Cordelia - le Recensioni

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DALL’ALTRA PARTE -2+2=?

Chissà cosa succede all’interno di un utero materno quando è la vita a originarsi e a prendere forma. Chissà cosa succede quando sono tre feti a condividerlo, costretti a ritagliarsi degli spazi, a crearsi dei ruoli, ad affidarsi dei nomi, anche solo per passatempo. Nel progetto di Putéca Celidònia diretto da Emanuele D’errico, vincitore del Premio Giovani Realtà del Teatro 2019 e semifinalista InBox 2021, tre gemelli eterozigoti, tuta intera blu, sono di spalle, corrono fermi sul posto, legati da un resistente cordone ombelicale ma destinati nel tempo a crescere e separarsi. La voce fuoricampo di Clara Bocchino e le musiche ritmate di Tommy Grieco ne scandiscono lo sviluppo prenatale, ben interpretato da un sensibile cast di giovani attori; c’è Damiano, il bello che ostenta sicurezza con un irriverente egocentrismo, c’è Febo, l’alto e maturo improvvisatosi poeta, c’è Innocente, il più piccolo e tenero, genuino nell’animo e nei sentimenti. I tre feti si muovono e si bistrattano, poi giocano, si spogliano e cambiano abiti fino a rimanere nudi nella propria pelle, per mostrare quella che è, a tutti gli affetti, un’evoluzione biologica che non si compirà del tutto. Anche il loro linguaggio subisce una progressiva trasformazione e da colto, filosofico e nutrito di riferimenti scientifici (tratti dagli studi della University of California) si semplifica, retrocedendo ad uno stato asemantico. Tutta colpa dell’irreversibile perdita di neuroni, ci spiegano i feti, condizione permanente con la quale i fratelli devono scendere a patti. E prepararsi, senza più equazioni risolvibili, a fuoriuscire, dall’altra parte. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro i di Milano. Crediti: regia e drammaturgia Emanuele D’errico, con Emanuele D’errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca, voce Clara Bocchino, assistente alla regia Marialuisa Diletta Bosso, costumi Giuseppe Avallone, scene Rosita Vallefuoco, sound design e musiche originali Tommy Grieco. Produzione Cranpi

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO

Rimbomba il canto lontanissimo e religioso di una voce ancestrale nello spazio dilatato del Teatro Strehler. Tutto è di un fitto nero tenebra finché una luce bianca, prima debole poi sempre più intensa (curata con minuzia da Giuseppe Filipponio), compare dall’alto e si espande a cono per scendere tagliente sul palco, dove tutto sembra oramai perduto, ricoperto di terriccio e sabbia. Un uomo, stretto nell’esile corpo in una soffocante camicia di forza, vi avanza senza direzione, confuso dallo spazio che lo ingloba e lo atterrisce; la scenografia ne accentua l’enorme vuoto di mezzo in una continua tensione spirituale tra il basso e l’alto. In questo ambiente, onirico negli elementi essenziali che lo compongono, Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij da testo diviene immagine. Il concitato flusso di coscienza dell’uomo meschino prende il corpo di Lavia - che traduce, adatta e dirige lo spettacolo già portato in scena negli anni ’90 -, ne ripete gli spasmi, ne amplifica l’ossessione e la mania mentre l’illuminazione ricade drammatica su di lui, come uno spirito pronto a giudicarlo. Del personaggio dostoevskijano riusciamo a percepire tutto il tormento nei passi trascinati, la follia negli occhi arrossati, la consunzione morale nel corpo raggomitolato. Lavia è intenso, modula la sua presenza tonale e scenica nei tratti del monologo e snocciola ciò che del testo dell’autore russo è parola scritta, diviene vita pronta a negarla, sogno che è un incubo tra cielo e terra. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Strehler di Milano. Crediti: di Fëdor Dostoevskij, traduzione e adattamento Gabriele Lavia, regia Gabriele Lavia, con Gabriele Lavia, Lorenzo Terenzi, luci Giuseppe Filipponio, fonica Riccardo Benassi, produzione Effimera. Ph Filippo Manzini

LA SECONDA SORPRESA DELL’AMORE

C’è sempre stato qualcosa di inafferrabile nel sentimento dell’amore, di ambiguo e di indefinito, poiché all’iniziale tensione attrattiva ne segue una immediatamente repulsiva. E l’essere umano rimane lì, al centro di una contesa di forze opposte, tenuto come in ostaggio, spinto dal desiderio passionale di lasciarsi andare e trattenuto dalla paura del rifiuto. In Marivaux questo timore assume il carattere di un mascheramento sagace: nella drammaturgia tradotta per la prima volta in italiano da Beppe Navello, i personaggi camuffano i propri sentimenti per sfuggirvi. Fugge la Marchesa (Daria Pascal Attolini), vedova piena di sospiri e tentennamenti, confinandosi in casa per proteggersi dal lutto del primo amore. Fugge il Cavaliere (Lorenzo Gleijeses), indocile e nervoso, ferito dal tradimento e dall’abbandono, trovando riparo nell’indifferenza. Ma è quando i due protagonisti s’incontrano che l’epilogo sembra già rivelarsi (un’abilità sottile che il regista eredita da Marivaux): il nuovo sentimento nel quale incedono sarà una sensibilità condivisa dalla quale dovranno invano affrancarsi. È lì che riprende la fuga all’interno di un labirinto di inganni e fraintendimenti, innescati dal guizzo dei due servi e di Ortensio. Nell’adattamento, il lavoro di Navello, realizzato a partire da un progetto del Ministero per la diffusione dell’autore francese, rimane fedele all’originale nelle sfumature dei sentimenti, scandite da un’illuminazione emotiva di rossi, verdi e bianchi curata da Orso Casprini, e inserisce solo alcuni motivi che ne accentuano la comicità per creare una doppia cornice di pubblico che, tra palco e platea, rimane complice divertito. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: di Marivaux, traduzione di Beppe Navello, con Lorenzo Gleijeses, Daria Pascal Attolini, Marcella Favilla, Stefano Moretti, Fabrizio Martorelli, Giuseppe Nitti, regia Beppe Navello, scene e costumi Luigi Perego, musiche Germano Mazzocchetti, luci Orso Casprini, produzione Associazione Teatro Europeo, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana. Ph Luca Passerotti

LO STRANIERO

Pensato inizialmente per una maggiore quantità di interpreti, Lo straniero di Albert Camus per la regia di Lelio Lecis, visto al Libero, è stato ridotto a monologo per cause di forza maggiore. Così, la scena di Valentina Enna, un elegante incunearsi di luci e ombre, è stata calcata soltanto da Simeone Latini. Il suo monologo, successivo a una sorta di proemio divulgativo sull’autore e l’opera, ripercorre le vicende del protagonista Meursault in un flusso continuo. I fatti relativi agli ultimi giorni del protagonista (i funerali della vecchia madre, una relazione sentimentale, l’uccisione di un arabo) vengono rievocati da un eloquio dal ritmo nevrotico. Troppo: la problematica anaffettività – vera o presunta – dell’antieroe camusiano avrebbe potuto essere più approfondita. Il testo avrebbe forse richiesto maggiore pausa, vuoto tra i suoi momenti; il resoconto del protagonista, che poi è la deposizione rilasciata al giudice nel processo a lui intentato, si svolge qui con eccesso di rapidità tra gli eventi rievocati. Peccato. Certe soluzioni sceniche, il disegno delle le luci, di tono sobriamente minimale, sono nel loro complesso senz’altro suggestivi. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero. Crediti: di Albert Camus, drammaturgia e regia Lelio Lecis, con Simeone Latini, costumi Marco Nateri, scenografia Valentina Enna, musiche Peter Gabriel/Tradizionali arabe, assistente alla regia Julia Pirchl, assistente costumi e spazio scenico Stefano Cancellu

DON GIOVANNI INVOLONTARIO

Il Don Giovanni involontario di Vitaliano Brancati racconta le vicende di un Casanova siciliano. A differenza del suo equivalente mozartiano, il protagonista qui non è soltanto un amante appassionato – o presunto tale: è un maschio affetto da “gallismo”, dall’esigenza di mostrarsi sì eccellente cultore dell’ars amatoria, ma più per inettitudine che per slancio. La regia di Saponaro vorrebbe entrare nella vicenda valorizzandone gli aspetti comici, ma forza troppo la mano riducendo la sottile ironia brancatiana, fine come una lama, a farsa parodica poco misurata. Le interpretazioni degli attori e delle attrici vengono costrette a impietose esternazioni macchiettistiche; soltanto Fabrizio Falco, nei panni del protagonista, riesce con consueta asciuttezza a governare il proprio personaggio. Il suo Francesco Musumeci è ora annoiato, ora lascivo, ora esasperato: i passaggi da uno stato all’altro sono ben calibrati e verosimili, nonostante a volte lo stesso Falco sembri perdersi un poco nel caos complessivo. I costumi, di Dora Argento, sembrano uscire dall’universo brancatiano. Interessante anche la scenografia: un edificio di coltri nere all’esterno, che lasciano intravedere la vita domestica che si svolge all’interno. A circondare gli amori di Musumeci è un funesto velo funebre. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo, Crediti: di Vitaliano Brancati, regia di Francesco Saponaro con Fabrizio Falco, Claudio Pellegrini, Antonio Alveario, Simona Malato, Irene Timpanaro, Daniela Vitale, Chiara Peritore, Giovanni Arezzo, Annibale Pavone, Giovanni Arezzo

MOSTRARIO. PARTE 1

Aprire i teatri svincolandoli dalla prassi degli spettacoli serali, aggiungendo prospettive diverse a luoghi bisognosi di essere riconoscibili nelle prospettive cittadine: sarebbe sensato, oltre che utile e bello. Il mastodontico progetto di Reggio Parma Festival è in questo senso un esempio importante: viene chiamato un artista, Yuval Avital, israeliano di nascita ma milanese di adozione, ad abitare tre luoghi teatrali iconici con una trilogia multidiscilplinare in grado di stravolgere gli spazi delle tre istituzioni decentrando lo sguardo dello spettatore. Il primo capitolo del Mostrario, che abbiamo avuto modo di attraversare,  si è tenuto proprio al Teatro Regio di Parma e in questi giorni (10 e 11 dicembre) la terza e ultima parte al Teatro Valli di Reggio Emilia, arrivata dopo il secondo appuntamento del Teatro Due. Insomma un grande progetto emiliano che al Regio di Parma ha visto lo storico teatro d’opera aprirsi ai cittadini, anche nei luoghi solitamente interdetti. La prospettiva palco platea è ribaltata ad esempio: nella fantasia del Ratto delle Sabine la performance avviene sul palco, il pubblico lo attraversa e la platea è chiusa da un velatino che nasconde l’orchestra, nei saloni al piano di sopra una coloratissima e un po’ kitsch discoteca in cuffia, la proiezione di un film, le piccole e preziose sculture in vetro realizzate da Lucio Bubacco (accompagnate dai fiati dell’Orchestra Rapsody) sono solo alcuni degli interventi che compongono sogni e incubi di un artista che sembra poter dispiegare il proprio segno nella musica, come nelle arti visive, plastiche e performative. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Regio. Crediti: Ideazione, drammaturgie, video art, dipinti, scenografie, costumi, musiche e regia Yuval Avital. Entra nella pagina dell'articolo per altre foto e video

GIUSTO

A vederlo entrare in scena così, abito e papillon non proprio su misura, bottiglia di spumante in mano, aria sperduta e tanto imbarazzo, non si può non provare solidarietà. Il Giusto di Rosario Lisma è l’unico individuo davvero “giusto” all’interno del microcosmo nel quale vive: il palazzone dell’istituto previdenziale dove il protagonista, impiegato di origini siciliane trapiantato a Milano, trascorre la maggior parte della propria vita. Il posto di lavoro è un covo fantozziano di belve competitive e senza scrupoli, sempre pronte a vessare il più debole. Nel raccontarlo, l’attore lascia scorrere un catalogo variegato di personaggi, cadenze regionali, specie animali descritte con il piglio di un caratterista acuto ma non altezzoso. Sullo sfondo, i disegni di Gregorio Giannotta ricreano l’atmosfera comicamente fiabesca che già è del testo, sciorinato tra sonorità struggenti e discutibili musiche latino-americane, da festa aziendale. A volte il personaggio sparisce un poco, superato dall’insofferenza del suo interprete: così, la vera protagonista dello spettacolo diviene una personale esigenza di invettiva, che Lisma scaglia contro le storture del mondo come uno stand-up comedian. Il rischio è di scivolare talvolta nel luogo comune; ma lo spettacolo diverte così tanto che anche questo è senz’altro concesso. La risata è, spessissimo, la migliore delle soluzioni. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo di e con Rosario Lisma illustrazioni Gregorio Giannotta costumi Daniela De Blasio luci Matteo Selisaiuto regia Alessia Donadio produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse si ringrazia Comasia Palazzo per i movimenti coreografici

ARTE

Tre pareti, o meglio, il profilo luminoso di tre pareti, separa gli ambienti nei quali vivono rispettivamente Serge, Marc e Yvan. Tre amici con differenti vite e vedute, le quali si incontrano e si scontrano nell’ambiente disposto al centro della scena. Qui campeggia un dipinto bianco, completamente bianco, che Serge ha comperato a un prezzo spropositato. L’acquisto diviene il detonatore di asti a lungo sepolti nel silenzio: Arte di Yasmina Reza (premio Moliére nel 1994), per la regia di Alba Maria Porto, pone a nudo le spesso ipocrite dinamiche del vivere sociale. Gli attori interpretano persone facilmente riconoscibili, nelle quali è facili immedesimarsi, tra approvazione e ostilità. Elio D’Alessandro, nei panni di Marc, è un ingegnere caustico e a tratti brutale, efficace tanto nell’ironia quanto negli scatti d’ira. Mauro Bernardi è un Yves svampito ma buono, divertente nelle sue esternazioni più immature. Alessandro Cassutti, nei panni di Serge, è il dermatologo sensibile all’arte informale, ma forse la sua interpretazione è quella meno convincente. Comunque sia, l’attenzione del pubblico è stata costante e in qualche modo partecipe: le elucubrazioni dei protagonisti, tratteggiati come individui comuni, sul valore di un’arte per molti sfuggente, sono certo suscettibili di interessante dibattito. La storia che i tre raccontano è una vicenda verosimile, utile a sollevare riflessioni: se ne sente il bisogno. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Libero, Palermo. Crediti: di Yasmina Reza, nuova traduzione Luca Scarlini, regia Alba Maria Porto, con Mauro Bernardi, Alessandro Cassutti ed Elio D’Alessandro, scene e costumi Lucia Giorgio, Asterlizze Teatro, Torino

DAL SOGNO ALLA SCENA

Per ricreare l'idea di un'enorme pagina biaca sul palcoscenico buio, Daniel Pennac ha bisogno solo che la penna nella sua testa ne trascriva le parole. La sua presenza è motivata solo dal gusto dell'immaginazione, e il sogno ne alimenta le immagini. Le parole, con un giro vorticoso, da idea si fanno testo drammatico, corpo attoriale e apparato scenico. Il momento del teatro diventa, per un meccanismo di sola evocazione, piacere genuino per il raccontare, quando niente esiste se non viene prima nominato; ed è solo l'impossibile a venir richiamato. Lo zio Federico Fellini che spiega al piccolo Daniel e al fratello che i dinosauri si sono estinti perchè hanno trattenuto delle scoregge non è reale, ma diventa vero. Maradona, ormai spirito semidivino in Purgatorio, per davvero ha recuperato all'Inferno l'anima persa della moglie di un pescatore conducendola in Paradiso. La maestria narrativa prende corpo nello spazio vuoto che resta tale finché non viene reificato dall'agire dai compagni di racconto che si prestano al gioco dell'immedesimazione e, come per scherzo, si fanno personaggi (Pako Ioffredo e Demi Licata intensi e vividi, davvero due personaggi da racconto onirico). Il sistema è immediato: c'è una rapida successione tra ciò che viene espresso in francese dall'autore e poi tradotto dagli attori in italiano e in gesti. Il processo creativo, tanto del romanzo quanto del teatro, così disvelato diventa un esercizio di stile, un espediente narrativo, una lettura ad alta voce. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Nuovo, Napoli; Crediti Di Clara Bauer, Pako Ioffredo, Daniel Pennac; Con Pako Ioffredo, Demi Licata, Daniel Pennac; Mise en space Clara Bauer; Musiche di Alice Loup e Antonio Urso; Coproduzione compagnie Mia – Mouvement International Artistique e Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro

LA NONA (DAL CAOS AL CORPO)

Nel silenzio dei primissimi tempi, prende avvio la Fede: un corpo solo produce movimenti iconici di tensione verso l'alto; i movimenti si riproducono in sequenze ordinate, sempre le stesse, e diventano rito: a ogni nuovo passaggio vi si aggiunge un adepto e un unico enorme corpo, fatto di numerosi sospiri, si ammassa imponente. I segni delle religioni, un crocefisso e la Mano di Fatima, si impongono come monolitiche e irremovibili guide. Dal silenzio scuro della Fede si eleva opposto e forte la n°9 op. 125 di Ludwig Van Beethoven come attitudine dello spirito alla libertà. Gli accoliti riprendono la scena, non più corpo unico ma corpi in relazione: ancora, la partitura di movimenti si compone di pochi frammenti che si ripetono in sequenze caotiche le cui combinazioni producono variabili nella solitudine e nelle relazioni. Ognuno, abbandonati gli abiti civili quotidiani e indossati quelli spirituali (arancioni, evocativi del Movimento Hare Krishna), segue la propria vocazione e si immerge nel mondo con gli altri. Il caos delle individualità o dei minimi incontri trova talvolta l'ordine in un sentimento condiviso, che diventa segmento corale, per poi disfarsi nuovamente nell'accidentale e nel sempre nuovo. Il conflitto, in una simile impostazione, non si manifesta mai se non nell'apparato simbolico che ne fa da cornice: forse anche l'eccesso didascalico del sistema simbolico è una visione estremamente pacificata. Per paradosso, la visione che si richiama fieramente laica riproduce quel sistema manicheo nei valori umani che sono proprio dell'estremismo religioso che tanto rifiuta. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Bellini, Napoli; Crediti Coreografie e regia Roberto Zappalà; Pianisti Luca Ballerini, Stefania Cafaro; Controtenore Riccardo Angelo Strano; Soprano Marianna Cappellani; Musiche Ludwig Van Beethoven Sinfonia n°9 op.125

AL SUO POSTO

Una piccola sala da tè, quattro sgabelli, un nutrito servizio di porcellane, tazzine, piattini e cucchiaini sono lo sfondo di una scenografia tintinnante e minimale, luogo protagonista del lavoro diretto da Marianna Esposito Al posto suo. Lo spettacolo, semifinalista al Premio Teatrale Dante Cappelletti, è andato in scena alla Fabbrica del Vapore ospite di ACEA Odv, ente che si occupa di contrastare la violenza di genere. In scena, è il 2021. Siamo in un bar. Qui, quattro amici si riuniscono periodicamente per organizzare, con largo anticipo, il giorno in cui si rivedranno alle terme. La decisione della data è il pretesto per innescare una dimensione confessionale; invece di una narrazione imprigionata negli stereotipi maschili, il testo di Esposito ne rovescia con ironia i termini della relazione, attraverso la buffa storpiatura dei vocaboli (“quote blu”, “La Madrina”, entrando anche all’interno di un dibattito non poco attuale). Non si tratta di «uomini che parlano di donne o che fanno le donne - viene spiegato nelle note di sala – ma uomini che si calano, letteralmente, nei loro panni» per raccontare abusi spesso taciuti, ignorati, minimizzati. È l’uomo a lamentarsi della violenza fisica subita dalla moglie, è l’uomo a giustificare quella psicologica, l’uomo che si sente a disagio al lavoro. Gli anni si susseguono a ritroso, improvvisamente è il 2016, ai fatti di scena si mischiano quelli di cronaca. Il suono di una radio ne scandisce il ritmo, ma le ellissi temporali ci rivelano che la storia è ancora una volta sempre la stessa. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Crediti: testo e regia Marianna Esposito, con Alberto Corba, Alessandro Cassutti, Giulio Federico Janni, Leonardo Tacconella sostituito da Diego Paul Galtieri, assistente regia Francesca Ricci, scenografie Stefano Zullo. Ph Emanuele Limido

NEL GUSCIO

Amleto, il principe, torna in famiglia quando tutto è già compiuto, era lontano e trova una condizione su cui non ha più capacità d’azione se non quella dei reietti, dei folli, dei visionari. Ma se Amleto avesse invece visto tutto e sapesse, da un punto privilegiato d’osservazione? Parte da questa suggestione, velata e non certo dichiarata, il testo Nel guscio di Ian McEwan che Cristina Crippa porta in scena e che rivela la molteplicità del talento di Marco Bonadei: è sospeso, letteralmente, ad una fascia che scende dal soffitto, un feto nel guscio che attende di nascere e conosce fin troppo, scorge con i propri sensi in via di compimento un mondo già troppo crudele con il quale misurarsi, da cui presto dovrà difendersi. La madre, Trudy, che lo ospita per la gestazione inscena il tradimento più brutale con Claude, fratello del marito e padre, un poeta senza soldi ma colmo di bontà; insieme ordiscono la sua morte per avvelenamento, ma il feto sa tutto, nessuno saprà che lui ha visto, udito, toccato con mano la pena della propria discendenza. Con una potente capacità descrittiva, la visione che il feto ha del mondo attorno è ferocemente critica, il delitto vi appare a deturpare la purezza del senso che emerge, dopo il dolore, dopo la giustizia, a macchiarsi già del peccato più atroce. La regia di Crippa esprime tinte ora fluttuanti ora tetre, fosche, attraverso le luci e i suoni profondi d’organismo, come il battito del cuore; Bonadei raccoglie e vince la difficile sfida di mettere in scena un personaggio grottesco e tragico ad un tempo, cui dona ogni sfumatura del proprio bouquet d’attore, gestendo i colpi di scena con qualità estrema. E, sia detto a suo vantaggio: senza mai uscire da una placenta. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Ian McEwan; regia Cristina Crippa; con Marco Bonadei; scene e costumi Roberta Monopoli, luci Michele Ceglia, suono Luca De Marinis

COME TU MI VUOI

È un gioco di incastri irrisolti la definizione di ciò che siamo. È un gioco di incastri irrisolti ciò che siamo davanti agli occhi degli altri. Il gruppo teatrale Invisibile Kollettivo porta in sala gli interrogativi della questione identitaria negli stessi ruoli femminili/maschili del cast, per indagare il confine liminale tra realtà e finzione. Lo fa con una reinterpretazione del classico pirandelliano Come tu mi vuoi, attraverso un co-produzione del Centro Teatrale Bresciano e del Teatro dell’Elfo. Del testo diviso in tre atti, il gruppo cura la scenografia espressionistica e l’adattamento drammaturgico in un’ottica metateatrale, che fatica inizialmente ad ingranare: si vedrà la scena di una Berlino notturna a luci rosse, luogo di seduzione e di piaceri, dove s’incontrerà Elma, una femme fatale che gingilla compiaciuta alle attenzioni dei compagni che la contendono. In lei verrà riconosciuta Lucia, la moglie di Bruno scomparsa dopo l’invasione austriaca in Friuli; Elma tornerà nella villa patrimoniale di Udine e tenterà di aderire all’imposto stereotipo sociale per riconoscersi in Lucia (nello sdoppiamento ben interpretata da Elena Russo Arman e Franca Penone). Ma cosa le rimane della propria identità, nell’ immagine frammentata dal desiderio dello sguardo altrui? Apparenza e menzogna finiranno per scontrarsi con il reale, ne diverranno agenti trasformanti, mentre l’adesione al canone verrà messa sotto scacco da una nuova verità, fittizia come le altre, offrendo alla donna la possibilità di tornare ad essere chi, forse, un tempo era stata, o chi, forse, non avrebbe potuto essere mai. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Luigi Pirandello, adattamento, scene e costumi, regia e interpretazione Invisibile Kollettivo: Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Franca Penone, Elena Russo Arman, consulenza costumi Bruna Calvaresi

GIULIO

Con guizzo fantasioso, un po’ disordinato e ancora da rodare ma impavido, Giulio di Anonima Teatri è una riscrittura di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo del Giulio Cesare di Shakespeare, all’insegna della stravaganza e dell’intrattenimento e dalle molteplici sfumature, forse un po’ troppe in alcuni passaggi tanto da far perdere di incisività l’equilibrio tra le dinamiche personali dei protagonisti e quelle politiche. La storia è raccontata dal punto di vista di Giulio (di una maturità monella e sensibile l’interpretazione di Beatrice Fedi), servo ciabattino di Bruto che, a tre giorni dalle Idi di marzo, deve preparare i sandali che indosserà Cesare per andare in Senato. Alla base vi è un corposo studio sul testo originale e sui testi storici collaterali, e un denso lavoro che parte dall’improvvisazione e giunge a creare una movimento interno alle scene. La danza unita alla prosa “porta le parole” su di un piano immaginifico ordinato dalla regia di attori e di attrici, notevole quella di Fabio Pagano nel ruolo di Antonio, mentre la gestualità di Caroline Loiseau ci restituisce una Porzia ineffabile. Ensemble affiatato in cui ciascuno/a è pedante nella tipicizzazione dei caratteri, sarebbe infatti opportuno distaccarsi dai ruoli quel tanto che basta giusto per non rischiare la caricatura. La goliardia e l’inebriante fame di potere rilevano delle relazioni la loro precarietà: la grande storia potrebbe cambiare se si tornasse all’umile tensione a fare del bene? (Lucia Medri)
Visto allo Spazio Rossellini: liberamente ispirato al Giulio Cesare di W. Shakespeare, di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo, con Beatrice Fedi, Caroline Loiseau, Fabio Pagano, Guido Targetti, Valerio Riondino e Umberto Gesi, produzione Anonima Teatri, con il sostegno di Twain Centro di Produzione Danza, Dance Project Festival, con il contributo di Regione Lazio Spettacolo dal Vivo. Foto di Valeria Tomasulo

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