Cordelia - le Recensioni

HomeCordelia - le Recensioni

LA TRAIETTORIA CALANTE (Pietro Giannini)

La storia del crollo del ponte Morandi a Genova è cronaca di una tragedia annunciata fin dalla costruzione del ponte stesso, nella triste tradizione tutta italiana di incuria, malaffare, capitalismo violento, leggi ad personam. Un groviglio di concause, di personaggi grandi e piccoli, di dettagli minimi eppure fondamentali. Pietro Giannini si mette davanti alla matassa e inizia a sbrogliare il filo, dapprima da lontanissimo, rievocando una leggenda popolare genovese che gli dà modo di sfoggiare la sua freschissima formazione accademica. La storia poco edificante del contadino vittima del potere, persino di quello spirituale, ha la funzione di introdurre due personaggi, un civile e un prelato, la testa all’insù e gli stivali di gomma immersi nel letto del Polcevera negli anni 60, quando si cominciava a immaginare questo viadotto tra la Genova industriale e quella borghese. Il racconto procede rimbalzando tra la platea e l’eloquio incalzante di Giannini mentre alle sue spalle scorrono le immagini in soggettiva di un’automobile in viaggio verso Genova. L’attore e drammaturgo 24enne, ampiamente padrone del palcoscenico, ricostruisce la vicenda del ponte dalla nascita al tragico epilogo, inanellandone abilmente i complessi passaggi e inglobando lo spettatore nel suo gioco frenetico più vicino all’inchiesta e alla stand up satirica che alla ricostruzione drammaturgica tipica del cosiddetto teatro civile. Giannini è molto a suo agio nel chiamare in causa il pubblico, col risultato di instaurare a tratti uno stato d’animo confuso nella platea: il gioco a volte prende il sopravvento, mentre sfilano i soggetti e i dettagli terribili di quella traiettoria calante, ovvero l’esito fallimentare di un’impresa costata la vita a 43 persone, sacrificate da chi sapeva e ha taciuto in nome del profitto. L’ultima immagine proiettata dallo schermo è quella disarmante del gruppo di familiari delle vittime: lo sguardo dritto piantato sullo spettatore e su tutti i personaggi che tramite Giannini hanno attraversato quel palcoscenico vuoto. (Sabrina Fasanella)

Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival. Anni Luce. Di e con Pietro Giannini. Produzione Teatro Nazionale di Genova

LA FORESTA TRABOCCA (Antonio Tagliarini)

Siamo disposti sui quattro lati del perimetro dello Spazio K di Prato, il lavoro che ci accingiamo a vedere di Antonio Tagliarini chiude la densa serata di Contemporanea Festival cominciata con El Conde de Torrefiel. Qui il passaggio è in un uno stato morbido, la postura è diversa, non siamo chiamati a tenere il filo della narrazione, a interpretare gli incastri, ma siamo spettatori, prima di tutto, della fragilità umana. È il primo progetto di Tagliarini a cui mi capita di assistere dopo lo scioglimento del sodalizio artistico con Daria Deflorian: Antonio è in scena insieme a Gaia Ginevra Giorgi che dal vivo cura le atmosfere sonore della scena, entrambi hanno una presenza - in modo diverso - magnetica. Il pubblico può lasciare dei foglietti, contenenti delle frasi, che sono stati distribuiti all’entrata, sono come le tracce, «devo rispondere con assoluta sincerità» mi spiegherà più tardi. Le domande attivano il dato performativo: nel corpo, con la danza che si modifica nettamente generando dunque una risposta fisica o narrativa. il movimento leggero ma preciso, si alterna a piccoli brani recitati, che disegnano minute possibilità narrative, frammenti di vita che rimangono appesi a mezz'aria, come nel primo racconto: ci sono delle analisi mediche e un dottore che vorrebbe parlare con Antonio, c’è la tensione nell’attesa allo studio medico e poi la musica che si sovrappone proprio nel momento in cui si sta per svelare la questione, forse dolorosa, quasi a voler chiudere alla vita, alla realtà personale, per pudore. E poi un sogno kafkiano in cui la depressione diventa un buco nel pavimento di casa, dal quale non si riesce ad uscire: Tagliarini apre una feritoia nel tappeto bianco e ci si nasconde. Ma quest’opera, influenzata dai pensieri di  Jack Halberstam sul concetto di fallimento, è la vivida testimonianza di una rinascita: Antonio salterà da una parte all’altra della scena, come in una danza di riattivazione vitale, prima di lasciare lo spazio a disposizione di un ultimo sussulto poetico, forse troppo slegato dal resto, un ricordo d’infanzia soffiato al microfono da Gaia Ginevra Giorgi. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Spazio K, Contemporanea Festival un progetto di Antonio Tagliarini con Gaia Ginevra Giorgi e Antonio Tagliarini collaborazione artistica Gaia Ginevra Giorgi cura del suono Emanuele Pontecorvo disegno luci e direzione tecnica Elena Vastano abiti Matteo Brizio coproduzione INDEX, Triennale Milano Teatro, Ass. Cult. A.D. residenze di creazione Triennale Milano Teatro, Spazio Matta, Casa degli Artisti per INDEX Valentina Bertolino, Francesco Di Stefano, Silvia Parlanicon il supporto del MiC – Ministero della Cultura

LA LUZ DE UN LAGO (El Conde de Torrefiel)

La compagnia formata da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert continua il proprio percorso incentrato sulle possibilità della parola narrativa a teatro. A Contemporanea Festival ha debuttato in Italia (e poi sarà al Festival delle colline torinesi) il nuovo La luz nel lago che riprende proprio i meccanismi indagati in Ultraficción n1 e ben spiegati da Bayler in questa intervista. L’obiettivo è dunque sempre quello di creare un teatro della mente a partire dalla proiezione del testo su un fondale. Ma in questo nuovo progetto El Conde vuole lavorare anche sulla materialità della scena. Mentre una squadra di tre performer/tecnici muove pannelli, svela fondali o - addirittura - dipinge di nero proprio uno degli schermi cancellandolo, dopo che lo spazio di proiezioni era stato colpito anche da immagini sgranate e colori molto vividi, noi entriamo nelle tre storie attraverso la lettura. Una voce registrata ci avverte, ci troviamo di fronte a una storia d’amore. In realtà le storie sono almeno tre e come in una struttura a matrioska, in ognuna delle storie, i protagonisti saranno spettatori di quella precedente. Tutto comincia negli anni ‘90, durante un concerto dei Massive Attack a Manchester (ma tutta la colonna sonora è imperdibile), due ragazzi si conoscono, passano la serata insieme. Nella storia successiva, in cui due uomini si incontrano in un cinema, sapremo che i due ragazzi della prima narrazione (protagonisti del film che i due amanti stanno vedendo in sala), si sono lasciati dopo aver passato parte della vita insieme. Le storie, come l’ultima su una biologa marina transgender, hanno tutte un piccolo risvolto politico, sono storie della minoranza, di controcultura o di lotta, esplicita come nel caso degli attivisti per il clima nel finale, oppure legata alle scelte dei singol*. Per chi è abituato al linguaggio del Conde in questo caso non si stupirà per la riflessione su narratività e spettatorialità. Forse la macchina teatrale viene penalizzata dai troppi elementi (gli schermi in movimento, la voce fuori campo, i video, ecc.) rispetto al compatto minimalismo di Ultraficción n1, ma le storie continuano ad essere il cuore della questione. (Andrea Pocosgnich)

Prossime date in Italia

12,13 ottobre Teatro Astra, Torino, Festival delle Colline Torinesi

Visto al Teatro Metastasio, Contemporanea Festival idea e creazione El Conde de Torrefiel regia, testo e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert scene La Cuarta Piel (César Fuertes, Iñigo Barrón García, Ximo Berenguer), Isaac Torres, El Conde de Torrefiel scultura Mireia Donat Melús direzione e coordinamento tecnico Isaac Torres disegno sonoro Rebecca Praga, Uriel Ireland disegno luci Manoly Rubio García creazione video Carlos Pardo e María Antón Cabot

LA PRIMA LUCE DI NERUDA (di R. Cappuccio, regia César Brie)

Come un macroalveare di più asteroidi, una massa di destini letterari, poetici, musicali e scenici, e di accostamenti umani, storici, genealogici e politici, convergono in uno spettacolo con trasposizione e regia d’un artista migrante, il bonaerense César Brie, un argentino di casa in Italia, in Bolivia, nell’Europa dell’Odin o (qui diremmo) un sudamericano che è stato anche di stanza a Santiago del Cile. Ha un senso molto legato alle sue radici, il fatto che ora si sia ben prestato ad adattare per la ribalta il romanzo “La prima luce di Neruda” di Ruggero Cappuccio, lavoro che ha avviato il Campania Teatro Festival diretto dall’autore di quel volume. Ma la sintonia geoculturale tra Brie e Neruda non è l’unica che sovviene, in questa impresa. Risale a un’amicizia fraterna nei centri sociali milanesi degli anni ‘60, il rapporto tra il regista e Elio De Capitani e Cristina Crippa, due dei coprotagonisti della messinscena, un legame sviluppatosi col Teatro dell’Elfo, qui coproduttore col Festival. Un assetto sinergico della compagnia fa poi sì che a impersonare Pablo Neruda e la sua amata ultima moglie da giovani siano Umberto Terruso e Silvia Ferretti, due attori di Brie, e a dar vita alla coppia (per 27 anni) del poeta e della sua donna in età matura si siano prestati De Capitani e Crippa, duetto d’arte e nella vita, in dialogo da anni con Cappuccio e con la manifestazione campana. Naturalmente il testo di Brie è un bellissimo referto poetico della letteratura intima e diaristica (e cronologico-diacronica) del libro partigiano, schierato e drammatico di Cappuccio. Con un impianto frugalmente costituito solo da due letti singoli e panche per lo scrittore e la sua amata incontratisi a 48 anni lui e a 39 anni lei. Col fascino d’un decreto d’espulsione da Napoli cui alla stazione Termini s’oppone una folla d’intellettuali, col buen retiro a Capri dei due bravi attori giovani, finché la staffetta è conclusa in Cile (Neruda muore di cancro e di assassinio del regime di Pinochet) dai due generosi campioni dell’Elfo. Tra i canti incantevoli di Francesca Breschi. Con bei video. Dalle Ande agli Appennini. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Campania Teatro Festival. Crediti: di Ruggero Cappuccio regia e adattamento di César Brie con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Silvia Ferretti, Umberto Terruso musiche eseguite dal vivo da Francesca Breschi luci e scena di Nando Frigerio video di Umberto Terruso costumi di Alessia Lattanzio produzione di Teatro dell’Elfo e del Campania Teatro Festival

LA GUERRA COM’È (Elio Germano, Teho Teardo )

Quanta necessaria arte umana, quanta generosità destinata agli sconosciuti del mondo, quante considerazioni civili in difesa della gente qualunque presa di mira dagli omicidi di massa degli eventi bellici, e quanto frugale e tenace altruismo privo di ascendenti spettacolari ho percepito a teatro, a metà settembre, nella grande prova orale di Elio Germano che all’Auditorium Parco della Musica di Roma, con i flussi sonori e sintonici creatigli lì accanto da Teho Teardo, ha tirato dritto leggendo e dicendo (su un podio da convention) La guerra com’è, manifesto biografico e geopolitico che lo stesso Germano ha contribuito a trarre dal libro di Gino Strada Una persona alla volta pubblicato postumo da Feltrinelli a cura di Simonetta Gola di Emergency. Organizzazione umanitaria cui erano devoluti, per impegno dei protagonisti, quasi tutti gli incassi della serata. Non ho mai visto un Elio così serio, così meticoloso, così coinvolto, qui in un biopic d’un eroe mondiale dell’emerita chirurgia da campo che, pur nato lui a un passo dalla Breda, trascorrerà tutta la vita a ricucire corpi offesi dal cinismo delle bombe. E ci stanno benissimo assieme, le scelte di Strada per gli ospedali di paesi poveri, e l’opzione di Germano per un teatro etico. Eppure il lavoro con la storia di Emergency non è privo di dure emozioni: l’immagine del padre pakistano che porta un bimbo con la mano esplosa ha una forza pietosa sconvolgente, i ragazzi con gli arti amputati sono gli scandali costruiti da fabbriche cinesi, russe e purtroppo anche italiane. E’ un attore a doverci ricordare, con le pagine e le parole d’un medico in prima linea, che i pazienti operati nelle aree dei combattimenti appartengono a una popolazione quasi integralmente civile, tranne un solo 7% di militari. Il bersaglio delle ostilità contemporanee sono i normali. La voce offesa e testimoniale di Germano dice che gli ordigni aerei non vedono il sangue. Ma i feriti, gli sfollati, gli inermi che affollano luoghi pubblici sono il bersaglio, il cliente delle macchine della guerra. E i toni del nostro messaggero dal fronte sono inesorabili. Mai applausi a scena aperta sono stati più civili, spontanei e sconfortantemente allarmati di quelli diretti a Germano e a Teardo. Anche i miei. (Rodolfo di Giammarco)

Visto all'Auditorium Parco della Musica: dal libro postumo di Gino Strada “Una persona alla volta” a cura di Simonetta Gola di Emergency riduzione di Elio Germano con Elio Germano e Teho Teardo produzione di Pierfrancesco Pisani per Infinito Teatro e Argot Produzioni in collaborazione con Emergency

MOFTARAK (Masse Art)

Uscire un mercoledì sera, dopo aver dato solo un’occhiata veloce al programma e ritrovarsi in zona Pigneto in quello spazio bellissimo e funzionale per l’arte dal vivo contemporanea che è Centrale Preneste, in questi giorni animato con le luci rosa e le performance internazionali di Interazioni Festival. La rassegna ideata e diretta dal danzatore e coreografo Salvo Lombardo in queste tre edizioni si è lentamente ritagliata un piccolo spazio in un periodo dell’anno in cui Roma è attraversata da numerose alternative; è terminato da poco Short Theatre e siamo nel pieno di Romaeuropa Festival. Ma la proposta di Interazioni si difende attraverso una curatela piena di ricerca e specificità. Così il nostro mercoledì sera è terminato con la poesia inaspettata e struggente di Moftarak (grazie alla quale abbiamo dimenticato presto la performance precedente, un po' pretenziosa, di Youness Atbane), un lavoro della compagnia Masse Art che è frutto di una conversazione (il titolo in arabo vuol dire “incroci”) tra Lara Odin e Moad Haddadi, tra uno strano e rarissimo strumento e un danzatore. Lara Odin fa parte di una delle pochissime famiglie in Europa a costruire e suonare gli organi a rullo, scatole misteriose e decorate che attraverso la rotazione di una manovella da parte dell’artista emettono la musica “scritta” su appositi cartoncini secondo una specifica perforazione. Lo strumento, introdotto in Italia nel XVIII secolo, ricorda i primissimi computer che funzionavano proprio leggendo le schede perforate. Ma lo spettacolo, nel bianco crema della scena perimetrata da una coda lunghissima di cartoncini, comincia con un canto, intanto Haddadi è quasi immobile, lentamente comincia a muoversi, la sua danza è quella di un corpo scosso dagli impulsi. Poi Odin si sistema dietro l’organetto e comincia a suonare, mentre il rullo cattura la lunga coda di cartoncini possiamo seguirne il defluire. La musica - nostalgica ma densa - si consuma, preparandosi a un lungo silenzio di carta non scritta, per poi riprendere. Il suono e il tempo scivolano tra le dita, fino a quando Haddadi attraversa la quarta parete come un avventuriero proveniente da un altro mondo,  diventando esso stesso oggetto poetico e luminoso. Siamo fortunati ad essere in questo altrove. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Centrale Preneste, Interazioni Festival coreografie Moad Haddadi musica Lara Odin scenografia Antonin Odin

GIULIETTA E ROMEO (regia Roberto Latini)

In apertura il Romeo di Roberto Latini somiglia splendidamente a Sean Penn in panni di vissuta rock star nel film di Paolo Sorrentino, con bel gioco speculare quando in chiusura a stringere una chitarra elettrica è la Giulietta alias Elvis della partner odierna Federica Carra. Il titolo, “Giulietta e Romeo”, inverte l’ordine dei protocollari nomi elisabettiani, e cela forse un tributo implicito. Entrando dentro l’opera di Shakespeare, la drammaturgia e la regia di Latini esaltano al festival Inequilibrio 2024 solo le scene in cui l’universale coppia senza futuro si trova a confronto, ed è così poetica, l’impresa, da far sovvenire la sequenza delle battute esclusivamente amletiche dell’ “ExAmleto” di Roberto Herlitzka. All’oralità struggente e tossica dei cinque quadri qui evocati (incontro, balcone, matrimonio, alba, finale), il lavoro associa fulminei video con riflessioni tematiche di trentenni mostrati in una sorta di showreel, per vigorosa iniziativa del collettivo italo-svizzero Treppenwitz che ha sondato giovani d’adesso su amore, sesso, solitudine, tradimento, paura, gelosia, ipocrisia. Oltre alle battute di Giulietta e Romeo, individuiamo due momenti che per voce della protagonista femminile evocano una quotidianità autobiografica di condivisioni e di tempi liberi attuali. Non bastasse, dopo vari monologhi di un Latini trepido nell’accorpare e cucire (coi toni carmelobeniani da sballo che gli conosciamo) gli scambi di Lui e Lei, è alla Carra che viene affidato l’epilogo ondeggiante a base di frasi/memoria da L’ultimo nastro di Krapp di Beckett. Colpo finale di maestria moderna vissuta insieme, perché al termine si intuisce che stavolta Giulietta e Romeo non muoiono, sono sdraiati in una terra che potrebbe essere disabitata, e abitata però da loro. Da vedere e ascoltare. Repliche a Firenze fino al 28/9 nell’Estate Fiorentina al Liceo Artistico di Porta Romana, poi per ora a Caserta, Pescara, Rovigo, Parma. Coproduzione compagnia Lombardi-Tiezzi e ERT. Buon lavoro a Roberto Latini, nel frattempo, anche neo-direttore dell’Orizzonti Festival di Chiusi. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Nardini di Rosignano Marittimo per Inequilibrio Festival: drammaturgia e regia di Roberto Latini con Roberto Latini e Federica Carra musiche e suono di Gianluca Misiti luci di Max Mugnai costumi di Daria Latini video Collettivo Treppenwitz produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi e Emilia Romagna Teatro

SE RESPIRA EN EL JARDIN COMO EN UN BOSQUE (El Conde de Torrefiel)

Didattico per chi non è solito andare a teatro e non conosce “le funzioni” dello spettacolo dal vivo, curioso per coloro che invece, avendo un’abitudine al gioco scenico, scelgono di riviverla in una composizione in cui si possono interpretare entrambi i ruoli: quello di chi guarda e di chi viene guardato. Durante Short Theatre 2024 l’ensemble catalano El Conde de Torrefiel presenta al Teatro Cometa Off, vicino al centro festival de La Pelanda, Se respira en el jardin como en un bosque, uno dei diversi progetti guidati da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert programmati durante l’ultima edizione curata da Piersandra di Matteo, e drammaturgicamente pensato per dare corpo e tangibilità, attraverso chi vi partecipa, ai concetti di immaginazione, fruizione, azione. Indossate le cuffie, uno alla volta, si è invitati a entrare in scena e a seguire una drammaturgia: prendi questo, posizionati al centro, muoviti in maniera solenne, corri ecc ecc Nel mentre, uno spettatore/spettatrice ci guarda dalla platea; posto che occuperemo alla fine del nostro ruolo attoriale per passare a quello spettatoriale e osservare quello che una nuova persona farà al nostro posto. E così via. Il teatro non è il mondo e il jardin, il giardino, non è di certo un bosque, un bosco, ma in entrambi respiriamo allo stesso modo, nell’uno come nell’altro. L’efficacia di questo dispositivo sta infatti nel far esperire, quindi comprendere, in una modalità agile, libera, divertente principi che spesso vengono assunti passivamente come delle convenzioni e invece sono degli strumenti di azione, creazione e reinvenzione della realtà che ci circonda. Nulla di nuovo quindi ma, in un momento storico in cui tutto è improntato alla user experience e tutto può quindi diventare un fake, conoscere i meccanismi attraverso cui la realtà viene modificata non è solo intrattenimento ma diventa una difesa. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Cometa Off durante Short Theatre 2024: di El Conde de Torrefiel; regia, drammaturgia e testo a cura di Tanya Beyeler y Pablo Gisbert; progettazione suono Rebecca Praga coordinazione tecnica Isaac Torres; suono Uriel Ireland; amministrazione Uli Vandenberghe produzione e distribuzione Alessandra Simeoni; produzione esecutiva CIELO DRIVE SL; co-produzione Santarcangelo Festival (IT), CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia con il supporto di Mas Nyam Nyam, Mieres (ES). Foto Claudia Pajewski

THE SECOND BODY (Ola Maciejewska)

C’è una donna, bionda, molto alta, giovane e vigorosa, veste solo un paio di pantaloni larghi, beige, stringe a sé un pezzo di ghiaccio, sembra essere una scultura; non è un semplice blocco, ha delle parti ondulate, degli incavi che le permettono di afferrarlo. Nella sala della Pelanda c’è il pubblico di Short Theatre posto su quattro lati, a circondare l’area dell’azione, le luci sono accese. Le tende nere sulle grandi pareti di vetro che danno sulla strada sono annodate ai lati, entra la luce della sera e qualche curioso da fuori guarda l’interno, soprattutto due ragazzi si fermano, lui fa qualche foto, lei ride. Intanto in scena Leah Marojević, interprete della performance ideata dall’artista polacca (residente in Francia) Ola Maciejewska, ha cominciato la sua lotta con la scultura di ghiaccio. C’è anche un libro, si intitola, come lo spettacolo, The Second Body, e lo ha scritto Daisy Hildyard nel 2017, non è in scena, ma ispira lo spettacolo. Per Hildyard oltre al primo, in carne ed ossa, abbiamo un secondo corpo, diffuso, in relazione con altri ecosistemi. Nel lavoro performativo di Maciejewska il ghiaccio (rappresentazione fisica del secondo corpo?) si scioglie a causa della temperatura e della frizione del corpo della donna. Il rimando con «gli effetti dell’azione distruttiva dell’essere umano» è davvero troppo leggibile, telefonato si direbbe. Nelle note di accompagnamento della performance si legge che «Ola Maciejewska esplora la dissoluzione tra oggetto e soggetto, animato e inanimato, fino al punto in cui il processo coreografico è trasformato dall’interconnessione con la materia, laddove diversi corpi diventano interdipendenti e correlati». Ma come spesso accade in questi casi il pensiero ideativo è più efficace del lavoro performativo. Il ghiaccio non può fare altro che sciogliersi nell’abbraccio, o rompersi in alcuni punti (quando viene gettato a terra); non c’è altro, neanche un pensiero coreografico o musicale. Non basta la fatica, la passione con la quale la protagonista si contorce sul freddo manufatto, per distrarre dalla noia durante la lunghissima ora di performance. (Andrea Pocosgnich)

Visto alla Pelanda, Short Theatre. Ideazione, coreografia e drammaturgia Ola Maciejewska performer Leah Marojević  costruzione coreografica (blocco di ghiaccio) Alix Boillot luci Rima Ben Brahim suono, collaborazione drammaturgia Gilles Amalvi prototipo e calco Mathieu Peyroulet Ghilini assistenza scenica Guenaël Morvan produzione/amministrazione so we might as well dance – Caroline Redy

BLESS THIS MESS (Katerina Andreou)

Probabilmente, quel “mess” a cui fa riferimento il titolo della coreografia di Katerina Andreou, a cui potremmo attribuire significati di caos, pasticcio, disordine, e che a prima vista potrebbe anche descrivere quanto accade sulla scena, sembra più una provocazione, una sfida: casino, sì, ma benediciamolo perché vitale. Perché sottende in realtà a ritmi diversificati, che coinvolgono differentemente i quattro magnifici danzatori - tra cui la stessa coreografa greca, attualmente residente in Francia - su diversi piani fisici, scindendo parti anatomiche, variando il ritmo, l’oscillazione, l'intenzione di esecuzione di uno stesso gesto. In questa costruzione entropica, che parte in maniera più contenuta sotto moduli musicali reiterati e a cura sempre di Andreou, esplode nel corso dei 55 minuti di esecuzione per diventare una summa di energie mai paghe. Anche la disposizione del palco rifiuta l’ordine centripeto: le pedane sono accatastate sul fondo e a un lato, dal cui soffitto pendono alcuni microfoni ambientali che raccoglieranno le sonorizzazioni dei quattro; un ventilatore sotto a una pedana, alcune parrucche e cap diventano escamotage per aumentare le varianti di movimento. Tuttavia, il cuore di tutta l’operazione è il gioco di reiterazioni con varianti dei movimenti pulsatori, come lo scuotimento del capo a destra e sinistra con cui si apre il pezzo, che poi diventa rotazione a 360° ma che, negli occhi di chi guarda assume connotazioni ogni volta differenti e che passa da una dimensione più placida, quasi sonnolenta dell’inizio fino a un contesto da festa con tanto di fuochi d’artificio, rave e after party. Proprio questa capacità di riuscire a caratterizzare il gesto, senza fronzoli narrativi ma attingendo da un quotidiano intimo, da passi che rievocano alla lontana musiche tradizionali, possibili rituali, o all'esasperazione di codici più astratti, innesca un alto grado di coinvolgimento, tanto da augurarsi di riuscire a vederlo nuovamente in una disposizione più libera, augurandoci di poter danzare insieme a loro. (Viviana Raciti)

Visto alla Pelanda, Short Theatre. Ideato da Katerina Andreou interpretato da Katerina Andreou, Lily Brieu Nguyen, Baptiste Cazaux, Mélissa Guex suono Katerina Andreou con Cristian Sotomayor luci e scenografia Yannick Fouassier consulenza Costas Kekis direzione tecnica Thomas Roulleau Gallais produzione-touring Elodie Perrin

MANSON (Fanny & Alexander)

Manson. Una parola. Un nome. Ma anche l’evocazione del profondo nero della storia americana e, forse, dell’umanità. Fanny & Alexander lo porta sul palco del Teatro Basilica per Short Theatre, alla regia Luigi De Angelis e solo in scena Andrea Argentieri. Charles Manson, ritenuto colpevole di molti reati a partire da quella istigazione all’omicidio plurimo a Bel Air nel 1969, dove morirà tra gli altri l’attrice Sharon Tate, si presenta ai giudici mostrando una dialettica e un magnetismo straordinari, tutto ciò che l’ha fatto diventare un guru diabolico travestito da hippy; ma le sue parole vanno più a fondo e diventano lo specchio traslucido della società in cui si è formato, che rifiutandolo ha posto le basi della sua rivolta. È il processo dunque che rivive: dopo la presentazione del caso in sovrimpressione, il pubblico, che ha ricevuto un foglio con le vere domande poste a Manson, si trasforma in una giuria postuma che dovrà interrogare l’imputato. Argentieri reagisce così a un doppio stimolo: da un lato l’ordine delle domande che dipende dalle scelte del pubblico-giuria, guidato dalla direzione delle luci, dall’altro il meccanismo di eterodirezione caro alla compagnia, che guida l’attore dalla regia tramite un auricolare in cui emergono le vere parole di Manson recitate in inglese – tratte da materiali pubblici diffusi dalla TV americana. Il procedimento artistico si avvale dunque di una immediatezza istintiva che guida il suono e i movimenti, l’attore ignora la sequenza ed è costantemente su un confine di tensione che riverbera nella sua performance, la drammaturgia che ne nasce è ogni volta diversa, secondo il diverso ordine delle domande e degli stimoli. Ma se la caratura del personaggio, che ha utilizzato mediaticamente anche il proprio processo e che ricorre come un paradigma nella cultura americana (basti pensare al C’era una volta… a Hollywood di Tarantino), lo pone come modello perfetto di indagine, allo stesso tempo la predominanza nell’immaginario collettivo affatica il mezzo teatrale, come se la messa in scena dovesse ogni volta rincorrere il personaggio e smarcarsi da un eccesso di notorietà. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Basilica, Short Theatre. Crediti: ideazione, regia, luci, progetto sonoro Luigi De Angelis; drammaturgia, costumi Chiara Lagani; con Andrea Argentieri; consulenza linguistica e fonetica Gabriella Gruder-Poni, David Salvage; promozione e comunicazione Maria Donnoli; organizzazione Maria Donnoli, Marco Molduzzi; amministrazione Marco Molduzzi, Stefano Toma; produzione e production Fanny & Alexander; in collaborazione con Olinda/TeatroLaCucina

BE POPULAR 2024

Quale sia il ruolo del teatro nelle città, come questo debba relazionarsi con la cittadinanza e fare da termometro della contraddizioni riuscendo però ad intrattenere il pubblico: i festival spesse volte tentano di rispondere a queste domande e forse ci riescono soprattutto quando trovano casa nei piccoli centri, nelle tante periferie artistiche ormai diventate tradizione della spettacolarità diffusa italiana. Più difficile quando l’idea ruota attorno a un centro cittadino. Vicenza con i suoi centomila abitanti e più è la quarta città del Veneto per numero di abitanti, ma mantiene le dimensioni di un centro storico raccolto: qui Stivalaccio Teatro - di cui avevamo già parlato a proposito dello splendido Arlecchino muto per spavento - organizza da otto anni Be Popular, manifestazione nella quale cerca di tradurre le qualità popolari del proprio teatro anche all’interno di una programmazione cittadina che quest’anno si compone di ben due settimane. Ed è stata una piacevole scoperta trovare, nonostante il caldo che non lasciava scampo, le platee piene di un pubblico cittadino appassionato, tra parate di buffoni liberi di esprimere anche i pensieri più malvagi della nostra società (o i desiderata politici i qualcuno), presentazioni di libri, spettacoli e concerti. Niente teatri nella geografia di Be Popular, Stivalaccio ha scelto due luoghi all’aperto ma circoscritti, Palazzo Thiene e Palazzo da Schio, il cortile del secondo è più contenuto ma stupisce con i balconcini traboccanti di verdi glicini. Proprietà della famiglia da cui prende il nome e al quale è abbinata un’ottima cantina di vini biologici, lo spazio accoglie per la quarta volta gli artisti di Be Popular in una dimensione intima e che potrebbe fare pensare a quei cortili delle locande così importanti per il teatro elisabettiano o del Siglo de Oro. Qui gli spettacoli si svolgono su piccoli palcoscenici di legno, alla bisogna scenografati con vecchie assi colorate. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare due allestimenti sorprendenti, due generi agli antipodi ma che ben raccolgono l’attitudine popular del festival e di Stivalaccio. (Andrea Pocosgnich)

ATTACCHI DI SWING (di e A. Mori e C. Caruana)

Siamo ancora nel cortile di Palazzo da Schio, sulle assi di legno, al centro, c’è anche una abat-jour, di quelle eleganti, da vecchio locale in cui ascoltare buona musica, su due piccole sedie stanno i protagonisti di quello che doveva essere uno spettacolo concerto e che invece diventerà in poco tempo una geniale e incontenibile clownerie musicale di altissimo livello. A sinistra Alessandro Mori, con un baffo che non lascia supporre nulla di buono, a lui i fiati. Tutti, dal clarinetto al sassofono passando per la tromba e per il flauto dolce, sì proprio quello di plastica che ha rappresentato l’incubo di tante e tanti di noi alle scuole medie. A destra, quasi impassibile, se non fosse per certi sorrisi complici, Corrado Caruana, accompagna alla chitarra lasciando di stucco il suo compagno e il pubblico con assoli cristallini e virtuosistici. Mori inanella un numero dopo l’altro trasformando una serata di swing in un travolgente e inatteso spettacolo di teatro-circo in cui la serietà dei pezzi musicali viene interrotta continuamente da strumenti che stonano e devono essere sostituiti o riparati - accade con il flauto dolce, del quale ne escono almeno quattro o cinque esemplari o con una tromba che viene saldata in scena con una stella filante. C’è un’ironia poi, surreale, sulla seriosità della creazione artistica: i brani annunciati sono sempre stati scritti a quattro mani, durante vacanze in montagna o altre situazioni assurde. Intanto il pubblico, in preda alle risate e allo stupore, si chiede se la bottiglia appoggiata sul tavolino - gentilmente fornita dall’azienda agricola da Schio, come viene spiegato più volte nell'ennesima gag comica - sia piena di vero vino o meno. I due bevono senza pietà, ma la musica non si ferma mai, anzi esplode nel finale quando al pubblico vengono consegnati piccoli strumenti con i quali continuare a suonare e a tenere il tempo. In platea ci si guarda stupiti e pieni di gioia. Il teatro è una festa. (Andrea Pocosgnich)

Visto nel cortile di Palazzo da Schio, Be Popular Festival. Di e con Alessandro Mori e Corrado Caruana Coproduzione Teatro Necessario

LA MANDRAGOLA (regia Michele Mori)

È pressoché impossibile trovare il testo teatrale più famoso di Machiavelli in un cartellone: La Mandragola ha bisogno di inventiva comica e di un linguaggio in grado di adattare l’italiano antico. Scritta tra il ‘14 e il ‘15 del Cinquecento, andò in scena per la prima volta pochi anni dopo e fu pubblicata nel ‘24, secondo Voltaire valeva più di tutta l’opera di Aristofane, e Goldoni ammise di averla letta decine di volte da giovane; iperboli a parte l’intreccio scritto dall’autore del Principe può vantare un’ambientazione unica per gli esempi dell’epoca: siamo infatti nella Firenze contemporanea e non in una Magna Grecia lontana nel tempo, qui il giovane Callimaco si innamora di una donna sposata che non riesce ad avere figli col suo vecchio e probabilmente infertile marito, Nicia. Michele Mori, regista e autore dell'adattamento, inventa un prologo a Parigi e un fantastico viaggio a Firenze che avviene grazie a un improbabile aeroplano inventato da Leonardo Da Vinci e poi omaggia Dante che appare con i versi della sua opera più famosa quando Callimaco (nella ricca interpretazione di Francesco Lunardi) dovrà vestire i panni di un dottore e avrà bisogno dunque di una lingua colta. Con Stivalaccio il testo fa un salto di qualche decennio divenendo un canovaccio da commedia dell’arte, con tanto di maschere ad opera di Stefano Perocco di Meduna e Tullia Dalle Carbonare - fenomenali il Nicia/Pantalone veneziano di Elia Zanella e il Ligurio campano di Pierdomenico Simone e una scenografia semplice (ad opera di Alvise Romanzini) ma capace di stupire in alcuni momenti. Nei costumi, un po’ storici e un po’ da guitti circensi, di Licia Lucchese ci sono i corpi di quattro attori giovani, con i quali la compagnia vicentina ha voluto cominciare un progetto di rinnovamento e di passaggio del testimone comico, guidati dalla presenza talentuosa ed esperta di Simone. Il risultato è la riconsegna alle nostre scene di un pezzo di storia della drammaturgia teatrale che riprende vita con una notevole capacità comica e la solita meticolosa e artigianale ricerca di Stivalaccio.(Andrea Pocosgnich)

Visto nel cortile di Palazzo da Schio, Be Popular Festival. Con Pierdomenico Simone /Ligurio e con gli attori e le attrici della compagnia giovani Francesco Lunardi / Callimaco Elisabetta Raimondi Lucchetti in alternanza con Francesca Boldrin / Lucrezia Daniela Piccolo /Fiammetta Elia Zanella / Nicia regia e canovaccio Michele Mori scenografia e attrezzeria Alvise Romanzini maschere Stefano Perocco di Meduna, Tullia Dalle Carbonare costumi Licia Lucchese disegno luci Matteo Pozzobon coreografie acrobatiche Giulia Staccioli arrangiamenti musicali Pierdomenico Simone assistente alla regia Benedetta Carrara

ULTIMI ARTICOLI

Fondato da un attore per gli attori. Sul San Ferdinando, intervista...

È appena terminato l’anno che ha segnato il ricorrere di un doppio anniversario: il quarantesimo della morte di Eduardo De Filippo e il settantesimo...