ad evocare la stanza della memoria di Tadeusz Kantor. Ma qui c'è anche un gusto per l'illusionismo: le pareti che si spostano, i corpi che escono fuori dalle mura ammuffite, fino al kitsch di una testa che compare da una botola del tavolo, quasi un omaggio a Georges Méliès. L'opera di Woodman si manifesta improvvisamente - ma basta scorrere qualche foto per ritrovare gli arredi usati da Gallorano - come nell'immagine di una delle due giovani che si solleva con le braccia sullo stipite della porta, in una sorta di crocifissione casalinga. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro alle Tese, Biennale 2024. Anno/Durata: 2024, 65’ (prima assoluta) Ideazione e regia: Ciro Gallorano, vincitore Biennale College Teatro – Regia Under 35 (2023-2024) Con: Sara Bonci, Andreyna de la Soledad Scene: Alberto Favretto Disegno luci: Sander Loonen Costumi: Gianluca Sbicca Assistente alla regia: Federica Lea Cavallaro Tutor del progetto: Stefano Ricci e Gianni Forte Produzione: La Biennale di Venezia
GRAMSCI GAY (regia M. Gatta)
Mauro Lamantia è Gramsci. Gli somiglia moltissimo, la chioma folta, i tipici occhiali. Eloquio insieme energico e posato, accogliente e vibrante. Interrompe un chiacchiericcio che si fonde con quello degli spettatori in sala: ci siamo tutti, siamo in un’affollata assemblea. Abbiamo fallito, ci dice. Dobbiamo ritentare, resistere, credere che le regole si possano riscrivere. Serve immaginazione, serve cultura, serve bellezza. Consapevolezza e capacità creativa. Il suo lungo monologo finisce, l’assemblea è sciolta, ha acceso sguardi di malinconica nostalgia. Cosa abbiamo visto? Dalla platea si alza una voce scura, ironica, scurrile. Ha un bomber e dei jeans ora Lamantia, è Nino. Sta aspettando di entrare in commissariato per ricevere domande cui risponderà con schietta indolenza. Nino ha scritto gay sulla faccia di Gramsci. Ma non sa perché lo ha fatto. Anzi lo ha fatto senza un vero motivo. Ridicolo cercare un significato politico al gesto: sarebbe un’ennesima forzatura radical chic. La realtà è molto più concreta. Nino è di casa in commissariato, ma non ha mai fatto davvero qualcosa di male. La sua lingua è scattante e pronta come quella di Gramsci, ma parla da un orizzonte in cui le speranze non sono svanite: non ci sono mai state. Il fallimento è un’eredità generazionale, non qualcosa su cui meditare. Allora quello che importa è galleggiare, tirare avanti come si può, non deludere troppo la mamma. Farsi solo le domande che possono servire a qualcosa. Quella malinconica nostalgia diventa amarezza. La giustapposizione dei due monologhi nella drammaturgia di Iacopo Gardelli non innesca un esplosivo: piuttosto un annichilente presa di realtà. Dove sono cadute le parole di Gramsci? In quale salotto televisivo sono rimaste rinchiuse? Con grande abilità e generosità Lamantia si muove tra i due personaggi, in una convincente prova attoriale che non propone soluzioni, speranze, spunti da coltivare, ma restituisce una fotografia spietata. Di quei valori, di quelle idee, di quelle speranze non resta che vernice su un muro. (Sabrina Fasanella)
Visto a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria. Con Mauro Lamantia. Drammaturgia Iacopo Gardelli. Regia Matteo Gatta. Produzione Studio Doiz e Accademia Perduta / Romagna Teatri. Tecnica e voce Mattia Sartoni. Costumi e scene Gaia Crespi
PLAY (di C. Baglioni / M. Bellani)
Un rettangolo velato lascia intravedere una figura di spalle seduta ad una grande scrivania. La sua silhouette è disegnata dalla luce essenziale e tagliente di Gianni Staropoli, che costruisce uno spazio insieme reale e asettico. Quando Caroline Baglioni entra timidamente sedendosi a un lato della scrivania, è da subito evidente il rapporto di potere tra i due. Testo sorto dalle suggestioni legate al movimento MeToo, Play ricostruisce quelle dinamiche che, a lungo nascoste in piena vista, sono passate potentemente alla cronaca per gli esiti più tristemente tipici della molestia e dell’abuso in ambito cinematografico e dello spettacolo in generale. La drammaturgia di Caroline Baglioni non gioca per metafore, ma introduce l’argomento con deciso realismo: il dialogo tra il regista e l’attrice percorre precisamente le insidie del provino cinematografico, laddove il rapporto tra i due sessi cammina sul crinale tra lecito e illecito con il filtro della creazione stessa: sulla carta è perfettamente legittimo per un regista ricercare la figura più adatta alla vicenda che vuole raccontare, non soltanto indagandone gli aspetti esteriori – essenziali nel racconto per immagini del cinema - ma scavando nell’intimità dell’attrice, un voyerismo amplificato dalla presenza delle immagini in live streaming proiettate in primo piano rispetto all’azione sul palco per gran parte dello spettacolo. Ma qual è il confine da non oltrepassare? Un ribaltamento di posizioni interviene a deviare la traiettoria del racconto: l’attrice si ribella, denunciando l’abuso di potere del regista, ma comunque non lasciando la stanza. Quel film lo vuole fare. Il racconto evolve innestando il dubbio sul reale rapporto tra i due, salvo poi ritornare nei binari iniziali, mentre scorrono le didascalie di uno script: la vita stessa è come decidiamo di raccontarla. Il gioco interessante tra i diversi piani di realtà non arriva del tutto a sostenere una riflessione profonda sulla complessità di tali sottili dinamiche relazionali, per una sproporzione forse eccessiva tra la parte iniziale, descrittiva di dinamiche ben note, e il plot twist dello scambio di ruoli tra i due protagonisti. (Sabrina Fasanella)
Visto in prima nazionale a Primavera dei Teatri, Teatro Sybaris. Di Caroline Baglioni. Con Caroline Baglioni, Annibale Pavone. Regia Michelangelo Bellani. Luce e spazio Staropoli. Suono e musiche originali Francesco Federici. Scenografia Loris Giancola. Costumi Aurora Damanti. Assistente alla regia Barbara Pinchi. Cura del movimento Lucia Guarino. Produzione La Corte Ospitale
VORREI UNA VOCE (di T. Granata)
Il teatro è un processo osmotico, dalla vita alla vita. Reazioni chimiche che hanno per materia l’umano, la sua organica complessità, potente quanto più ridotta ai minimi termini. Tindaro Granata restituisce sul palcoscenico l’esperienza umana e poetica del suo lavoro con le detenute di massima sicurezza della Casa Circondariale di Messina. Il reagente è Mina, la sua voce di assoluta potenza, la sua presenza dirompente; l’assunto di base è apparentemente disimpegnato, d’intrattenimento, un lavoro di pura mimesi, come in un lipsynch show. Ma reinterpretare i brani della voce più raffinata, misteriosa e popolare della canzone italiana mette in atto un processo tutt’altro che mimetico, uno svelamento vestito di paillettes. Granata lo ripercorre dando voce e presenza alle storie di quelle donne ai margini, ferite, sole, colpevoli quasi sempre per conto di uomini. Nel farlo, è lui stesso a svelarsi e raccontarsi, perché non c’è reazione che possa avvenire senza uno scambio di energia. La sua storia di artista s’intreccia e si riscrive tramite quelle voci incontrate nel luogo della reclusione, dove il palcoscenico e la musica ad alto volume consentono gli unici momenti di intima confessione. Rievocando quell’atmosfera di difficile confidenza, di fiducia costruita a fatica, di progressivo svelamento, la drammaturgia che sostiene Vorrei una voce restituisce con efficacia le tappe di un percorso di scoperta – tanto per l’autore quanto per le sue attrici detenute - , giocando tra il tempo attuale della platea e il passato della casa circondariale, spesso coincidenti. La struttura del monologo è tradita dalle tante voci che vi risuonano, ricostruite da Granata con efficace e generosa cura e sempre nel rispetto profondo verso quelle storie piccole e potenti organicamente tenute insieme dalla musica: linfa vitale per l’immaginazione e il sogno, panorami che il carcere offusca. (Sabrina Fasanella)
Visto a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria. Di e con Tindaro Granata. Con le canzoni di Mina. Ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto “Il teatro per sognare” di D’aRteventi diretto da Daniela Ursino. Disegno luci Luigi Biondi. Costumi Aurora Damanti. Regista assistente Alessandro Bandini. Produzione LAC Lugano Arte e Cultura in collaborazione con Proxima Res.
PINOCCHIO – CHE COS’È UNA PERSONA (di D. Iodice)
La passione di un grillo parlante che trascina il suo cricri sotto il peso di una croce di libri. Un abecedario ambulante, zavorra da cui si staccano parole da reinventare, ridefinire, interrogando un mondo normativo che impone definizioni escludenti ed elitiste. Pinocchio è uno e sono tanti, ognuno è Pinocchio a modo suo, con la stessa energia «anarchica e dirompente» compressa in un corpo di legno. Pinocchio – che cos’è una persona? è il primo spettacolo della compagnia della Scuola Elementare del Teatro | Conservatorio popolare delle arti sceniche, progetto laboratoriale napoletano di pedagogia sociale nato dieci anni fa negli spazi dell’ex asilo Filangieri e successivamente accolto e sostenuto dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. Marginalità e disabilità si specchiano negli archetipi della storia di Pinocchio: come racconta il regista Davide Iodice, «da sempre ci siamo rivolti a lui come a un fratello simbolico dei ragazzi con sindrome di down o di autismo, o Williams, o Asperger che compongono l’articolato gruppo di lavoro». In scena accanto a loro le famiglie, nuclei di resistenza civile, registi del quotidiano dei propri figli, fate turchine senza bacchetta, rivolte ad un futuro che è vicino e lontano insieme, da scrivere e continuamente inventare. Nel lavoro di Iodice il teatro non è terapia, né autonarrazione, piuttosto macchina del sogno, insieme paese dei balocchi e ventre della balena dove si incontrano poesia e denuncia, senza pietismi ma con spietata realtà, quella di tutte le favole. Gli oltre venti interpreti si muovono in scena riscrivendo le regole del vedere ed essere visti; qualche sguardo curioso raggiunge lo spettatore e senza volerlo lo interroga, consegnandogli un’innocente e disarmante domanda: «…e poi?». (Sabrina Fasanella)
Visto in prima assoluta a Primavera dei teatri, Capannone. Ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice. Crediti completi
RAP – REQUIEM AL POETA (di Pouria Jashn Tirgan)
Un canto liturgico rap ad una poesia defunta, o forse più un eloquio musicale ad una bellezza che non trova più alba. RAP - Requiem Al Poeta non è altro che la celebrazione degli strascichi fallimentari del 21 secolo, nelle voci di chi questo secolo se lo ritrova costantemente come uno scomodo zainetto in spalla, in cui ansie e responsabilità ne aumentano il peso specifico, minando costantemente l’equilibrio del giovane costretto a indossarlo. Ecco che sul palchetto del Ghe Pensi Mi, sono proprio due ragazzi, vestiti con tuta e calzetti bianchi al ginocchio - Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini - a celebrare questo inno alla stanchezza: stufi di non sentirsi abbastanza per raccogliere le fila di un presente di scarti, eppure pronti, colmi di ideali e passioni da condividere per ricominciare a vedere luce anche nel buio pesto. Ma se “è possibile che noi siamo lo sbaglio in un tempo sbagliato” allora è anche possibile che “siamo le persone giuste in un tempo giusto”? Partendo da questi interrogativi e assumendone le diverse prospettive di sguardo, la coppia scivola nella storia recente e negli scontri generazionali con battute e colpi di risposte a ritmo rap, in cui le note elettroniche di Tirgan incalzano il fraseggio vorticoso di Fantini, che si fa sempre più arguto nelle rime, negli accostamenti sintattici e nell’ironia dei suoi esiti, rievocando nel pubblico madri, nonne, bisnonne, radici di una generazione che dalle sue battaglie ora ci chiede conto e riscontro. Chissà se c’è una risposta a quella domanda, eppure Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini, “come i becchini dell’Amleto”, continuano a scavare, a scavare e a scavare, con freschezza e spigliatezza, con ironia ma non senza una punta di severità, “per dare – finalmente – degna sepoltura ai morti”. (Andrea Gardenghi)
Visto all’interno del palinsesto del FringeMI, Milano. Crediti: con Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini, drammaturgia e regia Pouria Jashn Tirgan, musiche originali Emanuele Fantini, co-produzione Teatro del Lemming, Vincitore Bando Cura 2022, Finalista premio Alberto Dubito 2023
TOTALE (di Pier Lorenzo Pisano)
Tutto si trasforma, dicono. Tranne una storia d’amore. Quando finisce una relazione si presenta il conto di quello dato e perso e più che rinnovare il sentimento in una spinta rigeneratrice vorremmo stiparlo in un archivio, con scontrino annesso. Ma, contro la nostra volontà, di archiviato c’è ben poco. Nel divertissement drammaturgico firmato da Pier Lorenzo Pisano, Gioia Salvatori e Andrea Cosentino sono Mauro e Chiara, sono una “proto coppia” che si costruisce da sé: nel buio del palcoscenico si spogliano dagli involucri scuri e scoprono i loro abiti bianchi con linee nere, a ricordare proprio i cartamodelli che si applicano a delle figurine, diventando degli enti a limite tra il fumetto e cartoon. I due pianificano il loro incontro, la loro prima notte insieme a casa di lei e nel mentre anche la scenografia si svela sotto i tendaggi neri, bianca e componibile sul momento, che al debutto crea un po’ di difficoltà di gestione e lede l’organicità dei movimenti scenici. Sappiamo già come va a finire la storia, quindi ci godiamo la comicità adamantina di Salvatori - che per il suo personaggio potrebbe sperimentare un tono più compìto e meno svagato, specie all’inizio – e quella straniata di Cosentino, qui con un’inedita aura romantico adolescenziale. Anche se il loro affiatamento è da rodare, l’attrice e l’attore sembrano studiarsi vicendevolmente determinando un’interpretazione consapevole di questo gioco che non necessita dei passaggi meta teatrali, in quanto la scrittura scenica è già improntata al “facciamo che”. Il momento del totale arriva alla fine, a riavvolgere tutta la storia in un interminabile rotolo di carta termica su cui sono segnati i costi relazionali: è un momento cinico per Chiara, tesa con la schiena dritta e le parole nette, struggente per Mauro, ricurvo con gli occhi bassi, la voce sommessa. L’ultimo invito di lui e il rifiuto di lei è un’immagine di profonda e dolorosa dolcezza, il totale è tutto lì e non c’è conto che tenga. (Lucia Medri)
Visto in prima assoluta a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria: drammaturgia e regia Pier Lorenzo Pisano con Gioia Salvatori, Andrea Cosentino, Luci Raffaella Vitiello, scene Rosita Vallefuoco, musiche originali Francesco Leineri, costumi Raffaella Toni, aiuto regia Valeria Patota, produzione Cranpi, con il contributo di MiC – Ministero della Cultura. Foto di Angelo Maggio
LA MORTE OVVERO IL PRANZO DELLA DOMENICA (Compagnia Dammacco)
Al di là dell’impegno rituale, dell’appuntamento abitudinario, la fine del pranzo della domenica a casa dei genitori lascia sempre una routinaria malinconia. È un bruciore nostalgico che si conficca tra la digestione e la successiva fame, un che di psicologico e biologico, e più i ruoli genitori-figli si invertono, più sembra acuirsi con insistenza. Mariano Dammacco e Serena Balivo hanno portato in scena questo umore e hanno saputo vedere la morte attraverso il teatro. Approccio che può sembrare tautologico ma in realtà lo è di rado. Dei tendaggi bianchi, leggeri, chiusi sul proscenio appiattiscono e riducono lo spazio in cui è collocato un tavolino di legno con sopra qualche bicchiere, una bottiglia e delle noccioline sparse, dietro i tendaggi sembra di intravedere una profondità che riflette questi essenziali oggetti. In scena Balivo è ricurva sul tavolino; masticando con posa storta e nevrotica, agita le mani e la testa, il suono di Marcello Gori è ipnotico e cresce di volume. Indossando degli eleganti abiti signorili, una parrucca di capelli bianchi, orecchini, anelli alle mani, Balivo è all’apparenza una signora anziana e parla da anziana. Il suo ruolo però è scisso: nel corpo della madre e nella voce della figlia che racconta il suo punto di vista sul pranzo a casa dei genitori ultranovantenni: l’arrivo, le portate, il dolce, la musica, il commiato. Scorre tutta una vita, i tendaggi diventano un paesaggio colorato che muta col variare dello spettro di luci e, mentre Balivo percorre quello spazio bidimensionale avanti e indietro, nella familiarità dei gesti si palesano i discorsi sulla morte dei genitori e i pensieri della figlia: è la consapevolezza di dover lasciare andare, è quella bambolina poggiata sul tavolino che l’anziana /figlia colpisce fino a far cadere. La platea singhiozza, per le risate ma anche per le lacrime che iniziano a scorrere discrete nel buio; non tutta ma una buona parte viene coinvolta con soave caducità in questa catarsi collettiva. (Lucia Medri)
Visto in prima assoluta a Primavera dei Teatri, Il Capannone: di Diaghilev – Dammacco/Balivo, con Serena Balivo, ideazione drammaturgia, regia di Mariano Dammacco, musiche originali di Marcello Gori, tecnica Erica Galante produzione Compagnia Diaghilev, con il sostegno di Spazio Franco (Palermo) | Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno). Foto di Angelo Maggio
SPEZZATA. RAPSODIA (PER INTERCESSIONE DEL SILENZIO) (di Fabio Pisano)
La notizia della condanna a morte di Lisa Montgomery non lasciò indifferente l’opinione pubblica a metà gennaio del 2021. Montgomery era colpevole di aver ucciso una donna incinta e di averle estratto con un coltello il feto. C’è un terrore di vita e di morte, in questo fatto di cronaca che ne racchiude altri, impalpabili, che la sentenza esclude e, in questo caso, lascia al teatro. Il testo di Fabio Pisano è una «rapsodia» incarnata dall’attrice Mariangela Granelli e dalla cantante e compositrice Serena Ganci. All’interno di una struttura composta da diversi spunti vocali, ritmici, interpretativi, si inizia dal monologo di Lisa detenuta e vestita con gli abiti carcerari per poi passare ad un’alternanza di personaggi, sempre interpretati da Granelli: la madre di Lisa, il «padre regno», gli amici di lui, la vicina di casa e poi vittima Bobbie Jo Stinnett; sequenza che mantiene però un tema fisso, proprio come una rapsodia, e cioè la voce «spezzata» di Lisa. Tramite la prestanza attoriale di Granelli, il pubblico rivive con spietatezza gli abusi sessuali sofferti da Lisa, l’infanzia da incubo in un camper alla mercé di una madre e un patrigno sadici, fino ad arrivare al delitto, nato dal desiderio di Lisa per una gravidanza, un amore, una famiglia mai avuti. La regia di Livia Gionfrida sembra aggredire un testo già feroce caricandolo di elementi tangenziali - come le parentesi cantate e musicali (poco organiche al racconto), e quelle relative a uno stereotipato immaginario americano (un copricapo indiano indossato da Ganci e una tuta, casco e mazza da baseball) - ma anche di una violenza irritante che degenera nel grottesco, confuso e offensivo: perché usare quel naso da clown? Si fatica non solo per la tematica in sé che rinnova il senso di smarrimento e dolore ma anche per il dover sopportare l’assenza di una sensibilità poetica e formale nell’affrontare un fatto, di vita innanzitutto, un’ingiusta condanna inflitta a un’esistenza già condannata dalla nascita. (Lucia Medri)
Visto in prima assoluta a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria: di Fabio Pisano, con Mariangela Granelli, regia di Livia Gionfrida, musiche di Serena Ganci, luci e spazio sonoro Alessandro Di Fraia, costumi di Daniela Salernitano, direttrice di produzione Hilenia De Falco, produzione Teatri Associati di Napoli, in coproduzione con Bottega degli Apocrifi Ente Teatro Cronaca. Foto di Angelo Maggio
QUELLO CHE NON C’È (di Giulia Scotti)
Ci sono dolori nelle famiglie che non ci sono nelle nostre vite, li ereditiamo perché cresciamo coi ricordi di chi li ha vissuti, e ancora li vive, ma non ne abbiamo esperienza diretta: l’esperienza è più dolorosa, quindi più vera? Cos’è un’esperienza se non sono io a farla? Quando «quello che non c’è» appartiene al passato, e noi viviamo nel presente, è necessario cercare degli appigli narrativi per fare entrare quella storia lì nella vita di qui. L’autrice, attrice e fumettista Giulia Scotti si pone queste domande ed è alla ricerca di questo “raccordo” in Quello che non c’è, che già nella sua anteprima si poggia su una materia potente di senso, che proviene dall’autobiografia ma sin dalle prime battute viene “allontanata” dal sé per farsi intimità collettiva. Per parlare di un dolore preciso, Scotti inizia raccontandone altri: di un fratello caduto in un precipizio, di una giovane protesta che si impone il digiuno, e poi ci presenta la storia di Daniela. Nebulosa e ancora fragile, la scrittura scenica si esprime però attraverso le proiezioni della nettezza bianco nera dei suoi fumetti: la definizione grafica, e simbolica, di spazi, oggetti, momenti, viene macchiata di un rosso acceso, conturbante. Coi disegni, l’autrice ci si relaziona, li aspetta apparire sullo sfondo, li guarda, li tocca, e con la sua voce, e quella dello zio registrata in voice over, ci entra in contatto. Una vischiosità virtuale in cui il suono di Lemmo funge da veicolo e si fonde alle parole di Scotti, dette secondo quel fare un po’ post drammatico, un po’ già sentito che sembrerebbe proprio non appartenerle, e che deve ancora trovare una sua cifra autonoma. Nella rarefazione di un progetto illuminato da squarci più decisi, intravediamo la fierezza di sguardo di Giulia, il tono di voce esplicito che saprebbe tuonare con risolutezza; elementi che aspettano un’ulteriore messa a fuoco perché ancora nascosti sotto un cappuccio e ostacolati da un microfono tenuto troppo vicino. (Lucia Medri)
Visto in anteprima assoluta a Primavera dei Teatri, Teatro Sybaris: di e con Giulia Scotti, collaborazione al progetto Andrea Pizzalis, consulenza Alessandra Ventrella, disegno luci Elena Vastano, suono Lemmo, coproduzione Tuttoteatro.com, residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t. Foto di Angelo Maggio
SBUCCI (Gli Omini)
Come arriva la rabbia? Nasce con noi o appare a un certo punto? Come riesce a prendere il sopravvento su tutto il resto? Che cos’è una macchina della gioia? “Sbucci” non è un’indagine sull’uomo, né la sua caricatura; gli sbucci sono le prime ferite, quelle da cui ognuno di noi si è rialzato, chi piangendo, chi con fierezza, orgoglioso di portare addosso, su gomiti e ginocchia, i segni delle prime battaglie. Sono stati gli sbucci a dare l’incipit alla nostra strategia di sopravvivenza. La compagnia pistoiese, che con questo spettacolo chiude la stagione Agorà 23-24, ha scelto di ripartire dall’infanzia attivando una serie di laboratori nelle scuole elementari e chiacchierando con i bambini e le bambine per calarsi, di nuovo, nei loro panni. Facendo un balzo all’indietro verso l’infanzia, proseguendo a ritroso fino ai primi atterraggi sui ginocchi, Gli Omini restituiscono un’immagine limpidissima del pensiero “bambino” che ci descrive – noi, tutte le generazioni precedenti – con disincanto, senza retorica. Questi esseri umani, che noi percepiamo senza futuro, si confrontano sulla scena con dei robot di cartone, scatole magiche e aliene, che producono per lo più interrogativi sulla specie umana ma che, con inaspettata empatia, rispondono ai desideri dei piccoli offrendo loro la possibilità concreta di veder realizzate aspettative e immaginazioni. Così dalla bocca di un grande Bobi – robot gigante che domina la scena – vengono fuori personaggi come la “Mama” cioè la versione femminile del Papa, o una grande e sguaiata cicogna con la sindrome di Peter Pan. Bobi non giudica mai, guarda con curiosità allo srotolarsi di emozioni contrastanti dei bambini e delle bambine; su tutte la più importante pare proprio la rabbia, quella che a un certo punto della vita arriva e fatica ad andare via. Ma anche la perplessità rispetto alla vita degli adulti. Sbucci è un palcoscenico per la prossima generazione, è un vastissimo mondo dei sogni e delle paure in cui possiamo specchiarci, è l’antologia dei sentimenti che abbiamo provato e ci fanno sentire tanto lontani dai piccoli che hanno il potere di farci ritornare, finalmente, vulnerabili. (Silvia Maiuri)
Visto alla Sala Giulietta Masina di San Giorgio di Piano (BO)– Crediti: Una produzione de Gli Omini con il sostegno di Teatro Metastasiodrammaturgia Giulia Zacchini con Francesco Rotelli e Luca Zacchini
ERETICI. IL FUOCO DEGLI SPIRITI (di Matthias Martelli)
«Eresia» significa, in senso etimologico, «scelta». È attorno al principio di autodeterminazione, dunque, che si gioca la partita di Matthias Martelli, di nuovo alle prese con la lezione di Dario Fo, con quella «letteratura corporea» che si radica nella tradizione giullaresca del Medioevo. Stavolta è accompagnato, sulla scena sgombra, da tre donne (Laura Capretti, Flavia Chiacchella e Roberta Penta), cantanti a cappella ma anche interpreti, persuasive nella loro adesione appassionata alla medesima idea di corporeità: leggibile, scandita e profonda. La scelta di lavorare sulle eversioni – sulla fiamma che ha agitato, in tutte le epoche, gli «spiriti liberi», da Galileo Galilei a Julian Assange – mostra, proprio per la sua trasversalità, una premessa un po’ sacramentale e un po’ didattica, un proposito di reductio ad unum toccante ma sospetto. Ci troviamo di fronte a un’eredità, quella di Fo, e a una “militanza”: entrambe tentano di smarcarsi dai rischi inscritti nei presupposti (anacronismo, ingenuità, andamento esplicativo) attraverso il primato del corpo, la sua “smisuratezza” e la sua sintesi. A correggere la retorica impura della verità (oggi che anche la possibilità di sedersi dalla parte del torto appare integrata all’egemonia mediatica, e dunque parte del torto stesso) interviene la verità del corpo. È ancora il corpo, luogo delle istanze incarnate (nell’accezione di mutate in carne), e del «gestuare», che si fa portatore dell’eresia, della supremazia della scelta. Il corpo dipinto (per Paolo Veronese, Michelangelo, Caravaggio), il corpo nella sua rivendicata possibilità sensoriale (l’occhio di Galileo che fissa la teoria eliocentrica), il corpo magniloquente e quello profanato, il corpo “cassa armonica” dell’oggettività o della denuncia (la lingua di Giordano Bruno, il polpastrello di Assange). Oltre i pericoli della generalizzazione (tanto della figura del martire, quanto di quella dell’aguzzino), permane un sentire che appare innocente – la platea estasiata valga qui come metafora – tanto ampio da essere ormai, per paradosso, pacificato. Dunque ora siamo davvero capaci di applaudire gli eretici? E, se sì, vale per tutti o soltanto per quelli “canonizzati”, dalla storia o dalla cronaca? Sediamo ormai tutti dalla parte del torto, commossi, a distanza di sicurezza. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Cucinelli, Solomeo – Crediti: di e con Matthias Martelli; e con Laura Capretti, Flavia Chiacchella, Roberta Penta; regia Matthias Martelli;
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