LO STRANIERO
Pensato inizialmente per una maggiore quantità di interpreti, Lo straniero di Albert Camus per la regia di Lelio Lecis, visto al Libero, è stato ridotto a monologo per cause di forza maggiore. Così, la scena di Valentina Enna, un elegante incunearsi di luci e ombre, è stata calcata soltanto da Simeone Latini. Il suo monologo, successivo a una sorta di proemio divulgativo sull’autore e l’opera, ripercorre le vicende del protagonista Meursault in un flusso continuo. I fatti relativi agli ultimi giorni del protagonista (i funerali della vecchia madre, una relazione sentimentale, l’uccisione di un arabo) vengono rievocati da un eloquio dal ritmo nevrotico. Troppo: la problematica anaffettività – vera o presunta – dell’antieroe camusiano avrebbe potuto essere più approfondita. Il testo avrebbe forse richiesto maggiore pausa, vuoto tra i suoi momenti; il resoconto del protagonista, che poi è la deposizione rilasciata al giudice nel processo a lui intentato, si svolge qui con eccesso di rapidità tra gli eventi rievocati. Peccato. Certe soluzioni sceniche, il disegno delle le luci, di tono sobriamente minimale, sono nel loro complesso senz’altro suggestivi. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero. Crediti: di Albert Camus, drammaturgia e regia Lelio Lecis, con Simeone Latini, costumi Marco Nateri, scenografia Valentina Enna, musiche Peter Gabriel/Tradizionali arabe, assistente alla regia Julia Pirchl, assistente costumi e spazio scenico Stefano Cancellu
DON GIOVANNI INVOLONTARIO
Il Don Giovanni involontario di Vitaliano Brancati racconta le vicende di un Casanova siciliano. A differenza del suo equivalente mozartiano, il protagonista qui non è soltanto un amante appassionato – o presunto tale: è un maschio affetto da “gallismo”, dall’esigenza di mostrarsi sì eccellente cultore dell’ars amatoria, ma più per inettitudine che per slancio. La regia di Saponaro vorrebbe entrare nella vicenda valorizzandone gli aspetti comici, ma forza troppo la mano riducendo la sottile ironia brancatiana, fine come una lama, a farsa parodica poco misurata. Le interpretazioni degli attori e delle attrici vengono costrette a impietose esternazioni macchiettistiche; soltanto Fabrizio Falco, nei panni del protagonista, riesce con consueta asciuttezza a governare il proprio personaggio. Il suo Francesco Musumeci è ora annoiato, ora lascivo, ora esasperato: i passaggi da uno stato all’altro sono ben calibrati e verosimili, nonostante a volte lo stesso Falco sembri perdersi un poco nel caos complessivo. I costumi, di Dora Argento, sembrano uscire dall’universo brancatiano. Interessante anche la scenografia: un edificio di coltri nere all’esterno, che lasciano intravedere la vita domestica che si svolge all’interno. A circondare gli amori di Musumeci è un funesto velo funebre. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo, Crediti: di Vitaliano Brancati, regia di Francesco Saponaro con Fabrizio Falco, Claudio Pellegrini, Antonio Alveario, Simona Malato, Irene Timpanaro, Daniela Vitale, Chiara Peritore, Giovanni Arezzo, Annibale Pavone, Giovanni Arezzo
MOSTRARIO. PARTE 1
Aprire i teatri svincolandoli dalla prassi degli spettacoli serali, aggiungendo prospettive diverse a luoghi bisognosi di essere riconoscibili nelle prospettive cittadine: sarebbe sensato, oltre che utile e bello. Il mastodontico progetto di Reggio Parma Festival è in questo senso un esempio importante: viene chiamato un artista, Yuval Avital, israeliano di nascita ma milanese di adozione, ad abitare tre luoghi teatrali iconici con una trilogia multidiscilplinare in grado di stravolgere gli spazi delle tre istituzioni decentrando lo sguardo dello spettatore. Il primo capitolo del Mostrario, che abbiamo avuto modo di attraversare, si è tenuto proprio al Teatro Regio di Parma e in questi giorni (10 e 11 dicembre) la terza e ultima parte al Teatro Valli di Reggio Emilia, arrivata dopo il secondo appuntamento del Teatro Due. Insomma un grande progetto emiliano che al Regio di Parma ha visto lo storico teatro d’opera aprirsi ai cittadini, anche nei luoghi solitamente interdetti. La prospettiva palco platea è ribaltata ad esempio: nella fantasia del Ratto delle Sabine la performance avviene sul palco, il pubblico lo attraversa e la platea è chiusa da un velatino che nasconde l’orchestra, nei saloni al piano di sopra una coloratissima e un po’ kitsch discoteca in cuffia, la proiezione di un film, le piccole e preziose sculture in vetro realizzate da Lucio Bubacco (accompagnate dai fiati dell’Orchestra Rapsody) sono solo alcuni degli interventi che compongono sogni e incubi di un artista che sembra poter dispiegare il proprio segno nella musica, come nelle arti visive, plastiche e performative. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Regio. Crediti: Ideazione, drammaturgie, video art, dipinti, scenografie, costumi, musiche e regia Yuval Avital. Entra nella pagina dell'articolo per altre foto e video
GIUSTO
A vederlo entrare in scena così, abito e papillon non proprio su misura, bottiglia di spumante in mano, aria sperduta e tanto imbarazzo, non si può non provare solidarietà. Il Giusto di Rosario Lisma è l’unico individuo davvero “giusto” all’interno del microcosmo nel quale vive: il palazzone dell’istituto previdenziale dove il protagonista, impiegato di origini siciliane trapiantato a Milano, trascorre la maggior parte della propria vita. Il posto di lavoro è un covo fantozziano di belve competitive e senza scrupoli, sempre pronte a vessare il più debole. Nel raccontarlo, l’attore lascia scorrere un catalogo variegato di personaggi, cadenze regionali, specie animali descritte con il piglio di un caratterista acuto ma non altezzoso. Sullo sfondo, i disegni di Gregorio Giannotta ricreano l’atmosfera comicamente fiabesca che già è del testo, sciorinato tra sonorità struggenti e discutibili musiche latino-americane, da festa aziendale. A volte il personaggio sparisce un poco, superato dall’insofferenza del suo interprete: così, la vera protagonista dello spettacolo diviene una personale esigenza di invettiva, che Lisma scaglia contro le storture del mondo come uno stand-up comedian. Il rischio è di scivolare talvolta nel luogo comune; ma lo spettacolo diverte così tanto che anche questo è senz’altro concesso. La risata è, spessissimo, la migliore delle soluzioni. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo di e con Rosario Lisma illustrazioni Gregorio Giannotta costumi Daniela De Blasio luci Matteo Selisaiuto regia Alessia Donadio produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse si ringrazia Comasia Palazzo per i movimenti coreografici
ARTE
Tre pareti, o meglio, il profilo luminoso di tre pareti, separa gli ambienti nei quali vivono rispettivamente Serge, Marc e Yvan. Tre amici con differenti vite e vedute, le quali si incontrano e si scontrano nell’ambiente disposto al centro della scena. Qui campeggia un dipinto bianco, completamente bianco, che Serge ha comperato a un prezzo spropositato. L’acquisto diviene il detonatore di asti a lungo sepolti nel silenzio: Arte di Yasmina Reza (premio Moliére nel 1994), per la regia di Alba Maria Porto, pone a nudo le spesso ipocrite dinamiche del vivere sociale. Gli attori interpretano persone facilmente riconoscibili, nelle quali è facili immedesimarsi, tra approvazione e ostilità. Elio D’Alessandro, nei panni di Marc, è un ingegnere caustico e a tratti brutale, efficace tanto nell’ironia quanto negli scatti d’ira. Mauro Bernardi è un Yves svampito ma buono, divertente nelle sue esternazioni più immature. Alessandro Cassutti, nei panni di Serge, è il dermatologo sensibile all’arte informale, ma forse la sua interpretazione è quella meno convincente. Comunque sia, l’attenzione del pubblico è stata costante e in qualche modo partecipe: le elucubrazioni dei protagonisti, tratteggiati come individui comuni, sul valore di un’arte per molti sfuggente, sono certo suscettibili di interessante dibattito. La storia che i tre raccontano è una vicenda verosimile, utile a sollevare riflessioni: se ne sente il bisogno. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero, Palermo. Crediti: di Yasmina Reza, nuova traduzione Luca Scarlini, regia Alba Maria Porto, con Mauro Bernardi, Alessandro Cassutti ed Elio D’Alessandro, scene e costumi Lucia Giorgio, Asterlizze Teatro, Torino
DAL SOGNO ALLA SCENA
Per ricreare l'idea di un'enorme pagina biaca sul palcoscenico buio, Daniel Pennac ha bisogno solo che la penna nella sua testa ne trascriva le parole. La sua presenza è motivata solo dal gusto dell'immaginazione, e il sogno ne alimenta le immagini. Le parole, con un giro vorticoso, da idea si fanno testo drammatico, corpo attoriale e apparato scenico. Il momento del teatro diventa, per un meccanismo di sola evocazione, piacere genuino per il raccontare, quando niente esiste se non viene prima nominato; ed è solo l'impossibile a venir richiamato. Lo zio Federico Fellini che spiega al piccolo Daniel e al fratello che i dinosauri si sono estinti perchè hanno trattenuto delle scoregge non è reale, ma diventa vero. Maradona, ormai spirito semidivino in Purgatorio, per davvero ha recuperato all'Inferno l'anima persa della moglie di un pescatore conducendola in Paradiso. La maestria narrativa prende corpo nello spazio vuoto che resta tale finché non viene reificato dall'agire dai compagni di racconto che si prestano al gioco dell'immedesimazione e, come per scherzo, si fanno personaggi (Pako Ioffredo e Demi Licata intensi e vividi, davvero due personaggi da racconto onirico). Il sistema è immediato: c'è una rapida successione tra ciò che viene espresso in francese dall'autore e poi tradotto dagli attori in italiano e in gesti. Il processo creativo, tanto del romanzo quanto del teatro, così disvelato diventa un esercizio di stile, un espediente narrativo, una lettura ad alta voce. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Nuovo, Napoli; Crediti Di Clara Bauer, Pako Ioffredo, Daniel Pennac; Con Pako Ioffredo, Demi Licata, Daniel Pennac; Mise en space Clara Bauer; Musiche di Alice Loup e Antonio Urso; Coproduzione compagnie Mia – Mouvement International Artistique e Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro
LA NONA (DAL CAOS AL CORPO)
Nel silenzio dei primissimi tempi, prende avvio la Fede: un corpo solo produce movimenti iconici di tensione verso l'alto; i movimenti si riproducono in sequenze ordinate, sempre le stesse, e diventano rito: a ogni nuovo passaggio vi si aggiunge un adepto e un unico enorme corpo, fatto di numerosi sospiri, si ammassa imponente. I segni delle religioni, un crocefisso e la Mano di Fatima, si impongono come monolitiche e irremovibili guide. Dal silenzio scuro della Fede si eleva opposto e forte la n°9 op. 125 di Ludwig Van Beethoven come attitudine dello spirito alla libertà. Gli accoliti riprendono la scena, non più corpo unico ma corpi in relazione: ancora, la partitura di movimenti si compone di pochi frammenti che si ripetono in sequenze caotiche le cui combinazioni producono variabili nella solitudine e nelle relazioni. Ognuno, abbandonati gli abiti civili quotidiani e indossati quelli spirituali (arancioni, evocativi del Movimento Hare Krishna), segue la propria vocazione e si immerge nel mondo con gli altri. Il caos delle individualità o dei minimi incontri trova talvolta l'ordine in un sentimento condiviso, che diventa segmento corale, per poi disfarsi nuovamente nell'accidentale e nel sempre nuovo. Il conflitto, in una simile impostazione, non si manifesta mai se non nell'apparato simbolico che ne fa da cornice: forse anche l'eccesso didascalico del sistema simbolico è una visione estremamente pacificata. Per paradosso, la visione che si richiama fieramente laica riproduce quel sistema manicheo nei valori umani che sono proprio dell'estremismo religioso che tanto rifiuta. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Bellini, Napoli; Crediti Coreografie e regia Roberto Zappalà; Pianisti Luca Ballerini, Stefania Cafaro; Controtenore Riccardo Angelo Strano; Soprano Marianna Cappellani; Musiche Ludwig Van Beethoven Sinfonia n°9 op.125
AL SUO POSTO
Una piccola sala da tè, quattro sgabelli, un nutrito servizio di porcellane, tazzine, piattini e cucchiaini sono lo sfondo di una scenografia tintinnante e minimale, luogo protagonista del lavoro diretto da Marianna Esposito Al posto suo. Lo spettacolo, semifinalista al Premio Teatrale Dante Cappelletti, è andato in scena alla Fabbrica del Vapore ospite di ACEA Odv, ente che si occupa di contrastare la violenza di genere. In scena, è il 2021. Siamo in un bar. Qui, quattro amici si riuniscono periodicamente per organizzare, con largo anticipo, il giorno in cui si rivedranno alle terme. La decisione della data è il pretesto per innescare una dimensione confessionale; invece di una narrazione imprigionata negli stereotipi maschili, il testo di Esposito ne rovescia con ironia i termini della relazione, attraverso la buffa storpiatura dei vocaboli (“quote blu”, “La Madrina”, entrando anche all’interno di un dibattito non poco attuale). Non si tratta di «uomini che parlano di donne o che fanno le donne - viene spiegato nelle note di sala – ma uomini che si calano, letteralmente, nei loro panni» per raccontare abusi spesso taciuti, ignorati, minimizzati. È l’uomo a lamentarsi della violenza fisica subita dalla moglie, è l’uomo a giustificare quella psicologica, l’uomo che si sente a disagio al lavoro. Gli anni si susseguono a ritroso, improvvisamente è il 2016, ai fatti di scena si mischiano quelli di cronaca. Il suono di una radio ne scandisce il ritmo, ma le ellissi temporali ci rivelano che la storia è ancora una volta sempre la stessa. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Crediti: testo e regia Marianna Esposito, con Alberto Corba, Alessandro Cassutti, Giulio Federico Janni, Leonardo Tacconella sostituito da Diego Paul Galtieri, assistente regia Francesca Ricci, scenografie Stefano Zullo. Ph Emanuele Limido
NEL GUSCIO
Amleto, il principe, torna in famiglia quando tutto è già compiuto, era lontano e trova una condizione su cui non ha più capacità d’azione se non quella dei reietti, dei folli, dei visionari. Ma se Amleto avesse invece visto tutto e sapesse, da un punto privilegiato d’osservazione? Parte da questa suggestione, velata e non certo dichiarata, il testo Nel guscio di Ian McEwan che Cristina Crippa porta in scena e che rivela la molteplicità del talento di Marco Bonadei: è sospeso, letteralmente, ad una fascia che scende dal soffitto, un feto nel guscio che attende di nascere e conosce fin troppo, scorge con i propri sensi in via di compimento un mondo già troppo crudele con il quale misurarsi, da cui presto dovrà difendersi. La madre, Trudy, che lo ospita per la gestazione inscena il tradimento più brutale con Claude, fratello del marito e padre, un poeta senza soldi ma colmo di bontà; insieme ordiscono la sua morte per avvelenamento, ma il feto sa tutto, nessuno saprà che lui ha visto, udito, toccato con mano la pena della propria discendenza. Con una potente capacità descrittiva, la visione che il feto ha del mondo attorno è ferocemente critica, il delitto vi appare a deturpare la purezza del senso che emerge, dopo il dolore, dopo la giustizia, a macchiarsi già del peccato più atroce. La regia di Crippa esprime tinte ora fluttuanti ora tetre, fosche, attraverso le luci e i suoni profondi d’organismo, come il battito del cuore; Bonadei raccoglie e vince la difficile sfida di mettere in scena un personaggio grottesco e tragico ad un tempo, cui dona ogni sfumatura del proprio bouquet d’attore, gestendo i colpi di scena con qualità estrema. E, sia detto a suo vantaggio: senza mai uscire da una placenta. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Ian McEwan; regia Cristina Crippa; con Marco Bonadei; scene e costumi Roberta Monopoli, luci Michele Ceglia, suono Luca De Marinis
COME TU MI VUOI
È un gioco di incastri irrisolti la definizione di ciò che siamo. È un gioco di incastri irrisolti ciò che siamo davanti agli occhi degli altri. Il gruppo teatrale Invisibile Kollettivo porta in sala gli interrogativi della questione identitaria negli stessi ruoli femminili/maschili del cast, per indagare il confine liminale tra realtà e finzione. Lo fa con una reinterpretazione del classico pirandelliano Come tu mi vuoi, attraverso un co-produzione del Centro Teatrale Bresciano e del Teatro dell’Elfo. Del testo diviso in tre atti, il gruppo cura la scenografia espressionistica e l’adattamento drammaturgico in un’ottica metateatrale, che fatica inizialmente ad ingranare: si vedrà la scena di una Berlino notturna a luci rosse, luogo di seduzione e di piaceri, dove s’incontrerà Elma, una femme fatale che gingilla compiaciuta alle attenzioni dei compagni che la contendono. In lei verrà riconosciuta Lucia, la moglie di Bruno scomparsa dopo l’invasione austriaca in Friuli; Elma tornerà nella villa patrimoniale di Udine e tenterà di aderire all’imposto stereotipo sociale per riconoscersi in Lucia (nello sdoppiamento ben interpretata da Elena Russo Arman e Franca Penone). Ma cosa le rimane della propria identità, nell’ immagine frammentata dal desiderio dello sguardo altrui? Apparenza e menzogna finiranno per scontrarsi con il reale, ne diverranno agenti trasformanti, mentre l’adesione al canone verrà messa sotto scacco da una nuova verità, fittizia come le altre, offrendo alla donna la possibilità di tornare ad essere chi, forse, un tempo era stata, o chi, forse, non avrebbe potuto essere mai. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Luigi Pirandello, adattamento, scene e costumi, regia e interpretazione Invisibile Kollettivo: Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Franca Penone, Elena Russo Arman, consulenza costumi Bruna Calvaresi
GIULIO
Con guizzo fantasioso, un po’ disordinato e ancora da rodare ma impavido, Giulio di Anonima Teatri è una riscrittura di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo del Giulio Cesare di Shakespeare, all’insegna della stravaganza e dell’intrattenimento e dalle molteplici sfumature, forse un po’ troppe in alcuni passaggi tanto da far perdere di incisività l’equilibrio tra le dinamiche personali dei protagonisti e quelle politiche. La storia è raccontata dal punto di vista di Giulio (di una maturità monella e sensibile l’interpretazione di Beatrice Fedi), servo ciabattino di Bruto che, a tre giorni dalle Idi di marzo, deve preparare i sandali che indosserà Cesare per andare in Senato. Alla base vi è un corposo studio sul testo originale e sui testi storici collaterali, e un denso lavoro che parte dall’improvvisazione e giunge a creare una movimento interno alle scene. La danza unita alla prosa “porta le parole” su di un piano immaginifico ordinato dalla regia di attori e di attrici, notevole quella di Fabio Pagano nel ruolo di Antonio, mentre la gestualità di Caroline Loiseau ci restituisce una Porzia ineffabile. Ensemble affiatato in cui ciascuno/a è pedante nella tipicizzazione dei caratteri, sarebbe infatti opportuno distaccarsi dai ruoli quel tanto che basta giusto per non rischiare la caricatura. La goliardia e l’inebriante fame di potere rilevano delle relazioni la loro precarietà: la grande storia potrebbe cambiare se si tornasse all’umile tensione a fare del bene? (Lucia Medri)
Visto allo Spazio Rossellini: liberamente ispirato al Giulio Cesare di W. Shakespeare, di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo, con Beatrice Fedi, Caroline Loiseau, Fabio Pagano, Guido Targetti, Valerio Riondino e Umberto Gesi, produzione Anonima Teatri, con il sostegno di Twain Centro di Produzione Danza, Dance Project Festival, con il contributo di Regione Lazio Spettacolo dal Vivo. Foto di Valeria Tomasulo
CENERENTOLA REMIX
I sogni son desideri… ma no, i sogni sono roba concreta e Cenerentola, la favola di Perrault che vanta numerosi tentativi di imitazione, arriva a scoprirlo, suo malgrado, attraverso il dolore e la sopraffazione. C’è un guardaroba sul fondale, tutto è visibile in questa versione “remix” firmata da Fabio Cherstich e Tommaso Capodanno; una struttura metallica è casa della nuova famiglia della protagonista, vi scorgiamo all’interno la malvagità della matrigna e delle sorellastre, la fragilità del padre rimasto vedovo, la sua solitudine che misura il tempo che passa attraverso un orologio enorme appeso al collo, per non dimenticare mai la propria madre. È una versione immaginifica e plastica, che punta alla vivacità espressiva su note graffianti e nulla concedendo alla dolcezza patinata da confetto della nota versione disneyana: in questa Cenerentola la fata è una spassosa vecchina che parla dialetto romanesco da un water immondo, il principe è un nerd misogino che non accetta la morte della madre e regala una scarpa alla giovane ignota, il ballo un mix di valzer e suoni da videogioco, la matrigna una donna che, in nome dell’estetica ipertrofica di questa epoca in cui la giovinezza si crede eterna, vuole sostituire le figlie nella ricerca del principe; Cenerentola vincerà perché è l’unica a dire la verità, in una storia piena di menzogne. È una lettura lucida quella di Cherstich, divertente e aggressiva, che sviluppa ciò che delle fiabe spesso resta fuori, una storia in cui la vanità è sconfitta e la modestia valorizza l’umanità, in cui la superbia sarà umiliata e i sogni, se non sono motivati dalla concretezza delle azioni, sono turpi imbarazzanti equivoci ridotti alla miseria umana. Tutt’altro, che desideri. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro India. Ispirato alla favola di Charles Perrault, ideazione e regia Fabio Cherstich; musiche Pasquale Catalano; con Julien Lambert, Giuseppe Benvegna, Annalisa Limardi, Alessandro Pizzuto, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane
ROLLERCOASTER
Prendete una sala sotto i cento posti, riempitela di un pubblico di giovani - probabilmente molt* alliev* artist* della scuola di circo Materia Viva -, programmate un artista altrettanto giovane, ma già un fenomeno riconosciuto nei circuiti, il trentaduenne Wes Peden ed avrete una serata da tutto esaurito, piena di energia, applausi e viva attenzione; come quella di ieri (10 dicembre) in chiusura della rassegna Battiti al Teatro Furio Camillo. Per creare Rollercoaster il juggler statunitense (con base a Stoccolma) ha attinto alla propria memoria di infanzia, alla passione per le montagne russe: in scena grandi gonfiabili azzurri e componibili, il protagonista con scarpe arancio fluo come i capelli e poi gli oggetti del mestiere, palline, clavette, cerchi, scatole piene di accessori da far volare sopra la testa. Wes Peden sembra riuscire a lavorare con qualsiasi cosa: una giovane spettatrice che mi siede accanto sussurra a un altro spettatore: «i piatti cinesi… sa usare anche quelli!». Con una voce fuori campo, di quelle da sintesi vocale computerizzata, Peden occupa lo spazio del riposo con piccole riflessioni o ricordi ironici sulle montagne russe, l’intrattenimento da luna park ritorna anche nelle forme dei “numeri”, nell’uso di un lungo tubo in cui far scorrere le palline, nella progressione delle difficoltà e del ritmo con cui si dipana lo spettacolo. Rollercoaster però non è solo un fenomenale susseguirsi di esercizi di giocoleria è anche una poetica danza tra uomo e oggetti, c’è qualcosa di commovente e dolce negli occhi di questo colorato juggler in grado di sfidare la gravità. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Furio Camillo, Battiti - Rassegna Internazionale di circoteatro. Crediti: di e con Wes Peden
RIDING ON A CLOUD
Libano, 1987. Un giovane uomo sta per iniziare l’università, ma si trova all’improvviso a dover tornare all’asilo. Sullo schermo dell’auditorium del Maxxi vediamo le immagini delle sue pagelle scolastiche. Più che un palco, una predella con una scrivania e, seduto, l’uomo che dà in pasto allo schermo tracce audio e video tramite un mangianastri. Il suo sguardo ritratto nel perimetro della scrivania, il suo silenzio rimediato da quell’archivio di memorie, comunicano la solitudine impenetrabile di una sparizione improvvisa. L’uomo è Yasser Mroué, fratello di Rabih, regista, performer, drammaturgo, artista visivo libanese di stanza a Berlino, fra le voci più intense e complesse a portarci testimonianza della storia moderna del paese mediorientale. Riding on a cloud porta in scena la storia del fratello, sopravvissuto ad un proiettile al cervello, sparato da un cecchino appostato sui tetti di Beirut, lo stesso giorno che il nonno dei due, dirigente del partito comunista, venne assassinato. La guerra come forma di dolore senza storia, ma anche la storia come forma di rappresentazione sono ossessioni per Rabih Mroué, che qui porta la riflessione al grado di una scansione magnetica nel corpo-biografia del fratello, privato della parola per un certo periodo dopo il terribile incidente. Nell’afasia, Yasser ha costruito un rapporto nuovo con le immagini, strumenti alternativi per indicare gli oggetti che il trauma ha reso estranei al linguaggio. In quello iato fra parola e immagine sta un dissidio profondo, che per i Mroué racconta, in modo misterioso ma potente, la guerra stessa. (Andrea Zangari)
Visto all'Auditorium Maxxi, Romaeuropa Festival: Performance di Rabih Mroué Scritto e diretto da Rabih Mroué con Yasser Mroué In collaborazione con: Sarmad Louis
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