LE RELAZIONI PERICOLOSE (di Carmelo Rifici)
Pubblicato a Parigi nel 1782, Les Liaisons dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos appare subito come uno scritto scabroso, un romanzo epistolare frutto di un’epoca senza religione, che deride le passioni amorose per esaltare invece la più lussuriosa corruzione della carne. In questo testo dello scrittore francese non c’è davvero scampo per i personaggi, tutti morbosamente legati da un efferato istinto di sopraffazione e morte; non c’è scampo nemmeno per quelli della nuova regia di Carmelo Rifici, la cui oppressione è acutizzata dalla precisa fissità nella recitazione, dalle soffocanti tonalità tetre e dai suoni roboanti di un’atmosfera infestata (curati con tagliente sguardo da Federica Furlani). Sul palco che è un’arena, i corpi degli attori - nei costumi che fanno corrispondere all’universo militare quello nobiliare - sono le pedine di un gioco pericoloso, che si mostra nella metafora di un duello di scherma; l’eco delle parole di René Girard «l’Uomo diventa veramente Uomo solo nella Guerra» sono il preludio funesto di un conflitto senza vincitore alcuno. Ora due giovani dal volto mascherato si fronteggiano nell’inevitabilità dello scontro, i fioretti entrano in collisione, gli slanci del corpo ne assestano i violenti colpi, creando una risonanza materica agli elementi testuali recitati. Intorno a questo combattimento di immagini, parole e suoni che ossessivamente rievocano una malattia insita nell’umano, e vero focus su cui la regia insiste, si sviluppa la vicenda: la Marchesa di Merteuil manipola con tediosa lascivia le smanie di potere del visconte Valmont; tramite il suo aiuto si vendica dell’ex-amante Gercourt e induce il visconte a corromperne la promessa sposa Cécile. Agendo sul testo, Rifici e Livia Rossi, sono osservatori attenti e partono dall’originale per riscrivere una drammaturgia integrata agli scritti di altri pensatori (da Nietzsche a Simone Weil ad Artaud): la risonanza è contemporanea e il terreno di scontro che si crea apre uno squarcio vivo, oggi più che mai necessario, tra linguaggi, idee e tempi storici. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: drammaturgia Carmelo Rifici, Livia Rossi, ricerca delle fonti Carmelo Rifici, Ugo Fiore, Livia Rossi, regia Carmelo Rifici, con (in ordine alfabetico) Flavio Capuzzo Dolcetta, Federica Furlani, Elena Ghiaurov, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto, Livia Rossi
DA LONTANO – CHIUSA SUL RIMPIANTO (di Lucia Calamaro, con Isabella Ragonese)
La fisionomia dei nostri prossimi è un territorio mutevole. La lontananza è come un agente atmosferico che erode, leviga, dissesta le forme di quel territorio, un vento fra le cose che mangia i confini, mettendo in crisi il concetto di identità. Così la domanda più semplice e radicale che ci possiamo porre di fronte all’alterità, chi-sei-tu, spesso finiamo per rivolgerla nel tono più dolente alle figure che dovremmo conoscere meglio. È possibile una risposta che non ci disorienti, che non inauguri una miriade di altri interrogativi, fino a minare il senso stesso della propria identità? Da lontano – chiusa sul rimpianto di Lucia Calamaro dà forma a questa paralisi, quando il volto messo in questione è quello di una madre. Isabella Ragonese entra in scena esitando, su una porzione bianca del palco che forse è casa, forse è una sala d’attesa, forse un interno, forse un esterno. Dietro una quinta bianca il rumore e la voce di una madre (Emilia Verginelli) distorta da una distanza imprecisata, ma tratteggiata dal tono acuto di bambina o di anziana, dal suono-memoria di una tv accesa o dall’immagine-memoria di un untissimo supplì. Isa è una psicoterapeuta in seduta con sé stessa, a convegno con la rimozione rappresentata da quella parete bianca che protegge e nasconde una fragilità. Sua madre è quella fragilità, una fragilità senza oggetto che non prende mai le forme di una biografia, ma di un rimpianto cosmico. La statura archetipale, sospesa fra realtà e sogno di questa figura si staglia ancor più netta che in altri personaggi nati dalla penna di Lucia Calamaro: tuttavia, proprio qui, l’inafferrabilità del personaggio si scontra con l’interpretazione di Isabella Ragonese, in cui il lirismo del testo diviene affettatezza e cui difetta di efficacia il registro comico connaturato alla scrittura. Finisce così sottotraccia il suo personaggio, soverchiato proprio dall’assenza perfetta della madre, tutta riassunta nel suo cimento, portato avanti durante il dialogo con la figlia, di aprire una finestra sul cielo stellato in quella stanza-al di là, oltre la parete. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro India, Roma. Scritto e diretto da Lucia Calamaro, per e con Isabella Ragonese, con la partecipazione di Emilia Verginelli, disegno luci Gianni Staropoli, costumi Francesca Di Giuliano, scene Katia Titolo, foto di Natalia Nieves Iszakovits, produzione Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini per Infinito Teatro e Argot Produzioni, in collaborazione con Riccione Teatro
EX-ESPLODANO GLI ATTORI (di Gabriel Calderón, regia Emanuele Valenti)
Un angolo bianco straborda dal sipario chiuso del Teatro Metastasio di Prato giungendo fino in platea. Emanuele Valenti, regista e interprete, apre lo spettacolo in entrambe le vesti, avanzando dalla platea e chiamando in causa lo spettatore. Il denso testo del giovane drammaturgo uruguaiano Gabriel Calderón, qui per la prima volta allestito in Italia, contiene già nel titolo un monito rivolto a chi decide di metterlo in scena. Benché si tratti di una citazione di Pepe Mujica circa l’unica possibilità di fare i conti con gli orrori del passato, racconta efficacemente l’andamento schizofrenico del testo e la richiesta che questo fa tanto alla compagine attoriale quanto al pubblico. Calderón gioca con il tempo, fa schizzare in lungo e largo i suoi frammenti e sfida lo spettatore a ricomporre un puzzle familiare tenuto insieme da poche certezze: la forza della lotta, l’irraggiungibilità del vero e la solitudine del dolore. Il background storico originario può qui essere accessorio al focus della vicenda, orientato sulle conseguenze di segreti e dolori che ogni famiglia nasconde. A muovere una narrazione non priva di umorismo è Ana (Lisa Imperatori), figlia cresciuta tra i misteri della propria famiglia e decisa ora a scoprire la verità. L’espediente fantascientifico cui spesso ricorre Calderón è qui una macchina del tempo che riporta i morti in vita e fa convergere i generi letterari e teatrali più distanti, dal realismo magico a Pirandello fino a Eduardo de Filippo (particolarmente evocato dalla provenienza di gran parte del cast di questa produzione, oltre che dalla tragedia che si consuma attorno alla tavola natalizia). Valenti muove agilmente le schegge della storia sulle gambe di sette interpreti generosi messi alla prova da un ritmo serrato che corre (con qualche sporcatura di esasperata caratterizzazione) fino all’epilogo. La forza del finale coincide con la semplicità devastante dell’assenza di una possibile risposta: il bianco abbacinante avvolge Ana e la sua solitudine, mentre da fuori arrivano i suoni di un’esplosione che forse è soltanto la vita che scorre. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Metastasio. di Gabriel Calderón. Traduzione di Teresa Vila. Regia Emanuele Valenti. Con Monica Demuru, Christian Giroso, Lisa Imperatore, Marcello Manzella, Daniela Piperno, Lello Serao, Emanuele Valenti. Scene Giuseppe Stellato. Costumi Daniela Salernitano. Disegno luci Massimo Galardini
DICERIA DELL’UNTORE (regia di Lia Chiappara)
Diceria dell’untore, romanzo pubblicato da Gesualdo Bufalino nel 1981 grazie alla lungimiranza di Leonardo Sciascia ed Elvira Sellerio, è stato oggetto di una recente riduzione teatrale diretta da Lia Chiappara e prodotta dal Teatro Libero. Ne ricordiamo brevemente il soggetto. Per Diceria si intende un racconto, una fantasticheria suscitata dall’io narrante; questi è un giovane uomo, degente presso la Rocca, sanatorio tra le alture palermitane. Qui il protagonista incontra altri malati, tra i quali Marta, ex-ballerina sensuale e ambigua, destinata a morire. La regia di Chiappara ruota tutta intorno all’incontro e alla relazione tra i due, interpretati da Gabriele Gallinari e Silvia Scuderi. Il loro rapporto si consuma nella struttura che li ospita, qui richiamata dagli arredi ospedalieri della scena. Chiappara sembra mirare a una riviviscenza delle atmosfere del romanzo, ma la sua regia sembra sbilanciarsi troppo a favore della componente letteraria del dramma. E ciò nonostante, la problematica visione bufaliniana delle cose, del complicato rapporto tra malattia e salute, repulsione e amore, morte e vita, rimane un involucro di superficie. La parola dell’autore – parola certo difficilissima, definita, a suo tempo, “barocca” – viene sciorinata dagli interpreti cedendo talvolta all’affettazione. Solo quando il confronto tra i due diviene un fatto carnale, un’intesa di corpi che si offrono e si rifiutano, la gestualità – in particolare quella di Scuderi – riesce a sciogliersi in una più viva naturalezza. Le movenze, più dell’eloquio, sono agite con disinvoltura e padronanza dello spazio, attraversato secondo direttrici fluide e dinamiche. Le belle luci di Fiorenza Dado si riverberano calde sui volti degli interpreti in movimento e in stasi, sulla loro figura e sui loro abiti in stile “novecento” (di Roberta Barrajo). È una parvenza elegante, ma forse un po’ vuota, questa Diceria. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero Crediti: di Gesualdo Bufalino, progetto e regia Lia Chiappara, con Gabriele Gallinari e Silvia Scuderi, luci Fiorenza Dado, costumi Roberta Barrajo, assistenza ai costumi Francesca Mandalà, voci Giuseppe Pestillo
NOTTUARI (regia di Fabio Condemi)
Nel mettere sulla scena un epos antico e intricato come il gotico e il fantastico e per vincere la tentazione di uno spettacolo a “effetti speciali”, il teatro ha a disposizione l’ “horror esistenziale”, in cui i demoni dell’umano manifestano in scena una veduta dell’insopportabilità del vivere.
In Nottuari, diretto e scritto da Fabio Condemi e ispirato alle opere di Thomas Ligotti, il lavoro di Fabio Cherstich fornisce un impianto visivo rigoroso e suggestivo all’idea del regista, in un complesso esperimento che tenta di tenere insieme ferrea disciplina estetica e perturbante manipolazione intellettuale.
Una bianca struttura geometrica nasconde un corridoio e da essa, avanzando in proscenio, dei moduli a “kabinet” portano in primo piano i quadri dell’azione. La drammaturgia giustappone due racconti (La Medusa, dalla raccolta Nottuario, e Comunicazione prematura, da Teatro Grottesco) legati da un meta-ragionamento sul rapporto morboso tra bellezza e orrore e sulla necessità di quest’ultimo come specchio immaginifico che protegge (o condanna) l’essere umano nel suo guardare alla morte e all’inconcepibile caducità della vita.
Nel saggio Di notte, al buio Ligotti dichiara: «[…] il racconto del mistero custodisce nel proprio nucleo una sorta di abisso dal quale il misterioso emerge, ma nel quale il misterioso non si può inseguire per analizzarlo o risolverlo». L’efficace presenza degli interpreti, l’indubbia carica visiva e certe felici intuizioni drammaturgiche tendono a perdersi, a volte, in un’argomentazione che in una sintassi estetica distribuisce la semantica del discorso senza mai davvero concedere il brivido della libera associazione o dello spericolato smarrimento. Va però detto che, se il repertorio di altre grandi voci della letteratura fantastica (come Lovecraft o Poe) è composto da saggi critici che definiscono la prospettiva sul genere e da narrazioni che la realizzano, in Ligotti sembra più che i primi intervengano a giustificare le seconde, in un’operazione autoptica non sempre vincente e spesso fatalmente autoindulgente. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro India, Roma. Crediti: ispirato alle opere di Thomas Ligotti; regia e drammaturgia Fabio Condemi; scene, drammaturgia dell’immagine Fabio Cherstich; musiche originali Paolo Spaccamonti; sound designer Andrea Gianessi; con Carolina Ellero, Julien Lambert, Francesco Pennacchia; e con la piccola Ludovica Marsilii
LE BACCANTI (regia di Giuseppe Argirò)
Dioniso è donna – scelta non inusuale, si guardi anche alla versione di Carlus Padrissa andata in scena un paio di anni fa a Siracusa – e si presenta su un gradino, unico elemento scenico al centro dello spazio, riccioli quasi biondi, leggins neri e soprabito lungo, quotidiano insomma, umano. L’allestimento visto al Teatro Arcobaleno di Roma è visivamente povero ma funzionale alla messa in evidenza del testo. La drammaturgia di Giuseppe Argirò fa a meno dei lunghi cori per agevolare l’azione e avere così uno spettacolo compatto della durata di poco più di un’ora; la regia, dello stesso Argirò, si concede solo il vezzo visibile di alcuni momenti di fumo e luci colorate, come nel primo monologo di Dioniso che ha funzione di prologo. Giacche lunghe, a quattro bottoni, che ricordano certi ambienti anni cinquanta e una musica elettronica a la Goblin sottolineano un immaginario lontano dalla Grecia antica; siamo in una sorta di Novecento fantastico, ma il minimalismo generale contrasta con l’enfasi delle sottolineature musicali. Netto e preciso però il lavoro sul testo, anche da parte degli interpreti, di tanto in tanto il Dioniso di Micol Pambieri si fa trascinare dal tono suadente e rischia di divenire enfatico. Puntuale, ricca e stentorea la vocalità del Penteo recitato da Maurizi Palladino, Cadmo (Giuseppe Argirò) e Tiresia (Luigi Mezzanotte) hanno buon gioco nel grottesco, Melania Fiore è una corifea efficace, commovente il messaggero di Silvia Siravo nel finale – in grado di assolvere proprio al ruolo tragico di colui che porta il racconto crudo della morte di Penteo ad opera della madre; proprio da Agave nel finale forse ci si aspetterebbe una profondità maggiore, una ricchezza di toni e sfumature silenziati invece nell’approccio di Silvia Arosio. La battuta di chiusura la pronuncia Dioniso: “Non avrete altro Dio all’infuori di me”, con la quale Argirò lancia una suggestione cristologica interessante e centrata che avrebbe meritato di emergere già durante lo svolgimento della tragedia. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Arcobaleno: Adattamento e Regia di Giuseppe Argirò Con Micol Pambieri e Silvia Siravo Luigi Mezzanotte, Giuseppe Argirò, Maurizio Palladino, Elisabetta Arosio, Melania Fiore, Vinicio Argirò
THE COLLECTION (coreografia di Alessandro Sciarroni)
Nel 2012 Alessandro Sciarroni aveva avviato la trilogia Will You Still Love Me Tomorrow? con Folk-s: sei performer eseguivano un pattern di danza tradizionale Schuhplattler in un loop interrotto solo dal desistere degli interpreti o degli spettatori. In un lavoro su «resistenza, sforzo e concentrazione» completato dai successivi Untitled_ (2013) e Aurora (2015), si ragionava sulla possibilità del corpo di contenere l’essenza di una pratica, da ravvivare nella pura esecuzione, nel rispetto di regole di convivenza tra azione, relazione, sguardo. E, in definitiva, gioco. Proprio qui è il nuovo senso della creazione The Collection, in cui il pattern è eseguito da dieci interpreti del Ballet de l’Opéra de Lyon. Se Folk-s proponeva nella sua semplicità un’esperienza percettiva eccezionale per performer e spettatori e faceva della durata estenuante la regola principale, qui i corpi sono formati a una precisa pratica scenica. Investiti dal gioco della ripetizione e della resistenza, sono in grado di controllare – non senza un visibile, commovente, divertente e divertito sforzo – una concentrazione sopraffina, che apre a una composizione coreografica complessa. Partitura e trama musicale sono costellate di appuntamenti chiari: cesure e asole lasciano al corpo di ballo l’opportunità di proporre e direzionare sfide, cambi di ritmo e registro. Il risultato è una relazione di gesti e sguardi che costruisce un vero campo magnetico, che incatena l’attenzione a una giostra scenica che abbraccia l’intera platea.
Al termine dell’ora e mezza di spettacolo (certe repliche di Folk-s avevano raggiunto le 4 ore di durata), il commento di una spettatrice è: «Peccato che i danzatori hanno poca libertà di esprimersi». No, signora, è proprio il contrario. Difficilmente si trovano esperimenti che con maggior chiarezza comunichino l’essenza dello stare sul palco. Qui e ora. Fino a quando dipende solo da noi. (Sergio Lo Gatto)
Visto all’Auditorium Parco della Musica di Roma per Equilibrio 2023. Crediti: Coreografia Alessandro Sciarroni; Musica Pablo Esbert Lilienfeld; Luci Rocco Giansante; Costumi Ettore Lombardi; con danzatrici e danzatori del Ballet de l’Opéra de Lyon.
FESTEN IL GIOCO DELLA VERITÀ (Mulino di Amleto)
Vincitore del premio della critica a Cannes ‘98, primo e iconico film del manifesto Dogma ‘95 (firmato da Thomas Vinterberg e Lars Von Trier), Festen segnò profondamente la nostra memoria di spettatori. Nel film di Vinterberg c'è un attimo in cui tutto crolla: Christian si fa coraggio e fa suonare il bicchiere per chiedere attenzione, dopo quel tintinnio niente sarà più lo stesso per la ricca famiglia danese. Accade anche a teatro, con l’adattamento (il primo in Italia) operato da Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi sulla sceneggiatura originale. Lorenzi, regista del Mulino di Amleto, crea due piani, uno interno al palcoscenico nel quale si muove la compagnia e un altro cinematografico, un velatino attraverso il quale possiamo vedere ciò che accade sul palco e sul quale allo stesso tempo viene proiettato il film. Una sorta di live cinema costruito grazie all’artigianato teatrale (a basso budget strizzando l’occhio proprio ai dettami di Dogma ‘95), gli stessi interpreti a turno si fanno operatori evidenziando così anche una simbologia drammaturgica: la ricca famiglia non può far altro che mettersi in mostra, come moderni mostri da social network vivono per quella telecamera, anche quando tutto crollerà, anche quando il protagonista rivelerà la storia di abusi sotterrata nell’infanzia. Probabilmente c’è ancora qualcosa da rivedere nel rodaggio attorale, in alcune scene di parossismo e isteria, o in certe scelte registiche, come i fuori palco o i momenti comici poco utili allo svolgimento. Ma è potente l’allestimento quando riesce ad equilibrare il portato teatrale con quello filmico: suggestivo e denso di attenzione proprio il momento del tintinnio, Christian (Elio D'Alessandro lavora su naturalezza e minimalismo) è in proscenio, oltre il velatino, e la camera inquadra i volti attoniti dei familiari. Quando lo spettacolo si avvita nella tragedia l’ensemble dà il meglio: negli occhi del padre (Danilo Nigrelli) al pubblico, “cosa avete da guardare”, come fosse uno sguardo in macchina e nella piccola e ferma voce della madre (esemplare Irene Ivaldi), nelle sue lacrime. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sala Umberto: tratto dal film diretto da Thomas Vinterberg, scritto da Mogens Rukov & BO Hr. Hansen versione italiana e adattamento di Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi e (in o. a.) Yuri D'Agostino, Elio D'Alessandro, Roberta Lanave, Carolina Leporatti, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca regia Marco Lorenzi
L’ARTE DELLA COMMEDIA (regia Fausto Russo Alesi)
“Qui Pirandello non c’entra niente”, asserisce il capocomico Oreste Campese (Fausto Russo Alesi) guardando dritto in faccia il Prefetto De Caro (Alex Cendron), che ha confuso la realtà per una messa in scena da Sei personaggi in cerca d’autore. Eppure L’arte della Commedia, col suo espediente dei molteplici e confusi piani della realtà, è considerato uno tra i testi più pirandelliani di Eduardo. Ma dello psicologismo da Primo Novecento del drammaturgo di Agrigento non resta che la maschera: tolta quella, c’è il realismo dell’umanità del napoletano. Campese e la sua compagnia hanno appena perso il capannone in cui si esibivano in seguito a un incendio; l’accaduto non ha suscitato le preoccupazioni delle autorità che vengono sollecitate a chiedersi quale effettivamente sia il ruolo del teatro nel nostro paese (in un chiaro richiamo alla storia personale di Eduardo). Fausto Russo Alesi mette da parte l’asfissia ambigua democristiana usata da Eduardo, e opta per elementi minimali (di Marco Rossi) che evocano enormi spazi freddi e vuoti di chiara matrice fascista. Le didascalie vengono lette da un uomo (Michele Schiano di Cola) messo sempre ai limiti fisici della finzione, in disparte tra ribalta e scenografie. Come è dichiarato dallo stesso Campese (più eccentrico di quello originale, che era mosso da una più sottile tensione), la realtà diventa finzione solo se la si percepisce così, e la vita tutta scorre nell’ufficio del Prefetto: le persone, per il gioco del dubbio, diventano tipi ma la loro disperazione, la loro ricerca di dignità è quotidiana. Gli accorati monologhi (brillante , il medico, che dimostra ancora di avere in gola e nel corpo la violenza della tragedia), che sono la cifra dell’arte dell’attore e quindi della finzione, si sviluppano, in uno spazio che si definisce reale, in quadri separati delimitati dalle luci e dagli occhi di chi si pone in disparte e osserva. La vivida maestria restituisce respiro al manifesto di un teatro che non dimentica la vita. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro San Ferdinando; Crediti: Di Eduardo De Filippo; Adattamento e regia Fausto Russo Alesi; Con Fausto Russo Alesi, David Meden, Sem Bonventre, Alex Cendron, Paolo Zuccari, Filippo Luna, Gennaro De Sia, Imma Villa, Demian Troiano Hackman, Michele Schiano di Cola; Scene Marco Rossi; Costumi Gianluca Sbicca; Musiche Giovanni Vitaletti; Luci Max Mugnai
DON CHISCIOTTE (regia R. Aldorasi, A. Boni, M. Prayer)
Scritto nel 1605, il Don Qujote è un testo che guarda fisso quello che può essere definito il contemporaneo. L’eroe decade per lasciare posto a un uomo solo con sé stesso davanti una realtà che non gli è propria. Intorno a lui prendono forma in maniera compiuta le Classi, le Istituzioni e le contraddizioni della Storia. In veste di registi, Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer non hanno dovuto fare altro che leggere. Leggere, e divertire l’immaginazione degli spettatori realizzandola. Seguire con attenzione lo scritto ha permesso che ci si cimentasse in una portentosa capacità inventiva, che ha fatto della messa in scena di Massimo Troncanetti la grande protagonista dello spettacolo. Biagio Iacovelli trova posto nella pancia di Ronzinante, e il cavallo si anima interagendo realisticamente con lo spazio circostante: qualcosa che ha a che fare con la meraviglia e l’ingegno. L’ingegno caratterizza tutto il lavoro, come l’abilità di restituire materialità la componente letteraria. La finzione (che è realtà teatrale e invenzione ed espediente narrativo) è l’esplicito strumento che ricopre l’intero spazio scenico. Una lama di luce gialla su un fondo roccioso (abilissimo il disegno di luci di Davide Scognamiglio) rimanda alla regione della Mancia. Pochissimi elementi (alberi, troni, pedane, facciate di edifici) stilizzati fino all’astrazione e manipolati dagli stessi attori, all’occorrenza servi di scena. Appeso per aria, Don Chisciotte (un Alessio Boni uscito dalle celebri illustrazioni di Doré) sogna e invoca la sua Dulcinea tra evanescenti immagini d’amore; a seguirlo il buon Sancho (meravigliosa e irriverente Serra Yilmaz) vestito del suo mulo. Ciò che il cavaliere affronta è parzialmente celato agli occhi dello spettatore (l’unica pala del mulino, oppure il gregge-esercito saraceno), perché è sufficiente che il protagonista lo nomini e lo viva affinché diventi presente. E lo spettatore, con spirito da lettore, si presta a credere che sia tutto vero. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Mercadante; Crediti: Adattamento di Francesco Niccolini; Drammaturgia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer e Francesco Niccolini; Regia Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer; Con Alessio Boni, Serra Yilmaz, Marcello Prayer, Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari, Elena Nico; Ronzinante Biagio Iacovelli; Scene Massimo Troncanetti; Costumi Francesco Esposito; Luci Davide Scognamiglio; Musiche Francesco Forni
CATTIVO (con Tommaso Banfi, regia di Giuliana Musso)
Nato dalla lettura registrata di un monologo elaborato a partire dal romanzo Cattivi di Maurizio Torchio, il lavoro autorale di Tommaso Banfi diretto da Giuliana Musso fende l’impalcatura della nostra coscienza civile e, prima disarmandola, la ricostruisce convinzione dopo convinzione, cementandola in un’etica del rispetto. Cattivo stringe il pubblico in un magone di affetto e paura per la confessione - «io ho bisogno di parlare» - di questo detenuto condannato alla «prigione della prigione», l’ergastolo in un carcere-isola. «Io voglio difenderlo» ci dice Banfi in un prezioso momento post spettacolo, ed è la difesa della dignità del criminale, della cura per la sua contraddizione di vittima e carnefice a brillare nel buio, tra l’infantilismo sentimentale e la spietatezza della sofferenza. Attraverso un’interpretazione naturalistica che si rivolge direttamente alla platea, l’attore crea un altro da sé, con movenze claudicanti, la gestualità rattrappita e poi dispiegata negli slanci di braccia agitate in un effimero moto di libertà; la mandibola portata in avanti a chiudere in una morsa la bocca, incespicando una parlata lombarda sdentata, stringendo a sé un telo di plastica verde – che è coperta, rifugio, terra e ostaggio anche - e sedendosi su uno sgabello; simboli scelti dallo scenografo Francesco Fassone per rendere la scena un vuoto pneumatico. Tanto che le minimali note musicali quasi disturbano quel silenzio che esalta la parola. «Non possiamo non leggere sui muri: “no al 41bis”, “Alfredo libero”, “assassini”» riflette Banfi insieme all’uditorio che al termine dello spettacolo si interroga sulle prerogative afflittive e criminogene del sistema carcerario, ora sollevate dall'attualità del caso Cospito. Le stesse che Cattivo, grazie all'onestà interpretativa di Banfi e alla direzione di Musso, chiarifica nella storia del rapitore e assassino, di colui che non avrebbe voluto uccidere ma lo ha fatto perché è stato condotto a farlo, a sprigionare la morte che aveva dentro, una volta uscito fuori. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo: monologo tratto dal romanzo Cattivi di Maurizio Torchio, con Tommaso Banfi, regia Giuliana Musso, adattamento testo Tommaso Banfi, dispositivo scenico Francesco Fassone, musiche Claudio Parrino sarta Chiara Venturini, residenza artistica Olinda/TeatroLaCucina Una co-produzione Compagnia ariaTeatro e La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale
PALMA BUCARELLI E L’ALTRA RESISTENZA (di Cinzia Spanò)
Siamo al Teatro Elfo Puccini, ma l’ambiente in cui ci ritroviamo è uno spazio ibrido, di fermento, di azione sotterranea, nascosto e dimesso, dove l’arte comincia a ricoprirsi di nera e granellosa fuliggine. Il palco è un raccoglitore di pochi oggetti – una torcia, lampade industriali, un busto di scultura, una valigetta, un telefono – e in lontananza si avverte l’eco di un boato, sullo sfondo di un cielo dalle vaporose nuvole grigie. Sono nuvole cariche di tragedia, si tingono di verde come indizi di un’oscurità imminente, di ombre rosse per una guerra che con i suoi bombardamenti si estenderà anche in territori ai margini del conflitto. Cinzia Spanò è l’elemento catalizzatore di questa scenografia (curata da Saverio Assumma De Vita): regista e protagonista dello spettacolo, nelle vesti scarlatte di Palma Bucarelli è la direttrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma, figura che ha operato di nascosto come “altra resistenza” per mettere in salvo le opere d’arte dalle traiettorie distruttive della Seconda Guerra Mondiale. Di lei, l’attrice assorbe l’assoluta risolutezza, lo sguardo intenso e vigile, la voce modulata da note profonde e vigorose, per passare in rassegna le delicate fasi della salvaguardia del patrimonio artistico italiano. Il risultato è un tessuto documentario che ha il compito di ricostruire una narrazione a partire dall’oggetto dei suoi frammenti. Si tratta di un preciso esercizio di recupero: dei materiali video e cartacei, ma anche dei sostrati simbolici, in quanto riscatta il potenziale di riemersione di un personaggio femminile a partire da una memoria storica convulsa e stratificata che privilegia, da sempre, il nome di grandi uomini. Come terzo capitolo di una serie di ritratti teatrali, Palma Bucarelli e l’altra resistenza è la fedele restituzione di una storia individuale che plasma un patrimonio collettivo (una storia attuale e non ancora narrata). Eredità di un’arte eterna che proviene dalla vita e ad essa sempre vi ritorna. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di e con Cinzia Spanò, liberamente ispirato a fatti realmente accaduti, aiuto regia Valeria Perdonò, allestimento tecnico Giuliano Almerighi, video Francesco Frongia, sound designer Alessandro Levrero, scene e costumi Saverio Assumma De Vita, valzer in A Minor Roberta Di Mario, produzione Teatro dell’Elfo. Foto di Laila Pozzo
L’ARTE DELLA RESISTENZA (di Barbe à Papa)
Lo Spazio Franco di Palermo ha ospitato L’arte della resistenza, ultimo atto della trilogia Generazione Y, creata dalla emergente palermitana Barbe à Papa. Come risulta da comunicato, la compagnia torna in città dopo una tournée nazionale ed estera (inclusa una tappa al Festival Off d'Avignon lo scorso anno), portando in scena, ancora una volta, disagi psichici e professionali della complicata generazione che adesso si trova a compiere, o a superare, i trentanni. Complicata per motivi esogeni, strutturali, legati a una recessione economica troppo imprevista; ma anche per un’endogena difficoltà a ripensare aspettative e abitudini non sempre – anzi, quasi mai – compatibili con l’attuale costo del lavoro. I Barbe à Papa dunque portano sul palco queste ambivalenze, partendo dalla propria personale esperienza di attrici e attori per raccontare, attraverso se stessi, un mondo che non sembra avere lo spazio e la volontà di accoglierli. Sulla scena Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano, sotto la direzione di Claudio Zappalà (autore dello spettacolo), sono affiatati, sicuri di cosa fanno. Ci credono e ci convincono. La scrittura si compone di differenti fasi: un momento di prove, prima dello spettacolo; una festa di fine anno; una sorta di rito nel quale non si comprende, in fondo, se a venire sacrificate siano le speranze o la voglia di arrendersi. Ma il punto è un altro. Le interpreti e l’interprete sono certo in grado di potere offrire qualcosa in più, un racconto che vada oltre la rappresentazione del disagio generazionale. La compagnia ci dice: Generazione Y è solo una fase iniziale, la creazione di un’identità. Bene, ma bene nella misura in cui riusciamo a pensarci adulti. Qual è la maturità dell’attore, dell’attrice, oggi? Ora più che mai, in un mondo di storie autoriferite, narrarsi attraverso personaggi altri, tornare a offrire al pubblico un dramma che sia realtà fittiva, e dunque vera, verissima. Barbe à Papa è nelle condizioni di farlo, di fare teatro. «Metteremo mano a Cecov», dice Chiara, alla fine dello spettacolo. Ottimo.
Visto allo Spazio Franco. Crediti: uno spettacolo di Barbe à Papa Teatro, testo e regia di Claudio Zappalà, con Chiara Buzzone, Federica D’Amore, Totò Galati, Roberta Giordano e con la partecipazione in voce di Elvio La Pira, disegno luci e direzione tecnica Nathan Tagliavini scene e costumi Barbe à Papa Teatro, produzione: Barbe à Papa Teatro, in collaborazione con: Spazio Marceau e C.T.M. Centro Teatrale Meridionale
L’ARTE DELLA FUGA (di Mauro Astolfi)
È un teatro strapieno di un pubblico generoso quello del Teatro Comunale Città di Vicenza, al debutto assoluto del nuovo lavoro di Mauro Astolfi, L’Arte della Fuga per la Spellbound Contemporary Ballet, primo appuntamento di Danza in Rete Festival. In circostanze come queste si percepisce forte la situazione felicemente dinamica della danza nei teatri italiani (sarà difficile, quindi, trovare alibi ai mercanti di sventura). La partitura scelta da Astolfi è Die Kunst der Fuge di J. S. Bach (BWV 1080), opera incompiuta e senza destinazione strumentale (ora sembra acquisito fosse per clavicembalo). Qui la si ascolta limpida e modernissima, tra pianoforte e gruppo strumentale con appropriati inserti cantati, e gli efficaci interventi originali di Davidson Jaconello. La scena è dominata da alcune cupe e imponenti pareti, mobili e scomponibili, che in qualche modo dettano il tempo della crisi, della disfatta delle presenze che animano la scena, nonmeno del tempo della fuga e del mimetismo negli interstizî o nelle incrinature di un tale assedio. Una fuga non solo spaziale, ma anche dagli abiti che costringono il corpo, dagli oggetti che catturano le anatomie, dalle presenze perturbanti che divorano. Il progetto compositivo di Astolfi resta però irrisolto in una duplice tensione. Ossia, tra una necessaria intensificazione drammaturgica (ancóra esile e non dirimente: il tappeto/prato verde arrotolato portato dalla platea sul palco, all’inizio, che solo alla fine si srotola, vittorioso, in un difficile varco tra i muri, come un’isola di natura che accoglie e salva). O invece una più disseminata astrazione, in una gestualità già molto matura, in termini di stile e di segni, estremamente nervosa e veloce, che potrebbe sperimentare un’intera performance di fughe nella bella qualità e continuità di movimento dei nove incredibili interpreti. Vi è una declinazione ‘ascetica’ nella scelta di Astolfi di quest’opera bachiana, ma di nuovo è nei corpi (non nei simboli) che Bach si trasforma in un atto di resistenza. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Comunale di Vicenzacoreografia Mauro Astolfi interpreti Lorenzo Capozzi, Alessandro Piergentili, Miriam Raffone, Maria Cossu, Mario Laterza, Giuliana Mele, Mateo Mirdita, Anita Bonavida, Martina Staltari assistente alla coreografia Alessandra Chirulli musica J. S. Bach musica originale Davidson Jaconellodisegno luci Marco Policastro set concept Mauro Astolfi, Marco Policastro produzione Spellbound coproduzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza e Fondazione Teatro Comunale di Modena
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