Cordelia - le Recensioni

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PARTY GIRL

Conturbante, eccitante, fastidioso, vero, finto, distopico, doloroso: Party Girl è l’immagine disarmante di una sessualità sottomessa. Alice, Barbara e Roberta sono tre splendidi corpi che si prostituiscono, guidati e governati da una voce maschile fuori campo che ne determina le posture, tutte inequivocabilmente funzionali al piacere di chi osserva. I loro corpi non sono veri corpi nella misura in cui tutto contribuisce a renderle oggetti: il neon posto ai piedi del palco le rende dure, le luci stroboscopiche le fa irreali, le porzioni di nudità volgare scoprono una pelle che non ha pori. Le tintinnanti palline vaginali dorate che escono dalle loro bocche ammiccano a un sesso cattivo. Non c’è davvero nulla che possa essere definito “bello”; la coreografia si sporca con movimenti meccanici (persino quelli più fluidi lo sono) e privi di vita che non sono altro che pause tra una posa e l’altra. Tre televisori a tubo catodico trasmettono stralci di vita notturna, irrequieta, illecita, perversa e crudele; l’estetica laccata e appiccicosa fine anni ’90 e inizio Duemila porta il racconto in eccessi surreali che, nel farsi simbolici, forse rischiano di allontanare la faccenda problematica della percezione del corpo femminile dalla sua condizione di terribile e diffusa e normale quotidianità. È come ricevere un violento schiaffo senza sapere il perché, e restano lo stordimento e il dolore. A festa quasi terminata, poco prima del giorno, le ragazze riescono a riprendere possesso della sensualità allegra dei loro corpi e si allontanano stanche e ridenti. Poco realistico. E se il nostro godimento di donne non fosse quasi mai solo nostro? (Valentina V. Mancini)
Visto al Teatro Nuovo. Crediti: con Alice Raffaelli, Roberta Racis, Barbara Novati; coreografia e regia Francesco Marilungo; Luci e spazio Gianni Staropoli. Foto di Luca Del Pia.

PALERMO CORSARA

Il porticciolo della Bandita è un piccolo tratto di mare e detriti dimenticato dalle amministrazioni, ma non da chi abita l’area circostante. Qui il Teatro Atlante ha raccolto per un mese le testimonianze di chi ancora vive questo spazio, all’interno di laboratori il cui esito è stato accolto da Palermo Corsara, performance in cuffia pensata proprio per la Bandita. Il titolo ha un duplice riferimento: da un lato richiama il quartiere Acqua dei Corsari, dall’altro il Pasolini intellettuale delle periferie. Durante il suo svolgimento, il pubblico è libero di vagare tra le barche rivoltate della spiaggia, mentre nelle orecchie risuonano le parole di uomini e donne comuni, interpretate dal vivo da Preziosa Salatino. Sono storie di abbandono e riscatto, alternate ai canti della tonnara e alle musiche evocative di Mauro Palmas. La spiaggia viene solcata da una meditazione condivisa, accompagnata fino al tramonto dal susseguirsi di denunce, ricordi e immagini. Palermo Corsara vuole essere registrazione della memoria, archivio sonoro e visivo di voci e cose rimaste ai margini della gentrificazione, resistenza politica agita dalla comunità al suo interno. Ormai al tramonto, le movenze della danzatrice sufi Soad Ibrahim, sulle musiche di Mauro Tiberi, concludono il percorso uditivo, ma è solo alla sera che il gruppo si dirada, quando mare e cielo sono diventati indistinguibili. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Porticciolo della Bandita Crediti: voce narrante di Preziosa Salatino, foto e video di Francesco Faraci, danza di Soad Ibrahim, ideazione e direzione artistica di Emilio Ajovalasit. con la collaborazione di: Marco Abbate, Elisabetta Carullo, Anna Di Giandomenico, Silvia Fontana, Adriana La Porta, Domenico Lo Cricchio e tutti gli abitanti della Bandita.

PULICI

In occasione della settima edizione del Festival Teatro Bastardo, diretto quest’anno da Giulia D'Oro e Flora Pitrolo, si è tenuto Pulici, di e con Sara Firrarello. Nel piccolo teatro del Museo delle Marionette, le luci della sala si spengono senza gradualità. Dall’oscurità improvvisa emerge l’interprete, giovane donna in nero: viso e mani affiorano pallidi dalla veste, ampia come un saio. La donna ciondola sui suoi passi come un’equilibrista sul filo; poi ruota su se stessa, come danzasse da sola un valzer solitario e malinconico. Si arresta, per guardarsi intorno circospetta: tuttavia, al termine di questi iniziali, misteriosi momenti, la sua voce è inaspettatamente giocosa. Un cunto, il tipico racconto popolare ritmato, prende vita. La narrazione di Firrarello è volutamente frammentata, procede per spigoli spezzati tra gesto, automatismi e silenzio. Sembra avere ancora qualcosa di acerbo, e il dramma procede per soluzioni che singolarmente sono interessanti, ma nel complesso sembrano più giustapposte che parte di un discorso organico. Nonostante ciò, questo cunto è senz’altro suggestivo: è una filastrocca triste, un gioco di bimbi che conoscono la morte e si rincorrono sul margine di un burrone, senza mai cadere. L’interprete non si lascia andare alla voragine, e pure avrebbe gli strumenti per farlo: attendiamo che ciò accada. Delicato ed espressivo, il suo racconto traccia comunque i primi passi di un nuova possibile tradizione, al femminile. Su questa strada Firrarello può ancora intestarsi una piccola rivoluzione. (Tiziana Bonsignore)
Visto a Teatro Bastardo Museo internazionale delle marionette. Crediti: Antonio Pasqualino, Palermo. Crediti: di e con Sara Firrarello, disegno luci Elena Rosa, suono Riccardo Napoli, tecnica luce Alessandro Schillaci, produzione Campo Barbarico Roma, con il sostegno di Spazio Oscena Catania

UNA VERDE VENA DI FOLLIA

La nuova stagione della sala Strehler al Biondo di Palermo è stata inaugurata da Una verde vena di follia di Alessio Arena, per la regia di Emanuela Giordano. Il testo, tratto da La vena verde dello stesso Arena, è liberamente ispirato alle lettere che Maria Antonietta Portulano, moglie di Luigi Pirandello, scrisse al figlio Stefano durante la propria permanenza in un ospedale psichiatrico: così la scena, la cella del manicomio, è definita soltanto da una branda e altri pochi elementi di arredo, poveri, isolati dalle eleganti luci di Giordano. Tra di essi si muovono la protagonista, interpretata da Mascia Musy, e una silenziosa infermiera (Chiara Muscato). Il rapporto tra le due è intimo, simbiotico: alle esplosioni verbali e fisiche della reclusa, interpretate certamente con energico vigore, fa sempre da contraltare lo sguardo dell’altra, denso, espressivo, severo. Col tempo, il rapporto di reciproca costrizione si scioglie in una fiducia sempre più disponibile a farsi, se non amicizia, solidarietà. La figura di Portulano, relegata dalla storia a una quasi inevitabile marginalità, assume qui riscatto e rilievo letterario: e proprio il “letterario” è il dato essenziale di questa regia, che forse guarda al testo e ai suoi modi con eccesso di aderenza. Sono soprattutto le interpretazioni di Musy e Muscato a sostenerla. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo. Crediti: tratto dal libro La vena verde (IQdB Edizioni) di Alessio Arena, liberamente ispirato alle lettere di Maria Antonietta Portulano Pirandello, adattamento teatrale e regia di Emanuela Giordano, con Mascia Musy, e Chiara Muscato, musiche originali Tommaso Di Giulio e Leonardo Ceccarelli, scene, costumi, luci Emanuela Giordano, aiuto regia Valentina Enea, direttore di scena Sergio Beghi, produzione Teatro Biondo Palermo. Foto di Rosellina Garbo.

KA-F-KA

Dopo un progetto su Calvino, il teatro Libero di Palermo continua a confrontarsi con le possibili relazioni tra danza e letteratura in un’ottica multidisciplinare. Alla fine di ottobre si è tenuto KA-F-KA, di e con Mehdi Farapour, coproduzione iraniana-francese della Oriantheatre Dance Company. Il pubblico accede in sala mentre il danzatore corre in senso antiorario lungo il quadrante di un orologio proiettato sul pavimento, bianco, della scena. La corsa diviene spasmodica, il ticchettio opprimente, fino al collasso: il tempo implode risucchiando il corpo chiuso di Farahdi. A partire da questo momento, è un susseguirsi di immagini simboliche nelle quali si sintetizza la poetica kafkiana: labirinti fitti, attraversati con ostinazione; la duplicazione del corpo e della figura del protagonista, frammentato in un suo doppio gigantesco e assurdo. Meccanicismi, iterazioni di gestualità minime e insensate, sottoposte a piccole ma significative variazioni progressive rendono la ricerca di Farapour grafica e raffinata, capace di introdursi nel testo letterario significandolo per mezzo di immagini di gusto modernista. Un’icona novecentesca è la figura del danzatore seduto alla scrivania, circondato dalla bolgia di sveglie attivate sulla scena che parcellizzano il tempo ingabbiando l’uomo nella vita d’ufficio. Al termine di una serie di costrizioni, ciò che resta dell’individuo è poca cosa: dopo essersi dimenato a lungo sulla schiena, circondato da tante piccole riproduzioni della propria fatica, il danzatore lascia sulla scena, immobile, l’immagine di un insetto. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero di Palermo Crediti: ideazione, direzione e interpretazione Mehdi Farajpour; motion graphics Stéphane Bordonaro, Mehdi Farajpour & Monumentiel; basato su un’idea originale di Mehdi Farajpour; suono Arnaud Rollat; video art Mehdi Farajpour

I RIFIUTI LA CITTÀ E LA MORTE

Francoforte, anni ’70. La Germania è distrutta, la memoria è marcescente e la città è un organismo che divora se stesso o, forse, un Crono che divora i propri figli. C’è un ebreo che fa speculazione edilizia e un ex SS che profetizza il ritorno del nazismo: così la censura cadde su I rifiuti, la città e la morte di Rainer Werner Fassbinder, travestita da j’accuse contro un presunto antisemitismo. Si tratta di un testo scritto d’impulso, durante un viaggio in aereo, rimasto silenziato fino agli anni 2000 e oggi quasi “intoccabile” per volontà degli eredi. La regia di Giovanni Ortoleva affonda in questa materia equivoca e ustoria e ne fa brillare ritmo, coralità e dolore, grazie alla scansione per quadri, all’intersezione dei piani diegetici e alle interpretazioni attoriali di limpidezza quasi disincarnata. L’angoscia metropolitana, sotto i segni cangianti dell’allucinazione e della gangster story, scava più a fondo della condizione storica, fino ai primordi della natura umana: l’abuso è la pulsione centrale, i rapporti sono campi di forze governati dal denaro, lo sforzo di trascendersi è vano, il degrado del corpo non riesce mai a mutarsi in espiazione. E, se sembra negato persino il sollievo della denuncia (che implicherebbe la speranza), rimane quello, lucido e spirituale, di cogliere e rappresentare una verità. La tensione sacrificale (tutti si muovono su una passerella che ha la struttura di una croce) si spegne in una resa, delicata, che non offre consolazioni o moniti. Seppure, da una feritoia, balugini forse la compassione. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Astra – Colline Torinesi 2022. Crediti: di Rainer Werrner Fassbinder; traduzione Roberto Menin; regia Giovanni Ortoleva; scene e costumi Marta Solari; realizzazione costumi Daniela De Blasio; sarte Rossana Cavallo, Rocio Orihuela; movimenti di scena Leda Kreider; musica Pietro Guarracino; disegno Luci Andrea Torazza; fonica Massimo Calcagno; costruzioni Giovanni Coppola; assistente alla regia  Gabriele Anzaldi; assistente volontaria Federica Balletto; con  Marco Cacciola, Andrea Delfino, Paolo Musio, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas.

THE RIVER

L’uomo, la donna e l’altra donna, in una piccola baracca su un fiume che risuona degli scricchiolii del tempo, nelle venature di legni buoni che lottano contro l’umidità penetrante. Ad un palcoscenico bastano i suoi tratti materici per evocare la scena, tanto più nell’intima sala del Teatro Belli che sembra sempre sul punto di cadere in avanti. La donna esordisce cantando, mentre l’uomo prepara meticolosamente la canna da pesca, elencandone le parti come in un salmo gestuale. La donna invita l’uomo a raggiungerla alla finestra, per vedere la bellezza unica di quel tramonto, ma l’uomo non si riesce a distogliere dal suo cimento: ne accadono spesso di tramonti simili, dice. L’uomo e la donna iniziano una lotta verbale che più di una schermaglia amorosa è una tenzone sull’unicità dei gesti e delle parole in una relazione. Poi la donna, Silvia Aiello, si alterna ad un’altra, Mariasole Mansutti, istituendo una danza misteriosa in cui a essere questionato è il senso del tempo. L’uomo, Alessandro Federico (anche regista dello spettacolo), è come l’invariabile corso del fiume: ma in quale direzione scorre? The river di Jez Butterworth è uno di quei thriller senza oggetto che la letteratura anglosassone sa partorire con naturalezza. È forse però proprio il passaggio linguistico a punire le interpretazioni, che non si svincolano dalla letteralità della traduzione consegnando il lirismo della scrittura ad un’oleografia in cui la presenza dei corpi e delle parole perde quella vibrazione inafferrabile del testo. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Belli per TREND - nuove frontiere della scena britannica. Crediti: Regia di Alessandro Federio; con Silvia Aielli, Alessandro Federico e Mariasole Mansutti; testo di Jex Butterwoth; traduzione di Massimiliano Farau e Laura Mazzi; produzione Proprietà Commutativa

STENDHAL COMEDY

Un manipolo di bambini e bambine, un cane e un gatto, alla guida di due libri su ruote, sulle cui copertine è scritto «Contro il nulla che avanza». È l’illustrazione della 3a edizione di Libri Monelli, Festival di Momo Edizioni organizzato nel primo weekend di novembre al CSA Brancaleone. Incontri, laboratori, spettacoli per le famiglie in cui il presente del mondo, problematico o meno, viene spiegato ai giovani attraverso la letteratura, il fumetto, i disegni e il teatro. Il nulla che avanza potrebbe anche essere quello personale: se conoscessimo noi stessi, cosa troveremo? L’attore, scrittore, e anche insegnante, Davide Grillo nel suo Stendhal Comedy risponde che potremmo anche non incontrare nessuno. Il nulla, appunto. Partendo dall’immedesimazione con la buccia di banana, come fossimo noi la causa dell’inciampo per antonomasia, Grillo instaura una chiacchierata schietta con il pubblico attorno ai temi chi siamo noi di fronte agli altri e, soprattutto, a noi stessi? E cita in causa anche Stendhal e il suo viaggio in Italia, in particolare a Roma, dove visse il suo anno più triste; pretesto con il quale l’attore traccia un parallelo biografico funzionale a rendere la costruzione dialettica un ragionamento divertente sulla coscienza, con aneddoti tangenziali ma congruenti nel senso, in cui i tre concetti psicoanalitici Es, Io e Super-Io interrogano i nostri comportamenti. Come piccoli buffetti sulle guance, le peripezie monologanti di Grillo pizzicano l’inconscio per ricordarci che il nulla è proprio dietro (o dentro?) di noi. (Lucia Medri)
Visto al CSA Brancaleone, Roma, Festival Libri Monelli. Crediti: di e con Davide Grillo. Foto Giuseppe Brigante

IL MERCANTE DI VENEZIA

Scenografia imponente, cast numeroso, star protagonista e adattamento snello: questi gli ingredienti del classico Shakespeare di giro, come il Mercante di Venezia diretto da Paolo Valerio. Circondato da una folla di personaggi sempre in scena, ai lati del palco, Franco Branciaroli è uno Shylock tutto esteriore, quasi macchiettistico. Lo stampo classico del suo ben dire diventa a tratti un cantato che assottiglia la distanza originale tra il tragico intrigo di vendetta e giustizia e i vezzi delle parallele vicende amorose di Porzia/Bassanio e Lorenzo/Jessica. L’intero spettacolo, di oltre due ore e mezza, vira decisamente sulla commedia, complici le trovate sceniche legate all’uso delle luci, delle musiche ed effetti dal vivo, delle coreografie di gruppo. Un gioco, “uno sport” - come Shylock definisce la clausola debitoria con Antonio - che incontra la grande approvazione di una platea variegata e numerosa. Il risultato è un Mercante di Venezia che resta in superficie, rinuncia alla tridimensionalità scespiriana e disinnesca il tragico a favore di un intrattenimento comunque forte di un adattamento efficace e di una compagnia affiatata, seppur eterogenea nella resa. Inevitabile chiedersi il ruolo di operazioni del genere nel panorama nazionale (lo spettacolo prevede una lunga tournée in molte piazze della penisola), soprattutto riflettendo sull’indice di gradimento di un pubblico certamente diverso da quello di altri circuiti, forse più vicino alla “pancia” del paese. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Quirino. Crediti: Di William Shakespeare. Traduzione Masolino D’Amico. Con Franco Branciaroli, Piergiorgio Fasolo, Francesco Migliaccio, Emanuele Fortunati, Stefano Scandaletti, Lorenzo Guadalupi, Giulio Cancelli, Valentina Violo, Dalila Reas, Mauro Malinverno, Mersila Sokoli. Regia e adattamento: Paolo Valerio.

ESEQUIE SOLENNI

Il teatro come chiave di lettura del mondo è un’esigenza che si avverte con prepotenza nel critico scenario attuale. Ma quando diventa necessario rivisitarne i codici, le forme, i linguaggi? Sono queste le riflessioni che puntellano l’attenzione dello spettatore che si è recato ai Navigli per assistere alla rappresentazione dell’elaborato testo di Antonio Tarantino, nella regia di Renzo Martinelli. Sul palco, un soggiorno disordinato, un lampadario a terra, sedie in precario equilibrio, specchi sdoppianti e due donne, Elena Arvigo ed Emanuela Villagrossi, che erano due mogli di importanti uomini politici e ora due vedove sole, vestite a lutto. Nello smarrimento di una perdita condivisa trovano conforto e si preparano alla liturgia delle esequie solenni, onoranze funebri riservate a coloro che la storia l’hanno scritta, anche a costo della vita. Al motivo personale di sofferenza, di crisi emotiva, se ne affianca uno più prettamente identitario, il principio di una riflessione che mette in discussione il ruolo stesso che assume la donna, aprendole la possibilità di emanciparsi, ma solo in seguito alla funesta rottura del legame col marito. È così che la ricerca di verità, messa in relazione ai tempi moderni, sembra disperdersi, mentre l’interpretazione si patina di un’aura di lontananza che rende impossibile un’autentica immedesimazione introspettiva. Infatti, nonostante la vicinanza strutturale tra platea e proscenio, la retorica dei due personaggi fluisce dalle parole scritte da Tarantino ma si chiude progressivamente in un mancato dialogo col pubblico. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro i di Milano. Credits: di Antonio Tarantino, regia di Renzo Martinelli, assistente alla regia Diego Zanoni, con Elena Arvigo ed Emanuela Villagrossi, suoni di Gianluca Agostini, luci di Andrea Ceriani e Beppe Sordi, costumi di Lapilou, produzione di Teatro i. Foto Luca del Pia

ROMANCES INCIERTOS, UN AUTRE ORLANDO

La penombra è una zona di sospensione onirica e di confine in Romances inciertos, un autre Orlando, una membrana porosa che consente il flusso trasformativo di una pelle ibrida che è corpo androgino, quello del danzatore e coreografo François Chaignaud. Il lavoro, co-diretto da Nino Laisné, attinge ad un sostrato culturale e letterario, nei riferimenti sia all’Orlando di Virginia Woolf e di Ariosto, sia al folclore dei balli e della tradizione locale spagnola. Le tele dagli scorci paesaggistici sconfinati e idillici, con atmosfere memori delle scene campestri, creano uno sfondo contemplativo che dilata lo spazio visivo e sonoro: essi abbracciano il passionale momento performativo diviso in tre atti e proiettano i distillati motivi musicali di quattro strumenti (il bandoneon, la viola da gamba, il theorbo e le percussioni), che nelle note scandiscono il ritmo cromatico ricamato sugli elaborati costumi, anch’essi narratori della storia popolare. È questo lo scavo nella tradizione ispanica, il gesto della sua riattualizzazione, il potere dell’immaginario mitico di una cultura condivisa che ritorna con la prepotenza del rimosso, ammalia, inibisce, trasporta in una dimensione altra dove la melodia sprofonda nella danza delle membra e il canto si sublima in una voce che condensa i frammenti del racconto. La fascinazione di questa visione, che sperimenta il limbo tra Opera e balletto, abita così il mistero inafferrabile del mito; poi ripercorre il tempo a ritroso, attraversa lo spazio e rifugge finalmente le categorie imposte e fisse del genere. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale Teatro di Milano, Crediti: ideazione, regia e direzione musicale Nino Laisné, ideazione e coreografia François Chaignaud, voce e danza François Chaignaud, bandoneon Jean-Baptiste Henry, viola da gamba François Joubert-Caillet, theorbo chitarra barocca Pablo Zapico, percussioni storiche e tradizionali Pere Olivé

HIT ME!

L’elemento tecnologico si integra e si fonde al linguaggio performativo di Hit me!, lavoro di cui Chiara Bortoli firma la regia in collaborazione con Jennifer Rosa, un collettivo che focalizza la propria ricerca sui processi della danza e delle arti visive, affidando agli interpreti «consegne precise, capaci di innescare un qui e ora dove possa affiorare l’intensità dei corpi (…)». Il computer posto a lato del palco, secondo una scelta casuale di Bortoli, trasmette una playlist con le hit musicali registrate nel giorno del compleanno della performer in scena, dall’anno di nascita fino ad oggi. La telecamera, invece, è posizionata di fronte al pubblico e lo riprende come parte dello spettacolo: Francesca Foscarini improvvisa in diretta i movimenti, ma talvolta entra e si sofferma sull’inquadratura, che ne cattura la trasformazione dei dettagli anatomici nell’impatto emotivo del ritmo musicale. Il videoproiettore li riproduce così su uno schermo che funge da lente di ingrandimento per le contrazioni muscolari del volto, ormai privo di difese e pronto ad essere “colpito”. In questa sintassi live di Foscarini, il gesto personale risuona familiare e la ricerca quasi embrionale colpisce per immediatezza e semplicità nell’immaginario del pubblico: dal brano pop riconoscibile la performer si fa investire, lo respira, lo vive, lo agisce attraverso il corpo per poi tradurlo nel lessico dello spazio, utilizzando anche quello extrascenico per poi improvvisamente scomparire oltre le tende nere di fondo. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Credits: concept e regia Chiara Bortoli, Francesca Raineri/Jennifer Rosa, performer Francesca Foscarini, alla consolle Chiara Bortoli. Foto di Fiorenzo Zancan

QUEL CHE RESTA

La scomposizione e ricomposizione di vettorialità orizzontali sono la matrice del lavoro che la coreografa e danzatrice Simona Bertozzi porta sul palco del Teatro Out Off di Milano con Quel che resta. Accanto a lei, il corpo giovane di Marta Ciappina detta la sintassi performativa, in gesti precisi ma fluidi; i molleggi coinvolgono le braccia, le gambe, il capo e il busto, ne amalgamano le parti e vengono ripetuti dalla compagna di scena con un leggero scarto sia spaziale sia temporale. I ruoli, poi, si invertono e le due danzatrici rincorrono delle simmetrie, si avvicinano, si scrutano nei movimenti, si imitano, riscoprendo un ritmo comune, una danza condotta all’unisono. La performance, presentata l’anno scorso a Romaeuropa Festival, ha avuto il sostegno del Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e fa parte di THAUMA, un progetto per le arti performative e per la ricerca sul linguaggio del corpo. Questo diventa il luogo di un'analisi sulle dinamiche dell’incontro, del ri-conoscersi: ai passi di coppia, infatti, fa eco un estratto del documentario Big Animals survival strategies, che aggiunge alla tecnica un ironico riferimento alle metodologie relazionali nel mondo animale. Il suono, curato da Roberto Passuti, riverbera nelle zone brumose della sala, il light design invece si diffonde sulle estremità legate dei due corpi. Quel che resta, alla fine, è la struttura spoglia di un’architettura con pietra a vista, sfondo di una ricognizione. Quel che resta è il tocco, finale, impercettibile, di un nuovo incontro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Out Off di Milano. Credits: concept e coreografia Simona Bertozzi, danza Marta Ciappina, Simona Bertozzi, soundscape Roberto Passuti (con un estratto dal documentario Big Animals survival strategies), light design Giuseppe Filipponio. Foto di Luca del Pia

NUCLEO – DA FRANCIS BACON

Un tempo rallentato. Una figura a lato della scena in posa, composta sulla sedia, guarda lo spettatore, lo seduce. Movimenti lievi, impercettibili. Le luci di contrasto, di Gianni Staropoli, si diffondono in tonalità di azzurro e viola, su due tele incorniciate di fondo. Alessandra Cristiani è il nucleo ipnotico, il suo corpo inizialmente un abitacolo vestito che nella sperimentazione della carne non può che mostrare il proprio divenire: scivolare, allungarsi, raccogliersi e poi spogliarsi, per ritornare ad un nudo significante, primordiale. Nella sala, la performer ripercorre un dedalo introspettivo a partire dallo studio dettagliato di Francis Bacon. Del pittore recupera i toni cupi e allucinati, la distorsione dei gesti è trasfigurazione che si tramuta in cruda materia, carne viva che porta con sé un’ineluttabile tragicità. Il lavoro coreografico, prima presentato a Teatri di Vetro nel 2020, poi a Inequilibrio Festival a giugno 2022, è rientrato a ottobre all’interno della rassegna del Danae Festival di Milano, come secondo capitolo di una trilogia che snocciola la questione del corpo attraverso la sperimentazione dell’arte di grandi maestri (Schiele, Bacon e Rodin). Nei movimenti di r-esistenza del corpo di Cristiani emerge, dunque, uno studio artistico meticoloso e patologico, una danza istintiva che appare come una progressiva corrosione epidermica: il vino cola sul viso, la pelle si sporca e lacera, le polaroid si espongono al contatto, la pittura diventa unico nutrimento. «Portare l’alone di una crisi» è, qui, il senso di una metamorfosi organica, il nucleo di una profonda tensione spirituale. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Credits: concept e performance Alessandra Cristiani, musica e suono Claudio Moneta, Iva Bittova, luce Gianni Staropoli, Foto di Maurizio Anderlini

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