LANCILLOTTO E GINEVRA (di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva)
Quattro secoli prima che Jeffrey Eugenides lo ponesse in esergo al suo romanzo The marriage plot, François De la Rochefoucauld scriveva che «nessuno si innamorerebbe se non avesse mai sentito parlare dell’amore». Se la concezione occidentale di amore si fonda (è Denis de Rougemont a dirlo) sui romanzi cortesi, l’amore, di quella tradizione, costituisce il solo elemento superstite: la pietra dello scandalo, certo, ma anche quella tombale. Nella riscrittura firmata da Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro si avvertono gli echi di una lunga storia letteraria e cinematografica (da Chretien de Troyes a Robert Bresson) ma, al contempo, anche la loro mise en abyme. Lancillotto e Ginevra appaiono in forma di fendenti (e la luce si imprime sulla scena come lacerazione, primaria e verticale, del buio) di una vicenda che si è edificata, nei secoli, attraverso le proprie sistematiche rinarrazioni. Tutte le scelte (verbali, espressive, scenografiche) concorrono a una composizione profonda e disadorna che evoca, degli amanti, i profili carnali eppure esangui, precedenti la leggenda. Sono impegnati in un dialogo continuo, intessuto di visioni: le armi nere, la mano che gronda sangue, i capelli chiari e lucenti. Ma, di tutte le visioni, le più struggenti sono quelle sacrificate per sempre al dettato dell’amore: la benedizione della spada, gli scudi che, come pietre preziose, riflettono le fiamme delle torce, i boschi, gli stendardi, il legno della tavola rotonda che affratella i cavalieri. Tutto ciò che sulla scena non appare, per cedere invece lo spazio centrale a un’armatura smontata, simile a un guscio, a un detrito, a un sembiante. Edoardo Sorgente è un Lancillotto delicato ed eroso, che contrappunta con il proprio disarmo la perfezione con cui Leda Kreider aderisce all’incanto di Ginevra. Se lo sfondo non esiste più, sono il buio e il silenzio a custodire la verità: il primo è ferito appena dalla grazia di ciò che si intravede, dal secondo affiorano le parole, testimonianze dolenti di un eterno insondabile. La felicità più alta, quella che sarebbe dovuta essere taciuta e che determina la rovina, finisce per appartenere a tutti, in forma di leggenda. E dunque ci innamoriamo. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Basilica, Crediti: di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva; regia di Giovanni Ortoleva: musiche di Pietro Guarracino; luci Massimo Galardini; con Leda Kreider e Edoardo Sorgente; produzione Teatro Metastasio di Prato
RITRATTO DELL’ARTISTA DA MORTO (Davide Carnevali, Michele Riondino)
È necessario, oggi più che mai, che il teatro sia politico. E non si intende che abbia contenuti politici, ma che sviluppi dai propri contenuti un’azione che si possa definire politica. C’è una storia dentro il Ritratto dell’artista da morto (Italia ’41 – Argentina ’78) che Davide Carnevali, dopo averne realizzato una versione in Germania nel 2018 e in attesa della versione francese del prossimo anno, disegna attorno a Michele Riondino, una vicenda che arretra al 1978 durante la dittatura in Argentina e ancora fino all’Italia fascista del 1941, ma non si tratta della muta narrazione dell’esproprio di una abitazione appartenuta a un musicista dissidente, che attende una sentenza di riassegnazione dopo 44 anni: la biografia dell’attore Riondino, abilissimo a gestire un dispositivo affascinante ma molto delicato, si mescola a diventare materia viva del racconto, così che la storia resta continuamente in bilico tra il vero e il falso. Ma a ben vedere non importa più se sia vera o falsa. Cosa è vero e cosa falso? Una storia – la storia – è sempre una mistificazione, vive un tempo non suo, lontano dai fatti, protetta, dai fatti. Carnevali gioca sapientemente su questo confine, accettandone i margini perché siano parte di una discutibilità più estesa: che diritto abbiamo di raccontare la storia? E, più precisamente, questa o altre storie? Che diritto abbiamo di rappresentare o, meglio, di credere alla nostra rappresentazione delle cose? Un inquietante racconto di scatole cinesi ha luogo nella ricostruzione di un appartamento di Buenos Aires, attorno al quale compaiono fantasmi che evocano un’oscurità crescente di torture, ingiustizie, rapimenti, omicidi. Gli elementi della vicenda, che via via si aggiungono e che si espandono in una relazione sempre più immediata con lo spettatore, sembrano darsi appuntamento sul palco e stringono lentamente sulla figura dell’attore, caduto in una storia in cui non c’entra, con cui non ha niente a che vedere, in apparenza. Ma non è, proprio la storia, apparenza? (Simone Nebbia)
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato. Crediti: scritto e diretto da Davide Carnevali; scene e costumi Charlotte Pistorius; luci Luigi Biondi, Omar Scala; musiche Gianluca Misiti; con Michele Riondino; assistente alla regia Virginia Landi; con la partecipazione di Gaston Polle Ansaldi; produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa; coproduzione Comédie de Caen – CDN de Normandie, Comédie – Centre dramatique national de Reims, Théâtre de Liège
IO SONO MIA MOGLIE (di Michele Di Giacomo)
Il modellino di una casa. Poi cumuli di scatole. Scatole con dentro documenti, fotografie, nastri da registratore, vestiti. Scatole che racchiudono storie (o le nascondono?). E teli, bianchi, leggeri, che tutto ricoprono e proteggono. L’ambientazione di Riccardo Canali, creata in collaborazione con Mulinarte per la rappresentazione Io sono mia moglie di Michele Di Giacomo, ha il sapore delle soffitte dimenticate, è vividissima costellazione mnestica, luogo germinale del ricordo – riemerso, stratificato, alterato – e spazio famigliare della narrazione. Gli elementi che la abitano non sono semplice sfondo alla vicenda ma si rivelano veri strumenti attraverso cui la condivisione del racconto si fa atto partecipativo; essi contengono la scoperta di quel punctum barthiano che è ferita, segno pungente che agisce sulla memoria stessa. È attraverso questi oggetti che sul palco dell’Elfo Puccini prende vita la storia vera di Lothar, ragazzo nato alla fine degli Anni Venti a Berlino; ma Lothar (nei meravigliosi giochi di ruolo di Di Giacomo) è una donna costretta nel corpo di uomo. Sulla soglia di una relazione paterna conflittuale e parricida, Lothar prende il nome di Charlotte Von Mahlsdorf, indossa lunghi vestiti con tacchi neri e (soprav)vive inspiegabilmente nella Germania del nazismo e delle persecuzioni antisemite. Accade che faccia pure fortuna, aprendo un museo di antiquariato in cui raccoglie le tracce delle esistenze negate dal regime (“Quando le famiglie morivano io diventavo le loro cose”). Colpisce davvero, in questa nuova produzione, la rilettura registica del testo di Doug Wright, vincitore nel 2004 del Premio Pulitzer, perché in grado di calibrare sapientemente l’interpretazione camaleontica (entrando e uscendo nelle vesti di decine di personaggi con fare quasi naturale), le luci intense e vibranti di Valentina Montali e le sonorità vintage di Marco Mantovani. Alla fine, ciò che restituisce non è soltanto la complessità di un personaggio ma anche quella di un’intera epoca, situando la narrazione in una dimensione di curiosa ambiguità, a metà tra reale e pura immaginazione. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Doug Wright, tradotto, diretto e interpretato da Michele Di Giacomo, scene Riccardo Canali, luci Valentina Montali, suono Marco Mantovani, assistente alla regia Iacopo Gardelli, direttore tecnico Massimo Gianaroli, capo elettricista Valentina Montali, fonico Marco Mantovani, scene realizzate da Mulinarte, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, produzione originale di Broadway presentata da David Richenthal. Foto di Matteo Toni
LA MADRE (di Florian Zeller, regia Marcello Cotugno)
Dopo gli allestimenti di Piero Maccarinelli (Il padre e il figlio), la scrittura teatrale di Florian Zeller torna in Italia per la regia di Marcello Cotugno. La madre (2010) è il primo capitolo della trilogia sulla famiglia borghese, anche in questo caso la crisi è messa in evidenza dalla perdita di presa con la realtà, la malattia mentale è un'ombra, costantemente pronta a manifestarsi non appare mai in forma esplicita, mai viene nominata. Lunetta Savino crea un personaggio nel quale non possiamo non rivedere madri e mogli, donne fragili sacrificate per il benessere e la carriera dei maschi di famiglia. Il drammaturgo francese su questo non fa sconti: il marito (ottima la prova di Paolo Zuccari che si è trovato a dover sostituire Andrea Renzi dopo la prima al Quirino) è un uomo piccolo ed egoista, non ha il coraggio di confessare alla moglie di avere una relazione parallela con una giovane donna; il figlio (Niccolò Ferrero) se n'è andato via di casa, ma potrebbe tornare a causa di un litigio avuto con la fidanzata (Chiarastella Sorrentino). Il testo di Zeller è però un meccanismo di specchi, vuoti ed iterazioni in cui la realtà si confonde con l'invenzione, con le paure e le immagini interiorizzate. La regia di Cotugno è minimale come la scenografia: degli interni casalinghi rimangono solo pochi suppellettili, le cornici delle porte che segnano gli ingressi e le uscite dei personaggi nel mondo della donna. Lei, chiusa in un antro quasi metafisico, sola, ha fatto da madre e da moglie, ora si sente abbandonata. Il pubblico ride alle battute amarissime, alla durezza con la quale questa donna, interpretata con intensità e naturalezza da Savino, accusa ora senza remore il marito. La malattia svela il non detto, lascia emergere il tabù scoprendo piccole e dolorose verità. Ma ogni volta rimane il dubbio: l'ha detto veramente? L'altro personaggio lo ha sentito? Cotugno riesce a far convivere le diverse possibilità già contenute nella scrittura di Zeller, anche nel finale, quando l'arrivo del figlio in ospedale può essere una speranza o una nuova illusione .(Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Quirino di Florian Zellerc con Lunetta Savinoe con Andrea Renzi, Niccolò Ferrero, Chiarastella Sorrentino regia Marcello Cotugno produzione Compagnia Molière in coproduzione con Teatro di Napoli Teatro Nazionale e Accademia Perduta Romagna Teatri
I MEZZALIRA – panni sporchi fritti in casa (di Agnese&Tiziano)
Il teatro popolare ha quella qualità di mescolarsi facilmente a un gran numero di spettatori, perché spesso le narrazioni affondano dentro le storie di chi vi assiste, che si chiamino in un modo o l’altro, provengano dall’una o l’altra origine, le radici si somigliano tutte e svolgono la stessa funzione di vedersi – noi umani – ancorati alla storia, intrisi di passato affrontiamo il tempo presente. Agnese Fallongo (autrice della drammaturgia) e Tiziano Caputo (che cura le musiche originali) si firmano per nome proprio, senza cognome, come se volessero appunto dichiarare aderenza al contesto popolare, da cui trarre le tracce del loro teatro. Una storia di paese come tante diventa un giallo che solo verso la fine esplicita il proprio svelamento; il testo si articola per scene cronologiche narrate al passato dal figlio piccolo, ormai adulto (Adriano Evangelisti) e il cui sguardo è filtro per il pubblico. I Mezzalira, questo il titolo, sono una famiglia che da un errore a fin di bene sconta una condanna più grande, priva di una misura adeguata; la loro è una storia di preghiere, di sogni, di una ferrea volontà di affrancarsi dalla condizione di schiavitù, verso la città che sembra accoglierne i desideri. Ma una vendetta li attende e cambierà il destino di ognuno. Dietro questa storia, incastonata in una struttura in legno che sovrasta la scena, c’è però una riflessione più ampia, una filigrana politica in trasparenza che mette in luce la relazione tra potere e popolo, una goccia di lotta di classe caduta dalla spremitura d’olio nuovo. Al netto di qualche scivolata retorica, delle parti troppo spiegate e qualche ingenuità della regia (di Raffaele Latagliata), soprattutto in chiusura dei quadri, lo spettacolo vibra di una vigorosa tempra attoriale, la parola in dialetto del sud Italia si prende la libertà di caratterizzare i personaggi con precisione e andare dal tragico al comico senza alcun disagio, la musica e il canto filano con intensità le cuciture di questa trama, ne fanno un abito buono perché arrivi, prima o poi, un giorno di festa. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Manzoni di Roma. Crediti: di Agnese Fallongo; Con Agnese Fallongo, Tiziano Caputo e con Adriano Evangelisti; Scenografia Andrea Coppi; Costumi Daniele Gelsi; Regia Raffaele Latagliata
TUTTE LE PERSONE VIVE (di Rosalinda Conti)
La straziante gentilezza che «cerca di convincere e convincersi» arrovellandosi nelle curve delle parole, come in una corsa ma senza affanno, anima Tutte le persone vive, scritto da Rosalinda Conti per la regia di Lorenzo Montanini. Il lavoro, dopo la residenza multidisciplinare della bassa Sabina al Teatro delle Condizioni Avverse, della quale si percepisce la stratificazione di tempo e studio, debutta a Fortezza Est che lo produce e presenta in anteprima in una sala strapiena di pubblico, per il quale c’è stato bisogno di aggiungere sedie e panche ulteriori rispetto a quelle previste. Una struttura di ferro esile rivestita di pannelli di plastica è montata al centro della scena, una sorta di serra all’interno della quale in alto a sinistra è accesa una tv con segnale assente, mentre sulla destra al tavolo di legno è seduta l’attrice Giordana Morandini, Agata. Bandierine colorate a tagliare in obliquo lo spazio, una bottiglia di spumante, una torta. Nessuna festa: «ho letto che inevitabilmente i funghi [...] prenderanno possesso di ogni nostro oggetto». Da questo assunto prende la discesa, perché non ci sarà risalita alcuna se non l'umanità di una conclusione nichilista che confessa «io non so niente», il soliloquio sulla vita e la perdita, denso di anafore e ripetizioni e congiunzioni e avverbi compressi in frasi che si alternano a pause di lunghi silenzi e a sfoghi sulle note di Rocky Roberts. E anche lacrime, quelle che scivolano sul volto insieme allo sciogliersi del trucco. La scrittura segna il momento in cui, prima o poi, tutte e tutti ci troveremo scoperti nel nostro mezzogiorno della vita, «in un tempo senza riparo e senza rifugi» e così Agata, davanti al lutto dell’albero con il quale condivideva il rettangolo davanti casa, escogita una dichiarazione di emotività, esagerata in alcune ridondanze interpretative e testuali che sarebbe consigliabile limare ulteriormente, che ci interroga palesando i disgraziati tentativi tramite cui non accetta la fine, «io posso morire gli altri no», e che permettono, nella solitudine, di trovare tuttavia «un modo di salvare me e di salvarmi il cuore». (Lucia Medri)
Visto a Fortezza Est: di Rosalinda Conti, regia Lorenzo Montanini, con Giordana Morandini, locandina Francesca Mariani, uno speciale ringraziamento a Daniela Dellavalle, Residenza multidisciplinare della bassa Sabina Teatro Delle Condizioni Avverse, produzione Fortezza Est. Foto Manuela Giusto
Il giardino dei ciliegi (regia Rosario Lisma)
All'inizio del secondo atto Ljuba, Leonid e Lopachin prendono il sole abbandonati sulle sdraio, Lopachin cerca di imitare la postura del fratello spensierato e giocoso di Ljuba: braccia incrociate dietro la testa, gambe stese e tallone del piede destro in equilibrio sul sinistro. Un menefreghismo aggraziato, un quieto vivere nonostante qualche giorno dopo la proprietà con tutti i suoi ciliegi andrà in vendita. Questa scena è emblematica dell'intera messinscena di Rosario Lisma; nei piccoli gesti emerge l'umanità di un attore che mette a disposizione se stesso per il ruolo. Negli occhi di Lisma c'è una fragilità commovente che poi si trasforma nell'arrivismo con il quale Cechov fotografa il passaggio di un'epoca: il nuovo capitalismo è alle porte e i ciliegi possono lasciare spazio ai villini in grado di rendere tutti ricchi, anche questa famiglia adagiata su un passato aristocratico. Lisma tenta di avvicinare Cechov al pubblico di oggi: da Parigi Ljuba riceverà messaggi sullo smartphone da parte dell'uomo che l'ha lasciata e certi atteggiamenti e battute posizioneranno questa storia, di inetti malinconici e poetici, nel nostro tempo. Non tutti apprezzeranno le scelte: alla fine della prima parte una spettatrice si lamenta (e non rientrerà al secondo tempo) proprio degli inserti contemporanei, come di certi ruoli, di una Ljuba poco aristocratica, poco regale. Ma la proprietaria terriera di Milvia Marigliano è una viziata di oggi, che non impara dai propri errori, frutto di un’epoca tutto fuorché regale, la nostra. Siamo noi quei personaggi che entrano dalla cornice come i fantasmi pirandelliani dei celebri Sei: abbiamo perso tutto - in questa versione il maggiordomo Firs è già morto, rimane la voce di Roberto Herlitzka - e chiusi in un eterno ritorno non ci rimane altro che ricordare la stanza dei giochi; alcuni di noi, quelli che meglio intendono il nostro tempo fanno come il Lopachin di Lisma dirigono l’orchestra delle motoseghe, mentre tutto cade, mentre i ciliegi vengono abbattuti. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sala Umberto di Anton Cechov adattamento e regia di Rosario Lisma con Milvia Marigliano, Rosario Lisma, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli, Dalila Reas scene: Federico Biancalani costumi: Valeria Donata Bettella luci: Luigi Biondi con la partecipazione in voce di Roberto Hertlizka produzione Tieffe Teatro Milano/Teatro Nazionale Genova/Viola Produzioni srl
ULTRA Screendance Festival
La videodanza è viva e gode di ottima salute. A Udine, grazie all’intraprendenza del danzatore e coreografo Francesco Collavino è nata ULTRA Screendance Festival, rassegna di due giorni con 23 cortometraggi e mediometraggi, provenienti da 18 paesi del mondo. Il progetto è stato realizzato in sinergia con il celebre Dance ON Screen FilmFestival di Graz: ed è una garanzia sul valore delle opere selezionate. A partire dal bellissimo corto dell’israeliano danzatore di Batsheva Matan Arie Cohen, Composure(2021). In un assolo tutto fisico, tutto vibrato nelle ossa e nella pelle, compendia in progressione oscurità e pazzia sulla musica di Beethoven. Ma il corpo è al centro anche quando trova nuove possibilità nella sparizione, come nel video di Nicole Seiler, Amauros (3) (2014). Si tratta di una breve audiodescrizione, su schermo nero, con in primo piano i rumori dei gesti e dei movimenti di coreografie che non sono mostrate. Presenza (nell’udito) in assenza (della vista), per espandere la percezione e dilatare l’immaginario. Fra le proposte italiane, Vito Alfarano ha presentato Intangout (2018), realizzato nel carcere di Bari. Dopo un corso di tango di sei mesi, i detenuti mettono in relazione questo «ballo da soli uomini ballato» con le prossimità dei corpi e i vincoli alla persona imposti dalla condizione carceraria. Ancorato invece alle dinamiche confessionali, e alla retorica intimista, delle dirette online in tempo di pandemia è invece il video di William Amstrong, Unspoken (2021). Qui il noto coreografo e direttore artistico del Netherlands Dance Theatre, Paul Lightfoot, lavora a distanza con un danzatore danese per elaborare il trauma di non potersi congedare dal padre morente in ospedale. Più in generale, sembrano precisarsi almeno due diverse tensioni: da una parte la necessità di usare il video per espandere le possibilità compositive della danza; dall’altra, la capacità di intensificare ciò che riguarda la danza, e il mondo che la circonda, attraverso il linguaggio filmico e la contaminazione transmediale della cultura cinematografica. (Stefano Tomassini)
Visto al Visionario di Udine, 16-17 marzo 2023. Direzione ULTRA Francesco Collavino, curatela Valentina Moar, coordinamento Beatrice Pellos, progettazione grafica Lorenzo Rindori
LA MARIA BRASCA (regia di Andrée Ruth Shammah)
Dirompente e popolana, ma anche persuasiva, irrequieta e anticonformista. La Maria Brasca di Testori è sempre stata una vertigine di passioni e umori. Calzettaia ma anche donna emancipata dal ruolo sociale entro cui è costretta a immaginarsi, vive gli Anni Sessanta ai margini della città milanese, indifferente al chiacchiericcio pregiudizievole della sua piccola comunità di periferia. Non si fa problemi, questa donna Brasca dai riccioli biondi - briosa e risoluta nell’impetuosa performance di Marina Rocco in scena al Franco Parenti - quando esce con uomini diversi, non si fa problemi se questi uomini poi la stufano e l’annoiano, non si fa problemi neanche quando decide di lasciarli, innescando quel moto centripeto di dicerie che finisce, come un appuntamento consolidato, per abitare le bocche di tutti. Ma è quando incontra l’amore, che porta il nome di Romeo (Filippo Lai), che comprende che, alla fine, “nella vita le cose son di chi ci mettere sopra le mani per primo”. E difatti nulla la trattiene dai suoi slanci amorosi, nemmeno i moniti della coppia familiare con cui convive, formata dall’accogliente e fedele sorella Enrica e dal lavativo cognato Angelo (rispettivamente una Mariella Valentini e un Luca Sandri che battibeccano attraverso interpretazioni davvero genuine e bilanciate). È allora che tutto il suo agire si fa dinamica di conquista: di un amore corrisposto, di una relazione esclusiva e del mantenimento di una posizione di desiderata indipendenza. Trent’anni dopo il lavoro che portò in scena negli Anni Novanta, sempre prodotto dal Teatro Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah riprende in mano questa pièce e ne rinnova con premura i caratteri, modificando con alcuni accorgimenti l’originale e riflettendo su un nuovo allestimento, curato da Albertino Accalai, che fa convivere sul palco con tragicomica armonia i calorosi ambienti domestici e i tremori delle pareti al passaggio dei treni, le autunnali corti milanesi e i sedili vuoti di uno spettacolo che non ha ancora smesso di divertire. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: di Giovanni Testori, uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah, con Marina Rocco, Mariella Valentini, Luca Sandri, Filippo Lai, scene Gianmaurizio Fercioni, costumi Daniela Verdenelli, luci Oscar Frosio, musiche Fiorenzo Carpi,
L’AMANTE (regia Veronica Cruciani)
La vita coniugale di Richard e Sarah, protagonisti de L’amante di Pinter, non è forse esemplare. Veronica Cruciani, nella sua recente regia del dramma, intende «affondare ancora di più il coltello nella piaga», come lei stessa ammette. Della vicenda dei due personaggi, una coppia di sposi che ricorre a travestimenti e tradimenti fittizi per restare unita, il lavoro di Cruciani, visto al Brancati di Catania, coglie da un lato la concretezza della vicenda umana, dall’altro, al contrario e al contempo, quanto appartiene alla finzione scenica. Sul primo fronte, alla vicenda di Richard e Sarah si sovrappone quella degli interpreti, Graziano Piazza e Viola Graziosi – coppia nella vita, e il dettaglio non è insignificante. All’inizio dello spettacolo, vestiti dei loro abiti, agiscono sul palco come provando lo spettacolo che sta per svolgersi. Si attirano subito l’empatia del pubblico, e la manterranno per tutto il tempo: sono vivaci, potremmo dire autentici. Sono davvero marito e moglie, mostrano le mani con le fedi; copione alla mano, si confrontano col testo ripassandone e ripetendo le battute. Ma un po’ alla volta costruiscono il gioco teatrale: scoprono l’arredo della scena (un arredamento in stile Mid-century, “comodo e di buon gusto”), indossano gli abiti di Richard e Sarah. Gli attori incarnano ora i loro personaggi, dunque il loro camuffamenti; tuttavia, su di loro, negli occhi del pubblico, rimane impressa la concreta, smascherata esperienza di vita. Ed è proprio in questa ambivalenza tra il come se e il come è che lo spettacolo diviene un grande dispositivo dal quale, sempre più, viene bandito il richiamo a ogni referenza oggettiva. A consumarsi, sul palco, è un’allucinazione in cui vengono scoperte le turbe e le psicosi di una vita matrimoniale fondata, al pari del dramma in cui essa trova rappresentazione, sulla sospensione dell’incredulità. L’interno borghese diviene un dispositivo in cui gli effetti sonori (di John Cascone), luminosi e cromatici (di Andrea Chiavaro) invadono e trasfigurano la scena, trasformandola nella proiezione di un inconscio rovente, pulsante oltre le più gelide convezioni di rappresentanza. Perché è nelle apparenze della vita reale, il problema; nel mondo dell’immaginazione è ancora possibile salvarsi, insieme. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Brancati, Catania. Crediti: di Harold Pinter, traduzione Alessandra Serra, regia Veronica Cruciani con Viola Graziosi e Graziano Piazza scene e costumi Veronica Cruciani e John Cascone drammaturgia sonora John Cascone disegno di luci Andrea Chiavaro
IO SONO NIJINSKY (di Daniele Bernardi)
Un uomo vestito di bianco tira una slitta, il vento lo colpisce, una luce azzurro ghiaccio lo accompagna mentre attraversa lo spazio da destra a sinistra fino a quando metterà i piedi in un quadrato, anch’esso bianco, in quel momento la luce cambierà mostrando con maggiore calore la figura nella sua interezza. Sulla slitta una marionetta, verrà poi appoggiata su una croce. A destra della lapide una casa in miniatura, illuminata. Sul limitare sinistro un albero di natale. Daniele Bernardi, bianco in volto, in bocca una bizzarra pronuncia che si incaglia sulle r e sulle s. Nijinsky aveva difficoltà a parlare, mi spiegherà poi. Ma questo lavoro visto al Teatro Lo Spazio è tutt’altro che un racconto realistico della vita del mitico danzatore dei Balletti Russi. Bernardi ha la capacità evidente di estrarre l’essenza poetica dalla drammaturgia da lui stesso costruita a partire dai diari dei Balletti Russi di Vaslav Nijinsky e dalle biografie scritte dalla moglie del ballerino, la contessa ungherese Romola de Pulszky. Come d’altronde è poetico il piano visivo, nel bianco di un segno preciso che ha un purezza orientale (si veda l’omaggio a Masaki Iwana sulla locandina) nella costruzione di un personaggio teatrale che, al di là della sovrapposizione o meno con il ballerino, è omaggio alla passione artistica e all’immagine teatrale intesa come epifania scenica. Io sono Nijinsky, visto sul palco del Teatro Lo Spazio, è una scoperta preziosa; Bernardi ha trovato un linguaggio in grado di creare un piccolo mondo in cui far apparire la vita dolorosa, ma anche affascinante del Dio della danza: dal rapporto - oggi diremmo tossico - con il celebre impresario Djagilev, al tempo trascorso a St. Moritz, dalla povertà in Russia alle grandi tournée internazionali. Poi quella scena, debordante, eccessiva, ma coerente con chi credeva d’altronde di avere un canale diretto di comunicazione con Dio, Bernardi la racconta con maestria. L’attesa di fronte a centinaia di persone per uno spettacolo in casa, proprio a St. Moritz: Nijinsky è immobile, guarda gli spettatori senza cominciare, per un tempo infinito, prima di prendere il volo. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Lo Spazio di e con Daniele Bernardi a partire dall’opera di Vaslav Nijinsky scenografia, oggetti di scena e tessuto sonoro Ledwina Costantini costumi Luisa Beeli voce fuori campo Raissa Avilés assistente Elisa Pagliaro fotografie di scena Alessandro Ligato. Dal 17 al 19 marzo al Teatro o Spazio di Roma
PENG (regia di Giacomo Bisordi)
Ci vogliono attori capaci per rimanere in bilico in quel limbo in cui realtà, demenzialità e surreale si incrociano, ci vuole una mano registica in grado di organizzare gli elementi sulla scena e restituire così al pubblico una mappa di senso: a Giacomo Bisordi bisogna riconoscere il coraggio delle sfide, sempre alle prese con il teatro inteso come atto collettivo. Qui, con il testo di Marius von Mayenburg del 2017, la cifra politica è evidente. Ma il regista ha un acuto senso dello spettacolo e dunque cerca mille modi per fuggire dall’immobilismo, dal banale e dal pensiero statico. Ralph Peng (un Fausto Cabra che non si risparmia) è il protagonista di una storia bizzarra, a metà tra l’apologo acido e la distopia. In scena di fronte a noi, tra uno schermo issato in alto e un altro laterale, nasce un bambino, già adulto, sotto il segno della violenza e della sopraffazione: è stato lui ad ammazzare la sorella gemella mentre erano ancora nel grembo materno. Ha negli occhi quel male oscuro di un Alex di Arancia Meccanica, ma ha ambizioni più grandi e assolute. Lo spettacolo visto al Vascello che ne è anche produttore, segue la vita del ragazzo inserendo quella dei genitori in una sorta di reality televisivo, con tanto di finte pubblicità. Bisordi riadattando il testo di Mayenburg, anche con importanti interventi, ci dice che oggi non si può evitare di stare al centro della scena. I genitori di Ralph (brillanti Aldo Ottobrino e Sara Borsarelli) non rinunciano alla visibilità di un documentario sulla loro vita, ma non hanno il minimo potere sulle follie del figlio. Vi è una divertente tensione negli accadimenti scenici che riescono a stimolare continuamente lo spettatore a discapito di una logica drammaturgia ferrea (forse avrebbe giovato qua e là il recupero di una certa coerenza). Da segnalare, tra le tante scene in grado di accendere riflessioni, il monologo della dottoressa che aveva fatto nascere il bambino: violenza, guerre e assassini hanno a che fare con l’ormone maschile, la dottoressa, nell’invocazione accorata e toccante di Anna Chiara Colombo, sogna un mondo senza il veleno del testosterone.
Visto al Teatro Vascello di Marius Von Mayenburg traduzione Clelia Notarbartolo con Fausto Cabra, Aldo Ottobrino, Sara Borsarelli, Francesco Sferrazza Papa, Anna C. Colombo, Francesco Giordano e con la partecipazione in video di Manuela Kustermann regia Giacomo Bisordi produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello con il contributo di NuovoImaie
SAMMARZANO (di Malmand Teatro)
Secondo gli ultimi dati pubblicati da openpolis «nel settore agricolo il tasso di irregolarità è stato riscontrato al 58%; il 44% dei lavoratori impiegati risulta completamente in nero e quello agricolo risulta il primo settore per vittime di sfruttamento […] Peculiare del sistema italiano è soprattutto la gerarchizzazione interna […] nonché una particolare esposizione dei lavoratori stranieri e tra questi soprattutto di quelli extracomunitari». Giusto qualche dato per comprendere quella tratta palese rappresentata dagli enormi camion su cui lavoratori - provenienti principalmente da India, Albania e Marocco – vengono ammassati alle prime luci dell’alba per poi rientrare dopo minimo 12 ore di raccolta dei pomodori nelle baracche del Gran Ghetto, nel Foggiano. Questo stato delle cose è il punto di partenza di Sammarzano, lazzo scenico di Malmand Teatro, con la regia di Ivano Picciallo, che trasla la realtà in una narrazione funambolica privata del peso del dramma e ci parla del caporalato attraverso gli occhi di Dino, senza dubbio lo scemo del villaggio. Perché solo uno scemo potrebbe infatti spiegare questa disumanità messa a sistema. La favella ingenua ma cinica di Dino - un convincente e incantato Francesco Zaccaro, insieme a Adelaide Bitonto, Giuseppe Innocente e Ivano Picciallo, loro sono più maschere che personaggi definiti - restituisce il gioco delle parti e ruoli della Commedia dell’Arte. Meno credibile e chiaro tuttavia è l’uso delle maschere sul volto che, se da un alto avvalora il grottesco, dall’altro rischia invece di stigmatizzare la figura del bracciante in quella del servo, o comunque in un ruolo che non permette il riscatto sociale. Dino tra un intercalare e l’altro, seduto a lato della scena, tesse insieme la drammaturgia suddivisa in quadri autonomi: immagini rappresentative, quasi luoghi comuni, del Sud, come le lamentele degli anziani seduti al vespro davanti ai portoni, la taranta ballata da una vedova, i numeri degli imprenditori agricoli e anche la morte, di chi non ce la fa, sancita da una finale risata beffarda. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Basilica: di Malmand Teatro; regia Ivano Picciallo; con Adelaide Di Bitonto, Giuseppe Innocente, Ivano Picciallo, Francesco Zaccaro; luci Camilla Piccioni; costumi Lorena Curti; aiuto regia Marta Franceschelli; maschere Officine Zorba; foto e grafica Manuela Giusto; produzione Teatro Kismet – Teatri di Bari; con il sostegno di IAC – I nuovi scalzi - Nuovo Cinema Palazzo
QUANTO RESTA DELLA NOTTE (di e con Salvatore Arena)
Una sedia, di legno. La scena dello Spazio Franco non prevede altro se non questo umile, funzionale elemento di arredo. Al monologo scritto e interpretato da Salvatore Arena non serve altro. Quanto resta della notte è un viaggio a ritroso, una risalita spazio-temporale che inverte il flusso più consueto. Il protagonista di questo pellegrinaggio giunge infatti dalla Sicilia, dove ha moglie e figli, in una non meglio precisata località settentrionale – l’accento sembra emiliano. Qui l’attende la madre morente, e assieme a lei un passato immobile, riemerso troppo dolorosamente. Come Silvestro Ferrauto, il protagonista della Conversazione di Vittorini, anche il Pietro interpretato da Arena intraprende un itinerario geografico e psichico nel ricordo e nella sua rievocazione. Si tratta di un affondo nella condizione esistenziale di un’umanità offesa, di un mondo offeso. Seduto su quella sedia, Arena cesella la parola con perizia genuina, imprimendo nella mente del pubblico una serie di immagini vividissime. Il loro susseguirsi delinea l’arco vitale di un’esistenza, singolare e universale, abitata da un’intera collettività e dai suoi usi. All’interno del monologo la provincia pre-industriale, con i suoi legami parentali e comunitari, trova riverbero in una caratterizzazione variegata, agita da Arena attraverso un efficace alternarsi di climax e ritmi. Gli astratti furori di Pietro, comunque sia, non trovano pace neppure nella condivisione della propria esperienza. Il momento in cui il trauma riemerge, definitivo, rappresenta il culmine di una progressiva agnizione che non risolve, e anzi enfatizza, il senso di colpa latente. I tre giorni di permanenza nella casa materna si concludono con la morte della genitrice. Una morte simbolica, nella quale si consuma l’infanzia e la possibilità di recuperare nel presente quel passato. E non è neppure vero: esso si vivifica, per tutta la durata del monologo, nella parola e nell’azione di Arena, così come negli occhi e nella mente dello spettatore. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco. Crediti: di e con Salvatore Arena. di e con Salvatore Arena. Produzione Mana Chuma Teatro. Foto di Marco Costantino
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