MACBETH/BANQUET
Il Macbeth/Banquet, per la regia di Paola Manfredi porta il pubblico fin dentro la cucina in cui si prepara un banchetto: quello durante il quale il fantasma di Banquo apparve a Macbeth, dopo esserne stato ucciso. Sulla scena del Libero, il tavolo coperto da utensili e pentolame è senz’altro invitante; tra questi Luca Radaelli si muove con sicuro mestiere, alternando cotture, ricordi, premonizioni, soffritti, visioni. Tra i fornelli e il racconto del cuoco si svolge un Macbeth decisamente imprevisto, avvolto dai fumi e profumi della pietanza – un trancio di carne cotto in abbondante, sanguinolento vino – cucinata sul posto. L’insistenza sul carattere più “gastronomico” della vicenda finisce per enfatizzarne gli aspetti comici: la danza dell’attore con la patata infilzata da una forchetta (una magistrale Lady Macbeth), il suo lavarsi spasmodicamente le mani dopo aver ucciso una cipolla (nei panni di Banquo), sono certo divertenti ma per poco non scadono nel grottesco. Tutto è nell’atmosfera, nell’ambientazione, nella scena domestica, familiare e suggestiva, dello stesso Radaelli. Qui si effondono le luci di Maurizio Anderlini, calde come quelle di un focolare, e gli assoli di Maurizio Aliffi alla chitarra, che alternano sonorità medievaleggianti e manouche. Un intrattenimento gustoso insomma, condito dal solo gusto di raccontare storie. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero. Crediti: da William Shakespeare, con Luca Radaelli e Maurizio Aliffi, idea scenica e traduzione Luca Radaelli, regia Paola Manfredi, luci e tecnica Graziano Venturuzzo, musiche Maurizio Aliffi, Teatro Invito – Lecco. Foto di scena Maurizio Anderlini
IL DISPERATO
Una tavola imbandita, quattro sedie, tre generazioni. Attorno a questi elementi che bastano da soli a evocare una famiglia viene disposto il pubblico de Il disperato, lavoro del collettivo olandese Wunderbaum fondato da Marleen Scholten e presentato in prima restituzione pubblica al Romaeuropa Festival. Con lentezza abitudinaria e normalità disperata si consuma il rito del pasto, tradizionalmente sede delle piccole complicità e dei piccoli fastidi della routine familiare. Forte è il senso di oppressione in un unico spazio condiviso, che non concede intimità o ritiro, nella quale riecheggia la condizione del confinamento pandemico ma che facilmente coincide con la realtà di molte famiglie. La disposizione dello spazio scenico ricostruisce tanto un ambiente casalingo quanto un ring, o una gabbia, dalla quale gli attori si sporgono, in sospesi momenti precisi, come a chiedere aiuto in silenzio, o a denunciare l’invadenza di quegli sguardi esterni. Sebbene tutti i personaggi vivano a loro modo una qualche personale disperazione, il disperato del titolo è l’unica figura maschile presente, vittima di sé stesso, di un mondo in cui il modello patriarcale assimilato da generazioni si scontra con contesto, fragilità, insicurezze sociali e umane. Impreparato ad essere mantenuto, fragile, insicuro, ricorre alla violenza. Da vittima di se stesso, si fa carnefice di un’intera famiglia. A raccontarlo è figlia, riportando dati e statistiche in un finale un po’ didascalico, a dispetto dei momenti onirici e poetici proposti durante la messa in scena. (Sabrina Fasanella)
Visto al Mattatoio, Romaeuropa Festival. Di Marleen Scholten|Wunderbaum, Con Marleen Scholten, Alessandro Riceci, Ludovica Callerio, Elisabetta Bruni, Regista assistente Dafne Niglio, Scenografia e luci Maarten van Otterdijk, Produzione Wunderbaum, Associazione TRAK, Consulenze Paolo Giulini-criminologo clinico, Roberto Bezzi-Responsabile Area Educativa Seconda Casa di Reclusione Milano
SYBIL – UNA DONNA DIVISA TRA MOLTEPLICI ESISTENZE
Lo spettacolo ripercorre i dieci anni di sedute della psichiatra americana Cornelia Wilbur (Federica Bognetti) con la paziente Sybil Dorset (Silvia Giulia Mendola), il cui caso ha portato alla prima individuazione del disturbo della personalità multipla. La vicenda raccontata rappresenta di per sé una sfida attoriale importante, sorretta da Mendola con efficacia e tatto. Nell’avvicendarsi dei molteplici personaggi che abitano la paziente, corrispondenti a diversissime tipologie umane, il focus palleggia tra il dramma della paziente e la sfida della psichiatra, decisa non solo ad aiutare e guarire Sybil, ma a scoprire l’entità di un male mai prima riconosciuto. Bognetti interpreta il ruolo con la circospezione richiesta: assiste con solerzia ma alla giusta distanza allo svelamento delle esistenze parallele che Sybil ha sviluppato, persone che parlano e agiscono a sua insaputa, ne conoscono i segreti, rivelano il suo passato rimosso. La via drammaturgica scelta è quella della cronaca: lo spettacolo procede per balzi temporali, corrispondenti ai momenti salienti del percorso psichiatrico, sorretto da videoproiezioni che interagiscono con l’impianto scenografico. Una parete velata separa la platea dal palcoscenico, sul quale pochi elementi lasciano indovinare il salotto-studio della dottoressa Wilbur. Lo sdoppiamento dello spazio scenico aggiunge un filtro che sottrae concretezza ed emozione alla realtà della vicenda, di per sé non bisognosa di apparati simbolici. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Argot Studio, Roma. Con Federica Bognetti e Silvia Giulia Mendola, dramaturg Livia Castiglioni, regia Silvia Giulia Mendola, assistente alla regia Francesca Ziggiotti, videomaker Cristina Crippa, consulenza costumi Simona Dondoni, foto locandina Noemi Commendatore, grafica Carlo Sabatucci, produzione PianoinBilico e Geco.B Event
LA MOGLIE PERFETTA
In origine c’è un decalogo, distribuito nella Spagna franchista, dal ‘37 al ‘77, una serie di regole attraverso le quali le giovani donne “in età da marito” venivano educate rispetto al loro ruolo in famiglia. Ma sul palco del Teatro Basilica siamo negli anni ‘50, Giulia Trippetta non parla spagnolo e l’Italia non è il focus della questione: nel divertente monologo il cuore del discorso riguarda tutti e tutte noi nel tempo in cui viviamo. La sedicenne che nella prima scena è protagonista di una sorta di colloquio/intervista diventerà la paradossale insegnante di un corso nel quale mostrare come interpretare "la moglie perfetta”. Trippetta scrive un testo efficace che per interrogarci sulla questione femminile oggi e sulla parità di genere porta alle estreme conseguenze l’iperbole contrario; fino a un'esplosione (unico momento in cui la drammaturgia vacilla dal punto di vista del senso e della credibilità) nella quale si intravede il lato umano e dolente della giovane moglie. Il filo è dato dalle 11 regole spagnole: la donna deve essere in grado di preparare cene deliziose, deve apparire sempre bella ed elegante – l’attrice si muove in un vestito a fantasia anni ‘50 -, deve essere dolce e interessante, occuparsi della casa, dei figli, essere silenziosa, in grado di ascoltare… tutto è pensato in funzione del maschio, come se davvero ci fosse una sorta di coefficiente matematico del patriarcato. Avevamo già apprezzato Giulia Trippetta in lavori corali, di compagnia, qui emergono con evidenza la tecnica e il talento a servizio di un tratto comico sorprendente ma anche riconducibile alla grande tradizione. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: di e con Giulia Trippetta.Regia e drammaturgia: Giulia Trippetta. Compositore: Andrea Cauduro. Tecnico luci e suono: Giulia Bartolini
BURN SKIN
Due donne, nello spazio nero di Fortezza Est, due perfomer, solo due pezzi color carne a coprirne i corpi atletici e pronti a scattare: muscoli tesi per fare di un’idea una creazione teatrale, per scavare attraverso la poesia le contraddizioni, i paradossi, le problematiche della relazione madre-figlia. Carolina Cametti e Claudia Salvatore sono le interpreti e le autrici di Burn Skin, la prima ha una voce bassa, ruvida e sorprendente, una maschera che le permette la deformità all’occorrenza, la seconda, dal piglio vocale argentino non manca di puntualità e ironia. Quando si parla di urgenza a teatro: ecco. C’è una sincerità evidente in questo lavoro, nonostante la mancanza di un occhio esterno in grado di ordinare i materiali, ma a dispetto della grammatica anarchica (e dunque di una scrittura scenica debordante, che rischia l’effetto video-clip) c’è un’insondabile vitalità in questi corpi che chiedono di essere ascoltati; nei versi, dolenti, arrabbiati o ironicamente ritmici come quelli di un rap che appare dal nulla. Cametti e Salvatore tentano giustamente di saltare gli stereotipi. La relazione madre-figlia non è tutta rosa e fiori, anzi è talvolta disperante: lungo il cammino, come piccoli fiori marci, appaio bugie, omissioni, rinunce che diventano punizioni. Le figlie vorrebbero sentirsi dire quanto le madri sono orgogliose, basterebbe scriverlo su un post-it, le madri vorrebbero respirare, sentirsi libere ogni tanto. È un lavoro denso, che colpisce emotivamente, qualcuna in platea - rivedendosi in quelle ossessioni - piange, poi sorride.(Andrea Pocosgnich)
Visto a Fortezza Est. Crediti: di e con Carolina Cametti e Claudia Salvatore una co-produzione Fortezza Est, Campo Teatrale, Mare culturale Urbano
FAITH, HOPE AND CHARITY
Dopo il successo dello scorso anno, Alexander Zeldin, con la sua troupe, torna dall’Inghiterra per un’altra grande produzione: svetta sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma la scenografia iperrealistica di Faith, Hope And Charity, ultimo spettacolo della trilogia The Inequalities cominciata nel 2014 con Beyond caring e proseguita nel 2016 con Love. Siamo dunque ancora in quel paesaggio scenico che ambisce a fare del teatro una macchina documentaristica. L’ambientazione è quello di una sala polivalente, sociale, luogo trascurato dalle istituzioni pubbliche – che anzi vogliono venderlo – e che si mostra in tutta la sua trascuratezza. Qui una donna cerca di mantenere viva una piccola comunità di emarginati, li sfama, li ascolta, apre loro le porte quando fuori piove, cerca di essere utile. Homeless, disagi mentali, povertà, madri in conflitto con i servizi sociali e private dei figli; ma c'è uno scarto sentimentale rispetto a Love (forse a rischio sentimentalismo in alcuni momenti) dato da una scrittura maggiormente narrativa e meno sorprendente. In Love le piccole storie dei protagonisti si avvicendavano scarne, mostrandosi per sottrazione allo spettatore. Anche qui accade, ma vi si aggiunge un filo maggiormente riconoscibile, più narrativo e meno sorprendente, la musica di un coro tenterà di protestare (inutilmente) contro il municipio che vuole chiudere la sala. Rimane la forza politica di un teatro costruito sulla vita sociale e sulla capacità degli attori di viverla, in grado di portare di fronte ai nostri occhi pezzi di mondo dai quali tentiamo continuamente di fuggire. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argentina, Romaeuropa Festival. Crediti: Testo e messa in scena: Alexander Zeldin Scenografia e costumi: Natasha Jenkins Luci: Marc Williams Suono: Josh Anio Grigg Movimenti: Marcin Rudy Musiche: Laurie Blundell Assistente alla messa in scena: Josh Seymour Collaborazione alle luci: Breandon Ansdell
LA ZATTERA GERICAULT
Nel 1819 Théodore Géricault sottopose alla giuria del Louvre la sua imponente tela attirando su di sé aspre critiche; la sua Zattera della Medusa ritraeva un evento di cronaca avvenuto solo tre anni prima, il naufragio di una fregata francese causato dalla negligenza del comandante e la conseguente perdita di vite umane. Le questioni, oltre l’aspra critica sociale, erano calde: avrebbe potuto la bellezza stimolare l’opinione pubblica? La verità, anche quella più terribile, poteva essere perfezionata da splendide forme? Estremamente pregevole è la composizione scenica orchestrata dalla regia di Piero Maccarinelli; il piano dell’immedesimazione è notevole con quelle ambientazioni che rimandano direttamente alla più nota pittura realista (lo studio di Géricault pare la riproposizione de L’atelier del pittore di Courbet). Le accese discussioni tra il sopravvissuto Corréard (in scena un brillante Claudio Di Palma) e lo stesso Géricault (Lorenzo Glejeses, fagocitato dall’estro dell’artista, si perde in sperticate acrobazie e in esasperate esternazioni) su quale fosse il ruolo dell’artista nel mezzo di un dibattito politico sono entusiasmanti. Però la scelta di muovere una narrazione a ritroso nel tempo, alla ricerca dell’origine dell’impegno artistico del pittore, rovina malamente in un tedioso melodramma che vede il protagonista innamorato e ricambiato dalla giovane zia (una Anna Ammirati intiepidita dal ruolo strettamente funzionale), e così la ragione principale, morale e politica, evapora a suon di baci. (Valentina V. Mancini)
Visto al Teatro San Ferdinando.Crediti: Di Carlo Longo; Regia Piero Maccarinelli; Con (in ordine di apparizione) Lorenzo Glejeses, Francesco Roccasecca, Claudio Di Palma, Nello Mascia, Anna Ammirati; Scene e luci Gianni Carluccio; Costumi Zaira de Vincentiis; Foto di Ivan Nocera Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
PARTY GIRL
Conturbante, eccitante, fastidioso, vero, finto, distopico, doloroso: Party Girl è l’immagine disarmante di una sessualità sottomessa. Alice, Barbara e Roberta sono tre splendidi corpi che si prostituiscono, guidati e governati da una voce maschile fuori campo che ne determina le posture, tutte inequivocabilmente funzionali al piacere di chi osserva. I loro corpi non sono veri corpi nella misura in cui tutto contribuisce a renderle oggetti: il neon posto ai piedi del palco le rende dure, le luci stroboscopiche le fa irreali, le porzioni di nudità volgare scoprono una pelle che non ha pori. Le tintinnanti palline vaginali dorate che escono dalle loro bocche ammiccano a un sesso cattivo. Non c’è davvero nulla che possa essere definito “bello”; la coreografia si sporca con movimenti meccanici (persino quelli più fluidi lo sono) e privi di vita che non sono altro che pause tra una posa e l’altra. Tre televisori a tubo catodico trasmettono stralci di vita notturna, irrequieta, illecita, perversa e crudele; l’estetica laccata e appiccicosa fine anni ’90 e inizio Duemila porta il racconto in eccessi surreali che, nel farsi simbolici, forse rischiano di allontanare la faccenda problematica della percezione del corpo femminile dalla sua condizione di terribile e diffusa e normale quotidianità. È come ricevere un violento schiaffo senza sapere il perché, e restano lo stordimento e il dolore. A festa quasi terminata, poco prima del giorno, le ragazze riescono a riprendere possesso della sensualità allegra dei loro corpi e si allontanano stanche e ridenti. Poco realistico. E se il nostro godimento di donne non fosse quasi mai solo nostro? (Valentina V. Mancini)
Visto al Teatro Nuovo. Crediti: con Alice Raffaelli, Roberta Racis, Barbara Novati; coreografia e regia Francesco Marilungo; Luci e spazio Gianni Staropoli. Foto di Luca Del Pia.
PALERMO CORSARA
Il porticciolo della Bandita è un piccolo tratto di mare e detriti dimenticato dalle amministrazioni, ma non da chi abita l’area circostante. Qui il Teatro Atlante ha raccolto per un mese le testimonianze di chi ancora vive questo spazio, all’interno di laboratori il cui esito è stato accolto da Palermo Corsara, performance in cuffia pensata proprio per la Bandita. Il titolo ha un duplice riferimento: da un lato richiama il quartiere Acqua dei Corsari, dall’altro il Pasolini intellettuale delle periferie. Durante il suo svolgimento, il pubblico è libero di vagare tra le barche rivoltate della spiaggia, mentre nelle orecchie risuonano le parole di uomini e donne comuni, interpretate dal vivo da Preziosa Salatino. Sono storie di abbandono e riscatto, alternate ai canti della tonnara e alle musiche evocative di Mauro Palmas. La spiaggia viene solcata da una meditazione condivisa, accompagnata fino al tramonto dal susseguirsi di denunce, ricordi e immagini. Palermo Corsara vuole essere registrazione della memoria, archivio sonoro e visivo di voci e cose rimaste ai margini della gentrificazione, resistenza politica agita dalla comunità al suo interno. Ormai al tramonto, le movenze della danzatrice sufi Soad Ibrahim, sulle musiche di Mauro Tiberi, concludono il percorso uditivo, ma è solo alla sera che il gruppo si dirada, quando mare e cielo sono diventati indistinguibili. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Porticciolo della Bandita Crediti: voce narrante di Preziosa Salatino, foto e video di Francesco Faraci, danza di Soad Ibrahim, ideazione e direzione artistica di Emilio Ajovalasit. con la collaborazione di: Marco Abbate, Elisabetta Carullo, Anna Di Giandomenico, Silvia Fontana, Adriana La Porta, Domenico Lo Cricchio e tutti gli abitanti della Bandita.
PULICI
In occasione della settima edizione del Festival Teatro Bastardo, diretto quest’anno da Giulia D'Oro e Flora Pitrolo, si è tenuto Pulici, di e con Sara Firrarello. Nel piccolo teatro del Museo delle Marionette, le luci della sala si spengono senza gradualità. Dall’oscurità improvvisa emerge l’interprete, giovane donna in nero: viso e mani affiorano pallidi dalla veste, ampia come un saio. La donna ciondola sui suoi passi come un’equilibrista sul filo; poi ruota su se stessa, come danzasse da sola un valzer solitario e malinconico. Si arresta, per guardarsi intorno circospetta: tuttavia, al termine di questi iniziali, misteriosi momenti, la sua voce è inaspettatamente giocosa. Un cunto, il tipico racconto popolare ritmato, prende vita. La narrazione di Firrarello è volutamente frammentata, procede per spigoli spezzati tra gesto, automatismi e silenzio. Sembra avere ancora qualcosa di acerbo, e il dramma procede per soluzioni che singolarmente sono interessanti, ma nel complesso sembrano più giustapposte che parte di un discorso organico. Nonostante ciò, questo cunto è senz’altro suggestivo: è una filastrocca triste, un gioco di bimbi che conoscono la morte e si rincorrono sul margine di un burrone, senza mai cadere. L’interprete non si lascia andare alla voragine, e pure avrebbe gli strumenti per farlo: attendiamo che ciò accada. Delicato ed espressivo, il suo racconto traccia comunque i primi passi di un nuova possibile tradizione, al femminile. Su questa strada Firrarello può ancora intestarsi una piccola rivoluzione. (Tiziana Bonsignore)
Visto a Teatro Bastardo Museo internazionale delle marionette. Crediti: Antonio Pasqualino, Palermo. Crediti: di e con Sara Firrarello, disegno luci Elena Rosa, suono Riccardo Napoli, tecnica luce Alessandro Schillaci, produzione Campo Barbarico Roma, con il sostegno di Spazio Oscena Catania
UNA VERDE VENA DI FOLLIA
La nuova stagione della sala Strehler al Biondo di Palermo è stata inaugurata da Una verde vena di follia di Alessio Arena, per la regia di Emanuela Giordano. Il testo, tratto da La vena verde dello stesso Arena, è liberamente ispirato alle lettere che Maria Antonietta Portulano, moglie di Luigi Pirandello, scrisse al figlio Stefano durante la propria permanenza in un ospedale psichiatrico: così la scena, la cella del manicomio, è definita soltanto da una branda e altri pochi elementi di arredo, poveri, isolati dalle eleganti luci di Giordano. Tra di essi si muovono la protagonista, interpretata da Mascia Musy, e una silenziosa infermiera (Chiara Muscato). Il rapporto tra le due è intimo, simbiotico: alle esplosioni verbali e fisiche della reclusa, interpretate certamente con energico vigore, fa sempre da contraltare lo sguardo dell’altra, denso, espressivo, severo. Col tempo, il rapporto di reciproca costrizione si scioglie in una fiducia sempre più disponibile a farsi, se non amicizia, solidarietà. La figura di Portulano, relegata dalla storia a una quasi inevitabile marginalità, assume qui riscatto e rilievo letterario: e proprio il “letterario” è il dato essenziale di questa regia, che forse guarda al testo e ai suoi modi con eccesso di aderenza. Sono soprattutto le interpretazioni di Musy e Muscato a sostenerla. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo. Crediti: tratto dal libro La vena verde (IQdB Edizioni) di Alessio Arena, liberamente ispirato alle lettere di Maria Antonietta Portulano Pirandello, adattamento teatrale e regia di Emanuela Giordano, con Mascia Musy, e Chiara Muscato, musiche originali Tommaso Di Giulio e Leonardo Ceccarelli, scene, costumi, luci Emanuela Giordano, aiuto regia Valentina Enea, direttore di scena Sergio Beghi, produzione Teatro Biondo Palermo. Foto di Rosellina Garbo.
KA-F-KA
Dopo un progetto su Calvino, il teatro Libero di Palermo continua a confrontarsi con le possibili relazioni tra danza e letteratura in un’ottica multidisciplinare. Alla fine di ottobre si è tenuto KA-F-KA, di e con Mehdi Farapour, coproduzione iraniana-francese della Oriantheatre Dance Company. Il pubblico accede in sala mentre il danzatore corre in senso antiorario lungo il quadrante di un orologio proiettato sul pavimento, bianco, della scena. La corsa diviene spasmodica, il ticchettio opprimente, fino al collasso: il tempo implode risucchiando il corpo chiuso di Farahdi. A partire da questo momento, è un susseguirsi di immagini simboliche nelle quali si sintetizza la poetica kafkiana: labirinti fitti, attraversati con ostinazione; la duplicazione del corpo e della figura del protagonista, frammentato in un suo doppio gigantesco e assurdo. Meccanicismi, iterazioni di gestualità minime e insensate, sottoposte a piccole ma significative variazioni progressive rendono la ricerca di Farapour grafica e raffinata, capace di introdursi nel testo letterario significandolo per mezzo di immagini di gusto modernista. Un’icona novecentesca è la figura del danzatore seduto alla scrivania, circondato dalla bolgia di sveglie attivate sulla scena che parcellizzano il tempo ingabbiando l’uomo nella vita d’ufficio. Al termine di una serie di costrizioni, ciò che resta dell’individuo è poca cosa: dopo essersi dimenato a lungo sulla schiena, circondato da tante piccole riproduzioni della propria fatica, il danzatore lascia sulla scena, immobile, l’immagine di un insetto. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero di Palermo Crediti: ideazione, direzione e interpretazione Mehdi Farajpour; motion graphics Stéphane Bordonaro, Mehdi Farajpour & Monumentiel; basato su un’idea originale di Mehdi Farajpour; suono Arnaud Rollat; video art Mehdi Farajpour
I RIFIUTI LA CITTÀ E LA MORTE
Francoforte, anni ’70. La Germania è distrutta, la memoria è marcescente e la città è un organismo che divora se stesso o, forse, un Crono che divora i propri figli. C’è un ebreo che fa speculazione edilizia e un ex SS che profetizza il ritorno del nazismo: così la censura cadde su I rifiuti, la città e la morte di Rainer Werner Fassbinder, travestita da j’accuse contro un presunto antisemitismo. Si tratta di un testo scritto d’impulso, durante un viaggio in aereo, rimasto silenziato fino agli anni 2000 e oggi quasi “intoccabile” per volontà degli eredi. La regia di Giovanni Ortoleva affonda in questa materia equivoca e ustoria e ne fa brillare ritmo, coralità e dolore, grazie alla scansione per quadri, all’intersezione dei piani diegetici e alle interpretazioni attoriali di limpidezza quasi disincarnata. L’angoscia metropolitana, sotto i segni cangianti dell’allucinazione e della gangster story, scava più a fondo della condizione storica, fino ai primordi della natura umana: l’abuso è la pulsione centrale, i rapporti sono campi di forze governati dal denaro, lo sforzo di trascendersi è vano, il degrado del corpo non riesce mai a mutarsi in espiazione. E, se sembra negato persino il sollievo della denuncia (che implicherebbe la speranza), rimane quello, lucido e spirituale, di cogliere e rappresentare una verità. La tensione sacrificale (tutti si muovono su una passerella che ha la struttura di una croce) si spegne in una resa, delicata, che non offre consolazioni o moniti. Seppure, da una feritoia, balugini forse la compassione. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Astra – Colline Torinesi 2022. Crediti: di Rainer Werrner Fassbinder; traduzione Roberto Menin; regia Giovanni Ortoleva; scene e costumi Marta Solari; realizzazione costumi Daniela De Blasio; sarte Rossana Cavallo, Rocio Orihuela; movimenti di scena Leda Kreider; musica Pietro Guarracino; disegno Luci Andrea Torazza; fonica Massimo Calcagno; costruzioni Giovanni Coppola; assistente alla regia Gabriele Anzaldi; assistente volontaria Federica Balletto; con Marco Cacciola, Andrea Delfino, Paolo Musio, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas.
THE RIVER
L’uomo, la donna e l’altra donna, in una piccola baracca su un fiume che risuona degli scricchiolii del tempo, nelle venature di legni buoni che lottano contro l’umidità penetrante. Ad un palcoscenico bastano i suoi tratti materici per evocare la scena, tanto più nell’intima sala del Teatro Belli che sembra sempre sul punto di cadere in avanti. La donna esordisce cantando, mentre l’uomo prepara meticolosamente la canna da pesca, elencandone le parti come in un salmo gestuale. La donna invita l’uomo a raggiungerla alla finestra, per vedere la bellezza unica di quel tramonto, ma l’uomo non si riesce a distogliere dal suo cimento: ne accadono spesso di tramonti simili, dice. L’uomo e la donna iniziano una lotta verbale che più di una schermaglia amorosa è una tenzone sull’unicità dei gesti e delle parole in una relazione. Poi la donna, Silvia Aiello, si alterna ad un’altra, Mariasole Mansutti, istituendo una danza misteriosa in cui a essere questionato è il senso del tempo. L’uomo, Alessandro Federico (anche regista dello spettacolo), è come l’invariabile corso del fiume: ma in quale direzione scorre? The river di Jez Butterworth è uno di quei thriller senza oggetto che la letteratura anglosassone sa partorire con naturalezza. È forse però proprio il passaggio linguistico a punire le interpretazioni, che non si svincolano dalla letteralità della traduzione consegnando il lirismo della scrittura ad un’oleografia in cui la presenza dei corpi e delle parole perde quella vibrazione inafferrabile del testo.
(Andrea Zangari)
Visto al Teatro Belli per TREND - nuove frontiere della scena britannica. Crediti: Regia di Alessandro Federio; con Silvia Aielli, Alessandro Federico e Mariasole Mansutti; testo di Jex Butterwoth; traduzione di Massimiliano Farau e Laura Mazzi; produzione Proprietà Commutativa
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