STENDHAL COMEDY
Un manipolo di bambini e bambine, un cane e un gatto, alla guida di due libri su ruote, sulle cui copertine è scritto «Contro il nulla che avanza». È l’illustrazione della 3a edizione di Libri Monelli, Festival di Momo Edizioni organizzato nel primo weekend di novembre al CSA Brancaleone. Incontri, laboratori, spettacoli per le famiglie in cui il presente del mondo, problematico o meno, viene spiegato ai giovani attraverso la letteratura, il fumetto, i disegni e il teatro. Il nulla che avanza potrebbe anche essere quello personale: se conoscessimo noi stessi, cosa troveremo? L’attore, scrittore, e anche insegnante, Davide Grillo nel suo Stendhal Comedy risponde che potremmo anche non incontrare nessuno. Il nulla, appunto. Partendo dall’immedesimazione con la buccia di banana, come fossimo noi la causa dell’inciampo per antonomasia, Grillo instaura una chiacchierata schietta con il pubblico attorno ai temi chi siamo noi di fronte agli altri e, soprattutto, a noi stessi? E cita in causa anche Stendhal e il suo viaggio in Italia, in particolare a Roma, dove visse il suo anno più triste; pretesto con il quale l’attore traccia un parallelo biografico funzionale a rendere la costruzione dialettica un ragionamento divertente sulla coscienza, con aneddoti tangenziali ma congruenti nel senso, in cui i tre concetti psicoanalitici Es, Io e Super-Io interrogano i nostri comportamenti. Come piccoli buffetti sulle guance, le peripezie monologanti di Grillo pizzicano l’inconscio per ricordarci che il nulla è proprio dietro (o dentro?) di noi. (Lucia Medri)
Visto al CSA Brancaleone, Roma, Festival Libri Monelli. Crediti: di e con Davide Grillo. Foto Giuseppe Brigante
IL MERCANTE DI VENEZIA
Scenografia imponente, cast numeroso, star protagonista e adattamento snello: questi gli ingredienti del classico Shakespeare di giro, come il Mercante di Venezia diretto da Paolo Valerio. Circondato da una folla di personaggi sempre in scena, ai lati del palco, Franco Branciaroli è uno Shylock tutto esteriore, quasi macchiettistico. Lo stampo classico del suo ben dire diventa a tratti un cantato che assottiglia la distanza originale tra il tragico intrigo di vendetta e giustizia e i vezzi delle parallele vicende amorose di Porzia/Bassanio e Lorenzo/Jessica. L’intero spettacolo, di oltre due ore e mezza, vira decisamente sulla commedia, complici le trovate sceniche legate all’uso delle luci, delle musiche ed effetti dal vivo, delle coreografie di gruppo. Un gioco, “uno sport” - come Shylock definisce la clausola debitoria con Antonio - che incontra la grande approvazione di una platea variegata e numerosa. Il risultato è un Mercante di Venezia che resta in superficie, rinuncia alla tridimensionalità scespiriana e disinnesca il tragico a favore di un intrattenimento comunque forte di un adattamento efficace e di una compagnia affiatata, seppur eterogenea nella resa. Inevitabile chiedersi il ruolo di operazioni del genere nel panorama nazionale (lo spettacolo prevede una lunga tournée in molte piazze della penisola), soprattutto riflettendo sull’indice di gradimento di un pubblico certamente diverso da quello di altri circuiti, forse più vicino alla “pancia” del paese. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Quirino. Crediti: Di William Shakespeare. Traduzione Masolino D’Amico. Con Franco Branciaroli, Piergiorgio Fasolo, Francesco Migliaccio, Emanuele Fortunati, Stefano Scandaletti, Lorenzo Guadalupi, Giulio Cancelli, Valentina Violo, Dalila Reas, Mauro Malinverno, Mersila Sokoli. Regia e adattamento: Paolo Valerio.
ESEQUIE SOLENNI
Il teatro come chiave di lettura del mondo è un’esigenza che si avverte con prepotenza nel critico scenario attuale. Ma quando diventa necessario rivisitarne i codici, le forme, i linguaggi? Sono queste le riflessioni che puntellano l’attenzione dello spettatore che si è recato ai Navigli per assistere alla rappresentazione dell’elaborato testo di Antonio Tarantino, nella regia di Renzo Martinelli. Sul palco, un soggiorno disordinato, un lampadario a terra, sedie in precario equilibrio, specchi sdoppianti e due donne, Elena Arvigo ed Emanuela Villagrossi, che erano due mogli di importanti uomini politici e ora due vedove sole, vestite a lutto. Nello smarrimento di una perdita condivisa trovano conforto e si preparano alla liturgia delle esequie solenni, onoranze funebri riservate a coloro che la storia l’hanno scritta, anche a costo della vita. Al motivo personale di sofferenza, di crisi emotiva, se ne affianca uno più prettamente identitario, il principio di una riflessione che mette in discussione il ruolo stesso che assume la donna, aprendole la possibilità di emanciparsi, ma solo in seguito alla funesta rottura del legame col marito. È così che la ricerca di verità, messa in relazione ai tempi moderni, sembra disperdersi, mentre l’interpretazione si patina di un’aura di lontananza che rende impossibile un’autentica immedesimazione introspettiva. Infatti, nonostante la vicinanza strutturale tra platea e proscenio, la retorica dei due personaggi fluisce dalle parole scritte da Tarantino ma si chiude progressivamente in un mancato dialogo col pubblico. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro i di Milano. Credits: di Antonio Tarantino, regia di Renzo Martinelli, assistente alla regia Diego Zanoni, con Elena Arvigo ed Emanuela Villagrossi, suoni di Gianluca Agostini, luci di Andrea Ceriani e Beppe Sordi, costumi di Lapilou, produzione di Teatro i. Foto Luca del Pia
ROMANCES INCIERTOS, UN AUTRE ORLANDO
La penombra è una zona di sospensione onirica e di confine in Romances inciertos, un autre Orlando, una membrana porosa che consente il flusso trasformativo di una pelle ibrida che è corpo androgino, quello del danzatore e coreografo François Chaignaud. Il lavoro, co-diretto da Nino Laisné, attinge ad un sostrato culturale e letterario, nei riferimenti sia all’Orlando di Virginia Woolf e di Ariosto, sia al folclore dei balli e della tradizione locale spagnola. Le tele dagli scorci paesaggistici sconfinati e idillici, con atmosfere memori delle scene campestri, creano uno sfondo contemplativo che dilata lo spazio visivo e sonoro: essi abbracciano il passionale momento performativo diviso in tre atti e proiettano i distillati motivi musicali di quattro strumenti (il bandoneon, la viola da gamba, il theorbo e le percussioni), che nelle note scandiscono il ritmo cromatico ricamato sugli elaborati costumi, anch’essi narratori della storia popolare. È questo lo scavo nella tradizione ispanica, il gesto della sua riattualizzazione, il potere dell’immaginario mitico di una cultura condivisa che ritorna con la prepotenza del rimosso, ammalia, inibisce, trasporta in una dimensione altra dove la melodia sprofonda nella danza delle membra e il canto si sublima in una voce che condensa i frammenti del racconto. La fascinazione di questa visione, che sperimenta il limbo tra Opera e balletto, abita così il mistero inafferrabile del mito; poi ripercorre il tempo a ritroso, attraversa lo spazio e rifugge finalmente le categorie imposte e fisse del genere. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale Teatro di Milano, Crediti: ideazione, regia e direzione musicale Nino Laisné, ideazione e coreografia François Chaignaud, voce e danza François Chaignaud, bandoneon Jean-Baptiste Henry, viola da gamba François Joubert-Caillet, theorbo chitarra barocca Pablo Zapico, percussioni storiche e tradizionali Pere Olivé
HIT ME!
L’elemento tecnologico si integra e si fonde al linguaggio performativo di Hit me!, lavoro di cui Chiara Bortoli firma la regia in collaborazione con Jennifer Rosa, un collettivo che focalizza la propria ricerca sui processi della danza e delle arti visive, affidando agli interpreti «consegne precise, capaci di innescare un qui e ora dove possa affiorare l’intensità dei corpi (…)». Il computer posto a lato del palco, secondo una scelta casuale di Bortoli, trasmette una playlist con le hit musicali registrate nel giorno del compleanno della performer in scena, dall’anno di nascita fino ad oggi. La telecamera, invece, è posizionata di fronte al pubblico e lo riprende come parte dello spettacolo: Francesca Foscarini improvvisa in diretta i movimenti, ma talvolta entra e si sofferma sull’inquadratura, che ne cattura la trasformazione dei dettagli anatomici nell’impatto emotivo del ritmo musicale. Il videoproiettore li riproduce così su uno schermo che funge da lente di ingrandimento per le contrazioni muscolari del volto, ormai privo di difese e pronto ad essere “colpito”. In questa sintassi live di Foscarini, il gesto personale risuona familiare e la ricerca quasi embrionale colpisce per immediatezza e semplicità nell’immaginario del pubblico: dal brano pop riconoscibile la performer si fa investire, lo respira, lo vive, lo agisce attraverso il corpo per poi tradurlo nel lessico dello spazio, utilizzando anche quello extrascenico per poi improvvisamente scomparire oltre le tende nere di fondo. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Credits: concept e regia Chiara Bortoli, Francesca Raineri/Jennifer Rosa, performer Francesca Foscarini, alla consolle Chiara Bortoli. Foto di Fiorenzo Zancan
QUEL CHE RESTA
La scomposizione e ricomposizione di vettorialità orizzontali sono la matrice del lavoro che la coreografa e danzatrice Simona Bertozzi porta sul palco del Teatro Out Off di Milano con Quel che resta. Accanto a lei, il corpo giovane di Marta Ciappina detta la sintassi performativa, in gesti precisi ma fluidi; i molleggi coinvolgono le braccia, le gambe, il capo e il busto, ne amalgamano le parti e vengono ripetuti dalla compagna di scena con un leggero scarto sia spaziale sia temporale. I ruoli, poi, si invertono e le due danzatrici rincorrono delle simmetrie, si avvicinano, si scrutano nei movimenti, si imitano, riscoprendo un ritmo comune, una danza condotta all’unisono. La performance, presentata l’anno scorso a Romaeuropa Festival, ha avuto il sostegno del Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e fa parte di THAUMA, un progetto per le arti performative e per la ricerca sul linguaggio del corpo. Questo diventa il luogo di un'analisi sulle dinamiche dell’incontro, del ri-conoscersi: ai passi di coppia, infatti, fa eco un estratto del documentario Big Animals survival strategies, che aggiunge alla tecnica un ironico riferimento alle metodologie relazionali nel mondo animale. Il suono, curato da Roberto Passuti, riverbera nelle zone brumose della sala, il light design invece si diffonde sulle estremità legate dei due corpi. Quel che resta, alla fine, è la struttura spoglia di un’architettura con pietra a vista, sfondo di una ricognizione. Quel che resta è il tocco, finale, impercettibile, di un nuovo incontro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Out Off di Milano. Credits: concept e coreografia Simona Bertozzi, danza Marta Ciappina, Simona Bertozzi, soundscape Roberto Passuti (con un estratto dal documentario Big Animals survival strategies), light design Giuseppe Filipponio. Foto di Luca del Pia
NUCLEO – DA FRANCIS BACON
Un tempo rallentato. Una figura a lato della scena in posa, composta sulla sedia, guarda lo spettatore, lo seduce. Movimenti lievi, impercettibili. Le luci di contrasto, di Gianni Staropoli, si diffondono in tonalità di azzurro e viola, su due tele incorniciate di fondo. Alessandra Cristiani è il nucleo ipnotico, il suo corpo inizialmente un abitacolo vestito che nella sperimentazione della carne non può che mostrare il proprio divenire: scivolare, allungarsi, raccogliersi e poi spogliarsi, per ritornare ad un nudo significante, primordiale. Nella sala, la performer ripercorre un dedalo introspettivo a partire dallo studio dettagliato di Francis Bacon. Del pittore recupera i toni cupi e allucinati, la distorsione dei gesti è trasfigurazione che si tramuta in cruda materia, carne viva che porta con sé un’ineluttabile tragicità. Il lavoro coreografico, prima presentato a Teatri di Vetro nel 2020, poi a Inequilibrio Festival a giugno 2022, è rientrato a ottobre all’interno della rassegna del Danae Festival di Milano, come secondo capitolo di una trilogia che snocciola la questione del corpo attraverso la sperimentazione dell’arte di grandi maestri (Schiele, Bacon e Rodin). Nei movimenti di r-esistenza del corpo di Cristiani emerge, dunque, uno studio artistico meticoloso e patologico, una danza istintiva che appare come una progressiva corrosione epidermica: il vino cola sul viso, la pelle si sporca e lacera, le polaroid si espongono al contatto, la pittura diventa unico nutrimento. «Portare l’alone di una crisi» è, qui, il senso di una metamorfosi organica, il nucleo di una profonda tensione spirituale. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Credits: concept e performance Alessandra Cristiani, musica e suono Claudio Moneta, Iva Bittova, luce Gianni Staropoli, Foto di Maurizio Anderlini
ECLOGA XI
Si inserisce organicamente nel percorso di Anagoor, Ecloga XI, visto a Vie Festival e incentrato sulla poesia di Andrea Zanzotto: il gruppo veneto ancora una volta prende le mosse dalla cultura dei propri territori per mettere in scena la parola poetica. La ritmica graffiante di Recitativo veneziano apre la performance solo in audio, con la voce violenta (e quasi rock di Luca Altavilla) e la traduzione in italiano proiettata qualche spanna sopra il sipario chiuso; lampi di luce illuminano il Teatro Fabbri di Vignola in una replica per pochi spettatori. A sipario aperto la scena è buia, teli accatastati che sembrano macigni, una donna e un uomo (Leda Kreider e Marco Menegoni), come fossero gli ultimi spettatori del mondo in rovina, scrutano un dipinto sulla città lagunare - La tempesta di Giorgione al quale proprio i due personaggi sono stati sottratti. Qual è il ruolo dell’arte e della poesia (e dunque del teatro) in un’epoca in decadenza? La domanda risuona potentemente, Simone Derai e la sua compagnia non tentano di rispondere in termini assoluti, ma con la pratica stessa dell’arte, del gesto performativo. Domande appese sulle labbra dei due interpreti, pronte per essere colte da chi è in ascolto. In uno dei momenti finali, nel nudo di Kreider, in piedi e difronte al microfono, circondata da una suggestiva installazione di foreste fluorescenti, è l’oscurità ad essere celebrata, sono i passi di (Perché) (Cresca): Perché cresca l’oscuro/perché sia giusto l’oscuro/perché, ad uno ad uno, degli alberi/e dei rameggiare e fogliare di scuro/ venga più scuro… (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Ermanno Fabbri. Vie festival 2022. Crediti: Testi di Andrea Zanzotto Con Leda Kreider e Marco Menegoni Musiche e sound design Mauro Martinuz Drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto Regia, scene, luci Simone Derai Organizzazione Annalisa Grisi Amministrazione Maria Grazia Tonon Management e Distribuzione Michele Mele
SPECIAL HANDLING
“Io ti offro un massaggio o una pratica, tu puoi insegnarmi qualcosa?” Entriamo nella tenda di Special Handling ricordando la presentazione del percorso di studio e pratiche di scambio intrapreso da Elisabetta Consonni nel 2021 a Milano, presentato poco prima, con Maria Paola Zedda, durante la talk Le alleanze dei corpi: poetiche e politiche della cura. In un angolo del cortile di Villetta Social LAB a Garbatella, accogliente come sempre durante la serata di Interazioni Festival, ci sfiliamo le scarpe per scivolare sotto un drappo variopinto, emblema di una forma dell’abitare nomadica tanto radicata quanto rimossa dall’immaginario urbano dominante. Le cuspidi tese fra corda e corda, l’odore paglierino e i colori intensi dei tessuti riproducono l’emozione del bambino che erige una tenda al centro della cameretta. Il quesito alla base delle pratiche messe in campo da Consonni mira a costruire esperienze alternative, destituire le dinamiche dominanti che eleggono luoghi e forme dell’insegnamento lungo i margini di rapporti di potere che si possono perpetrare solo producendo periferie. Così Consonni ha raccolto e scambiato saperi in contesti considerati marginali. Sotto la tenda la stessa coreografa e studiosa, insieme a Fatima Ferro che ha realizzato i tappeti su cui ci accomodiamo, non ci chiederà di consegnarle alcun sapere (ne saremmo capaci?), ma condividerà alcuni degli incontri avvenuti durante la ricerca performativa. Da ultimo ci viene regalato un massaggio. Ad occhi chiusi, sotto il cielo della tenda, una performance può essere anche occasione per ricevere cura. (Andrea Zangari)
visto al Teatro Palladium. Interazioni Festival: di Elisabetta Consonni Perfomance: Elisabetta Consonni, Fatima Ferro Realizzazione tappeto: Fatima Ferro Decorazione tenda: Faiza Marei Riprese video: Sara Bramani Editing: Elisabetta Consonni Suono performance: Neunau Nei video: Iuliana, Gehan, Fatima, Taslima
ROOM
Sarà stato un sogno in cui si piomba mentre tutto è già iniziato: le pareti hanno dimensioni spropositate e si muovono a piacimento, senza mai incastrarsi perfettamente, liberando o occludendo; le anime che abitano questo luogo cangiante cambiano anch’esse, persone con i nomi reali, manager stressati e tecnici burberi, e poi dandy, donne in nero, mostri dorati, dame ottocentesche in attesa di vivere, nascosti o appena scovati dentro una scrivania, futuri artisti che attendono di essere provinati e cantanti consumati in abiti sgargianti. Room è lo spazio dell’immaginario dell’architetto-regista-sognatore James Thierrée, che lui stesso dall’interno vive e governa (anche tecnicamente, guardate i crediti) pianificando alla sua scrivania, volteggiando in aria, cadendo, guidando e divertendosi molto. Artista inclassificabile dentro un unico codice – danza, circo, musical, dramma… – ma che anzi, coerentemente spinge a squadernare spazi e mezzi per il fine ultimo del generare meraviglie. Il palco del Teatro Argentina ospita per Romaeuropa quest’ultima creazione che trova i pubblici delle serate estasiati, anche in quelle fasi centrali in cui il gioco circense diventa un po’ esercizio fine a se stesso. Ma forse è quel senso di libertà che può prendersi un artista che ha da sempre (anche in famiglia, vista la discendenza chapliniana) vissuto nel mondo onnisciente e spaventoso e fantastico del teatro. Un luogo in cui ci si può permettere di rallentare e velocizzare il tutto, trasformare una sala decadente in un musical agée, vivere mille vite, sbagliare anche, e riprendere di nuovo in una giostra senza fine. (Viviana Raciti)
Visto a Romaeuropa festival, Teatro Argentina. Creato, diretto e interpretato da James Thierrée. Musica originale: James Thierrée Con: Anne-Lise Binard, Ching-Ying Chien, Mathias Durand, Samuel Dutertre, Hélène Escriva, Steeve Eton, Maxime Fleau, Nora Horvath, Sarah Manesse, Alessio Negro. Luci: James Thierrée, Lucie Delorme, Samuel Bovet. Regia del suono: Lilian Herrouin, Loïc Lambert, Jean François Monnier.Clicca qui per i crediti completi
REPORTERS DE GUERRE
Reporters de guerre è l’esordio alla regia di Sébastien Foucault, piéce che apre la stagione teatrale al Piccolo di Milano e che, a partire da alcune citazioni del film Blade Runner, filtra il teatro documentario attraverso l’utilizzo di diversi media, dalla telecamera, alla proiezione video, all’elemento radiofonico. Visione ed ascolto diventano i cardini di una forte esigenza narrativa, tradotta nella drammaturgia di Julie Remacle, curata dalle luci di Caspar Langhoff e dal suono di Kevin Alf Jaspar. In scena, Françoise Wallemacq, Vedrana Božinović e Michel Villée sono ex-giornalisti che hanno vissuto sul campo le tragedie del conflitto scoppiato nelle regioni della ex-Jugoslavia. Le loro documentazioni, riportate in tre lingue – inglese, francese e bosniaco – creano una dimensione internazionale, si intrecciano ai racconti personali, alle interviste, alle ricostruzioni di fatti atroci realmente accaduti e che incontrano ora lo scoglio, doloroso, della spiegazione. Tuttavia, è nel finale che il tentativo di verismo si sgretola e cede, ripiegandosi nella ricerca di una roboante spettacolarizzazione e nella finzione di una messa in scena che cerca invano di colpire allo stomaco dello spettatore con un eccesso di visione: la platea è così una piazza di giovani. Qui, una bomba esplode, le orecchie fischiano per poi scoppiare e un post-it decreta chi perde la vita, ma sul palco, a raccogliere il dolore collettivo, è il corpo feticcio di un bambino, che è un manichino, una bambola, un corpo finto per un lutto che, nell’iperbole di un’immagine ricostruita, continua a sfuggire alla profondità del sentimento. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: di Sébastien Foucault, Julie Remacle et ensemble, drammaturgia Julie Remacle, regia Sébastien Foucault, con Françoise Wallemacq, Vedrana Božinović, Michel Villée , ricerche Sébastien Foucault, Françoise Wallemacq, Vedrana Božinović, Michel Villée, Mascha Euchner-Martinez, Mirna Rustemovic, Maxime Jennes, Nikša Kušelj, scene Anton Lukas, luci Caspar Langhoff, suono Kevin Alf Jaspar, produzione Que Faire? Asbl e Théâtre de Liège. Foto di Françoise Robert
DIFFICULT LOVERS
Un impermeabile, una valigia logora: un misterioso viaggiatore attende fuori dal Libero, prima di attraversare in volo il foyer, accarezzandone il pavimento coi piedi nudi. Lo inseguiamo, come si insegue il filo di un romanzo, per ritrovarlo poco dopo sul palco, assieme a un altro viaggiatore e altre due viaggiatrici notturne (sono Noemi Bottone, Davide Cannata, Federica Marullo e Francesco Russo). Così inizia Difficult Lovers, omaggio di Evgeny Kozlov alla letteratura di Calvino, da un progetto di Luca Mazzone. I danzatori attraversano una topografia davvero calviniana: stazioni, non-luoghi dove i personaggi si compongono e si disgregano come atomi imprevedibili; spiagge, dove sembra di doversi imbattere in qualche Palomar di passaggio; librerie astratte e cumuli di libri in cui la parola letta è qui patita fisicamente. Il testo drammaturgico è pensato come una raccolta di racconti. Le scene e i costumi di Giulia Santoro rievocano suggestivamente le atmosfere letterarie, squarciate dalle eleganti luci di Mario Villano: in vari momenti il risultato è di sapore cinematografico, da noir. Gli episodi, in successione come avvenimenti isolati, si inseguono in modo a tratti convulso, e spesso si cede a una sorta di didascalismo letterario. Ciò nonostante, la danza ha reso, nel reciproco scivolamento dei corpi, nel contatto ridotto a sfioramento, nell’iterazione simultanea di gesti minimi e appassionati pas de deux, il senso degli affetti calviniani: amori sfuggenti, difficili perché difficilmente superano il limite della possibilità. Una buona pagina di letteratura, scritta col linguaggio della performance, in questo progetto di teatro-danza. (Tiziana Bonsignore)
visto al Teatro Libero. Crediti: di Evgeny Kozlov, da un progetto di Luca Mazzone, coreografie e regia di Evgeny Kozolov, con Noemi Bottone, Davide Cannata, Federica Marullo e Francesco Russo, costumi e oggetti di scena Giulia Santoro, luci Mario Villano. Foto di Giovanni Franco
SATIRI (di Virgilio Sieni)
Lyotard in Discours, figure (1971) parla di una «base silenziosa nella vita della carne»: l’aprirsi, in essa, di uno spazio vacante, l’entità (e la coscienza ferma) di un ulteriore, di qualcosa che superi l’idea di corpo come luogo di elezione dell’evento. È attorno a una simile ipotesi che Satiri di Virgilio Sieni sembra muovere l’inchiesta, impegnando il nostro sguardo in un esercizio di trascendenza. I danzatori, Maurizio Giunti e Jari Boldrini, sulla scena nuda disegnano sequenze di grazia che movimentano le forme della statuaria greca, richiamano la densità dei gruppi scultorei, il creaturale e doloroso librarsi delle carni. Ma vi è, soprattutto, il ricomporsi di un’armonia naturale, che pare avvolgere i corpi chiudendo, in un segno superiore, le corrispondenze accanto agli scarti, alla dualità insanabile, ai tratti nei quali la dialettica si fa più scoscesa e più tragica. Il segno superiore è musicale: il terzo corpo, della violoncellista Naomi Berrill, si inscrive nella scena donandole, a un tempo, il perimetro sonoro di esistenza. Le Suite n. 3 in Do Maggiore, BWV 1009 e n. 4 in Mi bemolle Maggiore, BWV 1010 di Bach tracciano, nella relazione con il silenzio e con gli interventi vocali di Berrill, la morfologia sulla quale la performance si schiude e si dispone. Si tratta di una struttura che condivide con la civiltà antica il carattere dell’evidenza quieta e del mistero che trafigge: il sentimento di una distanza che, proprio come in Ode su un’urna greca di Keats, realizza ancora il prodigio, tramutando la contemplazione in meditazione. (Ilaria Rossini)
Visto all’Auditorium San Domenico, Foligno – Umbria Factory Festival 2022. Crediti: coreografia e spazio Virgilio Sieni; interpretazione Maurizio Giunti e Jari Boldrini; violoncello Naomi Berrill; musica Johann Sebastian Bach (Suite n. 3 in Do Maggiore, BWV 1009; Suite n. 4 in Mi bemolle Maggiore, BWV 1010)
TRUCIOLI
La vita è così perché c’è la gente che trova il modo, ogni volta diverso, di trascorrerla; qualcuno lo sceglie, molti si adattano, ma la vita è sempre la stessa e si manifesta in idee, gesti, risate, tic nervosi, rifiuti, tutto ciò che permette a un essere umano, in qualche maniera tutta sua, di stare al mondo. E per essere artisti, di questa umanità, bisogna essere curiosi. Lo sanno, da sempre, Gli Omini che da qualche anno se ne vanno in giro a raccogliere Trucioli, piccoli frammenti di umanità, pezzetti di legno che dall’albero vengono ma che poi saranno scartati per costruire l’oggetto migliore, solido, più adatto a non frantumarsi o finire nel fuoco. Volano i trucioli, poco più della segatura sembrano inutili, ma è lì che gli artisti vanno a cercare per rappresentare la vita: Giulia Zacchini compone dunque una drammaturgia che scava tra le macerie dell’umanità, assieme ai due attori Francesco Rotelli (che si conferma tra i migliori attori italiani in circolazione) e Luca Zacchini rintraccia esperienze in diverse lingue, pause, atteggiamenti, fino a costruire un paesaggio di ciò che resta solitamente fuori dal grande affresco della vita. Un tavolo frontale, una sorta di conferenza si trasforma poi in una offerta di scene “extra ordinarie”, si direbbe, di tutti i giorni ma arricchite di quella originalità spiazzante che le rende uniche. Tanti personaggi scelti dagli spettatori di fronte a una parete di trucioli, una mappa di titoli diversi; i due attori trovano chiavi di lettura per esprimere l’uno o l’altro con qualità e profondità, mettere in luce queste “vite minuscole di gente minuscola”, fuori dalla storia forse, ma mai fuori dalle loro storie. (Simone Nebbia)
visto a Carrozzerie Not. Crediti: un progetto de Gli Omini; drammaturgia Giulia Zacchini; con Francesco Rotelli e Luca Zacchini; prodotto da Teatro Metastasio di Prato
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