EUROPEANA. BREVE STORIA DEL XX SECOLO (di Lino Guanciale)
Lino Guanciale. Europeana. Un secolo nel frullatore. È il titolo di un articolo che appare nei primi risultati del web e che mi colpisce, perché ben restituisce l’effetto dello spettacolo portato dall’attore/regista abruzzese nelle sale del Piccolo Teatro di Milano. Guanciale parte dall’ingarbugliato testo dello scrittore Patrik Ouředník, denso di informazioni sul secolo appena trascorso e frenetico nel suo sviluppo paratattico, per restituire “una mirabile costruzione di ecolalie coordinative”, in cui gli eventi “non accadono in modo lineare, ma si incrociano”. Così, per tutta la durata della vorticosa pièce l’attore resta in piedi, inchiodato su di un leggìo, e passa in rassegna tutti gli accadimenti che hanno caratterizzato un periodo storico travagliato, dall’invenzione dell’aspirapolvere alle guerre mondiali, dalle lotte femministe alla distribuzione massificata di Barbie e poi il positivismo, l’esistenzialismo, il dadaismo. Allora con forza mette piede sull’acceleratore. Muovendosi su una dimensione anacronistica del tempo le sue parole rimbalzano e si susseguono velocissime e le immagini che costruisce – anche tramite oggetti feticcio – inciampano senza fiato le une sulle altre. Diremmo che è decisamente agitata, questa Europeana, rispettosa anche dello stile linguistico del suo autore, e Guanciale non ne sembra spaventato: la sua prova attorale è vivida e impegnata e assume quelle tonalità strappate di un urlo affaticato. Nelle scelte registiche però, si percepiscono alcune incertezze che mostrano un certo immobilismo nella resa finale; l’insistere sulle potenzialità del racconto si trasforma in una rinuncia alle possibilità di un più elaborato lavoro sulla scena e l’elemento musicale, dolce e malinconico nella fisarmonica di Marko Hatlak, invece di sollecitare un dialogo con le parti del testo ne riempie solamente i buchi, come un respiro momentaneo. Una montagna di indumenti “alla Pistoletto” è l’immagine lapidaria di questa breve storia del Novecento; il narratore vi preleva ripetutamente le maglie/simbolo che la costituiscono, le indossa una sopra l’altra, assumendo su di sé la stratificazione dei segni tangibili di un’intera epoca. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: di Patrik Ourednik, traduzione Andrea Libero Carbone © 2017 Quodlibet srl, diretto e interpretato da Lino Guanciale, musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonica, costumi ed elementi di scena Gianluca Sbicca, luci Carlo Pediani, coproduzione Wrong Child Production e Mittelfest2021, in collaborazione con Ljubljana Festival. Foto di Luca A.D’Agostino
TOTÒ E LA SUA RADIOLINA (di Giada Baiamonte)
La radiolina che Totò porta al collo è l'omaggio di una prostituta, Gisella. Totò e Gisella sono il residuo, il precipitato di una società che per loro non ha spazio: lui è un figlio sfortunato, al quale la vita ha lasciato soltanto il ricordo della madre defunta e la propria disabilità mentale; lei è prostituta suo malgrado, una madre privata della possibilità di esserlo. Sul molo, dove i due casualmente si incontrano, è possibile per entrambi un piccolo riscatto. Totò e la sua radiolina, di Giada Baiamonte in veste di autrice e regista, è un'operina sospesa e poetica, tutta compresa negli episodi che si susseguono tra un buio e l'altro. La scena di Danilo Zisa, piuttosto ingombrante, indugia in una pur gradevole didascalia. Il porticciolo occupa tutto il palco dello Spazio Franco e comprende onde marine entro una struttura trasparente, grandi barchette di carta, la panchina attorno alla quale si svolgono i dialoghi di Gisella e Totò. Eletta del Castillo, nei panni della donna, sembra una pretty woman del quartiere Capo: la resa del suo personaggio è pulita e decisa. Nicolò Prestigiacomo, nei panni di Totò, ricorda Forrest Gump. Pure lui agisce con misura, riuscendo a divertire senza cedere al grottesco. Il suo personaggio lo ritroviamo oltretutto in un altro lavoro di Baiamonte, E muriu u cani, del quale Totò e la sua radiolina è uno spin-off in vista dello sviluppo di un più ampio ciclo. Intanto, nello spettacolo visto recentemente allo Spazio Franco, il garbo entro cui Gisella e Totò svolgono il racconto della loro vicenda puntella col sorriso lo scambio ben ritmato delle battute. A volte la scrittura illanguidisce in punte di patetismo che minano la ricercata verosimiglianza: questa, oltretutto, nonostante i dichiarati intenti neorealistici, non pare essere la cifra fondamentale della vicenda. Il dramma lascia la questione sociale sullo sfondo, trasfigurandola nella narrazione di una storia lieve ma non per questo banale. Il centro non è nella realtà, ma nelle sfumate sensazioni che da questa scaturiscono. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco, Palermo. Crediti: testo e regia Giada Baiamonte, disegno luci Andrea Schirmenti, scenografia Danilo Zisa, costumi Andrea Schirmenti, interpreti: Eletta Del Castillo e Nicolò Prestigiacomo. Foto di Vito Raia.
PERFETTI SCONOSCIUTI (di Paolo Genovese)
«Anche fosse, che fai glielo dici?», la battuta, e domanda retorica, è ormai diventata sineddoche di Perfetti sconosciuti, commedia drammatica firmata da Paolo Genovese che - dopo il film del 2016 campione di incassi, vincitore di David di Donatello, Nastri d’argento, Globo d’oro e Ciak d’oro e nel Guinness dei primati come film con più remake nella storia del cinema, ben 25 – arriva a teatro al debutto romano all’Ambra Jovinelli. Quasi una diretta filiazione dall’opera originale che già di per sé conteneva in nuce quell’impostazione drammaturgica da sviluppare per la scena, tant’è che il copione rispetta fedelmente la sceneggiatura (di Genovese, Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello). Al suo primo esordio teatrale, Genovese gioca facile: il testo si conferma un’opera da manuale, capace di dare risalto con fedeltà all’antopologia delle relazioni interpersonali nell’era digitale e nel suo corrispettivo reale, quotidiano. Bauman stesso ne godrebbe. Durante una serata di eclissi di Luna, il gioco, “al massacro”, che un gruppo di amici borghesi legati fin dall’infanzia decide di fare a cena lasciando i propri smartphone alla mercé di tutti e tutte, continua a emozionare il pubblico, si ride con precisione quasi matematica alle battute ormai classiche, si sta in tensione, ci si commuove anche. Nonostante si rimanga affezionati a quello del film, il cast di attori e attrici - Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino – non delude e regge il confronto, dando propria interpretazione ai caratteri – empatici, complessi e versatili Calabresi, Ferzetti e De Lorenzo – e restituendo fluidità anche nella lettura degli sms e email, che di certo stavolta non possono essere “inquadrati”. Alla prima, qualche problema tecnico non ha compromesso la prova attorale e il sold out ha spinto proprio stamane il teatro a comunicare delle repliche aggiuntive.(Lucia Medri)
Visto al Teatro Ambra Jovinelli di Roma. Con (in ordine alfabetico) Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino, prodotto da NUOVO TEATRO diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro Della Toscana e Lotus Production. Foto di Salvatore Pastore
AZUL. GIOIA, FURIA, FEDE Y ETERNO AMOR (di Daniele Finzi Pasca)
Accade di rado che il teatro acquisti quella sfumatura naturale e spontanea di una grassa e grossa risata. Accade di rado che l’improvvisazione si trasformi in spassoso divertimento, al di fuori del controllo di regista, tecnici e attori stessi. È quando il personaggio prende il sopravvento, si emancipa da coloro che l’hanno plasmato e comincia a fagocitare tutto, anche la distanza tra platea e palco. Sulla scena del Franco Parenti, Stefano Accorsi, Luciano Scarpa, Sasà Piedepalumbo e Luigi Sigillo si calano così nei panni di quattro amici di lunga data, e amici sembrano esserlo per davvero nelle loro interpretazioni goliardiche e sincere. Al mondo ci sono piombati come dei superstiti, con soprannomi fiabeschi e orfani di madre, ma del tiepido grembo materno riescono a ritrovare traccia tramite l’ardore di una passione calcistica condivisa. S’ incontrano allo stadio, animati dalla voglia di fuggire le monotone liturgie dell’esistenza. Ma su quegli spalti si agitano, palpitanti, saltano e gridano, aprono mente e petto per accogliere ciò che dell’euforia continua a vibrare anche dopo che la partita è finita. Daniele Finzi Pasca si cala da maestro in questo immaginario comune e dona il ritratto di un’amicizia duratura con genuina semplicità. La sua scrittura sembra provenire da nessun posto e a nessun posto andare, ma nelle immagini aleatorie e trasognate che restituisce getta le basi per la costruzione di un terreno ludico, dove i personaggi possono sbizzarrirsi ed essere davvero sé stessi. A questo esercizio di libertà drammaturgica, il regista accosta frizzanti suoni jazz abbracciati da proiezioni video dalle calde tonalità fluide. Qui, si staglia il protagonismo della voce di Accorsi, modulata e avvolgente sul palco, matura e curiosa quando sconfina in platea nei tentativi di interrogare il pubblico per renderlo parte di questi eterni amori e delle amare disillusioni, di come tutto finisca ma sia destinato sempre ad avere un nuovo inizio. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: testo e regia Daniele Finzi Pasca, con Stefano Accorsi e con Luciano Scarpa, Sasà Piedepalumbo, Luigi Sigillo, designer luci Daniele Finzi Pasca, scene Luigi Ferrigno, costumi Giovanna Buzzi, video designer Roberto Vitalini, musiche originali Sasà Piedepalumbo. Foto di Filippo Manzini
SCONOSCIUTO. IN ATTESA DI RINASCITA (di Sergio Del Prete)
Un uomo è immesso all’interno di un perimetro rettangolare, illuminato da led e asfissiante; più che altro viene partorito con estremo dolore per lui. È vestito con giacca e cravatta, è agitato. È al mondo perché la madre, tempo prima, ha dovuto abortire. Il dolore e le mancanze, la quotidianità devastante di una famiglia disfunzionale, e la frustrazione per una vita indesiderata, costruiscono il suo stare al mondo. Tutt’intorno, nello spazio nero e spoglio al di fuori del perimetro – gabbia, viene evocata la vastità desolata della Periferia: un’entità distruttiva che fagocita le esistenze e ne rigetta carne senza spirito. Sergio Del Prete dona un’interpretazione preziosa: si muove con una disperazione che tende i nervi, i suoi e di chi osserva, oltre il sopportabile; la sua voce strozzata incalza i ricordi di una vita miserabile inchiodando lo spettatore al suo posto. La capacità di costruire immagini di una materialità pesante e ingombrante è il risultato di una penna che filtra la realtà attraverso la poesia e la restituisce più vivida; l’utilizzo realistico del dialetto, più sporco e volgare di quello cittadino, o di una strascicata cadenza contribuisce a reificare la bruttura di certi contesti sociali. E, tutto sommato, se la città è una città di miserabili pezzenti e bugiardi, perché la sua periferia dovrebbe essere meglio? Come devono essere gli uomini e le donne che vivono in luoghi dove l’amore non è altro che «una botta di culo» che non capita quasi a nessuno, o dove la tenerezza è un momento fugace rubato alla disperazione? L’uomo si chiede perché vivere col peso di tanti silenzi, e domanda stizzito a quel fratello inesistente perché non poteva prenderselo lui tutto questo peso. Forse questi frammenti di monologo profondamente intimo con il fratello peccano, oltre che per il numero di poco superiore al necessario, di un retorico che si lega poco all’andamento del resto; ma siamo alla minuzia, a una quasi impercettibile stortura in una costruzione pressoché perfetta. (Valentina V. Mancini)
Visto a Sala Assoli; Crediti Scritto diretto e interpretato da Sergio Del Prete; Elaborazioni sonore e musiche dal vivo Francesco Santagata; Scene e disegno luci Carmine De Mizio; Costumi Rosario Martone; Foto di scena Pepe Russo.
IN NOME DELLA MADRE (di E. De Luca, regia G. Barbadori)
Nella cultura ebraica non esiste una tradizione figurativa fino alla seconda metà dell’Ottocento, per cui la sola parola, che è parola quasi esclusivamente di legge, reifica la realtà. Forse questo aveva in mente Gianluca Barbadori nel portare in scena il testo di Erri De Luca, dal momento che l’unica immagine presente in scena è quello del corpo di Miriam (Galatea Ranzi) più simile a un’icona cristiana, mentre alla sola parola è concesso il compito di evocare il mondo (fatto anche esso di parole) a cui appartengono. Il racconto dall’Annunciazione alla Natività, così come è stato manomesso, diventa un racconto rivoluzionario perché passa per bocca di donna. E maggiormente rivoluzionario perché è il racconto carnale di uno spirito solidissimo; una rivolta che sorride nella temperatura beata di una vocalità tiepida e monotona, che è fatta di gesti minuti e morbidi. Galatea Ranzi si fa lieve e riduce l’espressività fino all’imperturbabile, appiana la voce e alleggerisce il passo, copre la testa e con un sorriso che le distende le labbra: la sua Miriam, ormai matura, narra del miracolo che l’ha fatta donna e che l’ha resa presente a sé stessa in quanto donna; una donna che ha amato il suo Josef nel modo che le è più congeniale, che ha accolto la maternità come un modo per conoscere davvero il proprio corpo, che ha preso decisioni secondo la propria coscienza, che non si è vergognata delle decisioni prese. Le parole, nella gaiezza della voce che le veicola, scorrono fluide e senza ritmo, come se fosse una litania ma più leggera. La poesia non è in quelle parole, feriali e quotidiane, ma in ciò che viene raccontato. La finzione si insinua nel sacro con gli espedienti delle luci, cariche di colori brillanti dell’ocra del verde e del blu, che pervadono lo spazio scenico e lo fanno mistico. In un blu sospeso e silenzioso, la beatissima, ormai madre, ritorna per un attimo donna e, a capo scoperto e col braccio teso verso l’alto, urla che quel figlio non le muoia troppo presto. (Valentina V. Mancini);
Visto a Ridotto del Mercadante; Crediti Di Erri De Luca; Regia Gianluca Barbadori; Con Galatea Ranzi; Costume Lia Francesca Morandini; Produzione Teatro Biondo Palermo; Foto Rosellina Garbo In collaborazione con soc. coop. Ponte tra Culture / AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali.
AL COSMO lettura corale (di Ateliersì)
Porpora Marcasciano, attivista, sociologa scrittrice e fondatrice nel 1979 del MIT (Movimento Identità Trans) è un corpo-mente splendente; dai suoi testi, e recenti articoli, l’ultimo dedicato alla memoria di Lucy Salani, unica transgender sopravvissuta all’orrore dei lager nazisti, non possiamo che cogliere doni di pensiero che esulano dalla fissità definitoria diventando esperienza nella dialettica politica delle cose, delle persone, dei tempi di cui parlano. Al cosmo è una lettura corale – ideata e creata da Fiorenza Menni (Ateliersì) insieme a_partecipanti dei percorsi laboratoriali tenuti nel 2022 all’Angelo Mai e a Short Theatre – dedicata a Tra le rose e le viole. La storia e le storie di travestiti e transessuali di Porpora Marcasciano edito da Manifestolibri nel 2008 e ristampato nel 2020 da Alegre. Dalle 18 alle 24 di venerdì scorso all’Angelo Mai in un’oasi di libertà, a piedi scalzi e su cuscini e coperte, Toni Allotta, Giulia Felici, Sofia Gerosa, Laura Giannatiempo, Andrea Alessandro La Bozzetta, Francesca Macci, Elena Martusciello, Alex Paniz, Luce Sant’Ambrogio, Emilia Verginelli leggevano, senza alcun obbligo di interpretazione attoriale, frammenti di questo diario manifesto di Marcasciano in cui la sua biografia diventa strumento di indagine socio politica di denuncia. Nonostante il pubblico in ascolto potesse entrare e uscire dallo spazio a piacimento, veniva la voglia, sperimentata in prima persona, di prendere in mano una copia del testo e di partecipare al rituale di lettura, rispettando il gioco dell’alzata del libro a indicare la volontà di leggerne un estratto. Una linea unisce la parola-azione di Marcasciano con quella fotografica di Lisetta Carmi, ritrovata nella nuova ristampa del suo storico reportage: è il rifiuto del ruolo imposto da una tradizione autoritaria e il vibrante desiderio di rivendicare la libertà di essere ciò che si vuole e si sente, come dice Marcasciano «dimenticarsi del trans e far emergere me stessa». (Lucia Medri)
Visto all'Angelo Mai: a cura di Fiorenza Menni con Toni Allotta, Giulia Felici, Sofia Gerosa, Laura Giannatiempo, Andrea Alessandro La Bozzetta, Francesca Macci, Elena Martusciello, Alex Paniz, Luce Sant’Ambrogio, Emilia Verginelli; in collaborazione con Angelo Mai e Short Theatre. Foto di Fiorenza Menni
COME UNA SPECIE DI VERTIGINE. IL NANO, CALVINO, LA LIBERTÀ (di Mario Perrotta)
Il palco spoglio è tutto ciò di cui Mario Perrotta ha bisogno. Vi si siede al centro con una struttura che regge un microfono, su di una postazione di immobile fissità. Luogo trasformativo però, perché spazio dello sdoppiamento (tra attore-autore-caratteri) dove prendono continuamente vita i personaggi di Calvino da “una trilogia sul come realizzarsi esseri umani, tre gradi di approccio alla libertà”. E di libertà si tratta, quando a parlare è un uomo imprigionato in un corpo con disfunzioni espressive e di movimento (estrapolato dai passi de La giornata di uno scrutatore). Perrotta lo chiama nano, affetto da nanismo, diversamente abile, veste abiti luccicanti e non si sposta dalla sedia su cui è saldamente bloccato. Il suo corpo si agita di fronte al pubblico, genera dei forti spasmi, l’afasia lo porta invece a riprodurre suoni lontani, incomprensibili, sospesi a metà tra il detto e non-detto. “Io non sono libero”, confessa poi. Ma quest’affermazione è una cerniera d’apertura, accecante come l’intensità della luce che ci fa chiudere gli occhi pur di non reggerne il confronto, perché raccoglie in sé una spinta vigorosa, una verità taciuta che è motore del racconto di un viaggio personalissimo nell’universo di Italo Calvino. Qui, ancora niente è perduto e il testo del regista si rivela essere una ricerca nostalgica, attenta e fedele nei sentimenti, che trova un’ancora salda ed evocativa nella capacità interpretativa, spaziando dal racconto al canto ai versi rap. Perrotta si addentra così nelle trame calviniane e agisce su di esse come un ricamatore, aggiunge dettagli, intensifica passioni ed estrae delle riflessioni sul valore dell’autodeterminazione e sulla questione dell’alterità, per recuperare infine la meraviglia, quella delle città invisibili, le possibilità metamorfiche dell’armatura vuota di Agilulfo e il silenzio disincantato di Palomar. E la febbrile disobbedienza di Cosimo, Cosimo che rifiuta le lumache, Cosimo che vive sugli alberi, Cosimo che ancora s’innamora. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Carcano. Crediti: di e con Mario Perrotta, aiuto regia Paola Roscioli, co-produzione Permàr, Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale. Foto di Luigi Burroni
SULL’ATTIMO (coreografia di Camilla Monga)
Superba Monga nel «tempo senza tempo» che danza l’istante. Sull’attimo è un vero gioiello compositivo, proprio nella sua (apparente) semplicità. Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza, dura quaranta minuti ma si vorrebbe non finisse mai. È costruito in diretta pèrmuta, fatta di ascolto e sintonía, con le tecniche di improvvisazione e contaminazione jazz del polistrumentista Emanuele Maniscalco. Tutte le strategie di presenza sono con lui negoziate in scena, oltre che da Camilla Monga, da Stefano Roveda e Francesco Saverio Cavaliere. Tre corpi diversi, strategicamente complementari ma attivati in una relazione sempre convergente, capace in termini cinetici di produrre differenze. La musica per prima, d’accordo. Maniscalco al pianoforte anche percuote ritmicamente le corde esposte dello strumento, mentre scivola in lentissimi e meditativi swing. Ma nella performance dei corpi, che si concepisce tutta nell’istantaneo, le strutture e gli spazi aperti dalle ripetizioni, dagli accordi di ingressi e uscite, dagli appuntamenti raggiunti e dalle forme plurali dell’abbandono e della restanza, sono tutte figure del cambiamento. La durata allora non predispone cadute nella cronologia, ma ritrova e libera istruzioni per riconoscere, in ciò che può la coreografia, tutto il vivente. Oltre l’umano, al fondo di questa creazione traspare un’idea estetica transpecie: non in termini di rappresentazione, ovviamente, ma di gerarchie. La natura qui non ama nascondersi. Il tempo dell’istante di musica e danza, è allora quello dell’avvento. Gli elementi sono pochi: un tappeto bianco in parte segnato da cromie geometriche che si inseguono autonome; un disegno luci calibrato sui vuoti necessari a ogni epifania. Tutto è misura, equilibrio e affermazione sottile di una ipotesi generativa di bilico, di frattura, di errore. Forse qualche improvvida scivolata in velocità, o l’appoggio improvviso e in gravità di un braccio a terra lo sono letteralmente. Ma ciò che più importa, è che l’errore è la variazione di ciò che agisce nell’imprevedibile. (Stefano Tomassini)
Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza: progetto di Camilla Monga ed Emanuele Maniscalco, concept e coreografia di Camilla Monga, danzatori Camilla Monga, Stefano Roveda e Francesco Saverio Cavaliere, musica dal vivo Emanuele Maniscalco (pianoforte, batteria), collaborazione artistica e realizzazione arazzo Meris Angioletti produzione Van
COME NEVE (coreografia di Adriano Bolognino)
Difficile davvero sospettare che dietro al recente lavoro di Adriano Bolognino, Come neve, ci possa essere il tema del benessere. Il gelo che affonda, forse. L’algido nitore del cristallo, piuttosto. L’affanno convulsivo di neuroni in corpi di sasso. La compiaciuta atmosfera di un malessere sempre in procinto di precipitare, sempre trattenuto e arginato da maglie e da reti intessute dal tempo, e attraverso cui resistere. Più che la neve, è forse la velocità della sua caduta a interessare l’arguto coreografo napoletano, che non ci pensa proprio ad assolvere il tema di una commissione: piuttosto lo trasforma, perentorio, nel suo rovescio. In scena, è un duo quasi tutto speculare e ossessivamente sincronizzato, secondo le compulsioni mentali più irrefrenabili, le paure mentali più obbliganti. Tenute a bada da due straordinarie (inquietanti il giusto) interpreti, Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, che sembrano prefiche nordiche, beghine artiche, pinzocchere boreali: come in un Hansel&Gretel versione horror. Compiutamente agghindate di costumi con gonna a terra tessuti in filato multicolore, con tanto di ampio guardinfante, ottimamente pensati, disegnati e realizzati (dal Club dell’uncinetto di Napoli). Ed è tutto un proliferare di passi nascosti, movimenti repentini di gambe e ginocchia, anche a terra, faticosi eppure sempre perfettamente dissimulati. E tutto funziona, splendidamente, non si può che ammirare tanta intelligenza scenica, cura interpretativa e sapere compositivo. L’impressione è che, in termini coreografici, sia possibile perfezionare e intensificare il gesto nel disegno soprattutto drammaturgico. Il compimento non è mai solo una conclusione della coreografia: ma lo scongiurare che qualcosa della performance vada perduta. Come per la musica: se Olafur Arnalds è perfetto per l’atmosfera di avvio, dopo una lunga muta transizione Bolognino cede alla tentazione di un finale rassicurante, dunque sedativo, con l’indie pop di Josin, quando forse meglio si sarebbero precisati, per esempio, gli inquietanti loop glaciali di un Thomas Köner, o chessò dei dropped pianos alla Tim Hecker. (Stefano Tomassini)
Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza: coreografia di Adriano Bolognino, danzatrici Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, musiche di Olafur Arnalds/Josin, costumi Club dell’uncinetto (Napoli), produzione Körper
LA COMMEDIA PIÙ ANTICA DEL MONDO (de I Sacchi di Sabbia)
C’è risata e risata. Non è vero in assoluto che il “potere” teme la comicità, come spesso si dice, poiché v’è certamente un modo di ridere accondiscendente, mellifluo, disposto a favore dello stato delle cose. Si potrebbe andare oltre e distinguere fra un ghigno amaro e fatalista, conservatore ma a suo modo apotropaico, e la risata violenta, a orologeria, disposta dal potere per segregare e ridicolizzare – la risata del bullo, o la risata dei media di massa, dal Bagaglino a Pio e Amedeo. Ma la risata può anche contorcersi e ritorcersi, fino a diventare “ostile”, a far mostra della dentatura da sotto in su quando la bocca si spalanca e il collo flette all’indietro, a erompere in un suono sguaiato che libera un’energia atavica. Per I Sacchi di Sabbia la risata della commedia più antica del mondo, la risata più profonda i tutte, è questa – insolente e sboccata, pronta a misurarsi violentemente con la violenza. Gli Acarnesi di Aristofane, la commedia più antica giunta a noi (portata in scena al concorso lenaico del 426 a.C), diventa il canovaccio per una brillantissima lectio sul senso del ridere e sulle geografie impossibili che la risata può tracciare in una realtà ingiusta e perennemente in guerra. Massimo Grigò, solo in scena, è un anfitrione virtuosissimo e spassoso, che nella sala piccola del Teatro Tor Bella Monaca riesce a disegnare una moltitudine di presenze foltissime: ci sono i personaggi del testo greco, ci siamo noi impietriti, poi stanchi, poi sbadati di fronte alle notizie di guerre vicine e lontane. Senza ricorrere a viete retoriche e didascalie cronachistiche, il testo greco è riscritto in una lingua viva e originalissima fra la sardonica verve toscana e l’iperlingua grecista dei dipartimenti accademici, pur trattenendone con lieve ironia tutto il gusto per la metrica e la filologia greca. Con Grigò, su un tavolino di legno che è cattedra e scranno d’osteria, una candida scultura di fallo (di Noela Lotti) dà forma a un mondo che contrappone all’orgia del sangue e della becera convenienza l’orgia incarnata di una sessualità popolare, precristriana, terricola. Con uno spassoso slittamento, il protagonista della commedia diventa Dickeopoli, che infine trionfa sull’antieroe Lamaco, generale delle armate ateniesi. Ma la commedia più antica del mondo è in fondo una tragedia, e questa vista in scena un'utopia amara che racconta brillantemente la complessità politica e psicologica del ridere, oggi. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Tor Bella Monaca. Con Massimo Grigò, con la collaborazione di Francesco Morosi, scultura Noela Lotti, produzione I Sacchi di Sabbia
MENO DI DUE (di Teatrodilina)
Una ricorrenza, non come le feste comandate con il parentame e il peso di dover essere in quel certo modo lì, affatto, puoi essere e stare come vuoi, nessuno ti giudica, neanche tu ti giudichi; inizi a conoscerli bene, sai che li incontrerai e ascolterai e loro sapranno di te, delle pieghe, crepate, dei pieni emotivi che fanno sussultare, svuotano, atterriscono. Dovremmo tutte e tutti avere la nostra dose di Teatrodilina: più volte all’anno, d’inverno preferibilmente quando fa più freddo per trovare calore, dopo i pasti. Pezzi di vita inevitabili scritti e diretti da Francesco Lagi, l’ultimo, al debutto a Carrozzerie not, è Meno di due. Già il titolo si incastra tra il cervello e il cuore, in quel limbo in cui sai, eccome, ma poi senti in maniera non coincidente: due linee rette parallele, che non si incrociano. «Se conosci le rotatorie, ti trovi bene al Nord» e quindi dovremmo prendere le curve al meglio per imboccare l’uscita esatta, evitando di continuare a girare...Due, lui calabrese (Francesco Colella), lei veneta (Anna Bellato) iniziano una relazione da remoto, messaggi, foto, vocali, like, una quantità enorme di dati scambiati. Poi si incontrano in un bar - foglie a terra e ombrelli - lui è venuto a trovarla, non ha deciso quando ripartirà, vuole vedere dove vive, se le foto ricevute corrispondono a una verità, intanto ha affittato un B&B. Ballano in ciabatte e arriva l’altro lui (Leonardo Maddalena), ha le chiavi di casa, avrebbe voluto cenare con lei, parlare con lei, addormentarsi con lei. Come sempre. O meno. Nella bellezza dei dubbi accigliati, dei sorrisi grandi, e negli sguardi, nella commozione della voce; gli interpreti sono definitivamente giusti. La virtualità delle esistenze unisce tempo e spazio e Teatrodilina la rende ricorrenza, riflessione sulla prossimità. Ombre di migliaia di anni fa ballano tra il reale e la sua idea, lui e lei le ritrovano disegnate nel buio delle grotte. Sono ancora loro? «Ma io ti piaccio?» «Non tanto» «Rimani qui». (Lucia Medri)
Visto a Carrozzerie not: con Anna Bellato, Francesco Colella e Leonardo Maddalena, suono Giuseppe D’Amato, scene Salvo Ingala, luci Martin Palma, organizzazione Regina Piperno, illustrazione locandina Antonio Pronostico, scritto e diretto da Francesco Lagi, uno spettacolo di Teatrodilina, in collaborazione con DOG, si ringrazia EX RUGIADA e Maria Grasselli residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t
LE VACANZE (di Alessandro Berti)
Due giovani, adolescenti o poco più, si immergono in acqua, fino al petto, forse in uno stagno; nella sala dedicata a Thierry Salmon dell’Arena del Sole la scena è la ricostruzione realistica di una radura chiusa ai due lati da piante ad alto fusto che si stringono in una breve prospettiva. Sabbia, terra e un odore forte, un po’ dolciastro, di natura innaturale. Nel proscenio la lingua d’acqua in cui i due si immergono, non la vediamo, ne sentiamo il rumore. I ragazzi passano il tempo raccontandosi episodi legati alla memoria delle vacanze, immagini di viaggi in famiglia si mescolano a pensieri a piccole riflessioni: «i miei dicevano che era meglio non viaggiare. Per non vedere quel che sarebbe scomparso». Non accade altro che non sia in questo dialogo e poi due piccole performance di un danzatore (Stefano Questorio in sostituzione per alcune repliche di Giovanni Campo)… in quale strano universo (o proiezione di un tempo altro) una coppia di adolescenti «affitta» un perfomer per un'azione artistica in una radura? Il testo di Alessandro Berti lentamente e con grazia accende piccole domande nello spettatore. Le zanzare non esistono più, l’uomo le ha sterminate vincendo una sorta di guerra genetica, ma forse un insetto sopravvissuto riappare proprio ora. Berti disegna i due caratteri con precisione e ricchezza (interpretati da Francesco Bianchini, Sebastiano Bronzato): uno è studioso, umanista e inquieto, l’altro è più sportivo, rilassato e si dedicherà alla scienza. Sullo sfondo di un chiacchiericcio apparentemente inutile si intravede la natura, la relazione con l’uomo, la dominazione sul pianeta «hanno aumentato le proteine del riso [...] ci hanno sterilizzati». Prima di questa tranquilla radura c’è stato un tempo di cambiamenti epocali, ci sono stati dei morti, i genitori sono rimasti in quel passato. Ora non rimane che addormentarsi, mentre il performer torna per la seconda parte dello spettacolo acquistato. È triste l'immagine di quest'uomo, un artista che si accorge di avere un pubblico addormentato, allora anche lui si siede lì, nella radura in cui le distopie sono sussurrate al presente. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: di Alessandro Berti con Francesco Bianchini, Sebastiano Bronzato e la partecipazione di Stefano Questorio regia Alessandro Berti danza Giovanni Campo assistente alla creazione e organizzazione Gaia Raffiotta disegno luci Théo Longuemare scene costruite e decorate presso il Laboratorio di Scenotecnica di ERT
MEDEA, UNA MADRE (di Liv Ferracchiati)
Si chiamano Mermero e Fere, anche se nella storia della tragedia sono più spesso nominati come “i figli di Medea”. Sulla scena di Liv Ferracchiati – qui in collaborazione drammaturgica con Piera Mungiguerra – hanno i corpi e le voci di Anna Coppola e Francesca Cutolo, e la scelta di segnare una distanza (anagrafica, prima che di genere) dilata le possibilità dell’astrazione. La figura di Medea, identificata nell’immaginario con il proprio gesto infanticida, è qui destrutturata in forma di enigma femminile e materno. La drammaturgia è composta intersecando passi tratti da Euripide, da Seneca e dalla Medea inedita di Antonio Tarantino, tra i quali si insinuano frammenti originali, e richiede alle attrici di muoversi con destrezza e mestiere, entrando e uscendo dai personaggi che convocano via via sulla scena. Grazie anche a una regia solida e misurata, le interpreti riescono a non smarrire il proprio sguardo di figli – e la propria relazione fraterna, fatta di tenerezza e di agonismo – al cospetto dell’incomprensibile. Sul fondale, in una teca, che si rivelerà accessibile, è custodito il simulacro di Medea. Troneggia nel proprio mutismo di totem ma diverrà – al di qua del tabù, della linea di sangue che ha tracciato – un oggetto che può essere smontato in parti (principessa barbara nel contesto della polis greca, maga, anche lei vittima sacrificale) e dunque, forse, destituito. Se, da un lato, in questa possibilità di ripercorrere e dimenticare sembra racchiusa la promessa della psicanalisi, dall’altro la messa in questione del valore della memoria si fa, sul finale, più radicale e insieme più dolce. Quando il mistero permane, vivere coincide con un’altra crudele cerimonia: quella durante la quale ci si mutila dell’esigenza di comprendere, e di ricordare. Si tratta dell’unica breccia che, per i due, è possibile aprire nella prigionia programmatica del meccanismo della tragedia, che è scritta per essere compiuta. Persino i figli, si dice incidentalmente, se potessero estraniarsi e assistervi, vorrebbero che si compisse. La verità più elementare della violenza pretende di essere elaborata per mezzo del rituale. E, come scrive René Girard ne La violenza e il sacro (1972), «è criminale uccidere la vittima perché essa è sacra...ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse». (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Mercadante. Crediti: con testi da Antonio Tarantino, Seneca e Euripide; ideazione e regia Liv Ferracchiati; drammaturgia Liv Ferracchiati e Piera Mungiguerra; con Anna Coppola, Francesca Cutolo; aiuto regia Anna Zanetti; scene e costumi Lucia Menegazzo; disegno suono e luci spallarossa.
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