CATCH ME
Avremo subito tutti quel fascino, perverso ma impellente, dell’avere accesso alla vita di qualcun altro, raccolta in un archivio composto da tracce di un passato da preservare o resti che non si è riusciti ad abbandonare. Catch me è figlio di questo desiderio: lo spettacolo della compagnia Illoco Teatro visto al Teatro Basilica, è nato dall’incontro fortuito casuale con un baule di memorabilia appartenente tutte a un uomo. Oggetti vari ma soprattutto nastri audio all’interno dei quali l’uomo, Ennio, ha raccolto i propri sogni; lo scandaglio di questi viaggi onirici è diventato il terreno su cui far attecchire per i cinque interpreti (in uno studio di 5 anni) delle ipotesi di vita per frammenti, cui poi aggiungere del proprio, immaginando connessioni, ricorrenze, interpretazioni. Sulla scena approdano parole dai loro quaderni di viaggio (una istallazione all’ingresso della sala rende merito dei possibili intrecci su carta), mentre corpi e piccole abat-jour creano costruzioni immaginifiche rievocando il dicibile di quelle storie ricostruite. L’equilibrio tra il riuscire a dare giusto pieno a quel vuoto senza che diventi pretesto per un racconto slegato è materia complessa, tant’è che a volte si ha la sensazione di perdere il filo che sta ricucendo l’immagine perduta. Avere a che fare con un archivio espone al dover considerare per assoluto qualcosa che è figlio di tanti passaggi, molti dei quali aleatori, temporanei, casuali; i vuoti non sempre possono o debbono acquisire senso, ma la sfida sta proprio tra il rispetto e il tradimento, tra il ricucire uno strappo e aggiungere una toppa che non serviva ancora. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: Regia Roberto Andolfi. Drammaturgia Rosalinda Conti. Assistente alla regia Alessia Giglio. Con Maria Vittoria Argenti, Dario Carbone, Annarita Colucci, Valeria D’Angelo, Anton De Guglielmo.
SNOWFLAKE
Interno sera, alla vigilia di Natale. Nel cuore dell’Inghilterra contemporanea Andy ha preparato tutto, ha addobbato una sala in affitto con festoni, palloncini e albero di Natale, per quello che vorrebbe fosse un incontro perfetto: qualcuno ha visto sua figlia Maya in città, da tre anni è andata via senza avvisare, ma forse questa volta si farà viva, lui ci spera, attende emozionato e sistema ogni dettaglio. Non ha mai saputo, o capito, quale fosse la sua colpa, forse per l’inaccettabile sfida di crescere da solo una figlia adolescente dopo la morte di sua moglie, forse perché ha votato sì alla Brexit e Maya si è sentita tradita. Forse. In questo dubbio si arrovella Andy, cercando l’espressione giusta per questo presunto arrivo. Snowflake, testo di Mike Bartlett diretto da Stefano Patti (che ne aveva curato la messa in scena per Trend 2021), attraverso uno spunto di carattere familiare cerca di esprimere il disagio intergenerazionale di un’Inghilterra alle prese con la lotta tra passato e futuro, tra conservazione e prospettiva, inquadrando un padre (Marco Quaglia) e una figlia (Adalgisa Manfrida) in conflitto ma svelando di ognuno la fragilità. Tra di loro un terzo personaggio (Lucrezia Forni), che sarà il fulcro del loro tentativo. La frustrazione e il dolore si mescolano con delle parti più brillanti, la regia di Patti cerca sostegno nella qualità degli attori – più di tutti Marco Quaglia che continuiamo a pensare meriterebbe palcoscenici prestigiosi – ma il testo ha dei conflitti drammaturgici molto deboli che non rendono del tutto credibili i motivi di questa mancata relazione. (Simone Nebbia)
Visto al Visto a Fortezza Est. Crediti: di Mike Bartlett; regia Stefano Patti; con Marco Quaglia, Adalgisa Manfrida, Lucrezia Forni; produzione 369gradi
L’UOMO PIÙ CRUDELE DEL MONDO (di Davide Sacco)
Qualche tempo fa Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, dopo aver acquisito il social network Twitter lo ha usato un po’ come avrebbe fatto un semplice utente: ha postato una foto che ritraeva alcuni oggetti sul proprio comodino. Sembra semplice esibizione, in realtà c’è di più: quanto fatto da Musk è stato costruire la propria identità di fronte agli altri, ambientare la scena del crimine peggiore per un essere umano: essere appunto umano. Sembra questo lo schema in cui si svolge la vicenda che Davide Sacco dirige in L’uomo più crudele del mondo, ma non è che apparenza: Lino Guanciale è un crudele e potente magnate d’azienda, Francesco Montanari un giornalista mite che viene convocato per raccoglierne la testimonianza e legittimare così il suo potere. Siamo dentro il doppio piano obliquo del suo ufficio nel complesso industriale, tutto attorno è silente, l’uomo è eccitato, conduce lui stesso la sua intervista e presto svela il proprio desiderio: essere ucciso dal giornalista, dietro il pagamento di sempre più denaro. Il giovane tentenna, rifiuta, poi pian piano accetta e si trasforma lentamente in un aguzzino, mostrando la propria natura più profonda. Guanciale è il più abile nel frequentare diversi registri e modellare il personaggio, al servizio di una regia decisa che tuttavia poggia molto sugli attori e sembra suggerire gli avvenimenti del testo più che farli apparire come una rivelazione. Ne nasce uno spettacolo agitato in cui la situazione si ribalta fino a far emergere dal passato le intenzioni segrete del gesto, promesso o minacciato, in cui si confrontano istinto e ragione, ma quando quest’ultima è intrisa dal dolore non avrà pace se non la morte. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Ambra Jovinelli. Crediti: testo e regia Davide Sacco; con Lino Guanciale e Francesco Montanari; scene Luigi Sacco; luci Andrea Pistoia; organizzazione Ilaria Ceci
APOCATASTASI
Lo spazio e il tempo collassano in una sorta di buco nero, qui il senso si scioglie come un liquido nero inafferrabile: di fronte a noi ci sono due corpi femminili, vestono abiti lunghi e hanno da poco varcato il limite dell'adolescenza. Poca luce, nella penombra del Teatro India, hanno gli occhi coperti dai loro capelli, oppure sono di spalle o chiuse in un profilo nel quale nascondono lo sguardo. L'io è negato. È come sempre uno spazio di idee filosofiche quello di Tafuri e Beronio, che qui si nutre di antichi miti relativi alle danze dell’ade. Anche in questo Apocastasi, presentato a Teatri di Vetro, l'immagine, le riflessioni e i rimandi compongono, a distanza di giorni, una memoria suggestiva. La performance invece, nel suo accadere, nei 40 minuti, si muove con lentezza, piccoli movimenti, incontri tra due corpi e danze accennate, aggressioni, cenni erotici. Rimane appunto un'esperienza performativa circoscritta e di lettura forse non immediata per un pubblico non alfabetizzato o semplicemente non appassionato a una modalità che agisce per sottrazione. La potenza e il limite stanno proprio in questa caratteristica dell’opera, nel rimanere su un confine immaginifico: non si addentra nello stato solido di uno spettacolo, nella densità di un'opera completa, ma non rimane neppure nei territori totalmente anti rappresentativi dell'apertura sperimentale più pura. D'altronde la costruzione visiva, l'uso delle luci e il contrappunto musicale di Pietro Borgonovo dimostrano una volontà di costruzione, ma la coreografia e lo stare in scena delle due giovani performer sembra fermarsi prima, in una sorta di anticamera fatta di ombre. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India per Teatri di Vetro. Crediti regia Clemente Tafuri e David Beronio con Roberta Campi e Giulia Franzone musiche originali Pietro Borgonovo produzione Teatro Akropolis. Foto Margherita Masè
FABRICA 36100
Paola Bianchi si muove pochissimo all'inizio, quasi si nasconde nel buio eppure il suo stare in scena è solido, riconoscibile nella densità di ogni muscolo. Il volto è come sempre concentrato ma neutro, veste una canottiera bianca e una gonna scura al ginocchio. FABRICA 36100 fa parte del più ampio progetto ELP, ricerca attraverso la quale la danzatrice e coreografa studia la relazione tra la “parola descrittiva” e danza. A Teatri di Vetro, seguendo lo spirito con il quale la direttrice del festival Roberta Nicolai interroga i percorsi delle artiste e degli artisti convocati, incontriamo il secondo di due dispositivi sul mondo del lavoro in fabbrica. Qui la ricerca si è svolta con i dipendenti di Bata attraverso il dialogo con ex lavoratori e lavoratrici, a partire da un quesito decisivo, oltre che pieno di suggestione, “ Cosa significa allora trasformare un gesto produttivo in un gesto che non produce materia, un gesto che trasforma e crea materia, in un gesto che crea qualcosa di immateriale?”. Il precipitato scenico, in movimento, vede un corpo farsi strada nel buio, lateralmente, alla destra dei nostri sguardi: non siamo di fronte a gesti atletici, c’è qualcosa sull’invecchiamento, sulla perdita dell’umanità, il gesto si fa spezzato e l’immagine arriva da una memoria lontana o da un mondo altro. La danza di Paola Bianchi evoca i fantasmi, ma questo non è un film horror, siamo in uno spazio teatrale e allora mentre il corpo si sposta al centro una luce di taglio da sinistra lo illumina colpendolo; si spezza a terra ora quel corpo, i movimenti definiscono le giunture, è un corpo industriale. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India per Teatri di Vetro. Crediti coreografia e danza Paola Bianchi sound design Stefano Murgia light design Paolo Pollo Rodighiero collaborazione artistica Roberta Nicolai costumi PianoB residenze artistiche FAA Bataville-Moussey (FR), Teatro Galli di Rimini con il supporto di KOMM TANZ/PASSO NORD progetto residenze Compagnia Abbondanza/Bertoni produzione PinDoc coproduzione Teatri di Vetro con il contributo di MiC e Regione Sicilia. Foto Margherita Masè
TU ERI TURBOLENTA (Quirk of fate)
Ha debuttato con un bel passaparola, due giorni pieni nonostante si trattasse di una compagnia (Tostacarusa) al proprio esordio, uno spazio importante come l'Angelo Mai e tanti occhi curiosi: Tu eri turbolenta aveva creato certe aspettative, anche per il supporto di tanti soggetti durante la creazione. Regia e drammaturgia sono di Tolja Djokovic, vincitrice della Biennale College per la drammaturgia 21/22, con lei in scena Aura Ghezzi e Martina Tinnirello. Alla base il romanzo di Goliarda Sapienza, L'arte della gioia. Lo spazio scenico vede il pubblico su tre lati e la regia in scena. L'idea dovrebbe essere quella di innestare spunti autobiografici, piccole riscritture nel tessuto di altri frammenti, quelli del romanzo. Il risultato è un partizionamento di intenzioni eterogenee in cui ad ogni scena lo spettatore deve rinegoziare le istanze drammaturgiche per capire chi e cosa abbia davanti, senza avere il tempo di entrare in empatia. Si stagliano i momenti in cui la discendenza letteraria è più evidente, si intravede il profilo di Modesta, di certo si riconosce in queste tre donne sul palco la voglia di ricercare quella sfrontata libertà. Tostacarusa nelle note scrive: «Non potevamo mettere in scena il romanzo ma potevamo chiederci che cosa volesse dire per noi avere, o tentare di avere, un’arte della gioia», questo approccio emerge nella relazione, nei sorrisi tra le tre attrici ma non riesce ad aprirsi al pubblico. Rimane la cura unitaria nei costumi e alcuni momenti suggestivi per impatto scenico e musicale, ma i materiali (coreografie, spunti lirici e dialoghi) appaiono giustapposti in maniera confusa e non si addensano ancora in un'opera unitaria.(Andrea Pocosgnich)
Visto all'Angelo Mai. Crediti: con Aura Ghezzi, Martina Tinnirello, Tolja Djokovicc drammaturgia e regia Tolja Djokovic scene e luci Francesco Cocco produzione tostacarusa
CHAT- KEEP IN TOUCH
Da un’unica enorme cellula, una massa pesante al centro del palco, delle vite prendono forma scomponendosi in esseri autonomi. Volendo tralasciare la fuorviante nota di regia che pone la concentrazione su sedicenti studi antropologici che avrebbero preannunciato i principi di mutazioni fisiologiche legate all’uso massiccio dei social media, bisogna invece focalizzarsi sulle interessanti suggestioni di un’atmosfera (per paradosso) primitiva. Un’atmosfera di sole luci, il cui uso produce una cornice narrativa d’impatto: quelle lattiginose, così come i neri delle ombre, creano l’aria densa di un mondo solitario ai tempi della Prima Creazione, mentre i coni gialli isolano i corpi della nuova specie d’uomo, diventandone così i primi esemplari. Curvi nelle spalle e costretti a replicare insieme e da soli le stesse azioni in movimenti variabili, i danzatori suggeriscono certamente una qualche introiezione della tecnologica: pose per fotografie, pollici sollevati o dita guizzanti, schiocchi di labbra che imitano i trilli delle notifiche. Il peso dell’impostazione originaria ha però irrigidito il risultato della composizione ultima (soprattutto in trovate poco chiare come l’unione dei quattro corpi danzanti in quello della divinità Shiva), che è riuscita nonostante tutto a manifestare un senso di vitalità e umanità probabilmente non prevista ma che sarebbe stato necessario approfondire. Per cui quelle movenze spezzate da automi hanno in realtà un ritorno quasi animalesco, oltre che primigenio, e rimandano a nient’altro che all’immagine di uomini soli. (Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli; Crediti: Coreografia Nicolas Grimaldi Capitello; Light designer Paco Summonte; Costumi Rosario Martone; Danzano Samuele Arisci, Eva Campanaro, Sibilla Celesia e Marco Munno; Produzione Cornelia; Coproduzione Teatro Comunale di Vicenza
COSTELLAZIONI
Stando a una delle leggi della fisica quantistica, una cosa può contemporaneamente avvenire o no su svariati piani della realtà; per questa ragione, Marianna (Ilaria Delli Paoli) e Rolando (Roberto Solofria), una fisica teorica e un apicoltore, vivono e si incontrano innumerevoli volte. I due innamorati sono come l’esperimento atto a dimostrare la legge: fasciati e isolati da luci uniche, vivono come se il loro fosse un caso esemplare. Lo spazio vuoto prende corpo dalla ripetizione degli eventi, assumendo di volta in volta le sfumature delle emotività dei protagonisti; alle volte cambiano minimi dettagli, lievi inclinazioni della voce o gesti minuti, altre volte sono prospettive opposte. Il loro è un susseguirsi di what if che esplorano la relazione in ogni variabile implicazione. Il tono leggero da commedia romantica, i suoi rapidi meccanismi di battuta e risposta, le incomprensioni e le gaffe, il confronto a tratti conflittuale tra due personalità estremamente differenti, scivolano nel melodramma come la più classica delle storie d’amore. Ilaria Delli Paoli, nonostante i limiti dei ritmi di relazione piuttosto serrati, riesce brillantemente a dare vita a una Marianna che, per quanto sia un personaggio tipico del genere, non di rado si allontana dai toni monocordi del cliché per assumere connotazioni di spiccata personalità. Forse molto più semplice di quanto viene proposto, il racconto dall’intreccio classico procede in maniera lineare e rispetta le esigenze di pubblico desideroso di dolci sentimentalismi. (Valentina V. Mancini)
Visto a Civico 14, Caserta; Crediti: di Nick Payne; Con Roberto Solofria e Ilaria Delli Paoli; Progetto sonoro Paky Di Maio; Regia Roberto Solofria; Traduzione Valerio Piccolo; Impianto scenico Nicola Bove e Vincenzo Leone; Costumi Alina Lombardi; Produzione Mutamenti/Teatro Civico 14
METAMORPHOSIS
L’evoluzione dell’uomo è una lunga serie di complesse implicazioni naturali e culturali che fanno di lui una bestia molto più che pensante. Carlo Massari si districa tra le stratificazioni dell’evoluzione, tra le numerose ipocrisie e costrizioni della bestia molto più che pensante. È come un processo di scarnificazione e nella violenza dell’intenzione, il corpo si scuote in sussulti, sbalzi e convulsioni; lo spazio viene perimetrato e riempito nella sua interezza con un vigore che ha della disperazione. Le tre perfomances operano di sottrazione in quella che può essere, seppur suddivisa in momenti differenti, in una parabola; o in uno strano racconto di formazione dall’umano all’animale. Un uomo in giacca e cravatta si tende ben oltre le rigidità del proprio abbigliamento liberando il gioco con il lancio di coriandoli, e sbeffeggiando a gran voce e con una sonora risata a fior di labbra i credo dei nostri tempi. Poco dopo, il primo contatto con il mondo animale è nel conflitto della produzione intensiva di cibo; il conflitto si scioglie nell’immedesimazione e gli stessi scuotimenti che hanno percosso l’uomo, percuotono l’animale. Perduto l’abito, la nudità inizia a manifestarsi: Massari indossa solo l’intimo e una felpa che riproduce tagli di carne. La sua testa si muove docile a ciondoloni come quella di un bovino. Nell’ultimo quadro, perduto del tutto il contatto con l’umanità e con la fisicità tutta, resta un puro spirito palpitante e irrequieto, tutto teso nel raggiungimento della sua vera natura. (Valentina V. Mancini)
Visto a Sala Assoli, Napoli; Crediti Creazione originale e interpretazione Carlo Massari; Produzione C&C Company; In co-produzione con Oriente Occidente Dance Festival, Teatro Akropolis, Teatri di Vetro, Margine Operativo /Attraversamenti Multipli
CLOUD_ extended
Giovanfrancesco Giannini fa della scena l’esatta riproposizione della propria interiorità: lo spazio fisico è costruito con supporti video, che a loro volta sono funzionali a evocare lo spazio emotivo rendendolo nello stesso momento comprensibile e condivisibile. L’unico vero elemento scenico e narrativo è un corpo che si scompone e ripropone; un corpo che è evidentemente maschile ed evidentemente tutt’altro. Un corpo che sfugge a quello che dovrebbe essere per chi lo possiede e per chi lo osserva: in contemporanea alla clip di un’esibizione di Dalida, il corpo imita le movenze e le interpreta. Seguendo gli stimoli dei video, il corpo assume forme sempre diverse ma con un volto e uno spirito sempre riconoscibile: diventa agonistico e poi mortificato. Allora il corpo si riconosce in tanti altri corpi e diventa il portavoce di martirii: genuflesso, scagliato, colpito, affannato, affaticato, violentato; esattamente come i corpi in video, sconosciuti e indesiderati. Per effetto perturbante, le percosse diventano la base per una coreografia, forse perché in fin dei conti tutto può diventare bello. E se tutto è bello, allora anche quel corpo può esserlo: basta eliminare quell’unico elemento di distrazione e nasconderlo. Sullo schermo appaiono in sequenza le donne più famose della storia dell’arte; quei corpi rosei e morbidi, simboli e modelli, quelli sì conosciuti e ammirati. Perché non diventare quei corpi? Perché non riprodurli col proprio? Perché non sfuggire alle evidenze per offrirsi con generosità agli altri? (Valentina V. Mancini)
Visto alla Sala Assoli, Napoli; Crediti Un progetto di Giovanfrancesco Giannini; Disegno luci Valeria Foti; Produzione Körper | Centro Nazionale di Produzione della Danza; In coproduzione con Ariella Vidach - AiEP, Santarcangelo Festival
BUONI A NULLA
Milano è una città a doppio volto. Lo sanno bene le persone che la abitano, lo sanno anche quelle che vi migrano. Il prezzo delle incredibili possibilità si paga con l’alto rischio di perdere ogni cosa, gli amici, il lavoro, la casa. L’eccitazione si trasforma in rabbiosa depressione. Si perde tutto in un attimo, avvolto dalla vorticosa frenesia di una città che non s’arresta e in cui nulla ti appartiene. Il lavoro coraggioso di Lorenzo Ponte, che nel testo più della regia si mostra ancora non del tutto compiuto, parte dall’idea di appartenenza di uno spazio che possa essere di chiunque lo voglia: il suo palco allora è una degradata stazione del bus ma diventa proprietà apertamente condivisa che si espande in orizzontale nelle diverse ambientazioni scenografiche e in verticale nei tentativi eccessivi di coinvolgimento della platea. È Luca Oldani, un senza tetto marginale eccentrico che dice la verità – forse un po’ folle borderline – a tessere quel legame col pubblico; lo incalza, lo interroga, provoca una situazione di disagio e destruttura i concetti prestabiliti dell’abitare. È marginale anche la redattrice (Paola Galassi) che fatica a mantenersi, lo è lo studente (Tobia Dal Corso) bocconiano disperato nella ricerca di un tirocinio. A partire dall’indagine sociale sostenuta da PRAXIS e condotta a Milano sull’emarginazione e sulle condizioni degli homeless, a teatro queste disuguaglianze delle solitudini periferiche, poco centrate nelle interpretazioni di Galassi e Dal Corso, ci urlano qualcosa nel trambusto caotico della città, chissà che qualcuno ora le ascolti. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: testo e regia Lorenzo Ponte, con Tobia Dal Corso Polzot, Paola Galassi e Luca Oldani, scena Davide Signorini, costumi Giulia Rossena, luci Emanuele Agliati, suono Gaetano Pappalardo e Simone Sigurani,
DALL’ALTRA PARTE -2+2=?
Chissà cosa succede all’interno di un utero materno quando è la vita a originarsi e a prendere forma. Chissà cosa succede quando sono tre feti a condividerlo, costretti a ritagliarsi degli spazi, a crearsi dei ruoli, ad affidarsi dei nomi, anche solo per passatempo. Nel progetto di Putéca Celidònia diretto da Emanuele D’errico, vincitore del Premio Giovani Realtà del Teatro 2019 e semifinalista InBox 2021, tre gemelli eterozigoti, tuta intera blu, sono di spalle, corrono fermi sul posto, legati da un resistente cordone ombelicale ma destinati nel tempo a crescere e separarsi. La voce fuoricampo di Clara Bocchino e le musiche ritmate di Tommy Grieco ne scandiscono lo sviluppo prenatale, ben interpretato da un sensibile cast di giovani attori; c’è Damiano, il bello che ostenta sicurezza con un irriverente egocentrismo, c’è Febo, l’alto e maturo improvvisatosi poeta, c’è Innocente, il più piccolo e tenero, genuino nell’animo e nei sentimenti. I tre feti si muovono e si bistrattano, poi giocano, si spogliano e cambiano abiti fino a rimanere nudi nella propria pelle, per mostrare quella che è, a tutti gli affetti, un’evoluzione biologica che non si compirà del tutto. Anche il loro linguaggio subisce una progressiva trasformazione e da colto, filosofico e nutrito di riferimenti scientifici (tratti dagli studi della University of California) si semplifica, retrocedendo ad uno stato asemantico. Tutta colpa dell’irreversibile perdita di neuroni, ci spiegano i feti, condizione permanente con la quale i fratelli devono scendere a patti. E prepararsi, senza più equazioni risolvibili, a fuoriuscire, dall’altra parte. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro i di Milano. Crediti: regia e drammaturgia Emanuele D’errico, con Emanuele D’errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca, voce Clara Bocchino, assistente alla regia Marialuisa Diletta Bosso, costumi Giuseppe Avallone, scene Rosita Vallefuoco, sound design e musiche originali Tommy Grieco. Produzione Cranpi
IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO
Rimbomba il canto lontanissimo e religioso di una voce ancestrale nello spazio dilatato del Teatro Strehler. Tutto è di un fitto nero tenebra finché una luce bianca, prima debole poi sempre più intensa (curata con minuzia da Giuseppe Filipponio), compare dall’alto e si espande a cono per scendere tagliente sul palco, dove tutto sembra oramai perduto, ricoperto di terriccio e sabbia. Un uomo, stretto nell’esile corpo in una soffocante camicia di forza, vi avanza senza direzione, confuso dallo spazio che lo ingloba e lo atterrisce; la scenografia ne accentua l’enorme vuoto di mezzo in una continua tensione spirituale tra il basso e l’alto. In questo ambiente, onirico negli elementi essenziali che lo compongono, Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij da testo diviene immagine. Il concitato flusso di coscienza dell’uomo meschino prende il corpo di Lavia - che traduce, adatta e dirige lo spettacolo già portato in scena negli anni ’90 -, ne ripete gli spasmi, ne amplifica l’ossessione e la mania mentre l’illuminazione ricade drammatica su di lui, come uno spirito pronto a giudicarlo. Del personaggio dostoevskijano riusciamo a percepire tutto il tormento nei passi trascinati, la follia negli occhi arrossati, la consunzione morale nel corpo raggomitolato. Lavia è intenso, modula la sua presenza tonale e scenica nei tratti del monologo e snocciola ciò che del testo dell’autore russo è parola scritta, diviene vita pronta a negarla, sogno che è un incubo tra cielo e terra. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Strehler di Milano. Crediti: di Fëdor Dostoevskij, traduzione e adattamento Gabriele Lavia, regia Gabriele Lavia, con Gabriele Lavia, Lorenzo Terenzi, luci Giuseppe Filipponio, fonica Riccardo Benassi, produzione Effimera. Ph Filippo Manzini
LA SECONDA SORPRESA DELL’AMORE
C’è sempre stato qualcosa di inafferrabile nel sentimento dell’amore, di ambiguo e di indefinito, poiché all’iniziale tensione attrattiva ne segue una immediatamente repulsiva. E l’essere umano rimane lì, al centro di una contesa di forze opposte, tenuto come in ostaggio, spinto dal desiderio passionale di lasciarsi andare e trattenuto dalla paura del rifiuto. In Marivaux questo timore assume il carattere di un mascheramento sagace: nella drammaturgia tradotta per la prima volta in italiano da Beppe Navello, i personaggi camuffano i propri sentimenti per sfuggirvi. Fugge la Marchesa (Daria Pascal Attolini), vedova piena di sospiri e tentennamenti, confinandosi in casa per proteggersi dal lutto del primo amore. Fugge il Cavaliere (Lorenzo Gleijeses), indocile e nervoso, ferito dal tradimento e dall’abbandono, trovando riparo nell’indifferenza. Ma è quando i due protagonisti s’incontrano che l’epilogo sembra già rivelarsi (un’abilità sottile che il regista eredita da Marivaux): il nuovo sentimento nel quale incedono sarà una sensibilità condivisa dalla quale dovranno invano affrancarsi. È lì che riprende la fuga all’interno di un labirinto di inganni e fraintendimenti, innescati dal guizzo dei due servi e di Ortensio. Nell’adattamento, il lavoro di Navello, realizzato a partire da un progetto del Ministero per la diffusione dell’autore francese, rimane fedele all’originale nelle sfumature dei sentimenti, scandite da un’illuminazione emotiva di rossi, verdi e bianchi curata da Orso Casprini, e inserisce solo alcuni motivi che ne accentuano la comicità per creare una doppia cornice di pubblico che, tra palco e platea, rimane complice divertito. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: di Marivaux, traduzione di Beppe Navello, con Lorenzo Gleijeses, Daria Pascal Attolini, Marcella Favilla, Stefano Moretti, Fabrizio Martorelli, Giuseppe Nitti, regia Beppe Navello, scene e costumi Luigi Perego, musiche Germano Mazzocchetti, luci Orso Casprini, produzione Associazione Teatro Europeo, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana. Ph Luca Passerotti
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