Cordelia - le Recensioni

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CENERENTOLA REMIX

I sogni son desideri… ma no, i sogni sono roba concreta e Cenerentola, la favola di Perrault che vanta numerosi tentativi di imitazione, arriva a scoprirlo, suo malgrado, attraverso il dolore e la sopraffazione. C’è un guardaroba sul fondale, tutto è visibile in questa versione “remix” firmata da Fabio Cherstich e Tommaso Capodanno; una struttura metallica è casa della nuova famiglia della protagonista, vi scorgiamo all’interno la malvagità della matrigna e delle sorellastre, la fragilità del padre rimasto vedovo, la sua solitudine che misura il tempo che passa attraverso un orologio enorme appeso al collo, per non dimenticare mai la propria madre. È una versione immaginifica e plastica, che punta alla vivacità espressiva su note graffianti e nulla concedendo alla dolcezza patinata da confetto della nota versione disneyana: in questa Cenerentola la fata è una spassosa vecchina che parla dialetto romanesco da un water immondo, il principe è un nerd misogino che non accetta la morte della madre e regala una scarpa alla giovane ignota, il ballo un mix di valzer e suoni da videogioco, la matrigna una donna che, in nome dell’estetica ipertrofica di questa epoca in cui la giovinezza si crede eterna, vuole sostituire le figlie nella ricerca del principe; Cenerentola vincerà perché è l’unica a dire la verità, in una storia piena di menzogne. È una lettura lucida quella di Cherstich, divertente e aggressiva, che sviluppa ciò che delle fiabe spesso resta fuori, una storia in cui la vanità è sconfitta e la modestia valorizza l’umanità, in cui la superbia sarà umiliata e i sogni, se non sono motivati dalla concretezza delle azioni, sono turpi imbarazzanti equivoci ridotti alla miseria umana. Tutt’altro, che desideri. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro India. Ispirato alla favola di Charles Perrault, ideazione e regia Fabio Cherstich; musiche Pasquale Catalano; con Julien Lambert, Giuseppe Benvegna, Annalisa Limardi, Alessandro Pizzuto, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane

ROLLERCOASTER

Prendete una sala sotto i cento posti, riempitela di un pubblico di giovani - probabilmente molt* alliev* artist* della scuola di circo Materia Viva -, programmate un artista altrettanto giovane, ma già un fenomeno riconosciuto nei circuiti, il trentaduenne Wes Peden ed avrete una serata da tutto esaurito, piena di energia, applausi e viva attenzione; come quella di ieri (10 dicembre) in chiusura della rassegna Battiti al Teatro Furio Camillo. Per creare Rollercoaster il juggler statunitense (con base a Stoccolma) ha attinto alla propria memoria di infanzia, alla passione per le montagne russe: in scena grandi gonfiabili azzurri e componibili, il protagonista con scarpe arancio fluo come i capelli e poi gli oggetti del mestiere, palline, clavette, cerchi, scatole piene di accessori da far volare sopra la testa. Wes Peden sembra riuscire a lavorare con qualsiasi cosa: una giovane spettatrice che mi siede accanto sussurra a un altro spettatore: «i piatti cinesi… sa usare anche quelli!». Con una voce fuori campo, di quelle da sintesi vocale computerizzata, Peden occupa lo spazio del riposo con piccole riflessioni o ricordi ironici sulle montagne russe, l’intrattenimento da luna park ritorna anche nelle forme dei “numeri”, nell’uso di un lungo tubo in cui far scorrere le palline, nella progressione delle difficoltà e del ritmo con cui si dipana lo spettacolo. Rollercoaster però non è solo un fenomenale susseguirsi di esercizi di giocoleria è anche una poetica danza tra uomo e oggetti, c’è qualcosa di commovente e dolce negli occhi di questo colorato juggler in grado di sfidare la gravità. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Furio Camillo, Battiti - Rassegna Internazionale di circoteatro. Crediti: di e con Wes Peden

RIDING ON A CLOUD

Libano, 1987. Un giovane uomo sta per iniziare l’università, ma si trova all’improvviso a dover tornare all’asilo. Sullo schermo dell’auditorium del Maxxi vediamo le immagini delle sue pagelle scolastiche. Più che un palco, una predella con una scrivania e, seduto, l’uomo che dà in pasto allo schermo tracce audio e video tramite un mangianastri. Il suo sguardo ritratto nel perimetro della scrivania, il suo silenzio rimediato da quell’archivio di memorie, comunicano la solitudine impenetrabile di una sparizione improvvisa. L’uomo è Yasser Mroué, fratello di Rabih, regista, performer, drammaturgo, artista visivo libanese di stanza a Berlino, fra le voci più intense e complesse a portarci testimonianza della storia moderna del paese mediorientale. Riding on a cloud porta in scena la storia del fratello, sopravvissuto ad un proiettile al cervello, sparato da un cecchino appostato sui tetti di Beirut, lo stesso giorno che il nonno dei due, dirigente del partito comunista, venne assassinato. La guerra come forma di dolore senza storia, ma anche la storia come forma di rappresentazione sono ossessioni per Rabih Mroué, che qui porta la riflessione al grado di una scansione magnetica nel corpo-biografia del fratello, privato della parola per un certo periodo dopo il terribile incidente. Nell’afasia, Yasser ha costruito un rapporto nuovo con le immagini, strumenti alternativi per indicare gli oggetti che il trauma ha reso estranei al linguaggio. In quello iato fra parola e immagine sta un dissidio profondo, che per i Mroué racconta, in modo misterioso ma potente, la guerra stessa. (Andrea Zangari)
Visto all'Auditorium Maxxi, Romaeuropa Festival: Performance di Rabih Mroué Scritto e diretto da Rabih Mroué con Yasser Mroué In collaborazione con: Sarmad Louis

MENEGHINISSIMA

Meneghinissima, preziosa mostra allestita alla Casa della Memoria di Milano, vuole restituire l’importanza storica del personaggio di Meneghino non soltanto nel teatro dei burattini, bensì nel teatro tout court così come nella stessa società. Meneghino nasce nel 1695 per mano di Carlo Maria Maggi, ma solo nell’800 diviene protagonista dei palcoscenici lombardi nelle interpretazioni dei maggiori attori, come testimonia la commedia Gli italiani a Massaua con Meneghino prode caporale dei bersaglieri (1890 ca); se il prode è l’autore Ferravilla, nel cast, tra gli altri, si leggono Salvini e Duse. Un viaggio nella storia d’Italia e del suo nord, dall’incontro fraterno con il piemontese Gianduja, al Meneghino fascista che bombarda le terre africane, a quello che diventa il titolo di giornali di satira e non solo. E proprio per la sua popolarità di personaggio drammatico, Meneghino ben volentieri venne adottato dai burattinai lombardi: ce ne mostrano l’evoluzione gli splendidi burattini dei maestri burattinai, da Benedetto Ravasio a Riccardo Pazzaglia, da Giacomo “Fiaca” Onofrio a Romano Danielli, fino, ovviamente, all’ideatore della mostra, collezionista e studioso, affermato burattinaio Valerio Saccà (Compagnia Burattini Aldrighi). La mostra, tuttavia, vuole non soltanto commemorare il passato ma anche proporre un Meneghino dei giorni nostri perfettamente immortalato nelle fotografie di Alvise Crovato, che ha seguito burattinaio e burattino nelle diverse atmosfere milanesi, così come nel lontano Oriente degli Emirati Arabi, e che ci restituisce l’umanità e la potenza di Meneghino e del burattino come strumenti contemporanei in un vivido racconto per immagini. (Angela Forti)
Visto ala Casa della Memoria di Milano. Crediti: La mostra è visitabile fino al 4 dicembre 2022. Un progetto di Valerio Saccà – Burattini Aldrighi e Alvise Crovato; mostra a cura di Gigliola Foschi; fotografie di Alvise Crovato.

IL MESSAGGERO DELLE STELLE

Se il senno di Orlando è volato sulla luna, perché non immaginarla residenza per le menti più eccelse del pianeta? Un aldilà dove non esiste coerenza temporale, di modo che il dibattito sulle grandi scoperte scientifiche prosegua instancabile, non avulso da vizi e virtù terrene. Questa la semplice e affascinante intuizione di Francesco Niccolini, autore de Il messaggero delle stelle, portato in scena dalla Compagnia del Sole per la regia di Marinella Anaclerio. Storia, letteratura, astronomia e filosofia trovano la sintesi poetica e ironica, mai didascalica, in questa pièce in rima: Flavio Albanese è un Astolfo un po’ cavaliere un po’ astronauta, brillante e trasognato, pronto a prestare voce e corpo a Copernico, Keplero, Newton, Bruno e soprattutto Galileo. È quest’ultimo il Virgilio di questa esplorazione lunare che percorriamo attraverso gli occhi colmi di stupore di Astolfo d’Inghilterra. Albanese con fluida agilità presta la sua voce a caratterizzazioni e guizzi linguistici, immediati per i più giovani, profondi e sferzanti per il pubblico più adulto. Per troppo senno gli errori più grossolani furono compiuti. Ma l’errore è il segreto! Ognuno con i suoi peccati, percorriamo la nostra esistenza per qualche breve scintilla di tempo. Tanto vale liberarsi del troppo senno che teme l’errore, origine di ogni meraviglia, di ogni stupore. Ecco che il teatro e la scienza si danno la mano e danzano insieme. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro India. Flautissimo Festival. Crediti: di Francesco Niccolini, con Flavio Albanese, regia Marinella Anaclerio, consulenza scientifica Prof. Marco Giliberti, co-produzione Compagnia del Sole, Accademia Perduta/Romagna teatri, Fondazione TRG Onlus, con il patrocinio di INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica

A CHE SERVONO QUESTI QUATTRINI

I soldi non fanno la felicità. Da quando esiste il denaro come regolatore degli affari sociali c'è qualcuno che ne canta le doti contrarie: il denaro svilisce, rende disumani e porta con sé un peccato originale, il lavoro. Parascandolo lo sa, lo ha sperimentato e ora lo professa come una sorta di religione cialtrona. Tutto farà pur di dimostrare le sue tesi - anche del bene, a chi forse non lo merita. Metterà in piedi un teatro fatto di menzogne dolci come illusioni, per dire quanto insensata sia questa convenzione chiamata denaro. Al teatro Sala Umberto è andato in scena un classico della commedia napoletana, A che servono questi quattrini, che debuttò ottantadue anni fa in un altro teatro romano a qualche isolato da questo, il Quirino. Antonio Parascandolo era Eduardo De Filippo, il testo è di Armando Curcio, figura celeberrima della cultura e dell’editoria italiana. Nella versione di Andrea Renzi la scena è semplice e minimale: una parete di fondo grigia cambia con il cangiare delle luci e basta un drappo dall’alto per trasformarla nell'interno di una ricca casa borghese. Va detto che nella ripresa dello spettacolo per questa stagione il ruolo dell’abile Marchese Parascandolo, detto il Professore, è interpretato da Nello Mascia in sostituzione di Giovanni Esposito; nella prima a cui abbiamo assistito l’attore dimostrava di avere bisogno di qualche replica di rodaggio per entrare del tutto in un meccanismo corale molto preciso (supportato dalle prove notevoli di Valerio Santoro e del trasformista Gennaro Di Biase), ma già erano visibili il piglio aristocratico e il distacco sagace conferito dal portamento. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sala Umberto. Crediti di Armando Curcio scene Luigi Ferrigno costumi Ortensia De Francesco luci Antonio Molinaro coproduzione La Pirandelliana Durata 2 ore (compreso intervallo) regia di Andrea Renzi. Con nello Mascia, Valerio Santoro, Salvatore Caruso, Loredana Giordano, Fabrizio La Marca e Ivano Schiavi

ERA MEGLIO CASSIUS CLAY

Ci sono spettacoli che fanno del disorientamento, della dissimulazione, della deviazione dall’idea iniziale entro la quale si è condotta l’immaginazione e lo sguardo di chi vi ha assistito, la propria cifra costitutiva. Era meglio Cassius Clay è uno di questi. Nato dalla scrittura (drammatica e registica) di Rita Frongia, lo spettacolo è andato in scena al Centrale Preneste nell’ambito della rassegna Puro Teatro, curata da Angela Antonini, in scena assieme a Gianluca Balducci e Stefano Vercelli. I personaggi sono tutti stati qualcosa che non sono più; c’è un ex pugile, Jimmy, che ora è figura muta, sbigottita e però fervido piano d’ascolto; Tex, ex promessa del pugilato ora sembra trovarsi soltanto come carezzevole mano e parlata biascicata. Fa il suo ingresso Clara, ex attrice e ora animatrice per bambini; se i primi due sembrano trovare una quadra in una passione in comune ora traslata in un rapporto di mutua interdipendenza (l’uno non esisterebbe senza l’altro), è proprio la figura femminile il primo elemento dissonante. Toni, azioni, proposte, costumi mostrano subito un atteggiamento fuori luogo; non sono bambini quelli davanti a sé, non sono le parole quelle adatte all’inaspettato uditorio. Eppure, qualcosa sembra tornare: “the show must go on”, parrebbe dire la società. Tocca resistere e adattarsi, anche di fronte a qualcosa di inaspettato, o così parrebbe; e allora se si hanno giochi per le mani, che si giochi. Fintanto che il caso non ci mette davanti a quella risata – amara, irreparabile, che qui ha il colore di una polvere blu – dalla quale non ci si può più tirare indietro. E allora, forse, smettiamo di ridere. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Centrale Preneste Rassegna Puro Teatro, Roma | Crediti: drammaturgia e regia Rita Frongia, con Stefano Vercelli, Gianluca Balducci, Angela Antonini, luci Fausto Bonvini, produzione Artisti Drama APS

PAS DE DEUX

Pas de deux: di una delle più note indicazioni di forma coreografica per due danzatori, in questa versione creata da Jari Boldrini e Giulio Petrucci, sembra rimanere appena una traccia. Lo spettacolo, presentato nell’ambito della rassegna Dancing Days di Romaeuropa Festival 2022 e vincitore del bando DNAppunti Coreografici 2021, intraprende una ricerca sottile e raffinata. Il rapporto a due non è a priori ma si costruisce man mano, e l’impressione è che tutto si concentri a partire da ciò-che-c’è-prima: si parte in assolo, morbidamente, il corpo privo di tensioni apparenti, in un agire privato (anche l’abbigliamento, poco caratterizzato e però proprio per questo indicatore di uno stato preciso), ripercorre passi, li accenna, quasi sembra analizzarli da fuori. Soltanto in alcuni momenti i due si incontrano, sovrapponendo in uno spazio comune le proprie linee d’azione, come a voler innestare un rapporto agli esordi ma senza che – volontariamente – ancora sia data una reale risultanza delle due presenze. Di fronte a questa riconfigurazione viene da chiedersi chi o cosa sia la controparte di questo pas, l’altro, il tappeto sonoro, il taglio di luce essenziale, lo spazio vuoto entro il quale creare una relazione? La coreografia cresce con calma, i due interpreti si prendono lo spazio per poter osservare, per potersi ripensare, guardando a quanto è stato fatto, ripercorrendo con ritmi diversi stesse azioni, non perdendo mai la concentrazione di un gesto in sottrazione che però esiste ancora. Il risultato è un lavoro che nonostante le perplessità di alcuni spettatori è riuscito morbidamente e persistentemente a catturare l’attenzione di molti. (Viviana Raciti)
Visto al Mattatoio |Romaeuropa Festival. Crediti: ideazione C.G.J. Collettivo Giulio e Jari, con Giulio Petrucci e Jari Boldrini, musica Simone Grande, luci Gerardo Bagnoli, installazione Elisa Capucci, produzione Anghiari Dance Hub, Nexus Factory
Nexus Factory

THE LETTER OF LAST RESORT

La lettera dell'ultima risoluzione, The Letter of Last Resort nel titolo originale del testo di David Greig portato in scena al Teatro Fortezza Est con la regia di Massimiliano Farau e il lavoro attoriale di precisione, ironia e tecnica sopraffina di Laura Mazzi e Marco Quaglia. Ci sono solo loro due in scena, lei è la Prime Minister inglese, lui un responsabile dell'organizzazione governativa. In mezzo una scrivania in legno, unico oggetto di scena, insieme a una sedia a dimostrare l'ambientazione istituzionale, forse il famoso numero 10 di Downing Street. Mentre la donna sta chiudendo la propria giornata scrivendo una lettera alla famiglia di un soldato morto John chiede udienza per una lettera ancora più importante. Quella dell'ultima risoluzione che il capo del governo britannico deve scrivere in funzione di un'evenienza remota: un attacco nucleare indirizzato al cuore del Regno. La lettera verrà aperta dal comandante di un sottomarino segreto solo nel caso in cui l'apocalisse nucleare avrà spazzato via l'intera catena di comando. Rispondere all'attacco oppure no? Entrambe le decisioni sono fallimentari? E se la lettera fosse solo un deterrente - enigmatico - proprio nei confronti di eventuali attacchi? La drammaturgia di Greig e l'allestimento di Farau hanno il merito tutto teatrale di rappresentarsi totalmente nel dialogo, senza soluzioni di continuità; non c'è montaggio, cambi scena o sospensioni a salvare i due attori che debbono, nei cinquanta minuti di spettacolo, tenersi (e tenerci) agganciati al filo logico e acutissimo del discorso. Fino a quando questo svelerà il paradosso come legge fondamentale su cui si regge l'intero equilibrio atomico mondiale. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Fortezza Est, nell'ambito di Periferico Ki, progetto di 369 gradi. Crediti: di David Greig Traduzione di Massimiliano Farau e Laura Mazzi Con Laura Mazzi e Marco Quaglia Scena di Fabiana Di Marco Costumi di Ilaria Albanese Luci di Camilla Piccioni Regia di Massimiliano Farau

PER STRADA

Per strada è un lavoro intenso, curioso, agitato. Del testo tragicomico di Francesco Brandi, Raphael Tobia Vogel cura la regia, portando avanti un vitale sodalizio che si intreccia alla collaborazione con la costruzione scenica di Andrea Taddei e quella video di Cristina Crippa. La storia, portata in una piccola sala del Franco Parenti, si sviluppa su più livelli scenografici, scavando con ambiguo illusionismo cinematografico la profondità del palcoscenico, e racconta di una generazione disorientata, che fatica a riconoscersi, a ritagliarsi uno spazio proprio, a negoziare un personale riscatto. Per strada è quindi il luogo in cui il disoccupato Jack e il paranoico Paul si perdono, travolti da catastrofi personali e famigliari, ma anche il tragitto che percorrono insieme per trovare il modo di ricominciare a vivere. Il loro rapporto funge da alterego alla complessa fragilità relazionale di quest’epoca e si plasma nei tentativi grotteschi ed urlati di arginare il dolore dell’altro, nella sincera speranza di porvi rimedio; è qui che le articolazioni di Paul cominciano a tremare inconsolabili, mentre la sarcastica ironia di Jack attutisce la tragicità di un gesto programmato, quello di togliersi la vita. All’inizio cadono leggeri i candidi fiocchi di neve, ricoprono come una coltre velata il silenzio del disagio, del rifiuto, del tradimento, delle aspettative; poi il fondo diventa un interno domestico, il lusso di una villa e l’interno di una macchina che fugge via, oramai troppo lontana per afferrare ciò che resta dall’idea di futuro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: di Francesco Brandi, regia Raphael Tobia Vogel, con Francesco Brandi e Francesco Sferrazza Papa, scene e costumi Andrea Taddei, video di scena Cristina Crippa, produzione Teatro Franco Parenti. Foto di Tommaso Le Pera

LE NOSTRE ANIME DI NOTTE

Due personaggi entrano e si posizionano ai lati opposti del palco. Due luci oblique e distinte ne creano delle inquadrature, la distanza che inabissa nel buio di mezzo è luogo metaforico: Lella Costa è Addie, una signora vivace che porta le rughe dell’età nelle tonalità calde e graffiate della voce. Una sera raccoglie il coraggio per superare la solitudine che porta con sé la notte e chiede al suo vicino Louis, interpretato da un sincero Elia Schilton, vedovo come lei oramai da tempo, di farle compagnia. L’iniziativa della donna coglie sorpreso ed elettrizzato l’anziano goffo signore, che quasi non sa più come si fa a non stare da soli. Nell’adattamento teatrale di Emanuele Aldrovandi, firmato nella regia di Serena Sinigaglia, le febbrili attese e la naturalezza dei gesti riprendono fedelmente l’immediatezza della prosa del romanzo di Kent Haruf, che scava nel consunto amore per i ricordi attraverso le difficili storie che ognuno si porta dietro. Anche l’atmosfera domestica, con mobiletti vintage, carta da parati e fotografie che hanno lasciato l’impronta sul muro del tempo trascorso, apre ad una dimensione intima e confessionale in cui la coppia cuce una relazione basata sul rispetto e l’ammirazione, per poi spogliarsi del peso delle convenzioni e reinventare un nuovo modo di vivere l’anzianità. La scenografia si riduce e deteriora progressivamente seguendo l’incrinarsi dei rapporti; ma è proprio lì, dove gli obblighi familiari cercano di dividere e imporsi, che Addie e Louis riescono a ritrovarsi. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Carcano di Milano. Credits: regia di Serena Sinigaglia, con Lella Costa ed Elia Schilton, adattamento teatrale Emanuele Aldrovandi, tratto dall’omonimo romanzo di Kent Haruf, pubblicato in Italia da NN Editore, Produzione Teatro Carcano. Foto di Marina Alessi

HEDVIG

La “danza” del testo L’anitra selvatica di Henrik Ibsen nel suo secondo movimento dal titolo Hedvig, andato in scena al Teatro India, segue il primo I Sommersi, entrambi curati e interpretati da Federica Santoro, con Luca Tilli al violoncello e la collaborazione preziosa del pittore Ettore Frani per i quadri di scena. Un ricorrere ossessivo col quale si dice il testo, una corsa a tratti, poi un incedere lento, cadenzato, lo spogliare ogni parola del suo valore narrativo. La scena è lunga, larga, mezza vuota; lei, Santoro, è risonanza della sua parola, in ciabatte, calzini blu, maglia gialla e giacca a fiori. Pausa, beve al bicchiere sul tavolo, si siede, sfoglia un taccuino, buio, uno sparo. «Anti narrazione» è la definizione che dà del dramma Santoro aggiungendo come questa drammaturgia dell’adattamento si concentri sulla forma che prevale sul contenuto, inserendo nel flusso ibseniano anche delle «microscene», altri rimandi, legati ad esempio alla filosofia, che esulano dalla centralità del testo originale. Hedvig - è il giorno del suo compleanno e della sua morte - si stratifica in una polifonia di parole, musica, personaggi e anche di tempo, di durate. Non solo dei 15 anni del plot ma anche quello personale dell’artista: questo spettacolo è stato difeso fino alla sua andata in scena, prima fermato dalla pandemia e poi annullato al debutto, causa covid. Nel finale, è difficile interrompere il flusso, infilare il cappotto e uscire.(Lucia Medri)
Visto a Teatro India: Hedvig da L’anitra selvatica di Henrik Ibsen di e con Federica Santoro e Luca Tilli; adattamento drammaturgico Federica Santoro; musiche Luca Tilli, disegno luci Dario Salvagnini, i quadri in scena sono del pittore Ettore Frani; produzione Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Foto Ettore Frani

ESTERINA CENTOVESTITI

La scuola è il periodo della vita che prende dimensioni epiche quando poi, nel tempo, si torna a far visita a quelle sensazioni spesso premature, rimaste come acquarelli prima diluiti e poi seccati dalla polvere degli anni adulti. Lucia ha 10 anni, gli stessi di compagne e compagni della scuola elementare: con tutti gioca, con tutti si rincorre, con tutti inizia a mediare i meccanismi di relazione appena fuori il nucleo di famiglia. Il sapere, ciò che si impara dai libri, resta sullo sfondo di una foto di classe in cui emerge il volto dei protagonisti: tra di essi, Esterina, che di anni forse ne ha di più, che non parla o veste come tutti, che ha qualcosa di strano e manifesta un disagio estremo, fuori dai canoni che rende tutti più o meno uguali. Eccolo, l’elemento che getta il seme di una maturazione là da venire, ma che inizia pian piano a germinare nella protagonista. È solo un po’ più grande mentre racconta, Lucia, ma già in quei pochi anni di distanza ha compiuto un percorso di comprensione per quanto abbia rappresentato in lei la conoscenza di Esterina, ragazzina povera che urlava di avere cento vestiti, chissà se in camera o nell’immaginazione. In Esterina Centovestiti i temi del bullismo serpeggiante, sibillino, emergono dalla bellezza del racconto leggero che passa per l’interpretazione gioiosa ma profonda di Daria Paoletta; ancora una volta la Compagnia Burambò, qui con la regia di Enrico Messina, si segnala per la delicatezza con cui tratta il teatro per le nuove generazioni, ancora una volta grazie al teatro i più grandi osservano e d’improvviso ricordano quel tempo, quei volti, la scuola e le emozioni di quando erano bambini. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Torlonia. Di e con Daria Paoletta; regia Enrico Messina; Compagnia Burambò

I BROKE THE ICE AND SAW THE ECLIPSE

Una femminilità insofferente, a tratti beffarda. Una mascolinità incerta, spesso teneramente ottusa, racchiusa in un completo grigio. Giovanna Velardi e Federico Brugnone, in I broke the ice and saw the eclipse, sono particelle sottoposte alle leggi di un’affinità nervosa e complicata, segnata da un tentativo di comunicazione a lungo frustrato. Lei è scattante, mentre lui procede quasi per inerzia, avanzando lungo direttrici più limitate prevedibili. Lui parla di cose, sciorina nozioni, paventa l’apocalisse incombente. Lei reagisce risoluta, preferendo scuoterlo piuttosto che rassicurarlo: esasperata, diviene una belva ragliante, essere metamorfico distante da ogni umana convenzione. Le parole, la vocalizzazione sono parte integrante di questa relazione, e puntellano lo svolgimento della coreografia come piccoli nodi drammatici. Il dialogo di corpi, gesti e frasi, nella cui combinazione la performance trova sviluppo, accoglie e raccoglie la problematica precarietà dell’affettività contemporanea, offrendone una visione tanto impietosa quanto ironica. Privati dei loro abiti, del filtro degli occhiali che prima indossavano, i due personaggi trovano infine il coraggio di urlarsi contro quanto non avevano potuto dirsi prima. Un piccolo globo di ghiaccio, sospeso da Velardi e Brugnone a diretto contatto con la pelle nuda, è il simbolo di un cambiamento di stato avvenuto e ancora in atto. Il globo cade, finalmente si rompe il ghiaccio; le luci si spengono gradualmente, lasciando aperta la possibilità dell’incontro. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco. Crediti: concept e coreografia Giovanna Velardi, con Federico Brugnone e Giovanna Velardi, costumi Dora Argento, consulenza registica Luciano Colavero. Foto di Piero Tauro.

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