CONFESSIONI DI SEI PERSONAGGI
Presentato in prima nazionale durante l’ultima edizione di Primavera dei Teatri, il lavoro di Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani è un doppio esercizio di scrittura creativa e rielaborazione scenica a partire dai Sei Personaggi in Cerca d’Autore. Il dettaglio inespresso delle singole vite dei personaggi pirandelliani è il fulcro di una drammaturgia che tende ad allargare il proprio diametro, ponendo al centro la biografia e il suo potenziale. La riscrittura consiste in sei monologhi nei quali il punto di vista di ognuno dei personaggi è arricchito di contaminazioni che provengono dalle vite dei due autori, dal nostro tempo. Il “conflitto immanente tra la vita e la forma” si declina in un dispositivo scenico che insiste sulla compresenza tra l’intimità della confessione e la violenza voyeristica della rappresentazione: Caroline Baglioni e Stella Piccioni fluidamente si alternano davanti e dietro una videocamera, le cui riprese in live streaming sono proiettata su un fondale che cela una folla di oggetti, chiamati in causa a corredare il racconto. Il piano sequenza live, pur efficace, rischia in alcuni momenti di produrre una sovrabbondanza di stimoli che disinnescano il potenziale dirompente dello sdoppiamento. L’interpretazione di Baglioni e Piccioni è generosa, in una scrittura densa che, se dosata meglio, restituirebbe più equilibrio ad una narrazione che vuole farsi carico delle voci di tutti e sei i personaggi, compresi quelli originariamente muti. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Sybaris,. Crediti: di Caroline Baglioni, Michelangelo Bellani. Con Caroline Baglioni e Stella Piccioni. Luce Gianni Staropoli, cura del movimento Lucia Guarino, musiche originali Francesco Federici, collaborazione drammaturgica Alice Torriani, oggetti di scena Leonardo Baglioni, regia Michelangelo Bellani,
PIETRA D’INCIAMPO
Sergio Pierattini è drammaturgo abile, in grado di creare piccole fotografie ingiallite di interni. Siamo al Teatro Vittoria di Castrovillari, a Primavera dei Teatri, ma siamo anche in una casa fiorentina (che forse avrebbe giovato di una scenografia più spoglia); un interno di vecchia abitazione vissuto da un uomo di mezza età (interpretato dallo stesso autore). Ma c’è anche un fratello (Luca Biagini) che non vive lì, è la vecchia casa dei genitori, stanno cercando di venderla senza sapere che quelle mura custodiscono un segreto, un mistero della memoria che ha un posto di rilievo anche nella storia. La pietra d’inciampo che dà il titolo all’opera si trova di fronte alla casa e secondo lo zelante agente immobiliare (Emanuele Carucci Viterbi) potrebbe essere un problema per eventuali acquirenti che avrebbero a che fare con la responsabilità palpabile di quella memoria. Eppure noi siamo fatti della memoria che ci siamo costruiti, del passato sul quale abbiamo edificato i nostri principi, il nostro vivere, la nostra etica: cosa sarebbe di noi se scoprissimo che tutto è costruito su delle menzogne? Ritrovare i propri nonni non come gli eroi antifascisti che avevano raccontato di essere, ma come approfittatori, denunciatori di ebrei che si sono arricchiti su quella delazione. Deve ancora essere rodato attorialmente questo spettacolo diretto da Riccardo Diana, ripulito da certi eccessi, da certi mascheramenti (si vedano i toni fin troppo grotteschi dell’agente immobiliare), eppure il plot, avvincente e dotato di una scrittura drammatica precisa negli ingranaggi, si lascia seguire con attenzione e trasporto. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Vittoria. Crediti: regia Riccardo Diana con Luca Biagini, Emanuele Carucci Viterbi, Sergio Pierattini scene e costumi Maria Toesca produzione Valdez Essedi Arte – Fonderia 900
SONO SOLO NELLA STANZA ACCANTO
Due ragazzi alle prese con i videogiochi, si conoscono online, si chiamano Bro. Inconsapevolmente si punzecchiano con battute che possono essere feroci perché entrambi non si conoscono se non come due voci che arrivano in cuffia. Sono in proscenio, su due poltrone tipiche da gamers, joypad alla mano e un'avventura da completare. All'appello manca un terzo giocatore, non si collega da un po' di tempo e questo comincia a far sospettare i due quando sui media appare la notizia di un adolescente suicida. Lo spettacolo di Eco di fondo e Compagnia Caterpillar, con la regia di Giacomo Ferraù e la drammaturgia di Tobia Rossi si rifà a un fatto di cronaca realmente accaduto nel 2018 e ha il pregio di affondare la propria ricerca nel mondo adolescenziale legato ai videogiochi. Il limite però è proprio nella portata etica svelata da subito, dichiarata nell'impianto e nei dialoghi (lo spettacolo andrà in scena all'Elfo a febbraio all'interno di un ampio progetto di sensibilizzazione sui temi del bullismo e del cyberbullismo). Uno dei due ragazzi è disabile, vive su una carrozzina e ne subisce lo stigma sociale che lo porta ad aver paura di incontrare l'amico nella vita reale, l'altro lentamente comincia ad essere ossessionato dalla possibilità di aver offeso il terzo gamer scomparso contribuendo così al suo suicidio. Sono efficaci Edoardo Barbone ed Eugenio Fea nel disegnare queste due maschere adolescenziali, i due però si muovono in una scrittura scenica avara di possibilità espressive, nell'alternanza degli incontri online che diventa montaggio serrato ma poco sorprendente. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sybaris. Crediti: regia Giacomo Ferraù drammaturgia Tobia Rossi con Edoardo Barbone e Eugenio Fea assistenti alla regia Ilaria Longo, Giulia Viana realizzazione scene e disegno luci Giuliano Almerighi paesaggi sonori Danilo Randazzo organizzazione Elisa Binda Coproduzione Eco di fondo / Caterpillar
JUMP
Vincenzo Schino è regista visionario, da un po’ di tempo il suo percorso, intrecciato con quello coreografico di Marta Bichisao, si chiama Opera Bianco. In Jump, visto al Fabbricone di Prato nel programma di Contemporanea, lo spazio nero è attraversato da diverse tensioni: ci sono due performer che hanno la funzione dei clown, si inseguono, corrono, si prendono a schiaffi, tra risse stilizzate e risate come nelle scene da slapstick comedy del cinema muto americano; ma qui è come se il segno fosse rivoltato nel nero: il sorriso si perde nel vuoto, il comico ha qualcosa di mortifero. Samuel Nicola Fuscà, C.L. Grugher, Luca Piomponi, Simone Scibilia entrano ed escono dalla scena partendo dalla platea, come forze attratte da un campo magnetico, i gesti sono geometrici e misteriosi. Bichisao e Schino seminano enigmi, come nel video che appare su due quinte unite in proscenio: un professore parla dell’Hamlet shakespeariano - per poi ricomparire di colpo con il viso bianco di biacca, come un Pierrot -, accenna ai due becchini. C’è la morte di mezzo, a nascondersi tra le zuffe, le torte in faccia, le rincorse e i salti della cavallina, anche nella simbologia finale: un grande tappeto rosso segna la scena, Schino mi racconterà che è un’immagine incontrata a un funerale. Ecco allora il rimando a Buster Keaton, il comico malinconico, ma riemerge anche un’ombra dell’immaginario tipico di Opera (le maschere della Commedia dell’Arte, la pittura, gli inquietanti pulcinella…), qui però il tentativo è di fonderlo con la ricerca sul disequilibrio, un infinito moto tra cadute e salti. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Fabbricone, Contemporanea Festival. Crediti: Concept, coreografia e regia Marta Bichisao e Vincenzo Schino Performer Samuel Nicola Fuscà, C.L. Grugher, Luca Piomponi, Simone Scibilia Suono Dario Salvagnini Produzione: PinDoc / OPERA BIANC Coproduzione: Fondazione Royaumont (Parigi)
YISHUN IS BURNING
Ci sono spettacoli che non sono spettacoli, ma che hanno comunque una risultante spettacolare molto precisa, riescono ad aggirare le convenzioni teatrali con una certa sincerità naïf; qualche sera fa al Mattatoio per Romaeuropa Festival abbiamo assistito a Yishun is burning di Choy Ka Fai. Opera che contiene oggetti artistici, rituali e politici apparentemente distanti tra loro. Dove siamo? A Singapore? O in uno spazio per le arti performative a Testaccio? Sono vere entrambe le ipotesi. La scena, – con uno schermo per proiezione sul fondale, due schermi laterali, una consolle a sinistra – è collegata in diretta con Singapore, in una sala buia, tra la fine della notte e l’inizio della mattina, un ensemble di musica sperimentale farà incontrare le sonorità elettroniche con il canto tradizionale. Choy Ka Fai, programmato all’interno della sempre sorprendente Digitalive di Ref (sezione curata da Federica Patti), è un artista nato a Singapore e residente a Berlino: gli interessa la relazione tra il corpo umano e le ritualità, quelle tradizionali e quelle contemporanee, come il rapporto tra tra la tangibilità umana e la dimensione eterea del virtuale. Un documentario sulla festa dedicata alla dea Khali (in cui i corpi dei partecipanti raggiungono parossistiche eccitazioni) lascia il posto alla danza dal vivo di Sun Phitthaya Phaefuang, con tanto di esperimento di virtualizzazione tramite sensori per motion capture. In fine il cortocircuito decisivo: la tradizione mistica indù incontra la cultura del vogueing e delle ballroom. Ed è kitsch, sublime e divertente. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Mattatoio, Romaeuropa Festival. Crediti: ideazione, Documentario e Regia: Choy Ka Fai Drammaturgia: Tang Fu-Kuen Presenza Spirituale: Kali and Kuan Yin Guest Dancers: Brielle Munera, Clementine Windowsen, Gian Windowsen, Valeria Windowsen Coreografia e performance di danza: Sun Phitthaya
RATTENSPIEL
Giulia Zacchini cuce un testo ispirato a Ratto – storie di ratti di Andrea Bendini (drammaturgo e burattinaio), siamo in un futuro post apocalittico: gli umani alla fine ce l’hanno fatta, si sono sterminati e in questo apologo un po’ punk, un po’ fumetto irriverente e caustico i topi regnano incontrastati. Nello spazio del Teatro Fabbrichino, caotico per la quantità di oggetti, tre attori (Andrea Macaluso, Giusi Merli e Paola Tintinelli) sono protagonisti interpretando tre topi, attraverso dialoghi, racconti e canzoni. Potrebbe essere un racconto teatrale interessante per il tema scelto e la sua capacità metaforica, rispetto ai tempi in cui stiamo vivendo, ma la scrittura (naturalmente c’è anche un' ispirazione kafkiana) non riesce ad andare oltre la struttura favolistica e la messinscena dopo poco si cristallizza nella forma di un cabaret un po’ cialtrone al quale manca l’affondo drammaturgico. Si ripete la struttura: la regina dei topi canta o si esibisce in un numero spettacolare, poi si addormenta e qui sogna un uomo, viene svegliata per la colazione per poi ricominciare nello stesso schema. Ci vorrebbe un tempo più lungo per far emergere l’eterno ritorno di questa piccola famiglia di topastri, ci vorrebbe una scrittura e una regia mature e precise, in grado di rompere lo schema favolistico. Peccato, si intravedeva una possibilità in questo amore tutto onirico della regina dei topi per un esponente della razza umana tanto odiata. I topi si sono liberati degli esseri umani ma ne sognano la capacità di fare poesia, di amare.(Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Fabbricone, Contemporanea Festival. Crediti: uno spettacolo di Teatro Elettrodomestico, liberamente ispirato a Ratto – storie di ratti di Andrea Bendini, testo di Giulia Zacchini, con Andrea Macaluso, Giusi Merli e Paola Tintinelli regia Eleonora Spezi musiche di Marco Baraldi una produzione Teatro Metastasio di Prato/Contemporanea Festival
CON UN QUADERNO NEL PORTAPACCHI VOL 1: MILANO-UDINE
Le prime parole sono dedicate alla paura, appare in scena come ombra luminosa ma sfocata dietro un telo e diventa quasi un'alleata. Il viaggio scenico è ricordo di quello reale compiuto in bici da Giuseppe Mortelliti, Con un quaderno nel portapacchi vol. 1: Milano-Udine, è il tentativo di una ricerca per tappe in 10 giorni su e con se stessi, sfida fisica ma anche interiore, confronto con piccoli luoghi, fatiche, sfortune, incontri, risoluzioni. Il racconto ironico e partecipato è diretto al pubblico di Inventaria (che lo accoglie dentro al Teatro Trastevere dopo un primo passaggio romano la scorsa primavera a Fortezza Est), piccoli gesti di coinvolgimento, tono sornione quando sottolinea un certo non detto, strizza l’occhio servendosi di un immaginario generazionale da cui trae aneddoti e personaggi (tra quelli popolari emergono in realtà anche citazioni teatrali, dagli ambienti à la Rezza alla cadenza del racconto di Dario Fo). I panni appesi su fondo scena servono da quinta o come appoggio per un cambio di personaggio, teli azzurri rimarcano l’artigianato di certi spettacoli dove una sciarpa diventa il fiume e tanto basta. E poi l’altra compagna, a pedalata assolutamente non assistita come dice nello spettacolo: la bicicletta Girardenga, sulla quale sale spesso per dare grana di verità al corpo e alle parole. Mortelliti in questo diario di bordo, evoca un racconto sincero che si ascolta con piacere; forse gioverebbe un po’ di distanza in più, asciugare qualche passaggio e alcuni momenti forse ancora troppo carichi di quel sentimento di fatica esistenziale, cui ancora non serve dare risposta. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Trastevere, Roma, Festival Inventaria. Crediti: con Giuseppe Mortelliti; tecnica Simone Martino; foto di scena Alessio Trerotoli.
IL COLLOQUIO – THE ASSESSMENT
“Che vuole che le faccia io se dalla Francia non ci viene più una buona commedia…” affermava il capocomico pirandelliano dei Sei personaggi, ma ormai con il termine commedia si intende il genere preciso del comico. Modalità problematica a teatro, quando da subito si palesa quella volontà - odiosa per alcuni spettatori - di voler far ridere a tutti i costi. È il limite del teatro di genere o di chi lo maneggia con scarsa profondità? Il Teatro Vittoria di Roma ha aperto la propria stagione con Il colloquio, commedia che vorrebbe far riflettere sulla competitività nel mondo delle grandi aziende. Cinque candidati si ritrovano in attesa di un colloquio di gruppo (in una scenografia anonima che rappresenta una sala anonima): si raccontano, cercano di rispondere con prontezza, intelligenza e spigliatezza all’addetto alle risorse umane; finché questi torna in scena con qualcosa sulla faccia. Dalla platea non si capisce cosa sia: sembra carta bagnata; capiremo dai dialoghi: è sperma. Non si fa in tempo a metabolizzare la notizia che la macchina delle risate si mette in moto. Il gruppo prende in ostaggio il presidente della multinazionale, autore delle molestie nei confronti del reclutatore. Il pubblico si accontenta di gag e situazioni comiche abusate (con tanto di risse) e ride di gusto; il finale a schiaffo conferma che i buoni propositi della drammaturgia rimangono su carta. Lo spettacolo scritto e diretto da Marco Grossi dovrebbe svelare meccanismi amari, ma ci racconta qualcosa che già sappiamo senza scalfirne la superficie. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Vittoria, crediti: scritto e diretto da Marco Grossi con Giuseppe Scoditti, Fabrizio Lombardo, Alessandra Mortelliti, William Volpicella, Valentina Gadaleta, Marco Grossi, Alessandro Anglani e con Augusto Masiello assistente alla regia Monica De Giuseppe scene Riccardo Mastrapasqua luci Claudio De Robertis grafica Davide Petruzzella produzione Teatri di Bari
FEELING THING
Il Teatro Carcano, con la sua storia secolare, ha ospitato nell’ultima settimana di settembre le installazioni di arte contemporanea del Video Sound Art Festival, raccogliendo i lavori di artisti internazionali e mettendo a disposizione non solo sala e palcoscenico, ma anche quei luoghi invisibili e marginali attraversati dagli operatori: scantinati, sotterranei, corridoi, sale tecniche, quinte di scena. Qui, le installazioni hanno il compito di ripristinare una relazione sociale con spazi tradizionalmente non deputati alla fruizione per attivare una riflessione sull’agency delle cose, tema cardine della XII edizione del festival e oggetto molto discusso nella narrativa attuale. Feeling Thing, presentata dalla Candoco Dance Company e diretta da Jo Bannon, è la danza performativa a ciclo continuo che fa parte di un variegato screening program e che si pone al termine del percorso espositivo come una raffinata cerniera estetica. Registrata attraverso la macchina da presa e proiettata su uno schermo, la performance si sviluppa attraverso i movimenti plastici di tre danzatori che creano un dialogo intimo con il flusso vitale degli oggetti. Spogliati della propria funzione strumentale e assoggettante, la pelle degli interpreti finisce per assorbirli, i gesti delicati ne fondono le anatomie e ne esplorano i sentimenti. In questo lavoro la ricercata indagine visiva, curata dalla fotografia di Jack Offord, procede in sincrono con quella sociale e antropologica, in cui i tessuti delle relazioni umane si modificano a partire dalle interazioni oggettuali che aprono il corpo ad accogliere l’energia dinamica della materia, la vita di tutto ciò che è altro da sé. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Carcano, Video Sound Art Festival Milano. Crediti: di Candoco Dance Company, direzione e coreografia di Jo Bannon, video di John Stephenson, direttore della fotografia Jack Offord, sound designer Julie Rose Bower, danzatori Anna Seymour, Ihsaan DeBanya, Olivia Edginton, descrizioni audio Dot Alma
PROMETEO
Il Prometeo di Lorenzo Covello, visto allo Spazio Tre navate nell’ambito del Mercurio Festival, è un uomo comune, sottoposto a un comune ciclo di successo e disfatta. Prometeo si offre come un grumo di luci e ombre, di acqua e fuoco, armonizzato con eleganza essenziale dalla scena di Jess Guagliardi. Il protagonista appare gradualmente, nudo, proiettando una sagoma scura sullo schermo alle sue spalle. Una fase di statica gestazione, al cui termine esplode il parto, improvviso come il buio in sala. Quando le luci si riaccendono, Prometeo è in posizione ancora fetale, aggrappato a una sedia che oscilla come fosse immersa nel liquido amniotico. Sempre più il protagonista si spinge in alto, si costringe a un equilibrio da funambolo, sostenuto da una muscolarità sicura e flessibile. Sembra una creatura di Chagall, ma senza la consolazione della fiaba. Un suono di corde pizzicate (di Stefano Grasso) ne accompagna le evoluzioni, interrotte dall’accensione di una miccia. Prometeo ha ottenuto il fuoco, e ora è fuoco lui stesso. Gli arti crepitano come fiamme, emergono vitali dalle tenebre, isolate dalla luce di Gabriele Gugliara. Il ritmo delle percussioni incalza, fino a quando il piccolo titano non scopre una figura estranea e imponente: la sua ombra – o il padre? Riconoscendosi, riconosce l’inutilità del proprio slancio, torna al grembo liquido che lo ha generato. Una successione di continue cadute increspa la superficie dell’acqua e della sua proiezione: nella pulsione di morte, il tentativo di splendere, infine, si estingue. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Tre Navate, Mercurio Festival, Palermo – Crediti: di e con Lorenzo Covello, scene di Jesse Guagliardi, musiche di Stefano Grasso, luci di Gabriele Gugliara. Foto di Nayeli Salas
UNTOLD
Tre blocchi trasparenti, tre donne accovacciate al loro interno. Buio in sala. La luce si riaccende: all’interno dei blocchi si materializza un ginepraio di fili. Così inizia Untold del collettivo UNTERWASSER (Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio), visto allo Spazio Franco nel corso del Mercurio Festival. Le tre interpreti animano una macchina dei sogni, un cinematografo di sagome con le quali dipingono, in silhouette, angustie e solitudini della vita contemporanea. La torcia, di cui si servono per proiettare le ombre sullo schermo, nelle loro mani diviene una macchina da presa: gli episodi si succedono in dissolvenza, tra musiche e rumori quotidiani prodotti direttamente sulla scena. Primi piani, soggettive e panoramiche indagano la vita solitaria di alcuni interni domestici, ma anche paesaggi metropolitani pullulanti di folla e caos. Davanti agli occhi degli osservatori si svolgono i fotogrammi di un storia delicata e malinconica, il cui lirismo è nell’immaginifica metamorfosi di forme e suoni. Un momento di delicata poesia, in cui il pubblico è catturato da uno stupore quasi infantile. Ma non si parla di semplice intrattenimento: la meraviglia è qui viatico per la riflessione. Al di là dei ragguardevoli espedienti tecnici, Untold descrive quella nota realtà urbana nella quale il singolo può facilmente smarrirsi; tuttavia, oltre il vespaio di strade trafficate, è sempre possibile il miracolo dell’incontro. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco, Mercurio Festival Palermo – Crediti: ideazione, creazione, performance di Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia de Canio. Produzione UNTERWASSER. Foto di Nayeli Salas
UCCELLI
Il bianco dell’isolata Abbazia di San Leonardo, che acceca per pienezza e fasto nella campagna garganica arsa di giorno dal sole agostano, rifletterà, anche se notte, i colori sgargianti delle maglie, dei pantaloni, delle snickers, degli elastici per i capelli, e degli occhiali da vista. Sono i colori degli Uccelli di Aristofane secondo il teatro comunitario di Bottega degli Apocrifi, compagnia nata a Bologna che però, proprio come uno stormo temerario, ha compiuto una «migrazione controcorrente» e dal centro-nord ha scelto il sud della provincia di Foggia, Manfredonia. Frutto di un testardo lavoro sul territorio e della «folle idea di Cosimo Severo e Stefania Marrone», rispettivamente regista e drammaturga, questo spettacolo è una festa esaltante di e per 150 bambini e adolescenti. La straordinaria energia del battito delle ali - cioè le braccia che si muovono con la testa a tempo in una gestualità sincopata, assecondando le canzoni e la musica dal vivo di Fabio Trimigno – si riverbera nel cortile adiacente alla chiesa, tra la platea, sulla pedana centrale. Lo stormo si muove verso il palco, in quattro flussi di ragazze e ragazzi che giungono improvvisamente da ogni lato. Libera, spregiudicata e consapevole “caciara”, che non si intenda quest’ultima per approssimazione o disordine, al contrario, è quella del rigore di un’idea impulsiva ma convinta, che muove allo slancio verso il cambiamento dello status quo, che crede nel volo pindarico della trasformazione possibile e che rifiuta, quando si scontra con l’illusione, il potere di pochi. (Lucia Medri)
Visto all'Abbazia di San Leonardo, Manfredonia, Foggia; libero adattamento da Aristofane Stefania Marrone, regia Cosimo Severo, musiche originali, eseguite dal vivo dagli autori Fabio Trimigno, Celestino Telera con Luigi Tagliente, Bakary Diaby, Mamadou Diakite, Giovanni Salvemini e con il Coro degli Uccelli della Città di Manfredonia
ANIMALI DOMESTICI
Buio. Luce. Lui è in scena in tenuta da jogging, parla convulsamente in marchigiano, intona il jingle di una pubblicità di un supermercato e inveisce contro la madre per avergli preparato una cena troppo grassa. Buio. Luce. Lei occupa il suo quadrato di spazio, lo riempie camminando, lo sguardo è fisso, ragionante, dolcissimo, prelude a una danza, estatica. Sono loro gli Animali domestici del lavoro di Antonio Mingarelli, scritto da Caroline Baglioni per l’interpretazione e la regia d’attore di Christian La Rosa e d'attrice di Alice Raffaelli, presentato in concorso al Festival INVENTARIA - La festa del teatro off. La vicenda dell’attentato compiuto nel 2018 da Luca Traini, ventottenne di Macerata, nel quale ha ferito sei persone di origine sub-sahariana per vendicare l’omicidio di una ragazza (non quella interpretata da Raffaelli) compiuto da un uomo nigeriano, è ricostruito registicamente in maniera minimale e “divisiva”. I due protagonisti hanno lavorato separatamente per preparare i ruoli della liceale punk, che era in classe mentre Traini sparava colpi d’arma da fuoco nel centro città, e di Traini stesso. Le similitudini di pensiero, il legame emotivo che li unisce sono aspetti maggiormente comprensibili nella drammaturgia, coadiuvata anche dalla presenza di testimonianze delle ragazze e ragazzi che erano a scuola quella mattina. Entrambi si troveranno di fronte l’uno all’altra nel finale, distaccati, sfiorandosi, a ribadire l’infattibilità di questo incontro, tanto nella vita che nella finzione. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Trastevere, Roma, Festival Inventaria: con Christian La Rosa, Alice Raffaelli; drammaturgia Caroline Baglioni; progetto e regia Antonio Mingarelli; light designer Gianni Staropoli
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