COME SE NIENTE FOSSE (di e con Davide Grillo)
Purtroppo per una sola data al Centrale Preneste Teatro, Davide Grillo ha presentato la sua nuova interrogazione sull’esistente dal titolo Come se niente fosse, con l’aggiunta del primo sottotitolo Bollettini da un paese che ha perso i sensi e del secondo sottotitolo, Monologo per un approccio meteorologico all’insignificanza. Ma è il titolo ad essere definitivo di uno stato d’animo a cui Grillo dà complessità senza pesantezza, ragionamento senza elucubrazione, emozione senza moralismo. I semafori sono perennemente gialli in questa città colpita da un’allerta meteo caratterizzata da un «generale senso di vacuità», dove «il senso delle cose verrà a mancare» e la cui percezione giunge perché «me ne resi conto dal discorso di lei». La similitudine poetica che sottende alla drammaturgia è racchiusa nella corrispondenza tra la questione meteorologica e quella nichilista. Il protagonista non si chiude però nel disfattismo ma - con comiche digressioni e trovate musicali, come la sigla del TG1 suonata al trombone, alcune più incisive di altre che l’attore “prova” e sbaglia, volutamente chissà, testando la reazione del pubblico - reagisce a quel che accade e ha bisogno di parlare con la società, dal fattorino di Amazon agli amici, per arrivare a parlare con lei, a quel caffè delle 15. «Il vuoto si riempie con gli altri o si allarga?» è la domanda della nostra generazione ancora stupita dalla fine dei sentimenti nonostante il reale sia manifestazione di cose che finiscono, e lo dirà bene la prof. di filosofia, siamo nel «divenire, che significa venir giù». Con esaltazione durante il monologo - scritto e interpretato da Grillo che non ha presunzione da filosofo ma sa far emergere la filosofia del presente - ridiamo incastrati tra la paura del “come se niente fosse” e la sua stoica accettazione e poi, al termine dello spettacolo, saliti in macchina, restiamo da soli «con forti ventilate di ipotesi a più di dieci nodi alla gola», e ci auguriamo davvero che «una brezza di spensieratezza soffierà via alcune nubi di dubbi sparse». (Lucia Medri)
Visto a Centrale Preneste Teatro: di e con Davide Grillo; produzione indipendente. Foto di Natalia Alana
FRATERNITÉ, CONTE FANTASTIQUE (di Caroline Guiela Nguyen)
È una spettrografia lacerante e inquieta quella che la regista Caroline Guiela Nguyen ricrea all’interno del Piccolo Teatro Strehler di Milano. In Fraternité, conte fantastique la storia evolutiva del mondo è proiettata in un futuro distopico, dove il peso specifico del dolore è destinato a dividere per sempre chi se ne va da chi resta. La scena poi, nei dettagli curati da Alice Duchange in collaborazione con Atelier du Grand Théâtre de Loire-Atlantique, è un luogo dell’infanzia protetto e dalle pareti disegnate. Qui, i superstiti rimasti in vita dopo una luttuosa eclissi raccolgono la propria solitudine nell’elaborazione del vuoto che il senso di perdita comporta. Qui, un’organizzatissima agente della NASA ne monitora i pericolosi effetti, tra sussulti del cuore e del cosmo. Il palco si trasforma così in un’arena, spazio dilatato in cui tredici vite s’intrecciano nei tentativi quotidiani di reagire al dolore e dove la memoria si rivela essere l’unico impedimento al ri-trovarsi. È in questo luogo empatico che vengono registrate le dinamiche sociali, le dialettiche di scontro/incontro tra i personaggi, i gesti di cura. La narrazione, sviluppata dalla regista assieme a tutta l’équipe artistica, è accompagnata dall’elemento musicale cantato e sostenuta da quello video, che assume sul palco un ruolo psicanalitico, contenitore e al tempo stesso canale liberatorio del ricordo; esso riavvolge fantascienza e documentarismo in una pellicola che li fa perfettamente convivere. Alla realtà – un lavoro di ricerca che Caroline Guiela Nguyen porta avanti da anni nei centri di cura di Minkowska e Primo Levi di Parigi – subentra dunque la finzione della messinscena; è questa la tensione strutturale “eternamente sospesa” che unisce il multiculturalismo di volti e lingue ad attori professionisti e non, affinché la fraternità “possa essere un processo, un progetto che pone la domanda sull’alterità”, un atto comunitario, un valore umano, un ideale politico. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Crediti: testo e regia Caroline Guiela Nguyen insieme a tutta l’équipe artistica, con Dan Artus, Saadi Bahri, Hoonaz Ghojallu, Maïmouna Keita, Yasmine Hadj Ali, Nanii, Pierric Plathier, Alix Petris, Lamya Regragui Muzio, Saaphyra, Vasanth Selvam, Anh Tran Nghia, Hiep Tran Nghia, collaborazione artistica Claire Calvi, Paola Secret, scenografia Alice Duchange, costumi Benjamin Moreau, luci Jérémie Papin, creazione sonora e musicale Antoine Richard...
DAWSON / DUATO / KRATZ / KYLIÁN
Anima Animus (coreografia di David Dawson) e Remanso (coreografia di Nacho Duato)
Né sentimentalismo né umore. Serata invece nutrita di stile, anche se molto eterogeneo, alla Scala di Milano: ben quattro titoli, tutti dissimili tra loro, per la stagione in corso di Balletto. La coreografia d’apertura di David Dawson, Anima Animus (2017), è un flusso ininterrotto di schemi a ingresso, estremamente simmetrici che si intensificano e si attenuano circolarmente sulla inaspettata efficacia temporale della musica di Ezio Bosso (l’Esoconcerto del 2006), poco originale ma molto funzionale. Tutto è dominato (e attenuato, e facilitato) dal quasi-tutto-bianco della scena e dei costumi, ma la coreografia che si vuole trasparente è in realtà complessa e, a farsi, complicatissima. Un’imprevista sostituzione del cast rivela, come da manuale, la forza inattesa di un’elegante presenza: quella di Mattia Semperboni. Il secondo lavoro di Nacho Duato, Remanso (1997), con musica assai ritmata e colorita di Enrique Granados, i Valses poéticos dal vivo eseguiti al pianoforte da Takairo Yoshikawa, si ispira a una poesia omofila di Federico García Lorca. I tre interpreti che si alternano in assoli, duetti e terzetti bellissimi, intrecciati da sequenze e pose molto efficaci e spesso molto fluide, incorporano un’idea silente di complicità queer (con buona pace del coreografo che si affanna a precisare, nel programma, si tratti soltanto di «sodalizio», ma solo per inibire il «sessuale», nonsiamai!, che invece dilaga...). Nicola Del Freo, Mattia Semperboni e Roberto Bolle (per lui il giovanissimo pubblico della pomeridiana è rumorosamente in fregola) mettono all’opera ciò che rimane non detto, sottotraccia e silente della forza di questa amicizia che è «amore puro e giovane», comunque plurale: verità a cui i corpi però non possono sottrarsi. Qui Bolle (infuocata gitana travolta da muta passione con una rosa fra i denti! ma no dài, anche come già Rodolfo Valentino...) dà il suo meglio quando non fa l’asso-piglia-tutto, ma addirittura si mette in coda, allineato in fila, come per un qualsiasi leggendario trio d’avanspettacolo. Così anche accade che fai fatica a riconoscerlo, fra i magnifici tre (e dal pubblico infatti: «Mamma, qual è?»), in tanta mirabile sorpresa.
II. Solitude Sometimes (coreografia di Philippe Kratz) e Belle Figura (coreografia di Jiří Kylián)
A bassa tensione, invece, mi è sembrato il nuovo lavoro di Philippe Kratz, Solitude Sometimes, in prima assoluta. Coreografo di sicuro talento, qui rischia poco. Costruisce in sala un ambiente di movimento anche complesso, negoziato su di un loop coreografico tra visibile e invisibile, di grande ambizione visiva, ma che sul palco non regge e si disperde. L’intimità richiesta è a bassa temperatura, mentre la rigenerazione inseguita come la più necessaria rinascita (ispirata all’ingombrante Libro dell’Amduat, «antico documento funerario di mitologia egizia») si traduce in una semplificazione delle forme che nulla sposta né trasforma (ricordo improbabili ingressi a schiera da quinta, e una buffa articolazione sacropelvica). La scenografia a LED (Carlo Cerri e Ooopstudio) che dovrebbe suggerire un aldilà digitale resta accessorio dell’aldiqua, così come inattivi i bei costumi di Francesco Casarotto. La suggestione prima di Kratz è stata Pyramid Song di Tom York/Radiohead, ma il processo compositivo in danza richiede operazioni e pratiche capaci di interrogare i materiali in senso generativo, anche contrastivo, non mai replicativo. La serata si è infine completata con un capolavoro del coreografo Jiří Kylián, Bella Figura, che è del 1995! Incredibile: intatto ed efficace in tutta la sua forza figurativa, e complessità compositiva. Qui molti piani convergono e si intrecciano in una drammaturgia composita a dir poco esemplare: la bellezza dolente dei corpi a torso nudo, la forza del colore nei semplici costumi (di Joke Visser), la dinamica frammentazione del quadro visivo, l’uso atemporale della musica (di Luka Foss, allievo di Hindemit, con il barocco di Pergolesi, Marcello, Vivaldi, Torelli), e l’ingegnosità del concetto racchiuso nel titolo in italiano. È una formula che svela il relativismo di ogni dittatura estetica, cui sostituisce la dissimulazione del sogno capace di creare un tempo etico alla presenza (e al riconoscimento) dell’altro. Serate come queste fanno crescere il Corpo di Ballo, che qui non si smentisce, anzi, è sempre all’altezza: una compagnia di cui ci si può innamorare. Ma anche fanno progredire la programmazione (e il pubblico con essa), che può e deve osare di più, sia nelle proposte e sia nella consapevolezza del proporre (i quattro coreografi presentati sono tutti maschi, e non è la prima volta che accade: ma Manuel Legris di certo sa che la programmazione è un vettore di cambiamento e di innovazione, e che richiede un atto di coraggio politico, oltreché culturale). (Stefano Tomassini)
UNO SPETTACOLO DI FANTASCIENZA (di Liv Ferracchiati)
Il doppio vincolo, secondo l’antropologo Gregory Bateson, è la condizione generata dall’incongruenza tra due livelli di un discorso, tale da non consentire, a chi lo riceve, di evadere dallo schema stabilito dal messaggio. Di svincolarsi, appunto. Questa trappola comunicativa (che, per inciso, Bateson pone all’origine della schizofrenia) Liv Ferracchiati la maneggia, già da anni, con maestria. Uno spettacolo di fantascienza. Quante ne sanno i trichechi non fa eccezione. Petra Valentini, Andrea Cosentino e Ferracchiati sono i vertici di un triangolo, drammatico prima (abiti in palette sabbiosa e vocalità enfatiche), post-drammatico poi (jeans e giacche nere, asincrone coordinate di spazio). I tre sono alle prese con la fine del mondo, su una rompighiaccio destinazione Polo Sud (l’idea proviene da Cechov, che però puntava al Polo Nord), con la stiva piena di trichechi da salvare. Ma si tratta anche di una favola apocalittica, che Valentini sussurra al bambino che aspetta, carezzandosi il pancione posticcio. Perché, malgrado si tenti tanto, all’interno borghese non si sfugge: Ferracchiati e Valentini sono anche una coppia che si destreggia nella quotidianità e Cosentino l’Humphrey Bogart (abruzzese) che vagamente li turberà. Ferracchiati, come il suo personaggio, «si interessa a cose che non esistono» o che, per lo meno, sembrano poco tangibili: il sentimento della finitudine, le ripetizioni che scandiscono i pensieri, quello che rimane dell’identità se si elidono, una a una, tutte le convenzioni usate per rappresentarsi, e per dare ordine all’esistenza. La pièce è il terreno di gioco e il simbolo di questa interrogazione, l’oggetto che tenta di esistere al di fuori dei codici che lo regolano, delle falsificazioni che squaderna, e che invece, fatalmente, vi ricade. Il pubblico partecipa di questo spaesamento in forma di spirale, gli attori sostengono – con una leggerezza che è, come spesso in Ferracchiati, conforto – i ritmi crescenti della decostruzione. Rimangono i detriti artificiali di una jonglerie che tenta di nominare, di aggirare, di fare da parapetto a una vertigine. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Comunale Manini,– Narni Città Teatro 22. Debutto all’interno di InTeatro Festival 2022, Polverigi. Crediti: testo e regia Liv Ferracchiati; con Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati, Petra Valentini; dramaturg di scena Giulio Sonno; scene e costumi Lucia Menegazzo; disegno luci Lucio Diana;
LA MACCHIA (di Fabio Pisano)
Due coniugi (Francesca Borriero ed Emanuele Valenti) conducono una vita fatta di piccole regole segrete e di monotonia. Di loro non sappiamo nulla, se non che Lui lavora alla dogana, e che forse hanno un figlio. Della vita insieme, scandita da un lapidario botta e risposta, non ci sono che pochi elementi relativi alla loro solitudine: la luce di un televisore che illumina e isola il volto di Lui, qualche sedia che li tenga separati nelle loro posizioni, e un tavolo che serve a Lei per preparare i pasti. Un giorno si presenta alla loro porta un giovane (Michelangelo Dalisi) inquilino del piano di sotto che ha un problema di infiltrazione d’acqua. Il ragazzo interrompe il circuito chiuso della coppia e si ritrova a diventarne meccanismo. Ciò che divide marito e moglie, la totale mancanza di ascolto dell’altro, diventa la modalità di interagire con un estraneo: in questo modo, i due si fanno complici, in un sottile gioco di sopraffazione. Quel tavolo, così laterale sulla scena, allora si fa trincea e divide gli spazi con squilibrio relegando il giovane in un perimetro troppo angusto da cui di rado e con fatica riesce a uscire. La scelta deliberata di una scrittura circolare e ripetitiva, in maniera autoritaria incita l’automatismo innaturale del gesto e della parola sclerotizzando fino al parossismo i tre personaggi, ma non riuscendo a instillare quel leggero velo di angoscia che forse sarebbe stato molto più efficace. Dallo straniamento iniziale si arriva a uno stato di insofferenza sempre più acuto, il quale però non riesce ad arrivare al pubblico, più divertito dall’assurdità degli svolgimenti. L’assurdo rischia di rimanere alla superficie delle intenzioni senza mai troppo rivelarne i meriti. Restano più che degne di plauso le abilità dei tre attori che si fissano con estrema naturalezza nei loro ruoli, mantenendo un tono piatto e mai eccessivamente eccedente (la regia e la drammaturgia sono di Fabio Pisano), come se il coinvolgimento in merito ai fatti non ci fosse del tutto e come se, in generale, fossero estranei a tutto. (Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli; Crediti: Di Fabio Pisano; Con Francesca Borriero, Michelangelo Dalisi, Emanuele Valenti; Luci Paco Summonte; Ideazione scenica Luigi Ferrigno; Un progetto di Liberaimago; Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
KAKUMA. FISHING IN THE DESERT (regia di Laura Sicignano)
Kakuma è il più grande campo profughi del mondo nato nel 1992 per accogliere oltre 20mila bambini (lost boys) che fuggivano nel 1987 dalla guerra civile nel Sudan meridionale. Tornata da questo viaggio, a giugno 2022, la regista Laura Sicignano ha sentito l’esigenza di raccontarlo con l'intento civile di «dare il mio piccolo contributo per aiutare anche una sola persona». Così nasce Kakuma. Fishing in the Desert prodotto dal Teatro Nazionale di Genova e presentato in prima nazionale alla Sala Mercato. Sulla scena realizzata con materiali di riuso, riempita di sedie, tavoli e sostegni, ci sono l’attrice Irene Serini, in camicia, maglietta, pantaloni e scarpe, e la danzatrice Susannah Iheme, scalza, con culotte e top, «un’entità senza possibilità di parola, al quale è permesso di esprimersi solo attraverso il corpo», in una danza fluida, tribale e terrigna, a tratti sostenuta da Serini. "L’occidentale" siede sulla poltrona e «discute del futuro di Kakuma», la danzatrice, che incarna l’Africa tout court, siede invece sulla sediolina dei bambini e distruggerà in segno di rivolta la scena, metaforicamente il sistema di aiuti umanitari. Amplificata da una compassionevole interpretazione, la distanza tra «noi» e «loro», «Africa + 400% e resto del mondo + 10%», «inferno» e «paradiso», è totalizzante, univoca, mai messa in discussione. La drammaturgia è infatti dichiaratamente eurocentrica: il corpo bianco dotato di parola descrive al pubblico la realtà del campo attraverso l'esperienza, e le fragilità, degli operatori dell’UNHCR, tutti bianchi, i cui volti compaiono nei monitor. L'unica voce indigena, è quella di Fabien, rappresentante l’1% di rifugiati, con lui il «miracolo» della salvezza occidentale è avvenuto, sarà ricollocato in Canada. Pur credendo nell’onestà poetico registica di Sicignano, nell’«utopia» del sottotitolo di “pescare nel deserto”, non possiamo non interrogare questo sguardo, anacronistico rispetto alla letteratura inclusiva e postcolonial, alla dialettica ibrida, mutuale e polisemantica. (Lucia Medri)
Visto a Sala Mercato, Teatro Nazionale di Genova: testo e regia Laura Sicignano; con Irene Serini e Susannah Iheme; scene e costumi Guido Fiorato; coreografia Ilenia Romano; musiche Uhuru Republic Raffaele Rebaudengo Filo Q; luci/ suono/ video Luca Serra; Foto Paula Casado Aguirregabiria
TOP GIRLS (di C. Churchill, regia M. Nappo)
Un lampadario di cristalli incornicia la scena minimalista di tavoli e sedie di Top Girls di Caryl Churchill, per la regia di Monica Nappo. Cinque donne della Storia, vere e d'invenzione, abitano con abiti meravigliosi un immaginifico privé e dipingono un'umanità femminile distrutta, sottomessa, tormentata. L’eroismo si trasforma in tragedia nel parlarsi addosso dei personaggi, in una scena iniziale grandiosa, incubo della protagonista Marlene, donna spregiudicata, decisa, provocante nel tubino rosso. Siamo catapultati ora in un ufficio di collocamento, ora in quella che immaginiamo una disperata campagna inglese. Ora tra le conversazioni pettegole delle addette, ora nel gioco/sfida di due adolescenti. La scena si fa sempre più vicina alla platea nel tentativo di ricalcare il meccanismo testuale, che si avvicina sempre più alla psicologia della protagonista svelandone le fragilità. Un carosello di personaggi vari, sostenuti da un cast d’eccellenza, si ritrovano impigliati, nel giogo di quella cattiveria, tipicamente femminile, che dà la nausea e ci impedisce, in fin dei conti, di schierarci dalla loro parte. Ma non è soltanto questa l’irrimediabile distanza che percepiamo: le raccomandazioni maschiliste per trovare un nuovo impiego, l’aggressività che governa le relazioni non sono passate, forse, ma passato appare il pensiero femminista che le esamina. Come passato è quel divano di pelle verde che separa il dialogo di due sorelle sui temi della famiglia, del lavoro, del prezzo reale dell’indipendenza femminile e delle sue contraddizioni. E della politica: il colpo di grazia alla potenziale contemporaneità di questo testo nel contrasto, ormai privo di ogni riferimento sensibile, tra classe operaia e individuo; nel parallelo che si voleva instaurare tra l’ascesa della Donna di Ferro e del capitalismo con la nostra quotidiana, parodistica, piccola politica di piccoli politici. Non è più nostro il mondo di quella lotta, che ora più che mai chiede di essere reinventata. (Angela Forti)
Visto al Teatro Due. Crediti di Caryl Churchill traduzione di Maggie Rose Con Sara Putignano, Valentina Banci, Sandra Toffolatti, Cristina Cattellani, Laura Cleri, Paola De Crescenzo, Martina De Santis, Corinna Andreutti, Simona De Sarno scene Barbara Bessi costumi Daniela Ciancio luci Luca Bronzo assistente alla regia Elvira Berarducci regia Monica Nappo produzione Fondazione Teatro Due
IL COMPLEANNO (di H. Pinter, regia P. Stein)
L’ultima volta di un Pinter con la regia di Peter Stein a Roma si era vista una decina di stagioni fa, era Il ritorno a casa; andò in scena al Teatro Palladium nella stagione di Romaeuropa, qualche anno dopo il segno indelebile dei Demoni. Ora il regista tedesco è in scena al Sala Umberto (e poi in tournée) con un testo giovanile del premio Nobel inglese, Il compleanno. Nelle due ore e mezza di spettacolo si fatica durante la prima parte: Maddalena Crippa è la gioviale proprietaria di una pensione: una popolana un po’ ingenua e costantemente sopra le righe, con una recitazione che si ferma un passo prima del cantato. Con il marito (Ferdinando Maraghini), nascosto dietro a un giornale, aspettano per colazione, ogni mattina, Stanley. Il giovane è l’unico ospite della pensione, Alessandro Averone (altro interprete storico del regista tedesco) estremizza le contraddizioni già scritte da Pinter: Stanley, forse ex musicista, si sveglia tardi, rimane in pigiama ed è perennemente su di giri, in bilico tra l’accettazione di una vita degradata e l’attesa di una catastrofe. Una sorta di destino ineluttabile che infatti arriva, beffardo, senza spiegazioni e senza possibilità risolutive, come in un processo kafkiano ambientato su un lungomare turistico inglese. Ormai siamo rapiti, i personaggi, eccessivi, disegnati da Stein e dagli attori sono i protagonisti di un fumetto dai toni sempre più acidi, tutt’altro che rassicuranti. Nella scena - il soggiorno dalle pareti verdi della pensione - entrerà una luce rosata, quasi fucsia, a preannunciare una tragica e grottesca notte. Lo spettacolo fa il suo dovere mandando a casa gli spettatori con una serie di domande sul testo: chi sono i due gangster venuti per Stanley (notevole Gianluigi Fogacci in coppia con Alessandro Sanpoaoli)? Hanno sbagliato persona? Stanley faceva parte di un’organizzazione criminale? Pinter semina il panico, e Stein gioca con un’atmosfera ambigua che si carica sempre di più di un assurdo tragico nel quale trovano posto anche radicalismi religiosi e punitivi immaginari biblici. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sala Umberto di Harold Pinter Produzione Tieffe Teatro Milano/TSV-Teatro Nazionale/Viola Produzioni srl Di Harold Pinter Traduzione di Alessandra Serra Regia di Peter Stein Con Maddalena Crippa Alessandro Averone Gianluigi Fogacci Fernando Maraghini Alessandro Sampaoli Emilia Scatigno Assistente alla regia Carlo Bellamio Scene Ferdinand Woegerbauer Costumi Anna Maria Heinreich Luci Andrea Violato Assistente alla produzione Cecilia Negro
NELL’IMPERO DELLE MISURE
Quattro donne, un solo cuore: quello dell’inafferrabile poeta russa Marina Cvetaeva. Il dispositivo teatrale che la contiene, nel lavoro di Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi di Ateliersi, è un gioco di disgregazione e ricomposizione continua di un’identità palpitante, inquieta eppure solida e fiera, inafferrabile. L’invito è rivolto ad un duplice ascolto: della parola indomabile della poeta che non accetta etichette, ma più profondamente del fluire della sua anima molteplice. Le quattro interpreti, tenute insieme da un intenso e ininterrotto scambio di sguardi, offrono il proprio cuore al racconto tramite un elettrocardiografo che ne misura il battito a vista, rimandando continuamente alla compresenza emotiva di vita e morte. Nell’impero delle misure, Marina Cvetaeva, smisurata, ha le guance rosse d’innocenza di Margherita Kay Budillon, la forza pacata ed elegante di Fiorenza Menni, la giocosa e tenace mano sul pianoforte di Francesca Lico, lo sguardo deciso e fiero di Angela Baraldi. Andrea Mochi Sismondi, unica presenza maschile, insieme guida ed è guidato, condensando nella sua persona l’universo delle relazioni di una donna tutta protesa verso la bellezza, ma fedele solo a se stessa fino all’estremo. Poesia e carne, altezze e abissi, straordinario e quotidiano convivono costantemente in un meccanismo fluido di corpi che giacciono, che pacatamente si spostano, occupando ogni possibilità che la scena offre loro. La selezione di testi in versi e in prosa, in dialogo con un paesaggio sonoro ininterrotto e mai didascalico, riesce a condensare senza affanni cronologici biografia e poetica, tanto coincidenti nella vita multiforme e tragica della Cvetaeva. Una piccola candela tremula racconta la forza prorompente di una fede, quella nella scrittura, che non necessita di alcuna rivendicazione; delicata, pacata e ineluttabile come la neve, presuntuosa come l’amore. Si lascia la sala con l’anima protesa a quell’ideale umano, a quella moltitudine coerente, a quel vibrare di voci e suoni sospesi nel tempo. (Sabrina Fasanella)
Visto ad Atelier Sì. Di e con: Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi. E con: Angela Baraldi, Margherita Kay Budillon e Francesca Lico. Elaborazione ed esecuzione musicale: Angela Baraldi (voce), Francesca Lico (pianoforte), Fiorenza Menni (progetto sonoro) e Vincenzo Scorza (elettronica). Foto: Margherita Caprilli.
NATALE IN CASA CUPIELLO
«Quanno nascette Ninno a Bettlemme/No 'nc'erano nemmice pe la terra, /La pecora pasceva cu 'o lione;/Cu 'o capretto - se vedette/'O liupardo pazzeà;/Ll'urzo e 'o vitiello/E co lo lupo 'n pace 'o pecoriello». Ci sono canti meningei, suoni che s’insinuano tra le fibre cerebrali, che si appongono alle orecchie, che restano sfumati e presentissimi fino ad assumere una plasticità, una corporeità memoriale. Natale in casa Cupiello è testo eduardiano tra i più conosciuti, fucina di espressioni, battute sentite e ripetute, proposte e riproposte anche nella vulgata comune, opera della Cantata dei giorni pari all’interno della quale si ravvisa un prodromo di quella difficoltà di comunicazione che sarà poi una delle cifre più proprie dei lavori del dopoguerra, della Cantata dei giorni dispari. Il Natale prodotto dal TAN (beneficiando di un periodo inusuale di preparazione dovuto all’emergenza sanitaria) lungo una via delicata, trasognata, progressiva, quasi impalpabile a tratti, come solo può essere infine la terebrante tenerezza dell’abbraccio di un angelo, lascia affiorare possente il tema del passaggio. Sia esso dal vecchio al nuovo, da un tempo all’altro, da una generazione all’altra, dalla vita alla sua fine, dalla parola alla sua assenza, dai padri ai figli, dentro e fuori dalla messinscena. Perché fra il ricordo, la visione onirica e il presente eterno di un presepe familiare che si disgrega per ricomporsi e viceversa si incunea il lascito, raccolto qui da Luca Saccoia (ideatore insieme a Vincenzo Ambrosino con la regia di Lello Serao) che nei panni e nel letto di Tommasino lascia riaffiorare l’interezza della vicenda e del testo insieme a una compagnia di marionette corporali, pupi ad abitare la dimensione dello spazio definita dall’alchimia cosciente di Tiziano Fario. Ci sono canti, suoni meningei, come matrici la cui origine, temporalità o necessità non serve definire, sembra essere stata da sempre ed è ora, tutte le volte in cui arrivano, se vanno e tornano. «Quanno è tutto - niro e brutto / Comme 'a pece, tanno cchiù / Lo tiene mente, / E 'o faje arreventà bello e sbrannente». (Marianna Masselli)
Visto al Teatro Comunale Lucio Dalla. Da Eduardo de Filippo; da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia; spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario; con Luca Saccoia; manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Irene Vecchia; luci Luigi Biondi, Giuseppe di Lorenzo; costumi Federica del Gaudio; musiche originali Luca Toller;
DOPPELGÄNGER
Nato dall’invito di Maurizio Lupinelli, “colui che cammina accanto a te” ovvero Doppelgänger è un progetto di unione innanzitutto, che vede l’incontro della storica compagnia di danza Abbondanza/Bertoni (Antonella Bertoni e Michele Abbondanza) con Nerval Teatro, di Maurizio Lupinelli e Elisa Pol. In scena, Francesco Mastrocinque e Filippo Porro, nudità coperte solo da due culotte dai colori tenui, inserite in un palco vuoto, illuminato dall’alto da cinque fari sagomatori: caravaggesche le campiture giallognole che danno densità plastica ai movimenti. Un sentirsi graduale, lento, avvicina i due corpi in una relazione somatica, come definita dalle note di regia, è una conoscenza espansa, che dall’intimità del singolo comprende la complessità di entrambi. Un equilibrio costruito attraverso il gesto, in azione e reazione, dolcemente, a volte istintualmente, senza ingerenza alcuna. I due dondolano in pose materne, amicali, si guardano, si urlano, si sostengono, giocano, l’uno per l’altro con la propria natura. Entrambi definiti o incerti, fragili e forti, disabili e abili. A squarciare il buio, sostenuti dalle distensioni sonore di Orlando Cainelli che definiscono, tanto nel pieno che nel vuoto, suoni, rumori e versi, i danzatori si muovono insieme nell’accoglienza di un abbraccio, nell’estasi precaria di un salto, avanzano come fossero La Pietà Rondanini, immobili in un movimento imperituro. Si dicono dietro le quinte, e lo sentiamo forte in platea, della loro stanchezza, «Come stai?», parlano delle loro famiglie e vite personali, «Ho un figlio»; estratti del processo creativo, delle lunghe prove in cui Francesco ha insegnato e donato a Filippo e viceversa. Il lavoro con la disabilità in Doppelgänger si annulla e sublima allo stesso tempo perché l’altro sono due, sono sia Francesco che Filippo, nella mutua riconoscibilità e accettazione delle mancanze di entrambi e nella compenetrazione di energie. Assistiamo a un’opera marmorea di danza e amore vivi, che incanta e commuove. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Palladium durante Orbita |Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza; di Michele Abbondanza, Antonella Bertoni, Maurizio Lupinelli; con: Francesco Mastrocinque, Filippo Porro, disegno luci e direzione tecnica: Andrea Gentili; produzione: Compagnia Abbondanza/Bertoni, Armunia/Festival Inequilibrio, Nerval Teatro con il sostegno di MiC. Foto Piero Tauro
C’È VITA SU VENERE
Presentato al Teatro Quarticciolo per un focus sulla Compagnia Abbondanza Bertoni nell’ambito della stagione di danza Orbita, C’è vita su Venere è un solo coreografico su cui svetta l’eleganza “d’argento” di Antonella Bertoni, che, assente da diverso tempo sulle tavole come interprete, così definisce la propria forma. L’idea di ritorno è da intendersi in doppia accezione: non solo per la qualità del suo gesto quanto per una sorta di vicinanza metaforica con il cuore stesso dello spettacolo, esemplificazione possibile del ciclo vitale che, dalla nascita, approda all’abbandono del campo perché viva un’altra vita. Dal primo tempo sulle note del Cigno di Camille Saint-Saëns ma con scatti improvvisi da gallina (minuziosa maschera realistica in formato gigante di Nadezhda Simenova), il corpo in tailleur e tacchi rosa si prepara languido e serafico al suo compito procreativo. Una morte in poltrona che diventa nuova vita – Michele Abbondanza nelle note di regia fa riferimento alla fenice che risorge dalle sue ceneri, sebbene questa immagine arrivi qui un po’ farraginosa – ma che, una volta piombato l’uovo gigante da covare, lascia solo frenesia nelle azioni della figura, che adesso si muove su un ritmo elettro-ethno-pop sguaiato e caciarone ((le elaborazioni sonore sono di Orlando Cainelli). In un mondo stucchevolmente rosa, questa nuova creatura mitica sembra raccontarci della costrizione al multitasking, che non è il superamento della logica patriarcale quanto l’ennesima condanna della donna ad essere “di più”, all’iper produttività in cui, oltre alla cura dell’altro, rimangono gli oggetti stereotipati del femminile, dall’ambiente della cura domestica a quella della cura estetica o dell’intrattenimento mondano. La resa è un abbandono se la vita sul pianeta Venere è questa, c’è ancora spazio per un’ultima metamorfosi: il mostro dalle quattro gambe ma con il volto finalmente svelato va via e lascia spazio alla nuova vita, forse, nella speranza che si verifichi un cambio di intenti. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo durante Orbita |Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza; di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni; con Antonella Bertoni; disegno luci Andrea Gentili; elaborazioni sonore Orlando Cainelli; tecnico di tournée Claudio Modugno; maschera e oggetti di scena Nadezhda Simenova; abito Chiara Defant; organizzazione, strategia e sviluppo Dalia Macii; foto Tobia Abbondanza.
CADO SEMPRE DALLE NUVOLE
Entra in scena un baldanzoso Giuseppe Burgarella nelle sembianze di Ninetto Davoli, subito pronto a occupare il suo posto al pianoforte. La scena si apre su un paesaggio cedevole e incompleto, fatto di irte pendenze, sedute di fortuna e impalcature arrugginite; un cartellone pubblicitario si delinea come occhio sul mondo. Francesco Saponaro trasforma il palcoscenico in una delle vie polverose di borgata, stracci di città note e terribili in pellicole come Accattone e Mamma Roma. Sul palco, Mauro Gioia e Claudia Gerini riproducono l’esperienza poetica di Pier Paolo Pasolini accettando di assumerne alcune rappresentazioni: il poeta, i borgatari, la prostituta, la madre addolorata, la maschera, Otello, la critica. A muovere gli attori, un impianto da spettacolo musicale costruito attorno alla produzione meno nota di Pasolini, quello delle sue canzoni. Il pastiche di immagini, citazioni e cadenze romanesche restituiscono un’idea confusa di un percorso intellettuale complesso, di una visione problematica rispetto ai tempi e di una vasta produzione di scritti non sempre condivisibili; l’esperienza di una vita intellettuale non può essere compressa in formule più o meno appetibili, non può diventare un prodotto. Che straniamento sentir parlare di consumo, di lotta, di fascismo a un pubblico per lo più anziano di impelliciate e professionisti. I due interpreti non riescono a far altro che dar suono alla voce del poeta, senza che le parole abbiano un senso effettivo; ne escono slogan, frasi a effetto, affermazioni fuori contesto e fuori storia. Mauro Gioia, troppo didascalico e troppo impegnato in vuote declamazioni, non riesce a impersonare il poeta. Claudia Gerini, tra un vorticoso cambio d’abito e l’altro, non riesce a reggere il confronto di una grande interpellata: quel fugace richiamo ad Anna Magnani non è assolutamente un omaggio. La poesia si studia da quella giusta distanza che è anche amore, nel migliore dei casi la poesia si vive; non si sbiglietta. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Mercadante, Napoli; Crediti: Un progetto di Mauro Gioia; Drammaturgia Igor Esposito; Elaborazioni e musiche originali Pasquale Catalano; Regia e spazio scenico Francesco Saponaro; Con Claudia Gerini, Mauro Gioia; Pianoforte e direzione musicale Giuseppe Burgarella
VIA DEL POPOLO
Una sagoma di cartapesta sospesa sul fondale ricorda gli orologi liquefatti di un celebre dipinto di Dalì. “Che brutto”, penso, “sembra fatto da un bambino”. Saverio La Ruina entra in scena al Teatro Basilica passando sotto quel piccolo manufatto naive, poi incede dubbioso fra le candele che tracciano a terra un crocicchio. Il suo passo è quello leggero di sempre, indeciso, imperfetto. È il suo passo, non quello di un personaggio. La storia è una strada: Via del Popolo è l’asse principale di Castrovillari, la via interna di una Calabria interna lontana per antonomasia – lontana quasi per assunzione culturale, forse per segreto autocompiacimento, più irraggiungibile di quanto, di fatto, orografie e infrastrutture consentano. Eppure Castrovillari fu il riflesso di una civiltà metropolitana per la famiglia La Ruina, scesa in città dal Pollino negli anni ‘60. Via del Popolo, coi suoi due bar, il falegname, il dottore, il macellaio, il sarto, è la metonimia di tutto il paese, che è la metonimia della vita del protagonista, che forse è la metonimia di qualcos’altro che intuiamo appena, anche se Castrovillari la conosciamo poco. La Ruina, attraverso la potenza della sua intonazione flautata, antica, ci porta a convegno coi volti della strada, a ogni incontro abbiamo l’impressione rassicurante di affondare l’indice nelle caselle di un calendario dell’Avvento, di performare un rituale che compiendosi nel tempo mira a congelarne lo scorrere solo per fallire e, fallendo, diventare poesia. Ma l’immaginario dello spettacolo nulla concede a vernacolarismi o facili nostalgie: una volta tanto, questo sud non è il Sud, ma un luogo di piccole storie emancipate da stereotipi asfissianti. La realtà squarcia la narrazione pescando nel profondo di figurazioni ancestrali eppure radicate nel proprio esserci, come il padre ottantenne perduto e ritrovato, a distanza di un giorno, appisolato in un fosso. Tutto per capire che quel brutto orologio di cartapesta l’ha fatto un bambino. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Basilica, Roma. Crediti: di e con Saverio La Ruina, disegno luci Dario De Luca, collaborazione alla regia Cecilia Foti. Audio e luci: Mario Giordano, Allestimento: Giovanni Spina. Dipinto: Riccardo De Leo, Amministrazione: Tiziana Covello, Produzione: Scena Verticale, Organizzazione generale: Settimio Pisano.
ULTIMI ARTICOLI
Orecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender
Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...