ROMANCES INCIERTOS, UN AUTRE ORLANDO
La penombra è una zona di sospensione onirica e di confine in Romances inciertos, un autre Orlando, una membrana porosa che consente il flusso trasformativo di una pelle ibrida che è corpo androgino, quello del danzatore e coreografo François Chaignaud. Il lavoro, co-diretto da Nino Laisné, attinge ad un sostrato culturale e letterario, nei riferimenti sia all’Orlando di Virginia Woolf e di Ariosto, sia al folclore dei balli e della tradizione locale spagnola. Le tele dagli scorci paesaggistici sconfinati e idillici, con atmosfere memori delle scene campestri, creano uno sfondo contemplativo che dilata lo spazio visivo e sonoro: essi abbracciano il passionale momento performativo diviso in tre atti e proiettano i distillati motivi musicali di quattro strumenti (il bandoneon, la viola da gamba, il theorbo e le percussioni), che nelle note scandiscono il ritmo cromatico ricamato sugli elaborati costumi, anch’essi narratori della storia popolare. È questo lo scavo nella tradizione ispanica, il gesto della sua riattualizzazione, il potere dell’immaginario mitico di una cultura condivisa che ritorna con la prepotenza del rimosso, ammalia, inibisce, trasporta in una dimensione altra dove la melodia sprofonda nella danza delle membra e il canto si sublima in una voce che condensa i frammenti del racconto. La fascinazione di questa visione, che sperimenta il limbo tra Opera e balletto, abita così il mistero inafferrabile del mito; poi ripercorre il tempo a ritroso, attraversa lo spazio e rifugge finalmente le categorie imposte e fisse del genere. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale Teatro di Milano, Crediti: ideazione, regia e direzione musicale Nino Laisné, ideazione e coreografia François Chaignaud, voce e danza François Chaignaud, bandoneon Jean-Baptiste Henry, viola da gamba François Joubert-Caillet, theorbo chitarra barocca Pablo Zapico, percussioni storiche e tradizionali Pere Olivé
HIT ME!
L’elemento tecnologico si integra e si fonde al linguaggio performativo di Hit me!, lavoro di cui Chiara Bortoli firma la regia in collaborazione con Jennifer Rosa, un collettivo che focalizza la propria ricerca sui processi della danza e delle arti visive, affidando agli interpreti «consegne precise, capaci di innescare un qui e ora dove possa affiorare l’intensità dei corpi (…)». Il computer posto a lato del palco, secondo una scelta casuale di Bortoli, trasmette una playlist con le hit musicali registrate nel giorno del compleanno della performer in scena, dall’anno di nascita fino ad oggi. La telecamera, invece, è posizionata di fronte al pubblico e lo riprende come parte dello spettacolo: Francesca Foscarini improvvisa in diretta i movimenti, ma talvolta entra e si sofferma sull’inquadratura, che ne cattura la trasformazione dei dettagli anatomici nell’impatto emotivo del ritmo musicale. Il videoproiettore li riproduce così su uno schermo che funge da lente di ingrandimento per le contrazioni muscolari del volto, ormai privo di difese e pronto ad essere “colpito”. In questa sintassi live di Foscarini, il gesto personale risuona familiare e la ricerca quasi embrionale colpisce per immediatezza e semplicità nell’immaginario del pubblico: dal brano pop riconoscibile la performer si fa investire, lo respira, lo vive, lo agisce attraverso il corpo per poi tradurlo nel lessico dello spazio, utilizzando anche quello extrascenico per poi improvvisamente scomparire oltre le tende nere di fondo. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Credits: concept e regia Chiara Bortoli, Francesca Raineri/Jennifer Rosa, performer Francesca Foscarini, alla consolle Chiara Bortoli. Foto di Fiorenzo Zancan
QUEL CHE RESTA
La scomposizione e ricomposizione di vettorialità orizzontali sono la matrice del lavoro che la coreografa e danzatrice Simona Bertozzi porta sul palco del Teatro Out Off di Milano con Quel che resta. Accanto a lei, il corpo giovane di Marta Ciappina detta la sintassi performativa, in gesti precisi ma fluidi; i molleggi coinvolgono le braccia, le gambe, il capo e il busto, ne amalgamano le parti e vengono ripetuti dalla compagna di scena con un leggero scarto sia spaziale sia temporale. I ruoli, poi, si invertono e le due danzatrici rincorrono delle simmetrie, si avvicinano, si scrutano nei movimenti, si imitano, riscoprendo un ritmo comune, una danza condotta all’unisono. La performance, presentata l’anno scorso a Romaeuropa Festival, ha avuto il sostegno del Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e fa parte di THAUMA, un progetto per le arti performative e per la ricerca sul linguaggio del corpo. Questo diventa il luogo di un'analisi sulle dinamiche dell’incontro, del ri-conoscersi: ai passi di coppia, infatti, fa eco un estratto del documentario Big Animals survival strategies, che aggiunge alla tecnica un ironico riferimento alle metodologie relazionali nel mondo animale. Il suono, curato da Roberto Passuti, riverbera nelle zone brumose della sala, il light design invece si diffonde sulle estremità legate dei due corpi. Quel che resta, alla fine, è la struttura spoglia di un’architettura con pietra a vista, sfondo di una ricognizione. Quel che resta è il tocco, finale, impercettibile, di un nuovo incontro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Out Off di Milano. Credits: concept e coreografia Simona Bertozzi, danza Marta Ciappina, Simona Bertozzi, soundscape Roberto Passuti (con un estratto dal documentario Big Animals survival strategies), light design Giuseppe Filipponio. Foto di Luca del Pia
NUCLEO – DA FRANCIS BACON
Un tempo rallentato. Una figura a lato della scena in posa, composta sulla sedia, guarda lo spettatore, lo seduce. Movimenti lievi, impercettibili. Le luci di contrasto, di Gianni Staropoli, si diffondono in tonalità di azzurro e viola, su due tele incorniciate di fondo. Alessandra Cristiani è il nucleo ipnotico, il suo corpo inizialmente un abitacolo vestito che nella sperimentazione della carne non può che mostrare il proprio divenire: scivolare, allungarsi, raccogliersi e poi spogliarsi, per ritornare ad un nudo significante, primordiale. Nella sala, la performer ripercorre un dedalo introspettivo a partire dallo studio dettagliato di Francis Bacon. Del pittore recupera i toni cupi e allucinati, la distorsione dei gesti è trasfigurazione che si tramuta in cruda materia, carne viva che porta con sé un’ineluttabile tragicità. Il lavoro coreografico, prima presentato a Teatri di Vetro nel 2020, poi a Inequilibrio Festival a giugno 2022, è rientrato a ottobre all’interno della rassegna del Danae Festival di Milano, come secondo capitolo di una trilogia che snocciola la questione del corpo attraverso la sperimentazione dell’arte di grandi maestri (Schiele, Bacon e Rodin). Nei movimenti di r-esistenza del corpo di Cristiani emerge, dunque, uno studio artistico meticoloso e patologico, una danza istintiva che appare come una progressiva corrosione epidermica: il vino cola sul viso, la pelle si sporca e lacera, le polaroid si espongono al contatto, la pittura diventa unico nutrimento. «Portare l’alone di una crisi» è, qui, il senso di una metamorfosi organica, il nucleo di una profonda tensione spirituale. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Credits: concept e performance Alessandra Cristiani, musica e suono Claudio Moneta, Iva Bittova, luce Gianni Staropoli, Foto di Maurizio Anderlini
ECLOGA XI
Si inserisce organicamente nel percorso di Anagoor, Ecloga XI, visto a Vie Festival e incentrato sulla poesia di Andrea Zanzotto: il gruppo veneto ancora una volta prende le mosse dalla cultura dei propri territori per mettere in scena la parola poetica. La ritmica graffiante di Recitativo veneziano apre la performance solo in audio, con la voce violenta (e quasi rock di Luca Altavilla) e la traduzione in italiano proiettata qualche spanna sopra il sipario chiuso; lampi di luce illuminano il Teatro Fabbri di Vignola in una replica per pochi spettatori. A sipario aperto la scena è buia, teli accatastati che sembrano macigni, una donna e un uomo (Leda Kreider e Marco Menegoni), come fossero gli ultimi spettatori del mondo in rovina, scrutano un dipinto sulla città lagunare - La tempesta di Giorgione al quale proprio i due personaggi sono stati sottratti. Qual è il ruolo dell’arte e della poesia (e dunque del teatro) in un’epoca in decadenza? La domanda risuona potentemente, Simone Derai e la sua compagnia non tentano di rispondere in termini assoluti, ma con la pratica stessa dell’arte, del gesto performativo. Domande appese sulle labbra dei due interpreti, pronte per essere colte da chi è in ascolto. In uno dei momenti finali, nel nudo di Kreider, in piedi e difronte al microfono, circondata da una suggestiva installazione di foreste fluorescenti, è l’oscurità ad essere celebrata, sono i passi di (Perché) (Cresca): Perché cresca l’oscuro/perché sia giusto l’oscuro/perché, ad uno ad uno, degli alberi/e dei rameggiare e fogliare di scuro/ venga più scuro… (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Ermanno Fabbri. Vie festival 2022. Crediti: Testi di Andrea Zanzotto Con Leda Kreider e Marco Menegoni Musiche e sound design Mauro Martinuz Drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto Regia, scene, luci Simone Derai Organizzazione Annalisa Grisi Amministrazione Maria Grazia Tonon Management e Distribuzione Michele Mele
SPECIAL HANDLING
“Io ti offro un massaggio o una pratica, tu puoi insegnarmi qualcosa?” Entriamo nella tenda di Special Handling ricordando la presentazione del percorso di studio e pratiche di scambio intrapreso da Elisabetta Consonni nel 2021 a Milano, presentato poco prima, con Maria Paola Zedda, durante la talk Le alleanze dei corpi: poetiche e politiche della cura. In un angolo del cortile di Villetta Social LAB a Garbatella, accogliente come sempre durante la serata di Interazioni Festival, ci sfiliamo le scarpe per scivolare sotto un drappo variopinto, emblema di una forma dell’abitare nomadica tanto radicata quanto rimossa dall’immaginario urbano dominante. Le cuspidi tese fra corda e corda, l’odore paglierino e i colori intensi dei tessuti riproducono l’emozione del bambino che erige una tenda al centro della cameretta. Il quesito alla base delle pratiche messe in campo da Consonni mira a costruire esperienze alternative, destituire le dinamiche dominanti che eleggono luoghi e forme dell’insegnamento lungo i margini di rapporti di potere che si possono perpetrare solo producendo periferie. Così Consonni ha raccolto e scambiato saperi in contesti considerati marginali. Sotto la tenda la stessa coreografa e studiosa, insieme a Fatima Ferro che ha realizzato i tappeti su cui ci accomodiamo, non ci chiederà di consegnarle alcun sapere (ne saremmo capaci?), ma condividerà alcuni degli incontri avvenuti durante la ricerca performativa. Da ultimo ci viene regalato un massaggio. Ad occhi chiusi, sotto il cielo della tenda, una performance può essere anche occasione per ricevere cura. (Andrea Zangari)
visto al Teatro Palladium. Interazioni Festival: di Elisabetta Consonni Perfomance: Elisabetta Consonni, Fatima Ferro Realizzazione tappeto: Fatima Ferro Decorazione tenda: Faiza Marei Riprese video: Sara Bramani Editing: Elisabetta Consonni Suono performance: Neunau Nei video: Iuliana, Gehan, Fatima, Taslima
ROOM
Sarà stato un sogno in cui si piomba mentre tutto è già iniziato: le pareti hanno dimensioni spropositate e si muovono a piacimento, senza mai incastrarsi perfettamente, liberando o occludendo; le anime che abitano questo luogo cangiante cambiano anch’esse, persone con i nomi reali, manager stressati e tecnici burberi, e poi dandy, donne in nero, mostri dorati, dame ottocentesche in attesa di vivere, nascosti o appena scovati dentro una scrivania, futuri artisti che attendono di essere provinati e cantanti consumati in abiti sgargianti. Room è lo spazio dell’immaginario dell’architetto-regista-sognatore James Thierrée, che lui stesso dall’interno vive e governa (anche tecnicamente, guardate i crediti) pianificando alla sua scrivania, volteggiando in aria, cadendo, guidando e divertendosi molto. Artista inclassificabile dentro un unico codice – danza, circo, musical, dramma… – ma che anzi, coerentemente spinge a squadernare spazi e mezzi per il fine ultimo del generare meraviglie. Il palco del Teatro Argentina ospita per Romaeuropa quest’ultima creazione che trova i pubblici delle serate estasiati, anche in quelle fasi centrali in cui il gioco circense diventa un po’ esercizio fine a se stesso. Ma forse è quel senso di libertà che può prendersi un artista che ha da sempre (anche in famiglia, vista la discendenza chapliniana) vissuto nel mondo onnisciente e spaventoso e fantastico del teatro. Un luogo in cui ci si può permettere di rallentare e velocizzare il tutto, trasformare una sala decadente in un musical agée, vivere mille vite, sbagliare anche, e riprendere di nuovo in una giostra senza fine. (Viviana Raciti)
Visto a Romaeuropa festival, Teatro Argentina. Creato, diretto e interpretato da James Thierrée. Musica originale: James Thierrée Con: Anne-Lise Binard, Ching-Ying Chien, Mathias Durand, Samuel Dutertre, Hélène Escriva, Steeve Eton, Maxime Fleau, Nora Horvath, Sarah Manesse, Alessio Negro. Luci: James Thierrée, Lucie Delorme, Samuel Bovet. Regia del suono: Lilian Herrouin, Loïc Lambert, Jean François Monnier.Clicca qui per i crediti completi
REPORTERS DE GUERRE
Reporters de guerre è l’esordio alla regia di Sébastien Foucault, piéce che apre la stagione teatrale al Piccolo di Milano e che, a partire da alcune citazioni del film Blade Runner, filtra il teatro documentario attraverso l’utilizzo di diversi media, dalla telecamera, alla proiezione video, all’elemento radiofonico. Visione ed ascolto diventano i cardini di una forte esigenza narrativa, tradotta nella drammaturgia di Julie Remacle, curata dalle luci di Caspar Langhoff e dal suono di Kevin Alf Jaspar. In scena, Françoise Wallemacq, Vedrana Božinović e Michel Villée sono ex-giornalisti che hanno vissuto sul campo le tragedie del conflitto scoppiato nelle regioni della ex-Jugoslavia. Le loro documentazioni, riportate in tre lingue – inglese, francese e bosniaco – creano una dimensione internazionale, si intrecciano ai racconti personali, alle interviste, alle ricostruzioni di fatti atroci realmente accaduti e che incontrano ora lo scoglio, doloroso, della spiegazione. Tuttavia, è nel finale che il tentativo di verismo si sgretola e cede, ripiegandosi nella ricerca di una roboante spettacolarizzazione e nella finzione di una messa in scena che cerca invano di colpire allo stomaco dello spettatore con un eccesso di visione: la platea è così una piazza di giovani. Qui, una bomba esplode, le orecchie fischiano per poi scoppiare e un post-it decreta chi perde la vita, ma sul palco, a raccogliere il dolore collettivo, è il corpo feticcio di un bambino, che è un manichino, una bambola, un corpo finto per un lutto che, nell’iperbole di un’immagine ricostruita, continua a sfuggire alla profondità del sentimento. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: di Sébastien Foucault, Julie Remacle et ensemble, drammaturgia Julie Remacle, regia Sébastien Foucault, con Françoise Wallemacq, Vedrana Božinović, Michel Villée , ricerche Sébastien Foucault, Françoise Wallemacq, Vedrana Božinović, Michel Villée, Mascha Euchner-Martinez, Mirna Rustemovic, Maxime Jennes, Nikša Kušelj, scene Anton Lukas, luci Caspar Langhoff, suono Kevin Alf Jaspar, produzione Que Faire? Asbl e Théâtre de Liège. Foto di Françoise Robert
DIFFICULT LOVERS
Un impermeabile, una valigia logora: un misterioso viaggiatore attende fuori dal Libero, prima di attraversare in volo il foyer, accarezzandone il pavimento coi piedi nudi. Lo inseguiamo, come si insegue il filo di un romanzo, per ritrovarlo poco dopo sul palco, assieme a un altro viaggiatore e altre due viaggiatrici notturne (sono Noemi Bottone, Davide Cannata, Federica Marullo e Francesco Russo). Così inizia Difficult Lovers, omaggio di Evgeny Kozlov alla letteratura di Calvino, da un progetto di Luca Mazzone. I danzatori attraversano una topografia davvero calviniana: stazioni, non-luoghi dove i personaggi si compongono e si disgregano come atomi imprevedibili; spiagge, dove sembra di doversi imbattere in qualche Palomar di passaggio; librerie astratte e cumuli di libri in cui la parola letta è qui patita fisicamente. Il testo drammaturgico è pensato come una raccolta di racconti. Le scene e i costumi di Giulia Santoro rievocano suggestivamente le atmosfere letterarie, squarciate dalle eleganti luci di Mario Villano: in vari momenti il risultato è di sapore cinematografico, da noir. Gli episodi, in successione come avvenimenti isolati, si inseguono in modo a tratti convulso, e spesso si cede a una sorta di didascalismo letterario. Ciò nonostante, la danza ha reso, nel reciproco scivolamento dei corpi, nel contatto ridotto a sfioramento, nell’iterazione simultanea di gesti minimi e appassionati pas de deux, il senso degli affetti calviniani: amori sfuggenti, difficili perché difficilmente superano il limite della possibilità. Una buona pagina di letteratura, scritta col linguaggio della performance, in questo progetto di teatro-danza. (Tiziana Bonsignore)
visto al Teatro Libero. Crediti: di Evgeny Kozlov, da un progetto di Luca Mazzone, coreografie e regia di Evgeny Kozolov, con Noemi Bottone, Davide Cannata, Federica Marullo e Francesco Russo, costumi e oggetti di scena Giulia Santoro, luci Mario Villano. Foto di Giovanni Franco
SATIRI (di Virgilio Sieni)
Lyotard in Discours, figure (1971) parla di una «base silenziosa nella vita della carne»: l’aprirsi, in essa, di uno spazio vacante, l’entità (e la coscienza ferma) di un ulteriore, di qualcosa che superi l’idea di corpo come luogo di elezione dell’evento. È attorno a una simile ipotesi che Satiri di Virgilio Sieni sembra muovere l’inchiesta, impegnando il nostro sguardo in un esercizio di trascendenza. I danzatori, Maurizio Giunti e Jari Boldrini, sulla scena nuda disegnano sequenze di grazia che movimentano le forme della statuaria greca, richiamano la densità dei gruppi scultorei, il creaturale e doloroso librarsi delle carni. Ma vi è, soprattutto, il ricomporsi di un’armonia naturale, che pare avvolgere i corpi chiudendo, in un segno superiore, le corrispondenze accanto agli scarti, alla dualità insanabile, ai tratti nei quali la dialettica si fa più scoscesa e più tragica. Il segno superiore è musicale: il terzo corpo, della violoncellista Naomi Berrill, si inscrive nella scena donandole, a un tempo, il perimetro sonoro di esistenza. Le Suite n. 3 in Do Maggiore, BWV 1009 e n. 4 in Mi bemolle Maggiore, BWV 1010 di Bach tracciano, nella relazione con il silenzio e con gli interventi vocali di Berrill, la morfologia sulla quale la performance si schiude e si dispone. Si tratta di una struttura che condivide con la civiltà antica il carattere dell’evidenza quieta e del mistero che trafigge: il sentimento di una distanza che, proprio come in Ode su un’urna greca di Keats, realizza ancora il prodigio, tramutando la contemplazione in meditazione. (Ilaria Rossini)
Visto all’Auditorium San Domenico, Foligno – Umbria Factory Festival 2022. Crediti: coreografia e spazio Virgilio Sieni; interpretazione Maurizio Giunti e Jari Boldrini; violoncello Naomi Berrill; musica Johann Sebastian Bach (Suite n. 3 in Do Maggiore, BWV 1009; Suite n. 4 in Mi bemolle Maggiore, BWV 1010)
TRUCIOLI
La vita è così perché c’è la gente che trova il modo, ogni volta diverso, di trascorrerla; qualcuno lo sceglie, molti si adattano, ma la vita è sempre la stessa e si manifesta in idee, gesti, risate, tic nervosi, rifiuti, tutto ciò che permette a un essere umano, in qualche maniera tutta sua, di stare al mondo. E per essere artisti, di questa umanità, bisogna essere curiosi. Lo sanno, da sempre, Gli Omini che da qualche anno se ne vanno in giro a raccogliere Trucioli, piccoli frammenti di umanità, pezzetti di legno che dall’albero vengono ma che poi saranno scartati per costruire l’oggetto migliore, solido, più adatto a non frantumarsi o finire nel fuoco. Volano i trucioli, poco più della segatura sembrano inutili, ma è lì che gli artisti vanno a cercare per rappresentare la vita: Giulia Zacchini compone dunque una drammaturgia che scava tra le macerie dell’umanità, assieme ai due attori Francesco Rotelli (che si conferma tra i migliori attori italiani in circolazione) e Luca Zacchini rintraccia esperienze in diverse lingue, pause, atteggiamenti, fino a costruire un paesaggio di ciò che resta solitamente fuori dal grande affresco della vita. Un tavolo frontale, una sorta di conferenza si trasforma poi in una offerta di scene “extra ordinarie”, si direbbe, di tutti i giorni ma arricchite di quella originalità spiazzante che le rende uniche. Tanti personaggi scelti dagli spettatori di fronte a una parete di trucioli, una mappa di titoli diversi; i due attori trovano chiavi di lettura per esprimere l’uno o l’altro con qualità e profondità, mettere in luce queste “vite minuscole di gente minuscola”, fuori dalla storia forse, ma mai fuori dalle loro storie. (Simone Nebbia)
visto a Carrozzerie Not. Crediti: un progetto de Gli Omini; drammaturgia Giulia Zacchini; con Francesco Rotelli e Luca Zacchini; prodotto da Teatro Metastasio di Prato
RIMINI
Rimini è una fantasia, esiste nei cartelli pubblicitari di colori sgargianti prima di quelli con le indicazioni stradali, Rimini “la città con più palestre per numero di abitanti” è un’invenzione degli anni 90, precisamente quella che li ha fatti diventare tali, gli anni 90. Eppure uno scrittore, già qualche anno prima, lo aveva capito e nonostante tutto ci andava a cercare la vita residua, quella nascosta come un tesoro sotto la sabbia della sua riviera. Pier Vittorio Tondelli, morto nel 1991, scrisse l’omonimo romanzo nel 1985, Mario Scandale con il Gruppo RMN oggi lo porta in scena con cinque attori (Luisa Borini, Lorenzo Carpinelli, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona) che dal patinato playback del musical di Biancaneve in poi cercano di rappresentare la fauna riminese che la ricerca antropologica dello scrittore, presente sulla scena, tentava di scovare. La scena è poi improntata al minimalismo estremo e una frontalità che pone i monologhi direttamente tra le braccia del pubblico; ci si aspetta di vedere colori squassati, accesi, invece ci sono storie di un’umanità che fa fatica: la cameriera schiavizzata, la matrona degli stabilimenti balneari, il re del divertimento di riviera, ognuno manifesta la propria oscurità dietro il velo spesso del cartonato pubblicitario, ognuno cerca di evidenziare come combattere la decadenza in un posto che apparentemente non conosce caduta, ognuno cerca di spiegare cos’è Rimini, quando si abbassa la luce, quando si abbassa la musica, quando si abbassa l’urlo scomposto in cui si nasconde. (Simone Nebbia)
visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Focus InBox. Crediti: uno spettacolo di Gruppo RMN, da un’idea di Giulia Quadrelli; con Luisa Borini, Lorenzo Carpinelli, Leo Merati, Giulia Quadrelli, Chiara Sarcona; drammaturgia Giulia Quadrelli e Francesco Tozzi; regia Mario Scandale; video Leo Merati; luci Camilla Piccioni; in collaborazione con Ginkgo Teatro
ANY ATTEMPT WILL END IN CRUSHED BODIES AND SHUTTERED BONES
Any attempt will end in crushed bodies and shuttered bones: il titolo dell’ultima opera di Jan Martens programmata da Romaeuropa Festival, è citazione di una durissima affermazione da parte di Xi Jinping in risposta alle proteste del 2019 che hanno portato tra le strade di Hong Kong migliaia di manifestanti. Sul palco della Sala Petrassi i concetti di libertà, di azione di massa, di repressione a un agire non conforme, di costrizione verso un ordine superiore, di tentativi di superamento sono magnificamente tradotti in un linguaggio totale, dove strumenti sono i corpi nelle loro differenze estetiche, sociali, generazionali e culturali. Sicuramente le scelte sonore determinano scene, interpretazioni e influiscono fortemente sull’atteggiamento del pubblico. Su tutte (anche più del rap di Kae Tempest, che si ascolta dopo) è il primo pezzo, bomba ad orologeria per interventi in assolo, in coppia, in gruppi sempre più grandi, reiterato più e più volte quasi come fosse una minaccia latente contro la quale scontrarsi e senza mai riuscire a trovarne soluzione pacificata, la cui stessa armonizzazione si basa su reiterazioni di accordi, suoni acuti e dissonanti, finte risoluzioni e virate sospese, terribili, è il Concerto per clavicembalo e archi Op. 40 di Henryk Górecki. Messa in atto del testo feroce di Ali Smith, pronunciato al microfono, provocazione da leggersi al contrario, mentre i corpi ancora in grigio sfilano in cerchio. La rivoluzione deve innescarsi, i corpi devono rompere l’imposizione dall’alto, sfidarla quindi gioiosamente, atipica, viva, eccoli vestiti in rosso. (Viviana Raciti)
visto a Romaeuropa Festival | Auditorium della Musica. Crediti: Coreografia: Jan Martens. Danzatori: Ty Boomershine, Truus Bronkhorst, Jim Buskens, Zoë Chungong, Piet Defrancq, Naomi Gibson, Kimmy Ligtvoet, Cherish Menzo, Steven Michel, Gesine Moog, Dan Mussett, Wolf Overmeire, Tim Persent, Courtney May Robertson, Laura Vanborm, Loeka Willems, Georgia Boddez, Zora Westbroek, Lia Witjes-Poole
PARCAE
Primavera dei Teatri è tornata dopo un anno di assenza e lo ha fatto aprendo, oltre alla consueta programmazione a Castrovillari, una finestra su Catanzaro in cui poter ospitare importanti lavori nazionali e alcuni lavori internazionali che altrimenti con grande difficoltà avrebbero trovato spazio a sud di Roma. Rimane però nel lavoro dei curatori (Pisano, La Ruina, De Luca) anche l’abituale sguardo sui nuovi artisti. Vale questo discorso ad esempio con la residenza di cui è stata protagonista Marialuigia Gioffrè: Parcae è un lavoro che affonda la propria ricerca nel mito creando uno spazio artistico perturbante e sorprendente in alcuni spazi del castello aragonese di Castrovillari. Quando entriamo le performer (Anna Luigia Autiero, Benedetta Rustici, Chiara Serafini) sono intente a pulire una stanza di media grandezza, poi spariscono dietro una porta scura, possiamo, uno alla volta, guardare dentro, nello spazio di uno spioncino rettangolare, di quelli usati nelle vecchie carceri: improvvisamente l’immagine di un nudo femminile su una di quelle poltrone (o lettini) da studio medico. Entriamo, nel bianco delle pareti è l'azzurro delle luci a dominare, tra angoscia e candore, mentre appare una donna con il volto coperto e un'altra con un barattolo in cui annega un neonato, in questo incubo lattiginoso lentamente si farà spazio un canto. Tornano in mente alcuni cicli di opere tra teatro e installazioni di Gian Maria Tosatti viste più di quindici anni fa nei sotterranei dell’Angelo Mai a Monti. Lo sguardo dello spettatore è sollecitato, è in cerca di spaesamenti, di poesia, di turbamenti, deve guadagnarsi lo spazio, entrare in contatto con i corpi e con gli occhi. Ecco, gli occhi, c’è un lavoro evidente sullo sguardo di queste moire che scrutano chi le sta guardando. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Castello Aragonese. Crediti: di Maria Luigia Gioffrè con Anna Luigia Autiero, Benedetta Rustici, Chiara Serafini consulente per la drammaturgia Angelo de Matteisuono Riccardo Giulio Scarparo scenografie e costumi Salvatore Antonio de Pascalis
ULTIMI ARTICOLI
Prospero | Dicembre 2024
PROSPERO | Dicembre 2024
La scena delle donne, di Emilia Costantini e Mario Moretti, BeaT (2022)
Scenografe. Storia della scenografia femminile dal Novecento a oggi, di...