Cordelia - le Recensioni

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LE SORELLASTRE (di O. Bianchi, regia G. Latini)

L’acqua all’interno della bottiglietta continuerà a tremare per tutto lo spettacolo, poggiata sul tavolo della sala da pranzo - sul quale si terrà il gioco, attorno al quale si urlerà, piangerà, si incasseranno insulti e si riderà anche - non smetterà di essere scossa, mentre alle spalle, sul fondo della scena, immobile sta la bara aperta. Alla sesta stagione di repliche, Le sorellastre di Ottavia Bianchi, con la regia di Giorgio Latini, torna in scena all’Altrove Teatro Studio. Il successo lo si deve a una scrittura schietta, come gli exploit delle protagoniste, che si muove in scena con ritmo, alternando pause, entrate e uscite o fissandosi in una contrainte. L’impianto drammaturgico si costruisce attraverso dei topoi: la morte della madre che porta quattro sorelle distanti a incontrarsi, i litigi e i segreti, l’eredità, l’espediente del gioco; “modelli” comuni nelle commedie nere, di situazione, o negli psicodrammi. A questi, si aggiunga l’affilata e imprevedibile alchimia tra Emma, “la brava” (Ottavia Bianchi), Elvira “la bella” (Livia Castiglioni), Ughetta “la stupida” (Patrizia Ciabatta) e Emilia, Lia, “il bastone della vecchiaia” (Giulia Santilli). Ricordando la tensione di pièce celebri come Due Partite di Cristina Comencini ma anche Carnage di Yasmina Reza, le quattro attrici padroneggiano (eccetto alcuni errori di battuta da prima replica) un’interpretazione intelligente, sempre sostenuta e giocata al rialzo fino alla fine, e non solo tra di loro ma con il pubblico stesso, costantemente preso in scacco. Al punto che, forse, si suggerisce come superflua la lettura della lettera della madre: una spiegazione ridondante perché “già detta” dall’evolversi dell’azione scenica. Le protagoniste ritraggono un quadretto familiare incrinato e afflitto che poi si allarga in un affresco sociale sulle questioni di genere e ruolo, sulle ambizioni e ansie da prestazione; solitudini e rivalse, pregiudizi e vanità che entusiasmano la platea con affascinante perfidia e senza pesantezze moraleggianti. (Lucia Medri)

Visto a Altrove Teatro Studio: di Ottavia Bianchi, con Ottavia Bianchi, Livia Castiglioni, Patrizia Ciabatta, Giulia Santilli. Regia Giorgio Latini

GUERRA E PACE (regia Luca De Fusco)

In Guerra e pace Tolstoj aveva significato, con monumentale sintesi, la coincidenza di vita individuale – il mondo interiore del singolo – e storia generale. Affresco superbo delle implicazioni politiche, culturali ed esistenziali legate alle campagne napoleoniche in Europa, il romanzo descrive il consumarsi di una parabola talmente ampia la cui riduzione teatrale non si può certo considerare un fatto di immediata attuazione. Ne abbiamo seguito a Palermo il tentativo di Luca De Fusco, che in questa produzione del Biondo inserisce la vicenda entro il quadro offerto da un suggestivo (ma appena didascalico) palazzo in rovina (di Marta Crisolini Malatesta). Lungo le scalinate si svolge la complessa trama narrativa, puntellata da soluzioni di composta estetica. L'intreccio, declinato come successione di episodi ai quali i protagonisti hanno accesso simultaneo o successivo, viene smembrato in fatti minimi che tuttavia sembrano mantenere complessiva unità. E se questa, tuttavia, poteva essere ancora più asciutta, per così dire "essenzializzata", il rischio della potenziale disgregazione viene evitato dalla scelta di mantenere un equilibrio non coraggioso ma solido, che rifiuta la ricerca di soluzioni forzatamente originali preferendovi la tutela della limpidezza narrativa. Non esalta e non dispiace, insomma: una resa democristiana e nazional-popolare (prodotta di concerto con il Teatro di Roma e lo Stabile catanese) che certo odora di naftalina, ma che si pone rispetto al dramma con una certa autorevolezza, consentendone piena leggibilità. Le interpretazioni caratterizzano i personaggi esponendoli all'empatia del pubblico; Mersila Sokoli rende credibilmente la delicata e nevrotica umoralità di Nataša e ne consente, nel dramma, lo svolgersi in un coinvolgente Bildungsroman (Tiziana Bonsignore).

Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: di Lev Tolstoj, adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco, regia Luca De Fusco, aiuto regia Lucia Rocco, scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, luci Gigi Saccomandi, musiche Ran Bagno, creazioni video Alessandro Papa, coreografa Monica Codena, con (in o.a.) Pamela Villoresi, Federico Vanni, Paolo Serra, Giacinto Palmarini, Alessandra Pacifico Griffini, Raffaele Esposito, Francesco Biscione, Eleonora De Luca, Mersila Sokoli, Lucia Cammalleri, produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Stabile di Catania / Teatro di Roma – Teatro Nazionale. Foto di Rosellina Garbo

DI GIORNO E DI NOTTE (regia Cinzia Maccagnano)

Giorno, notte, giorno è il romanzo di Beatrice Monroy (Perrone, 2022) da cui è tratto Di giorno e di notte, produzione del Teatro Biondo per la regia di Cinzia Maccagnano. Il testo in origine sembrava preludere a qualche interessante sviluppo drammaturgico, nella sua netta scansione tra i dì e le notti entro cui si svolge la vicenda delle protagoniste, due amiche legate da un misterioso fattaccio – ovviamente a sfondo mafioso. La resa teatrale riduce tuttavia il peso questa scelta, che pure poteva sembrare allettante, e in genere ne cava fuori un drammone dai toni esasperati. Siamo negli anni del boom edilizio, in quell'intrigato complesso in cui gli interessi dei palazzinari, della mafia, della nuova classe dirigente trovano coincidenza nel cemento e nel suo impiego urbanistico. Nella nuova città borghese, che accoglie come una madre il nuovo, ipertrofico ceto di dipendenti pubblici, s trovano a vivere Matilde (Simona Malato) e Carla (Luisa Lombardo). Chiuse nelle grandi scatole mobili in cui abitano (scene e costumi di Valentina Console), e da cui soltanto Matilde ha qualche sparuta possibilità di allontanamento, le due vivono in una simbiosi imposta dalla comune memoria, privata e storica. Attorno a questa fusione girano i rapporti affettivi con i rispettivi compagni (interpretati da Giuseppe Randazzo e Dario Muratore), e con la giovane domestica (Maria Chiara Pellitteri), anch'essi coinvolti dai crimini cui il dramma allude. Teso tra tentativi cinematografici e inutili dispendi energetici, perseguiti talvolta con inverosimile enfasi, il dramma risulta complessivamente articolato sul susseguirsi di temi prevedibili e stereotipati, ai quali le movimentate soluzioni sceniche adottate non riescono a fornire soluzione e bilanciamento. Simona Malato cade in piedi, e di fatto è la sua interpretazione a garantire la sostenibilità della vicenda; per il resto i moduli narrativi si inseriscono in un racconto abbastanza convenzionale del fatto di mafia, e a questi disgraziatamente il dramma soggiace. Ottimo soggetto per una fiction Mediaset (Tiziana Bonsignore).

Visto al Teatro Biondo, Palermo, in prima assoluta. Crediti: di Beatrice Monroy, libero adattamento dal romanzo Notte, giorno, notte (ed. Perrone, Roma 2023), regia Cinzia Maccagnano, scene e costumi Valentina Console, con Simona Malato, Viviana Lombardo, Dario Muratore, Giuseppe Randazzo, Maria Chiara Pellitteri, musiche e progetto sonoro Federico Pipia, riprese e montaggio video Sandy Scimeca, assistente scene e costumi Felicetta Giordano, produzione Teatro Biondo Palermo. Foto di Rosellina Garbo.

FONÈS (Luca Trezza e Francesca Muoio)

Le voci. Emergono dal tempo e attraverso il tempo, suoni che evocano memorie e lasciano sul presente un velo di opacità. Perché nel suono della voce c’è la lingua, quella particolare affezione del suono nel piegarsi in una riconoscibile cadenza. E mai la lingua, punteggiata dalla pronuncia che ognuno vi poggia dentro, sarà qualcosa di puro. Fonés è un calco dal greco, suoni emessi dal cavo della voce umana che rimandano a personaggi, storie, atmosfere e ambienti, un bagaglio che dal passato permea interamente il presente. È questo sentimento che Luca Trezza e Francesca Muoio, attori e autori dello spettacolo omonimo in scena allo Spazio Diamante, hanno masticato nella bocca perché nella lingua intesa come elemento corporeo dell’articolazione vocale, appunto, si creasse un certo linguaggio. Il rimando è a Napoli, l’immaginario – non troppo originale a dire il vero, a causa dell’ipertrofia dei riferimenti mediatici attuali – in cui la città prende forma, l’area identitaria in cui essa sviluppa la natura dei propri abitanti. I due ottimi attori, animati da una forza primigenia che affonda in un’esperienza di grande profondità, abitano lo spazio quasi vuoto percorrendolo in verticale, dal fondo fino al confine con la platea, ondeggiando da un estremo all’altro in cui far vivere i propri personaggi. In una Napoli talvolta ostile ma sanguigna, essi si manifestano esponendo gli eventi che li riguardano, spesso tragici, come fosse una Spoon River partenopea: donne sfruttate e uccise come cose inutili che non servono più, giovani colpiti da spari di pistola vaganti, uccisi dalla balistica e dalla sorte, criminali morti nell’esercizio del proprio disfacimento, mogli ripudiate per aver dato sfogo all’istinto d’amore, una sequenza di personaggi che hanno in comune un destino di morte e decadenza, stretto tra due emozioni mai come in certi luoghi così intrecciate: l’eccitazione e il dolore che si rincorrono, si mescolano, diventano linfa di un popolo e della sua disgraziata evoluzione. (Simone Nebbia)

Visto a Spazio Diamante. Crediti: scritto e diretto da Luca Trezza e Francesca Muoio; produzione Compagnia Formiche di Vetro Teatro. Foto Emilia Vitulano

MINE-HAHA OVVERO DELL’EDUCAZIONE FISICA DELLE FANCIULLE (Marco Corsucci)

Un’impacciatezza del corpo, teso a replicare una postura vista chissà dove, chissà da chi – forse in tv, da un genitore, dall’amic* del cuore. Eppoi i confini di un parco, casette bianche, gruppuscoli di coetane* e schiamazzi, il desiderio di essere-come, la curiosità per il corpo dell’altra, l’esposizione di sessi ancora non-schiusi. Mine-haha di Frank Wedekind è un testo che buca la sua epoca, la Bélle epoque, prestandosi a letture attualissime. Lo sguardo di Marco Corsucci e Matilde Bernardi spreme il racconto in 45’ ipnotici, dalla geometria netta, sapiente, perturbante. Il corpo di Matilde Bernardi, muto ma eloquentissimo, è inscritto in un telo bianco a terra da cui non c’è scampo, brano di luce che rende possibile, in quanto tale, la visione di ciò che vi ricade. Quel lacerto bianco steso è forse la metafora delle villette bianche del racconto di Wedekind: immerse in un parco, avviene in esse l’educazione fisica delle fanciulle di una società distopica – fanciulle destinate a un’educazione infinitamente ripetibile e omologante. Chi si sottrae alle regole è condannata a restare a vita nel parco, verde interstiziale di questa green-city penitenziale – parco a sua volta cinto da alte mura. Nel testo si affastellano argomenti singolari e urgenti: dalla profezia concentrazionaria a una robusta critica all’omologazione educativa dei corpi. Ma l’operazione di Corsucci e Bernardi, che con Mine-haha hanno vinto il Premio Silvio d’Amico alla Regia (in collaborazione con Romaeuropa), va ben oltre il riuscitissimo adattamento: la potenza del racconto è filtrata da una sapiente layerizzazione di drammaturgie, dal movimento al paesaggio sonoro, dalla parola fuori campo a dettagli visivi che ricordano un’opera analoga per straniamento e temi – Picnic ad Hanging Rock: lì, come sulla scena, siamo testimoni della sparizione magica, violenta e paradossale di un corpo femminile. L’interrogazione di quel corpo cancellato, attraverso un gioco di sguardi e nudità, evoca la nostra corresponsabilità voyeuristica, senza puntare il dito: se ne esce straniati e partecipi. (A. Zangari)

Visto a Mattatoio – Romeuropa Festival. Crediti: un progetto di Marco Corsucci e Matilde Bernardi; ideazione e regia: Marco Corsucci; con: Matilde Bernardi; spazio e luci: Flavio Pezzotti; suono: Federico Mezzana; Produzione Accademia Nazionale d’Arte drammatica Silvio d’Amico in collaborazione con Romaeuropa Festival – con il sostegno di TPE – Teatro Piemonte Europa

1984 (regia di Giancarlo Nicoletti)

Anche senza cadere nella trappola dei complottisti è impossibile non trovare similitudini tra il nostro tempo e quello raccontato da George Orwell in 1984, alcuni troveranno il Big Brother negli algoritmi dei social network, altri nei regimi autoritari che fanno del controllo capillare una delle loro armi, altri ancora si ritroveranno nell’impoverimento generalizzato delle lingue nazionali, in quella tensione alla semplificazione della neolingua, oppure negli annunci dei governi e nelle leggi più assurde che sembrano saltate fuori da un romanzo distopico: la gestazione per altri come reato universale, l’Albania in cui delocalizzare i migranti… Il rilancio al presente è un merito dello spettacolo visto al Quirino. Il regista, Giancarlo Nicoletti, d'altronde si è affidato al fortunato adattamento di Robert Icke e Duncan Macmillan del 2013. I due autori inventano (a partire dall’appendice del romanzo) un piano narrativo ulteriore, un 2050 in cui un gruppo di persone, appartenenti a un circolo di lettura, commenta quello che accadde negli anni del Partito leggendo il diario di Winston, il protagonista del racconto. La cornice di certo aiuta a creare un ponte col presente ma allo stesso tempo rischia di spiegare troppo, di evidenziare questioni già presenti nella vicenda. Siamo di fronte a una produzione importante, per numero di attori e impianto scenografico, c’è anche una stanza con il green screen e le telecamere che riprendono Winston e Julia in clandestinità, e schermi in cui le immagini vengono proiettate, non manca la voce femminile che rimanda al controllo del Grande Fratello prima dell’inizio e il sangue durante la scena della tortura: Nicoletti vuole colpire, divertire, forse un po’ scioccare, a tratti ci riesce, ma la resa generale non è sempre credibile, sia nella scenografia futuristica che nella recitazione. Appassionano Woody Neri e Ninni Bruschetta - complici anche certe leggere coloriture dialettali -, ma il cast avrebbe bisogno di una ricerca più netta sulla verità scenica, l’alternativa è la solita recitazione un po’ stereotipata e di plastica. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Quirino. Produzione Goldenart Production Adattamento Robert Icke, Duncan MacMillan Traduzione Giancarlo Nicoletti Regia Giancarlo Nicoletti Interpreti Violante Placido, Ninni Bruschetta, Woody Neri e con Silvio Laviano, Brunella Platania, Salvatore Rancatore, Tommaso Paolucci, Gianluigi Rodrigues, Chiara Sacco Scene Alessandro Chiti Costumi Paola Marchesin Musiche Oragravity Disegno video Alessandro Papa Disegno luci Giuseppe Filipponio

MEIN KAMPF (di Stefano Massini)

“Stefano Massini porta in scena il delirio di Hitler”, “Un vaccino contro l'ideologia nazista”, “Massini ci svela il male condiviso”, “Un vaccino teatrale contro il totalitarismo”, “È orrore puro ma è necessario”:  delirio, male, orrore, vaccino…sono solo alcune delle parole più ricorrenti che si ritrovano nei titoli di giornale che parlano dello spettacolo di Stefano Massini, portato in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano a ottobre e praticamente sold out per due settimane. E da Mein Kampf, scritto condannato per mezzo secolo all’oblio e solo di recente recuperato da quella pericolosissima damnatio memoriae, rievoca proprio gli stadi germinali di quell’orrore, di quel delirio contagioso che diventarono parte della Storia che conosciamo. Massini ci rivela però una verità che già si spera consolidata: Hitler non è nato mostro, era un uomo qualunque, con esperienze di uomini qualunque, eppure il potere delle sue parole, di cui ancora abbiamo paura (in paesi come Austria, Israele e Cina, il libro è ancora considerato illegale e si conservano solo poche copie per lo studio universitario) cambiò il corso della Storia per sempre.  Parole intrise di rabbia, frustrazione e disillusione giovanile, interpretate da un Massini che per 80 lunghi minuti di monologo è tutto pathos e troppo se stesso per essere Hitler. Su una pedana bianca, pagina ancora da scrivere, l’autore e regista fa cadere libri, vetri e valigie di chi non c’è più e rumori assordanti cercano di scuotere alcuni di noi dal torpore di una narrazione poco originale, perché reitera uno stereotipo che necessita forse di cambiare forma per arrivare davvero alle nuove generazioni. “Da dove si inizia per cambiare la Storia?” recita un titolo, ma – cosa forse ancora più urgente in questa sede critica – da dove si inizia per cambiare come la Storia viene percepita? (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: di e con Stefano Massini, da Adolf Hitler, scene Paolo Di Benedetto, luci Manuel Frenda, costumi Micol Joanka Medda, ambienti sonori Andrea Baggio, produzione Teatro Stabile di Bolzano, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana, Foto Masiar Pasquali

UNA STANZA TUTTA PER SÉ (visita coreografica di Camilla Monga)

C’è un’opera meravigliosa di David Tremlett (nella mostra a lui dedicata dal titolo Another Step, a cura di Marina Dacci, a Reggio Emilia, presso i Chiostri di San Pietro, fino al 9 febbraio 2025). Si tratta di My Places #14, del 2019 (pastello e polvere di grafite e collage su carta). Cuce assieme un frammento di mappa a stampa e un testo fittamente scritto a mano (ma sottosopra), creando un confine che alla vista si dissolve: uno finisce nell’altro, vicendevolmente. È forse l’opera più significativa di come Camilla Monga ha lavorato con gli interpreti della MMCD Company per comporre una visita coreografica alla mostra negli spazi e fra le opere di questa collezione, dal titolo woolfiano Una stanza tutta per sé. Divisi in piccoli gruppi, e armati di cuffie audio, abbiamo letteralmente assistito a una spazializzazione dei segni, delle architetture e dei paesaggi di Tremlett nei corpi di un duo molto complice, anche energico e assai consapevole dell’inedita situazione performativa, composto da Mario Genovese e Matilde Gherardi. Gli spazî allestiti e attraversati dai due corpi sono plurali e anche molto diversi tra loro: ma è in cuffia la più vera stanza rivendicata da Virginia Woolf. Qui, voci solo femminili, piene di sussurri di canto di suoni e rumori in una solitudine che scoppia dalle orecchie direttamente fuori nelle stanze della mostra, come una estensione fisica nei corpi dei due interpreti. È quindi in cuffia che prende luogo la più vera visita coreografica, perché spazializzata in un ascolto che è indipendente dal visivo eppure indirettamente in dialogo con le opere polimateriche di David Tremlett grazie alla presenza dei danzatori. Tali opere, non sono mai un mero sfondo alla performance danzata, ma vere partiture che generano movimento, o anche più raramente vi si oppongono, in un contrappunto però sempre questionante: quale libertà? in quali corpi? fra quali muri? in compagnia di chi? Il duo ne è già una esemplificazione, ma attraverso la presenza che più gli è propria, Monga sembra restituire una vita alle opere in alcuni casi come un riflesso, una dissolvenza parallela, un possibile ulteriore inventario del mondo ordinario. (Stefano Tomassini)

Visto ai Chiostri di San Pietro, Fondazione Palazzo Magnani, Festival Aperto, ITeatri di Reggio Emilia, visita coreografica della mostra Another step di David Tremlett, performance site specific di Camilla Monga e dei danzatori della MM Contemporary Dance Company.

I PIANTI E I LAMENTI DEI PESCI FOSSILI (Annamaria Ajmone)

C’era un tempo in cui i pesci comunicavano parlandosi in modo gentile. Era un tempo lontano, non connotato dalla presenza umana. Ora, nel mondo che noi tutti conosciamo, quei pesci urlano per farsi sentire. Che ne è della risonanza della loro voce? Che ne è del loro lamento nello spazio-tempo dell’uomo? Annamaria Ajmone si fa interprete di questa vocalità assente, una vocalità forse solo perduta, e assieme a Veza Maria Fernandez Wenger ne ricostruisce la genealogia, avviando la performance prima con una gestualità fluida di ricerca – sono mani che fendono l’aria aprendola, cercando una dimensione propria in essa, di matrice più spaziale che sonora – poi con uno studio rigoroso basato sulla vocalità profondissima, che parte dal fondo dello stomaco per salire e passare fin su dalla gola, una vocalità su cui sembrano originarsi tutte le cose – quella negata alla natura e quella ritrovata dall’essere umano che cerca di riconnetervisi. Su un tappeto di pitture fossili a cura di Natália Trejbalová, Ajmone con precisione e cura continua a cercare i lamenti di chi non c’è più: lo fa con un’attenzione nuova, attraverso una relazione vocale ma anche uditiva con l’altro da sé. Così, le sue frequenze sonore si intrecciano con quelle di Veza Maria Fernandez Wenger, connotando lo spazio di presenze altre, che non appartengono al nostro tempo, ma che sono tracce, testimonianza di un passato che incessantemente torna a trovarci sotto mentite spoglie. La performance, nonostante dimostri la peculiarità e la precisione delle indagini sviluppate da Ajmone, sembra tuttavia rimanere imbrigliata in uno stadio embrionale di ricerca che necessita d’essere approfondita e scandagliata nelle sue possibilità rivelatorie, sia a livello drammaturgico che scenografico (Andrea Gardenghi).

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: danza e voce: Annamaria Ajmone, Veza Maria Fernandez Wenger, set e immagini: Natália Trejbalová, ricerca e collaborazione drammaturgica: Stella Succi, vestiti: Fabio Quaranta, disegno luci: Elena Vastano, consulenza set sonoro: Attila Faravelli, progetto web: Giulia Polenta, organizzazione: Francesca d'Apolito, diffusione: Alessandra Simeoni, produzione: Associazione L’altra

PERMANENT TRESPASS (Sanja Grozdanic e Bassem Saad)

Due donne sedute su un divano ricoperto da un telo bianco, tra un piccolo scrittoio antico e una scala che non porta a nulla, stanno ferme parlandosi in un gergo particolare, quello dell’elogio funebre. Dietro di loro il fondale è aperto, illuminata di un azzurro misto d’ambra appare l’altare della ex chiesa di Santa Maria Maggiore che è l’attuale Teatro Nuovo Montevergini. In questo luogo incredibile, che sembra un’oasi sospesa nel quartiere Capo di Palermo, prende forma il loro dialogo. Tra la poesia e la concretezza del lutto tutto è enigmatico, difficile da penetrare. La sostanza è che questo elogio funebre in cui il compianto non appare mai, nè mai viene nominato, è incerto, dilatato nel tempo, si forma man mano che lo spettacolo va avanti. Risulta difficile sentirsi coinvolti in questa scena, perchè non c’è una trama, i personaggi sono ambigui, per intere sequenze su di loro scende il buio e intervengono una terza voce narrante e proiezioni di immagini di guerra che invocano un’epoca, passata e presente, che viene definita “il Secolo Americano” iniziato nel 1948 e mai finito. Questo “secolo” ha visto sorgere moltissime guerre, quella in Afganistan, quella in Bosnia, quella in Siria. Le donne, in accordo a questo assunto ipotetico diventano via via più inclini a parlare di guerra, a ragionare in termini di oppressi e ribelli, di oppressori e dittature, di paesi dominanti e non, e il senso dell’elogio cambia. Chiamano in causa la relatività del tempo: esiste un tempo per i ribelli e un tempo per il lutto, non significa che non siano coincidenti nel tempo presente. Il tempo del compianto perdura come le guerre. Ma chi o cosa stanno piangendo non si saprà mai. Non c’è nemmeno nelle intenzioni di Sanja Grozdanic e Bassem Saad, autrici e attrici dell’opera, l’interesse a cadere nel tranello del pathos che evitano senza sforzo usando un linguaggio formale e monotonale. Relativizzando persino la fissità del testo, che cambia un poco ad ogni replica, lasciano aperte moltissime domande. (Silvia Maiuri)

Visto al Teatro Montevergini - Teatro Bastardo Festival. Crediti: Scritto da Sanja Grozdanic e Bassem Saad Suono Sandy Chamoun Realizzato grazie al supporto di The Curtis R. Priem Experimental Media and Performing Arts Center and Netwerk Aalst Presentato a Teatro Bastardo con il supporto di Goethe-Institut Palermo

LA SIGNORA PALERMO HA DUE FIGLIE (di Ernesto Tomasini)

“La Signora Palermo ha due figlie non è uno spettacolo, è una serata. La Signora Palermo non si va a vedere, si va a trovare. Come un'amica, una parente, una parte di voi che avevate sepolto.” (ndr) E infatti la signora Palermo di Ernesto Tomasini ci accoglie in casa sua: una grande sala con file di sedie disposte a formare due corridoi/passerella, del Teatro Montevergini di Palermo in occasione della nona edizione di Teatro Bastardo. Dopo moltissimi anni di premiata carriera all’estero, Tomasini vuole parlare della sua città in un clima di totale accoglienza. È la star di Teatro Bastardo, è l’unico che può aprire le porte di questo festival che ha l’obiettivo duplice di ospitare e stravolgere le regole dell’ospitalità. Nessuno di noi si sentirà al sicuro mentre occupa la propria sedia; come pubblico di questa performance ibrida tra commedia e dramma siamo chiamati a contribuire alle funzioni domestiche della padrona di casa e delle sue figlie (interpretate dalla drag perfomer Caso X, alias Alex Incognito, e la stand up comedian Celeste Siciliano) e intanto siamo testimoni di un cambiamento in atto: le figlie della vetusta Palermo, afflitta da un’arretratezza importante, desiderano superarla e abbandonarla. Sono il simbolo dell’autodeterminazione ma anche del malessere. Tutto ciò che succede al di fuori della casa è attraente, seduce, crea dipendenza. Quello che rimane dentro sembra stancare persino la sua artefice che vive nella speranza di riscatto, nell’arrivo di un “gerontofilo”, qualcuno che si innamori della sua vecchiezza. Quest’opera allegorica riuscitissima in cui intervengono l’esperienza decennale del musical di Tomasini, il linguaggio della stand up comedy e l’esuberanza drag, oltre che i riferimenti popolari di ogni tipo, crea moltissima ilarità ma si porta dietro anche l’amarezza, specie per il pubblico palermitano: la difficoltà di interpretazione della signora Palermo e la fatica della nuova generazione di andare avanti, si insinua nella nostra coscienza politica e le risate si fanno sempre più acute perchè ricolme di disagio. fg (Silvia Maiuri)

Visto al Teatro Montevergini - Teatro Bastardo Festival. Crediti: Scritto e diretto da Ernesto Tomasini Con Ernesto Tomasini, Caso-x e Celeste Siciliano Con Ryuki Costumi e scenografie Caso-x ed Ernesto Tomasini Assistente regia Sabrina Artelli coprodotto da Teatro Bastardo e Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino con la collaborazione di Goethe-Institut Palermo

TRACHINIE (regia di Walter Pagliaro)

Deianira è un personaggio in attesa, come spesso capita alle donne del mito greco. Attende il suo sposo, Eracle, il potente, l'avventuriero, quello delle fatiche, il semidio. Le Trachinie tra le tragedie di Sofocle è una delle meno rappresentate, Walter Pagliaro la illumina con passione, intelligenza e mestiere in un allestimento andato in scena al Teatro di Documenti. Talvolta gli astri si allineano: il regista è un depositario della tradizione strehleriana, ma con Giorgio Strehler lavorò anche lo scenografo Luciano Damiani prima di scavare nel Monte dei Cocci di Testaccio un teatro che è una sorta di utopia - il Teatro di Documenti, appunto, una ricerca architettonica in cui allargare in confini della ricerca teatrale. Pagliaro sfrutta due dei piani disponibili: scendiamo le scale  per arrivare allo spazio scenico -1 dove troviamo un telo in plastica nero che delimita la scena e si allunga fino alle scale sul fondo, sopra le nostre teste una rete di fili rossi da cui pendono  alcune lampadine, occupiamo i tre lati disponibili della platea. Qui si muoverà la Deianira di Micaela Esdra, anch'essa custodisce una tradizione che sta scomparendo, che le permette un'ampia tavolozza di colori vocali. Qui ogni parola è pesata, scelta nel suo significante recitativo, nelle sue levigature. Efficace anche Fabio Maffei nel ruolo del figlio, in grado di consegnare al pubblico una performance di rara intensità. Il coro, sempre grande interrogativo per la regia, è risolto nella bella prova, spesso all'unisono, di Cristina Maccà e Valeria Cimagli. E poi Fabrizio Amicucci ed Elisabetta Arosio, araldo e nutrice in un recitare anche in questo caso generoso e preciso. Lo spazio di Damiani qui riscopre il proprio statuto di luogo del mistero, scendiamo nella profondità del mito per ritrovarci in una piccola sala, come di fronte ad un altare catacombale, discepoli fortunati di un rito in via di estinzione. Deianira si era tolta la vita per grottesco dolore, ora di fronte a noi, con un colpo di teatro, c'è Eracle, ma sulla sgangherata sedia a rotelle il corpo e la voce trasformati di Micaela Esdra, in un suggestivo gioco del doppio tutto novecentesco. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro di Documenti. Regia Walter Pagliaro. Con Micaela Esdra, Cristina Maccà, Fabrizio Amicucci, Elisabetta Arosio, Fabio Maffei, Valeria Cimaglia. Spettacolo itinerante. foto Mattia Simoncelli

ALFREDINO – L’ITALIA IN FONDO A UN POZZO (di Fabio Banfo)

In quel pozzo Alfredino era solo apparentemente solo: a circondarlo, il peggio di un'Italia sprovveduta e invadente, pronta a emergere al primo fatto di cronaca disponibile. In questo Fabio Banfo si addentra, ricostruendo la triste e nota vicenda di Alfredo Rampi, bambino morto in un pozzo artesiano, negli anni Ottanta, a svariati metri di profondità. Nel buio totale, dal quale adesso anche il dramma emerge a fatica: dalla flebile luce che attraverso un microfono, appeso in alto, scende lungo il basso, verso l'interprete rannicchiato in una posa innaturale. Un adulto piccolo piccolo è Banfo, nato nello stesso anno di Alfredo: racconta la storia sua e di lui, fisso al centro del palco, rivolgendosi al pubblico. In quel centro è lui, è l'interprete, è la narrazione di quei momenti convulsi nella sua stessa vita; ai lati della scena, per la regia essenziale di Serena Piazza, l'attore raggiunge e interpreta digressioni minime di italiani e italiane coinvolti dalla disgrazia spettacolarizzata. Davanti agli schermi della televisione, così come attorno al pozzo dove visitatori e visitatrici si ammassavano, ostacolando le già discutibili manovre di salvataggio, è un popolino cannibale che già confonde cronaca nera e cronaca rosa, attentamente caratterizzato. «Se me ne vergogno? No»: sono le parole del giornalista che per primo raggiunge il luogo dei fatti. Ma nessuno sembra vergognarsi della curiosità morbosa e dell'incompetenza che si addensava, non solo metaforicamente, intorno alla stretta voragine di Vermicino. Un fatto di cronaca che diviene fatto di storia nazionale, e infine di costume: una questione sociologica in cui si annida la casualità di un dio "contabile", come lo definisce addirittura Mazinga, nella parentesi di un inaspettato teatrino di ombre cinesi. Ma almeno sul palco, davanti e insieme a spettatori e spettatrici si consuma un dono, una struggente seconda possibilità: per Alfredo, la memoria di un dolce ricordo. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Mercurio Festival, Spazio Franco. Crediti: di Fabio Banfo, con Fabio Banfo. Regia di Serena Piazza. Uno spettacolo di Effetto Morgana. Produzione: Centro Teatrale MaMiMò. Spettacolo vincitore del Premio Fersen alla Regia 2021, XVI ed., Miglior spettacolo e miglior drammaturgia Doit Festival di Roma 2017, realizzato con il Patrocinio del Centro Alfredo Rampi Onlus. Foto di Alessandro Villa

FINE (concept e danza di Olimpia Fortuni)

All’ultima edizione di Danae Festival ho rivisto, questa volta in uno spazio neutro e spoglio della Fabbrica del Vapore, Chamber Music di Silvia Rampelli (Habillé d’eau) che, nell’incredibile rigore con cui si dà, continua a sembrarmi un grande lavoro di liberazione delle immagini (la vita dell’altro) dalle finte e oppressive e crudeli discipline che le assumono come un mero calcolo. Ho visto anche The Second Body [unplugged version] di Ola Maciejewska, con Leah Marojević in un corpo a corpo con una scultura di ghiaccio (questo lavoro decisamente non è piaciuto ad Andrea Pocosgnich che ne ha già scritto: ma devo confessare che l’esperienza di questo vincolo sotto zero del corpo con la materia - al termine la carne sgocciola come ciò che ha liberato - ha la veemenza performativa di una trasmigrazione). Nel programma era atteso il debutto di Olimpia Fortuni con Fine. Titolo bellissimo per un assolo necessario: un archivio personale da smantellare. La scena tutta bianca infatti è uno spazio già dismesso, con tutti gli oggetti già ricoperti dai teli bianchi per imminenti traslochi. Fortuni, che è interprete straordinaria e coraggiosa, non ha timore alcuno ad aggredire l’ordine e la materialità di questi arredi, combinando la musica più nota dei Nirvana con suoni più cupi e ambientali (e bellissimi di Katatonic Silentio): è in gioco qui la memoria di figure considerate artisticamente materne, il peso forse di una legacy. E la prima apparizione video di questa memoria è bellissima, perché le due figure (Raffaella Giordano e Milena Costanzo) sono glitchate e sfumate e opacizzate in un video proiettato sul fondo, pieno di vita e pure di eleganza. Sarebbe bastato. Ma poi, la retorica dell’omaggio riconoscente e della dipendenza testimoniale sovrasta, e diluisce le azioni e il racconto. Nuovi ritorni di voci e di gesti che non sono congedo ma prigione, rivelano che la fine non è ancora iniziata. La felice forza distruttiva d’avvio si trasforma in un crepuscolo apologetico di relazioni che non finiscono mai, che sono sempre fra i piedi, certamente capaci di guida artistica, non sempre generativa. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Out-Off, Danae Festival. Crediti: concept e danza Olimpia Fortuni sound Katatonic Silentio con il contributo umano e artistico di Milena Costanzo e Raffaella Giordano apporto drammaturgico Cinzia Sità assistente di scena Elisa Spina direzione tecnica Silvia Laureti produzione Ass. Sosta Palmizi coproduzione Teatro delle Moire/Danae Festival, Fabbrica Europa con il sostegno residenziale di IntercettAzioni – Centro di Residenza Artistica della Lombardia, Olinda/TeatroLaCucina, Danza Urbana – Rete h(abita)t/Sementerie Artistiche ringraziamenti a Corinna Ciulli per le pratiche sciamaniche e a Pieradolfo Ciulli per l’assistenza video durante il processo creativo.

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