KASSANDRA (di S. Blanco, regia M. V. Bellingeri)
Kassandra è rimasta incastrata nel tempo, un presente infinito in cui la sua capacità divinatoria non importa a nessuno, sottovalutata dalla Storia stessa. Eschilo, Sofocle e Euripide sono accusati di non essere stati in grado di raccontare la vera storia di questo personaggio che ora si manifesta su un palcoscenico tutto suo nelle vesti di una prostituta straniera dalla sessualità ambivalente. Chiunque di noi abbia letto Le Troiane ha immaginato una donna sottomessa e delirante, isterica, fragilmente invasa da un potere troppo grande da sostenere. Il corpo della Kassandra ideata dal drammaturgo Sergio Blanco e dall’attrice Roberta Lidia De Stefano è invece vitale, non si arrende alla narrazione mitologica. Diretta da Maria Vittoria Bellingeri la performer, poliedrica e istrionica, mescola diversi linguaggi - il canto, una danza scomposta, la musica elettronica - e riferimenti che vanno dagli Abba a Bugs Bunny. Parla in un inglese esperanto malconcio, della strada, dentale che ce la fa apparire come lo stereotipo della straniera clandestina. La scena è tutta lì: una smart nera, due barre led magnetiche che all’occorrenza le illuminanano il volto truccato, un microfono e una tastiera, la latta del tabacco Marlboro tanto grande da essere usata come sgabello. In un gioco continuo di seduzione e distacco con il pubblico, Kassandra rivive la guerra di Troia, brutale e inutile come tutte le guerre, da lei prevista molti anni prima quando, inascoltata, aveva chiesto di allontanare il fratello Paride, artefice primo della guerra. Rivive la morte del padre e del fratello per mano degli Atridi, il suo arrivo presso Micene come concubina di Agamennone e le ferite mortali inflitte dalla sua assassina Clitemnestra. E lo fa grottescamente rivendicando il proprio valore, mostrandosi, usando il suo corpo per calamitare la nostra attenzione sulla sua verità. Ridiamo, soffriamo, siamo travolti da lei che, nel salutarci, si prepara a una nuova morte prevista. La sua tragedia ha subito una rivoluzione. (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: di Sergio Blanco con Roberta Lidia De Stefano regia, scene e costumi Maria Vittoria Bellingeri musiche originali Roberta Lidia De Stefano luci Andrea Sansonassistente alla regia Greta Bertani produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
ECLISSI (Balletto Civile)
Parla del buio ma è una celebrazione del sole. Grida la paura e l’esclusione di una intera generazione, nella solitudine che è prigione di mille demoni. Ma è generazione che rivendica anche il diritto alla felicità, nonostante il vedersi storti, sentirsi sbagliati, additati come mancanti : perché «siamo fatti male». Eclissi di Balletto Civile, con la coreografia e la regia di Michela Lucenti, il testo scritto quasi in diretta con la creazione scenica e con vero ardore da Maurizio Camilli ed Emanuela Serra, descrive un gruppo di giovanissimi interpreti under 35 all’uscita di un rave all’alba, mentre salgono su una collina per osservare un raro fenomeno. Per un momento la luna transiterà davanti al sole, oscurando completamente la terra: è un’eclissi totale. Ed è lo scompiglio. Il tutto avviene sopra le teste di Fabio Bergaglio, Leonardo Castellani, Giovanni Fasser, Confident Frank, Michele Hu, Thybaud Monterisi e Carla Vukmirovic. Questa esperienza visiva dell’ignoto è disegnata nelle luci da Stefano Mazzanti, mentre il mondo sonoro live è dello stesso Monterisi (leader dei Mont Baud), che qui ha una presenza vibrante e anche piena di inquietudini, perfettamente sincronizzate con il mood post-apocalittico dell’intero gruppo. È una esperienza che fa scoppiare mille dinamiche, dai rischi della noia che incombe, le identità sempre in bilico, gli affondi delle paure per un futuro che si nasconde. È incredibile come, in scena, Lucenti riesca a combinare in modo alchemico presenza attoriale e intensità del movimento, sempre coreografato, sempre esigente, spesso corale, capace di dare voce e parola senza opprimere né sopraffare. Sembra un teatro danzato che nasce come da sé, nelle forme condivise di una esperienza collettiva. Una menzione a parte merita Carla Vukmirovic, che se la cava benissimo in mezzo a questa marmaglia di scioperati, all’inizio come guida per noi («La notte di cui vi parlo è stata lunga e distorta. È andata più o meno così»), poi in una versione acida e da brividi di Cry Baby, prefigurando risposta a difficile domanda: «Quando usciremo da questo buio?». (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: coreografia e regia Michela Lucenti drammaturgia Maurizio Camilli, Emanuela Serra in scena Fabio Bergaglio, Leonardo Castellani, Giovanni Fasser, Confident Frank, Michele Hu, Thybaud Monterisi, Carla Vukmirovic disegno luci Stefano Mazzanti musiche originali e disegno sonoro dal vivo Thybaud Monterisi costumi Chiara Defant assistenza alla coreografia Alessandro Pallecchi assistenza alla messa in scena Giulia Spattini produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Balletto Civile, Oriente Occidente con il sostegno di SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione – Progetto Habitat
VARIAZIONI ERNAUX (di F. Fava, regia A. P. Vellaccio)
Frutto della fusione sapiente tra tre “racconti” a carattere romanzesco e autobiografico, scritti dalla vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2022, Annie Ernaux – da cui il titolo –, Variazioni Ernaux si presenta come una narrazione in sequenze alternate. I tratti che compongono la ricorrente codipendenza affettiva della protagonista, come variazioni in un tema musicale, vengono distribuiti su tre voci (Francesca Fava, Arianna Ninchi, Anna Paola Vellaccio) che la colgono in momenti molto diversi della sua vita: dalla gioventù segnata da un matrimonio precoce e sogni rinchiusi in un cassetto, a una piena età adulta di riscoperta di una forza passionale tale da ingabbiare , fino a una maturità rifiutata nel perseguire una relazione con un uomo di trent’anni più giovane. Essenziali gli elementi che abitano la scena: un tavolino con sopra un telefono fisso che non squilla mai, funesto memento di una chiamata mai ricevuta; un letto con coperte satinate dove si consumano intensi pomeriggi di passione e si rievocano momenti di intimità passati, alla luce di un abat-jour; un tavolo da cucina plasticoso su cui sono disposti oggetti che appartengono a una vita coniugale non voluta, ma anche libri e una macchina da scrivere, che in sé costituiscono un tenace aggrapparsi ai rimasugli della propria ambizione. A fare da contraltare, una voce maschile registrata e incorporea, presenza-assenza ingombrante di un uomo, che sia un marito che non collabora in casa pur predicando la parità dei sessi, o uno straniero affascinante con cui intrecciare un rapporto clandestino, o ancora, un ragazzo sbarbato che non restituisce che la duplicità di una vita già vissuta. Ernaux non rinnega la sua esperienza passata, l’amore che si fa collana di perle stretta intorno al collo come un cappio, e il modo in cui l’ha avvicinata al limite che la separa dall’altro, ma ne fa tesoro, per “entrare nel secondo millennio da donna forte e libera”, non dalla possibilità di innamorarsi ancora, ma dalla schiavitù nei rapporti. E riappropriarsi, così, di quel collier, che torna ad essere un semplice bijoux. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse. Crediti: dall’opera letteraria di Annie Ernaux traduzioni Lorenzo Flabbi, Idolina Landolfi da un’idea di Francesca Fava drammaturgia Francesca Fava, Arianna Ninchi, Anna Paola Vellaccio con Francesca Fava, Arianna Ninchi, Anna Paola Vellaccio regia Anna Paola Vellaccio assistente alla regia Chiara Sanvitale cura di Giulia Basel costumi Miriam Di Domenico luci Andrea Micaroni fonica Globster grafica Clarice produzione Florian Metateatro – Centro di Produzione Teatrale
FUCKED (regia di M. Glenda)
Penelope Skinner nel 2008 si impone all’attenzione della critica e delle scene britanniche con Fucked, spettacolo proposto in versione italiana al Teatro Belli nell’ambito di Trend, longeva rassegna dedicata alla nuova drammaturgia britannica. Chiarastella Sorrentino è F. La troviamo in scena, abito celeste chiaro e capelli biondi raccolti in trecce, intenta a leggere su un diario i propri sogni di bambina, quelli in cui una principessa aspetta che l’amore di un principe azzurro venga a salvarla. Chiuso il diario, F. comincia a raccontare com’è andata in realtà: la sua vita non è stata il tentativo di ribellarsi a questo schema, ma il ritrovarcisi dentro suo malgrado, reiterando dinamiche di potere in cui i carnefici non sono mai davvero definiti tali, così come lei non si sente mai davvero vittima. Su una piattaforma quadrata campeggia una struttura in plexiglass, il camerino/ lavagna della protagonista che da un ipotetico oggi – il presente dell’autrice, 2008 - percorre a ritroso le tappe della propria vita sentimentale e sessuale. Ogni tappa è associata a una parola chiave che definisce la traiettoria della protagonista sotto quell’implacabile male gaze: la vita di F. ha una sola direzione, da vergine a puttana. Il monologo, animato da Sorrentino con freschezza e ironia, guidato in una regia essenziale e pulita da Martina Glenda, è il racconto di un’educazione sentimentale e sessuale oggi forse appesantito dai sedici anni d’età del testo. Se i condizionamenti della società patriarcale sulla donna sono ancora lontani dall’essere sradicati, questa narrazione probabilmente dirompente ed esplicita nel 2008 oggi non arriva a mettere sotto una luce nuova la questione. A partire dal titolo stesso: Fucked, aggettivo di per sé volutamente ambiguo e descrittivo della parabola del personaggio, contiene il giudizio su una donna raccontata solo sulla base delle sue relazioni eterosessuali, senza davvero fornire allo spettatore la chiave per allontanare il proprio sguardo da questa definizione. (S. Fasanella)
Visto al Teatro Belli / Trend – Nuove Frontiere della scena britannica XXIII edizione di Penelope Skinner con Chiarastella Sorrentino. Regia Martina Glenda. Traduzione Francesca Romana degl’Innocenti e Marco M. Casazza. Scene Sara Palmieri. Aiuto regia Arianna Cremona. Consulenza progetto sonoro Matteo Domenichelli. Voce fuori campo Giuseppe Brunetti. Direttore di scena Giovanni Piccirillo. Foto locandina Anita Martorana. Produzione Compagnia Mauri Sturno
VOICE NOISE (Jan Martens)
«I’m no one ‘s Little girl Oh no, I’m not / I’m not gonna be - Cause I don’t wanna be / I never shall be on your family tree - even if you ask me to / I’m gonna turn you down.» I performer di Voice Noise (sul palco dell'Argentina per Romaeuropa Festival) scandiscono queste frasi a turno, come una sorta di esergo in calce allo spettacolo, prima di iniziare, prima di far partire il jukebox pensato dal coreografo belga. Comincia con una presa di posizione, una postura verso il mondo e verso le relazioni, un no alla possessione patriarcale: non sarò tua. Jan Martens mette in fila 13 musiciste e interpreti vocali (e un gruppo), donne, dagli anni 30 ai giorni nostri e ispirato dal saggio The gender of sound di Anne Carson libera voci rimaste nell’ombra. Non c’è filtro rappresentativo, i danzatori e le danzatrici saluteranno il pubblico all’inizio e alla fine dello showcase, non c’è difatti neanche una scenografia se non quella fornita dai nudi spazi del palco de Teatro Argentina, una piattaforma perimetra l’azione dando modo ai performer non chiamati nelle singole coreografie di attendere fuori. Ma è spesso la relazione tra quello spazio e il fuori a creare suggestive tensioni di corpi in attesa o in procinto. Ogni opera vocale avrà un’interpretazione, soli passi a due o lavori di gruppo e oltre al punto politico ciò che emerge è proprio la relazione tra la musicalità e il movimento: nei corpi che seguono con gesti netti e precisi il ritmo oppure in quelli flessuosi che stanno dentro al suono senza agganciarsi al beat. Alla semplicità della confezione spettacolare corrisponde una nettezza politica e una complessità interna evidenti. Al pubblico inoltre viene consegnato un pieghevole con dei brevi riferimenti testuali su ogni artista citata, un programma attraverso il quale è possibile riscoprire l’ascolto in un secondo momento: al centro c'è sempre la condizione femminile, fino all’esplosione con Il coro delle mondine di porporana di cui ascoltiamo una versione di Bella ciao del 2019 riscritta attraverso il tema del femminicidio.
(Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argentina, Romaeuropa Festival 2024.Coreografia: Jan Martens, Co-creazione e performance: Elisha Mercelina, Steven Michel, Courtney May Robertson, Mamadou Wagué, Loeka Willems, Sue-Yeon Youn e/o Pierre Adrien Touret, Zora Westbroek Musica: Direttore delle prove: Zora Westbroek Disegno luci: Jan Fedinger Costumi: Sofie Durnez Scenografia: Joris van Oosterwijk Realizzazione dei costume e della scenografia: Théâtre de Liège Internazionalizzazione: Malick Cissé Consulenza artistica: Marc Vanrunxt, Rudi Meulemans, Femke Gyselinck Trailer e Teaser: Stanislav DobákGraphic Design: Nick Mattan. Crediti completi di musiche
JOANNA KAROL PAUL (di Giulia Massimini)
Stanno subito in scena i tre attori, con la luce accesa; sono in posizione aggressiva e disposti in un triangolo con il vertice rivolto verso la platea. Joanna Karol Paul: sono tre adolescenti la cui sequenza dei nomi diviene, al pronunciarli, una musica via via indistinguibile, tanto da non rendersi più conto quale ne sia l’ordine. Joanna (Giovanna Giardina) ha scelto il nero, dei capelli e degli abiti, tiene un diario di tutto, la sua vita non è ancora del tutto sbocciata e, forse per capirla, la affronta con la scrittura e scattando delle foto; Karol (Ilaria Ballantini) è invece dinamica, ha i capelli colorati e un’energia più esplosiva, fa esperienza diretta delle cose fino a prendersene tutti i pericoli; Paul (Andrea Triaca) è l’altro, l’elemento detonante che romperà l’equilibrio delle due amiche ma anche l’effetto tempestoso che le farà crescere, eppure allo stesso tempo un ragazzo fragile che vuole inserirsi in quel legame, perché di legame, d’amore, ha bisogno. Nel testo di Giulia Massimini, che ne cura anche la messa in scena allo Spazio Diamante, emerge fortemente il desiderio di cogliere questi tre adolescenti, privi della quotidianità e delineati attraverso caratteri stilizzati, in un punto di svolta che li porterà a una fase di adultizzazione forse traumatica ma decisa. La scena è vuota, se si eccettua la loro presenza e alcuni elementi modulari di geometrie e tessuti, agiti dagli attori per proporre delle variazioni utili all’evoluzione drammaturgica; solo un microfono, talvolta, si impossessa delle loro voci per amplificarle. L’assunto di partenza di Massimini è un preciso indicatore: il triangolo instabile muta continuamente il proprio vertice, stringe e allarga i propri lati come pareti fluttuanti, come elastici che tracciano le distanze tra un personaggio e l’altro; soltanto, con l’andare della storia, alcuni elementi diventano meno utili – la droga, la minaccia della maternità precoce, ad esempio – sembra si perda il fuoco di quella relazione conturbante e distruttiva, si confonde appena l’obiettivo ultimo del loro incontinente ingenuo amore. (Simone Nebbia)
Visto allo Spazio Diamante. Crediti: Testo e regia di Giulia Massimini; con Ilaria Ballantini, Giovanna Giardina, Andrea Triaca; disegno luci di Alessia Giglio | musiche a cura di Maria Chiara Massimini; produzione Piracanta Teatro e lacasadargilla
NOCCIOLINE (di F. Paravidino, regia R. Carpentieri)
Siamo negli anni ’90. All’interno di una ricca abitazione essenziale nei suoi ambienti, ridotti a pochi pannelli sollevabili, decorati all’antica e curati dagli allievi dell’Accademia di belle Arti, dodici adolescenti cercano di organizzare una festa. Gli ostacoli non sono pochi: primo tra tutti, la casa non è la loro, e le differenze caratteriali li conducono spesso al litigio. Sul retro di un grosso televisore a muro, vengono scanditi i tempi di rappresentazione che si suddividono in ventitré scene in due atti; ogni scena segnala, all’interno delle relazioni, i nuovi assetti politici e sociali della globalizzazione, delle leggi di mercato e in quelle in materia di confini nazionali. Terminato il primo atto, ci si ritrova dieci anni dopo, con un semplice cambio di pannelli, in carcere. I personaggi sono gli stessi, ormai adulti, e ognuno si ritrova a essere, chi assecondando la propria indole e chi stravolgendo il proprio carattere, detenuti o carcerieri. È stata una sorpresa trovare la sala del San Ferdinando quasi vuota alla prima di Noccioline: un testo che può essere ritenuto sovversivo. Lo era già nel 2001, quando Fausto Paravidino lo scrisse sotto commissione del Royal National Theatre di Londra. È stato più volte ripetuto che Genova è stato uno spartiacque nella storia del nostro paese. Evidentemente con troppa poca energia se col nuovo Decreto Sicurezza il rischio è quello di introdurre lo stato di polizia. In scena, i dodici attori, allievi della Scuola del Teatro Nazionale di Napoli, vengono diretti da Renato Carpentieri con una regia che rispetta in maniera filologica il testo originario del drammaturgo ligure, e restituiscono una gran precisione nell’interpretazione, forse troppo sopra le righe nei suoi aspetti comici rispetto quelli drammatici, che invece hanno maggiore equilibrio ed efficacia. Questo però è un testo che ha valore se ha una sala gremita di arrabbiat*, se la regia è di un* giovan* arrabbiat*, se urla invece di compiacere pochi divertiti, se è all’interno di una manifestazione culturale che ha davvero valore per tutta la città che l’ospita. (Valentina V. Mancini)
Visto al Campania Teatro Festival. Crediti: Di Fausto Paravidino; Regia Renato Carpentieri; Con gli allievi della Scuola del Teatro di Napoli Triennio 21 – 24 Claudio Bellisario, Sabrina Bruno, Serena Cino, Nicola Conforto, Arianna Iodice, Eleonora Limongi, Claudia Moroni, Alfredo Mundo, Davide Gennaro Niglio, Gaia Piatti, Matteo Sbandi, Sharon Spasiano; Aiuto regia Antonio Marfella; Scene Arcangela Di Lorenzo; Luci Cesare Accetta; Costumi Roberta Mattera; Realizzazione scene a cura degli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli; Sarta Annalisa Riviercio; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale; Spettacolo in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival.
ALPE ADRIA PUPPET FESTIVAL
Gorizia si sta preparando all’appuntamento del 2025, quando assieme a Nova Gorica sarà capitale europea della cultura. La Piazza transalpina, che le due città condividono e che è il simbolo di un confine poroso, attraversabile, lontano anni luce dalle frontiere rigide del Novecento, è in questi giorni un grande cantiere. L’obiettivo di “Go! 2025” è pensare le due entità, italiana e slovena, come una sola città. Ma a tradurre in pratica questo concetto ci pensa da oltre trent’anni un festival che ha scelto il teatro di figura come linguaggio centrale, proprio per superare le barriere linguistiche. L’Alpe Adria Puppet festival apre i battenti nel 1992, mentre in ex Jugoslavia infuria la guerra, e certamente questa manifestazione rappresenta una forma utopica, perché non solo immagina il teatro come una forma di attraversamento dei confini (linguistici e geografici), ma lo pratica come forma di dialogo in anni in cui sembra il dialogo tra le diversità culturali e linguistiche sembra essere impraticabile. Oggi Nova Goriza e Gorizia si pensano già come una sola città, anche grazie a progetti come quello delle piste ciclabili (raccontate dall’assessora goriziana durante l’inaugurazione del festival) che si snodano lungo i territori italiano e sloveno senza limitazioni. Ma grazie a una delle passeggiate teatrali immersive, dedicata all’architettura, scopriamo che in realtà le due città si sono sempre “pensate” come una sola. “Come due sorelle”, con i testi e la regia sonora di Claudio Parrino, ripercorre la storia la storia di Gorizia a partire dalla sua ricostruzione, dopo la Grande Guerra, e la fondazione di Nova Gorica come baricentro amministrativo sloveno: nonostante la nascita “oltre confine” la nuova città venne pensata già come estensione di quella storica. La passeggiata vera e propria non ha avuto luogo per via di un nubifragio, ma le storie sono state comunque ascoltate al chiuso, ripercorrendo le vie attraverso sequenze fotografiche. Non solo piazze ed edifici però, perché al centro dell’ascolto ci sono le storie delle persone, memorie che restituiscono le tante fratture che hanno caratterizzato questi territori (come la vicenda di una donna, moglie di un irredentista sloveno, che racconta gli anni di persecuzione subiti dalla sua famiglia). Semplici, efficaci e coinvolgenti, le passeggiate sonore sono uno strumento prezioso per attraversare la complessità storica, politica e linguistica di questo territorio. (Graziano Graziani)
LOUIS (Carola Maternini) / KIDRIČEVA 29C (Martin Mlakar)
C’è un filo rosso che lega alcuni degli spettacoli in programma: la fragilità. Il teatro di figura conosce molte forme – pupazzi da tavolo, marionette, oggetti animati – accomunate dal rapporto che la figura intrattiene con l’animatore, assente dalla narrazione ma presente con il corpo: un rapporto che alle volte sembra quasi di accudimento. Nello spettacolo Luis, di Caterina Materinini, questa relazione diventa elemento drammaturgico: Luis si sveglia nel cuore della notte e si accorge che gli manca un braccio; per fare i conti con questa amputazione intreccia un dialogo a volte malinconico e a volte comico con il dottore e con la madre, figure fantasmatiche, forse immaginarie. Metafora raffinata del lutto, lo spettacolo scioglie nella comicità la fragilità del pupazzo-personaggio e rende più “pronunciabile” il dolore dell’assenza. In Kidričeva 29c (uno dei lavori più interessanti) Martin Mlakar dà appuntamento al pubblico a casa di suo nonno, in un appartamento di Nova Gorica, dove recita in sloveno un monologo che ne racconta la storia. Anche in questo caso, più ancora che la vicenda raccontata, è la presenza-assenza la protagonista del racconto: ogni oggetto animato evoca la figura assente, dai libri del salotto alla statua del partigiano, fino a che questa si materializza davvero grazie a una giacca e un bastone, mossi e adagiati tra la poltrona e il divano. Il giovane nipote in carne e ossa, che si muove in uno spazio della memoria familiare, finisce per accudire la figura assente del nonno come se si trattasse di un bambino (e in fondo questa inversione dei ruoli è quanto il tempo ci consegna ogni volta che un corpo invecchia e si palesa la sua fragilità). L’appartamento di edilizia socialista offre allo sguardo uno spaccato reale e un piccolo viaggio nel tempo: l’atmosfera che si respira tra gli arredi e gli oggetti finisce per costituire uno degli elementi più affascinanti e coinvolgenti dell’opera e dell’intero festival. (Graziano Graziani)
Crediti e cast completi: https://puppetfestival.it/
CONTIMI, CRASIGNE… (S. di Blasio e C.Tolazzi) / SCHATTENWERFER (Tangram Kollektiv)
L’Alpe Adria Puppet festival prende il nome dall’omonima comunità sovranazionale che riuniva un’ideale arco alpino mitteleuropeo dalla Lombardia all’Ungheria. Oggi la comunità non esiste più, ma il concetto di una regione plurilinguistica è tuttora stimolante, perché ci interroga su come rapportarci alle radici in un contesto di mutate relazioni tra i popoli, che vivono spazio globale, con confini meno rigidi e integrati nel comune spazio europeo. Proprio per questo il lavoro Contimi, Crassigne…, prodotto dal Teatri Stabil Furlan, lo stabile del Friuli, ha posizionato un ulteriore interessante tassello nel panorama offerto dal festival. Lo spettacolo scritto da Serena di Blasio e Carlo Tolazzi vede in scena due pupazzi, Gaia, una bambina curiosa che si è persa nel bosco, e l’anziano e scorbutico nonno Iaroni (animati da Giulia Consolo e Daniele Fior). La lingua friulana gioca un ruolo fondamentale nel rapporto tra le due generazioni, poiché se la bambina usa maggiormente l’italiano il nonno Iaroni si esprime solo nella lingua locale per raccontare le sue storie. Tratte dalle Metamorfosi di Ovidio, le storie nascono di volta in volta dall’animazione degli oggetti contenuti nella “crassigne” di nonno, e cioè la gerla tipica dei “cramârs”, i commercianti ambulanti di queste zone. Il panorama poi si allarga oltre il confine italo-sloveno, arrivando in Germania con la compagnia Tangram Kollektiv: lo spettacolo Schattenwerfer – sicuramente uno dei più compiuti tra quelli in programma – è un raffinato, divertente ed estremamente dinamico teatro d’ombre, dove le due animatrici costruiscono una serie di relazioni impreviste tra corpo e ombra, alterando dimensioni e forme per risignificare costantemente le sagome proiettate. A ogni nuova soluzione si apre un elemento che sorprende e diverte, ma che costituisce anche uno scarto drammaturgico, in grado di portare lo spettatore all’interno di relazioni corpo-ombra inedite e impreviste. Grazie all’attraversamento di spazi diversi – dal Kulturni Dom al Kulturni Center, i teatri della minoranza slovena a Gorizia, passando per il circolo arci Gong – e alle passeggiate teatrali, il Puppet festival si rivela anche un’occasione per conoscere Gorizia e la sua storia, che ci parla delle tragedie del Novecento, è vero, ma è ricca di interrogativi centrali anche per il nostro presente. (Graziano Graziani)
Crediti e cast completi: https://puppetfestival.it/
QUI SOM? (Baro d’evel)
Gentili Baro d’evel, vi parlo a nome della città di Roma, in cui avete appena portato Qui som?, precisamente al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival. Ecco, vedete, vorremmo chiedervi una cosa: non è che potreste ricominciare da capo? No perché l’energia trascinante, l’intelligenza e la sapienza tecnica che avete riversato sul palco, in mezzo alla platea, fuori dal teatro, sono qualcosa di così raro e soprattutto, sapete, finiti questi mesi festivalieri ci aspetta ben poco con cui misurare le nostre urgenze di grandiosità artistica. Tredici attori, ma anche danzatori, cantanti, musicisti, performer, insomma tredici a fare di uno spettacolo (in – almeno – quattro lingue) la materia viva per riempire ogni angolo del teatro (con qualche uscita dai margini, sulla strada di fronte). C’è un elemento che sopra ogni altro sembra prendere corpo nella creazione di Baro d’evel: gli avvenimenti, ossia il tempo e lo spazio in cui si manifesta la relazione tra cose e persone, sembrano come cambiare di stato e gli oggetti tramutarsi in corpi vivi, o l’inverso; ne è un esempio tra tanti la scena di una danza nel fango, in cui sembra che sia proprio il fango stesso a divenire danza, oppure un Leviatano peloso che danza a modo suo ondeggiando su sé stesso, che occupa tutto il fondale, diventa un mare che restituisce indietro i rifiuti di plastica (ah, se davvero potesse!), sembra insomma che l’informe e dinamico infinito possa fare il percorso inverso e farsi misura del finito, ossia che renda pensabile l’impensabile. E non è per questo che l’essere umano ha in dotazione l’arte? Per un atto di superbia, forse. Sostituirsi a un’entità creatrice. Ma nel passaggio di stato c’è un altro elemento ricorrente: la situazione nasce da una buffoneria, un meccanismo comico lascia via via crescere una imprevedibile e radicale profondità; in tal modo si riesce a parlare di guerra a partire da quella danza del fango in cui si scivola e si fa scivolare qualcuno, raggiungendo poi una compattezza tribale che ordina i moduli coreografici nel nitore arioso del canto. L’ultima frase del testo recita: “Non è il pieno, è il vuoto, è quel che resta dopo che è difficile”. Ecco, appunto, non potreste rifarlo da capo? (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Argentina. Crediti: Autori: Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias; Con Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Camille Decourtye, Miguel Fiol, Dimitri Jourde, Chen-Wei Lee, Blaï Mateu Trias o Claudio Stellato, Yolanda Sey, Julian Sicard, Marti Soler, Maria Carolina Vieira, Guillermo Weickert; Collaborazione alla regia: Maria Muñoz – Pep Ramis / Mal Pelo; Collaborazione alla drammaturgia: Barbara Métais-Chastanier; Scenografia e costumi: Lluc Castells; Disegno luci: Cube / María de la Cámara et Gabriel Pari; Collaborazione musicale e creazione del suono: Fanny Thollot; Collaborazione musicale e composizione: Pierre-François Dufour
OTELLO (Regia di Luigi Siracusa)
All’entrata del Cometa Off c’è il capannello nutrito, quello dei sold-out. Volti giovanissimi in platea e giovani in scena: c’è un Otello, Shakespeare per 6 attori e attrici, cosa rara in città, nei piccoli teatri (ma talvolta anche nei grandi). Lo dirige Luigi Siracusa, regista diplomato alla D’Amico con attori provenienti dallo stesso percorso. Una scenografia costituita da alti e bianchi pannelli di legno chiude la scena su tre lati (dove verrà proiettato il volto di Desdemoma), una sola entrata su quello di sinistra che non verrà mai usata, anche perché gli attori, secondo l’usanza registica ormai maggiormente in voga (e dunque a rischio cliché), non escono mai. Nel piccolo spazio della sala testaccina il palco è in gran parte occupato da un letto matrimoniale lasciato in disordine, ai piedi del quale si trovano vestiti, effetti personali, biancheria intima e perfino un pallone da basket. D’altronde l’ambientazione è contemporanea, gli attori vestono eleganti completi blu con tanto di fascia e un gilet per Otello; un vestito azzurro con ampia gonna in tulle per Desdemona e un blu scuro aderente per Emilia, come fossero appena usciti dalla festa di matrimonio del generale e della giovane veneziana. Lo spettacolo comincia con una sorta di coreografia: Desdemona trascina Otello sul letto, il quale scende e si allontana per poi ritornare, negli occhi e in quel rifiuto c’è già il finale della tragedia. Gli interpreti sono bravi a tessere la trama invisibile di gesti, stati d’animo e presenze emotive proprio quando i loro personaggi dovrebbero essere assenti dalla scena, come nel caso di Desdemona bendata o dei piccoli canti di Emilia e di quel ritmo frenetico a suon di dita schioccate. Siracusa manovra bene questo dispositivo, in alcuni casi con interessanti trovate sceniche, i tentennamenti sono però visibili quando testo e recitazione rischiano di appiattirsi troppo sul quotidiano perdendo la strada della poesia shakespeariana. Credibile e realistico il finale violento, con le mani di Otello che sul letto strangolano Desdemona a favore di platea, non si può non pensare ai femminicidi in Italia (già 65 nel 2024). (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Cometa Off. Crediti di William Shakespeare Regia e adattamento di Luigi Siracusa Con Francesco Sferrazza Papa (IAGO) Zoe Zolferino (DESDEMONA) Gianluigi Rodrigues (OTELLO) Laurence Mazzoni (CASSIO) Luca Carbone (RODERIGO) Eleonora Pace (EMILIA) Scena Francesco Esposito e Luigi Siracusa Costumi Francesco Esposito Luci Pasquale Mari produzione Goldenart Production e Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Foto Manuela Giusto
AGE (2024) (CollettivO CineticO/Francesca Pennini)
Dodici anni sono passati dallo studio di CollettivO CineticO, Francesca Pennini, che per il Progetto Speciale 2012. Ripensando Cage presentava un primordiale embrione di una ricerca che in questi anni abbiamo visto mutare, interrogarsi, ibridarsi e che, all’epoca, trovava nella casualità di Cage un preciso “disordine ordinato”, volto a delineare pratiche, pensieri e successive creazioni. In questa edizione di REF24, incontriamo nuovamente quelle semantiche, stavolta al Teatro India: tra il rigore di una sequenzialità scientifica e l’impostazione ludica, prima si presentano gli elementi scenici inanimati: computer, gong piccolo e grande, panche, bottigliette d’acqua, un tavolo e una sedia – poi i 9 «giovani esemplari di esseri umani tra i 15 e i 19 anni», all’interno di una struttura drammaturgica suddivisa in quadri/tavole. Ognuna di esse, proiettate in ordine casuale sullo schermo, pone dei quesiti agli esemplari che in base alla loro volontà definitoria si alzeranno dalle panche e, con la loro presenza, si rappresenteranno alla platea. Il pubblico potrà allora iniziare a conoscerli immaginando biografie parziali e potenziali. L’impronta autoriale data al progetto è decisiva e quasi ingombrante, sopratutto quando gli esemplari sono chiamati a imitare Pennini, e diventa escludente quando si cita il lavoro di Marco D’Agostin: boutade colta solo da coloro che hanno visto lo spettacolo dell’artista performer e/o conoscono la sua poetica. Se la parte iniziale è molto lenta, i successivi 40/45 minuti diventano un divertente album fotografico di una generazione, non solo di adolescenti però: nel fissare quei corpi – senza escludere una certa componente di morbosità nostalgica – potremo pensare a come eravamo noi, come siamo, cosa avremmo voluto, o cosa siamo ancora in tempo, di voler essere. La scena sembra infatti un grande tavolo da still life sul quale si presenta una giovinezza fuggevole, caduca: una sequenza di scatti che imprimono la vitalità di quell’attimo e lo consegnano già al passato. (Lucia Medri)
Visto al Romaeuropa Festival Teatro India: regia e coreografia: Francesca Pennini; drammaturgia: Angelo Pedroni, Francesca Pennini; azione e creazione: Nicola Cipriano, Piero Cocca, Francesco Gelli, Giulio Mano, Beatrice Monesi, Alice Ada Petrini, Nicole Raisa, Sofia Russo, Adele Verri; cura e organizzazione: Matilde Buzzoni, Carmine Parise. Foto di Pietro Tauro
STORYGRAM (Collettivo Socrates)
Storygram è lo spettacolo concerto che apre la stagione del Teatrosophia, un teatro off – per quanto questa definizione possa essere ancora valida nel 2024 - di professionisti e amatori incastonato nel centro, più centro, di Roma, in una viuzza dietro Piazza Navona. Il Collettivo Socrates, che firma i testi, è un gruppo di appassionati che elabora agili e divertenti drammaturgie di intrattenimento che approfondiscono aspetti di cultura generale e legati all’immaginario collettivo, spesso dati per scontati. In Storygram, l’attrice Giulia Bornacin e il musicista Simone Martino, ricorrendo ad aneddoti, partiture musicali originali, pantomime, battute e sketch invitano il pubblico a riflettere su alcune fotografie passate alla Storia per conoscere le storie che si nascondono dietro scatti come Formigine. Ingresso Casa Colonica di Luigi Ghirri, V-J day in Times Square di Alfred Eisenstaedt, o meno note come La Lunga Notte del Dottor Religa di James Stanfield o come la misteriosa foto delle fate di Cottingley. Il pubblico partecipa, risponde alle domande, è in silenzio quando ci si prende il tempo di ragionare insieme, e con maggiore scrupolo, su ciò che vediamo: basti pensare alle ultime polemiche relative proprio alla foto del bacio in Times Square. Con leggerezza e semplicità, Storygram risponde senza boria concettuale al modo in cui ci relazioniamo con le immagini: se la realtà esiste solo quando viene fissata in una foto e postata sui social network e se l’eventualità del fake è il nostro corrispettivo di significato, e di interpretazione, potremmo mai affermare di aver visto? Quando vediamo una foto, la stiamo davvero osservando? Conosciamo quello che vediamo? (Lucia Medri)
Visto a Teatrosophia: Testi: Collettivo Socrates; Ideazione scenica: Alberto Bellandi, Giulia Bornacin, Emanuele Di Giacomo; Voci e percussioni: Giulia Bornacin; Voci e strumenti: Simone Martino - Amedeo Monda. Foto di Federica Milia
ULTIMI ARTICOLI
I Gordi. Anatomia di un funerale
Note a margine, al Teatro Franco Parenti di Milano con la regia di Riccardo Pippa dopo il debutto al Teatro Mercadante di Napoli, segnala...