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Cordelia - le Recensioni

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QUELLO CHE NON C’È (di Giulia Scotti)

Ci sono dolori nelle famiglie che non ci sono nelle nostre vite, li ereditiamo perché cresciamo coi ricordi di chi li ha vissuti, e ancora li vive, ma non ne abbiamo esperienza diretta: l’esperienza è più dolorosa, quindi più vera? Cos’è un’esperienza se non sono io a farla? Quando «quello che non c’è» appartiene al passato, e noi viviamo nel presente, è necessario cercare degli appigli narrativi per fare entrare quella storia lì nella vita di qui. L’autrice, attrice e fumettista Giulia Scotti si pone queste domande ed è alla ricerca di questo “raccordo” in Quello che non c’è, che già nella sua anteprima si poggia su una materia potente di senso, che proviene dall’autobiografia ma sin dalle prime battute viene “allontanata” dal sé per farsi intimità collettiva. Per parlare di un dolore preciso, Scotti inizia raccontandone altri: di un fratello caduto in un precipizio, di una giovane protesta che si impone il digiuno, e poi ci presenta la storia di Daniela. Nebulosa e ancora fragile, la scrittura scenica si esprime però attraverso le proiezioni della nettezza bianco nera dei suoi fumetti: la definizione grafica, e simbolica, di spazi, oggetti, momenti, viene macchiata di un rosso acceso, conturbante. Coi disegni, l’autrice ci si relaziona, li aspetta apparire sullo sfondo, li guarda, li tocca, e con la sua voce, e quella dello zio registrata in voice over, ci entra in contatto. Una vischiosità virtuale in cui il suono di Lemmo funge da veicolo e si fonde alle parole di Scotti, dette secondo quel fare un po’ post drammatico, un po’ già sentito che sembrerebbe proprio non appartenerle, e che deve ancora trovare una sua cifra autonoma. Nella rarefazione di un progetto illuminato da squarci più decisi, intravediamo la fierezza di sguardo di Giulia, il tono di voce esplicito che saprebbe tuonare con risolutezza; elementi che aspettano un’ulteriore messa a fuoco perché ancora nascosti sotto un cappuccio e ostacolati da un microfono tenuto troppo vicino. (Lucia Medri)

Visto in anteprima assoluta a Primavera dei Teatri, Teatro Sybaris: di e con Giulia Scotti, collaborazione al progetto Andrea Pizzalis, consulenza Alessandra Ventrella, disegno luci Elena Vastano, suono Lemmo, coproduzione Tuttoteatro.com, residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t. Foto di Angelo Maggio

SBUCCI (Gli Omini)

Come arriva la rabbia? Nasce con noi o appare a un certo punto? Come riesce a prendere il sopravvento su tutto il resto? Che cos’è una macchina della gioia? “Sbucci” non è un’indagine sull’uomo, né la sua caricatura; gli sbucci sono le prime ferite, quelle da cui ognuno di noi si è rialzato, chi piangendo, chi con fierezza, orgoglioso di portare addosso, su gomiti e ginocchia, i segni delle prime battaglie. Sono stati gli sbucci a dare l’incipit alla nostra strategia di sopravvivenza. La compagnia pistoiese, che con questo spettacolo chiude la stagione Agorà 23-24, ha scelto di ripartire dall’infanzia attivando una serie di laboratori nelle scuole elementari e chiacchierando con i bambini e le bambine per calarsi, di nuovo, nei loro panni. Facendo un balzo all’indietro verso l’infanzia, proseguendo a ritroso fino ai primi atterraggi sui ginocchi, Gli Omini restituiscono un’immagine limpidissima del pensiero “bambino” che ci descrive – noi, tutte le generazioni precedenti – con disincanto, senza retorica. Questi esseri umani, che noi percepiamo senza futuro, si confrontano sulla scena con dei robot di cartone, scatole magiche e aliene, che producono per lo più interrogativi sulla specie umana ma che, con inaspettata empatia, rispondono ai desideri dei piccoli offrendo loro la possibilità concreta di veder realizzate aspettative e immaginazioni. Così dalla bocca di un grande Bobi – robot gigante che domina la scena – vengono fuori personaggi come la “Mama” cioè la versione femminile del Papa, o una grande e sguaiata cicogna con la sindrome di Peter Pan. Bobi non giudica mai, guarda con curiosità allo srotolarsi di emozioni contrastanti dei bambini e delle bambine; su tutte la più importante pare proprio la rabbia, quella che a un certo punto della vita arriva e fatica ad andare via. Ma anche la perplessità rispetto alla vita degli adulti. Sbucci è un palcoscenico per la prossima generazione, è un vastissimo mondo dei sogni e delle paure in cui possiamo specchiarci, è l’antologia dei sentimenti che abbiamo provato e ci fanno sentire tanto lontani dai piccoli che hanno il potere di farci ritornare, finalmente, vulnerabili. (Silvia Maiuri)

Visto alla Sala Giulietta Masina di San Giorgio di Piano (BO)– Crediti: Una produzione de Gli Omini con il sostegno di Teatro Metastasiodrammaturgia Giulia Zacchini con Francesco Rotelli e Luca Zacchini

ERETICI. IL FUOCO DEGLI SPIRITI (di Matthias Martelli)

«Eresia» significa, in senso etimologico, «scelta». È attorno al principio di autodeterminazione, dunque, che si gioca la partita di Matthias Martelli, di nuovo alle prese con la lezione di Dario Fo, con quella «letteratura corporea» che si radica nella tradizione giullaresca del Medioevo. Stavolta è accompagnato, sulla scena sgombra, da tre donne (Laura Capretti, Flavia Chiacchella e Roberta Penta), cantanti a cappella ma anche interpreti, persuasive nella loro adesione appassionata alla medesima idea di corporeità: leggibile, scandita e profonda. La scelta di lavorare sulle eversioni – sulla fiamma che ha agitato, in tutte le epoche, gli «spiriti liberi», da Galileo Galilei a Julian Assange – mostra, proprio per la sua trasversalità, una premessa un po’ sacramentale e un po’ didattica, un proposito di reductio ad unum toccante ma sospetto. Ci troviamo di fronte a un’eredità, quella di Fo, e a una “militanza”: entrambe tentano di smarcarsi dai rischi inscritti nei presupposti (anacronismo, ingenuità, andamento esplicativo) attraverso il primato del corpo, la sua “smisuratezza” e la sua sintesi. A correggere la retorica impura della verità (oggi che anche la possibilità di sedersi dalla parte del torto appare integrata all’egemonia mediatica, e dunque parte del torto stesso) interviene la verità del corpo. È ancora il corpo, luogo delle istanze incarnate (nell’accezione di mutate in carne), e del «gestuare», che si fa portatore dell’eresia, della supremazia della scelta. Il corpo dipinto (per Paolo Veronese, Michelangelo, Caravaggio), il corpo nella sua rivendicata possibilità sensoriale (l’occhio di Galileo che fissa la teoria eliocentrica), il corpo magniloquente e quello profanato, il corpo “cassa armonica” dell’oggettività o della denuncia (la lingua di Giordano Bruno, il polpastrello di Assange). Oltre i pericoli della generalizzazione (tanto della figura del martire, quanto di quella dell’aguzzino), permane un sentire che appare innocente – la platea estasiata valga qui come metafora – tanto ampio da essere ormai, per paradosso, pacificato. Dunque ora siamo davvero capaci di applaudire gli eretici? E, se sì, vale per tutti o soltanto per quelli “canonizzati”, dalla storia o dalla cronaca? Sediamo ormai tutti dalla parte del torto, commossi, a distanza di sicurezza. (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Cucinelli, Solomeo – Crediti: di e con Matthias Martelli; e con Laura Capretti, Flavia Chiacchella, Roberta Penta; regia Matthias Martelli;

LO SCIAME (regia di Dario Costa)

Spin Time si conferma una casa, in tutte le più nobili e pratiche accezioni. È una casa per oltre 150 famiglie, per i migranti che necessitano di supporto e orientamento, per i collettivi e le assemblee, per le comunità artistiche giovani o meno giovani che hanno bisogno di spazio e, dopo le prove, di “provare” lo spettacolo davanti al pubblico. Così è stato per il nuovo progetto di Dario Costa, Lo sciame, basato sul testo originale di Aurora Di Gioia, dal sottotitolo storia di un fallimento. Sembra di stare in una scatola: una bici fissata alla parete, ai lati armadietti e panche di uno spogliatoio, davanti una tv a tubo catodico, in alto uno schermo su cui verrà proiettato il testo, che leggeremo nella sua forma “da pagina”, privo dell’interpretazione umorale istintiva dell’attrice e dell’attore, che invece ascolteremo. Elena (Giorgia Narcisi) è una ciclista perché il padre è stato solo un «prosciuttaro» romano con la passione per le due ruote, Antonio (Andrea Zatti) è il suo coach, sognava di essere il nuovo eroe del ciclismo e invece è rimasto solo un gregario. A questo nucleo, si aggiunge una drammaturgia sonora ottundente – di sciami, appunto, che come fastidiosi ricordi interferiscono nei dialoghi, e del voice over della telecronaca che proviene dalla tv – una drammaturgia visiva, con proiezioni di paesaggi, spot pubblicitari e un video emotional finale, e diremmo anche una drammaturgia fisica gestuale fatta di continui cambi di costumi e scarpe, forse troppi, e merendine scartate e ingurgitate. Serve indubbiamente una limatura di tutti questi elementi, un ritmo più sostenuto che rispetti la concitazione della corsa, e anche un maggior rigore nel portare la voce, a volte è troppo bassa e si perdono gli scambi di battute. C’è però una reagente grana emotiva nei due personaggi, la quale, se alleggerita dalla drammaturgia scenica, può guadagnare in nettezza e trasparenza facendo risaltare quegli accenni, ancora basilari e ancora poco consapevoli, di “epica ciclistica”.

Visto a Spin Time: Regia Dario Costa, Testo Aurora Di Gioia, Con Giorgia Narcisi e Andrea Zatti. Una coproduzione Spin Time. Foto di Enrico Giansanti

LA SPEDIZIONE PERDUTA (di e con Alessia Giovanna Mastriciano)

Partiamo dalla fine e non sarà uno spoiler: sono tutti morti i 129 membri della spedizione Franklin, per cui nel 1845 le navi della flotta britannica, Erebus e Terror, partirono per la prima esplorazione del passaggio a nord-ovest, rotta navale che collega gli oceani Atlantico e Pacifico attraverso l'arcipelago canadese nel Mar Glaciale Artico. Sia la Erebus che la Terror rimasero bloccate nei ghiacci e i loro relitti sono stati ritrovati solo nel 2014 e 2016. L’autrice e attrice del monologo documentario, Alessia Giovanna Mastriciano, ci racconta a fine spettacolo che la curiosità le è nata leggendo un articolo in cui erano mostrate le foto delle mummie dissepolte e quasi intatte per via dell’ibernazione, immagini in rete ora oscurate per non urtare la sensibilità. Ma ciò non fa che aumentare la fascinazione per un fatto storico realmente accaduto che sembra nato però da un romanzo ottocentesco e che rappresenta quella sete di scoperta e sfida del pericolo incarnate dall’essere umano, quella condanna del fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza, tema sul quale poggia infatti il testo originale dello spettacolo. Anche se programmato nei musei a fini didattici e divulgativi, lo spettacolo è più una traduzione simbolica del fatto storico - costruita per oggetti, una boule di vetro, un modellino di una nave, la sabbia, la pece – con finte testimonianze video del capitano e esploratori, perfette nei chiaro scuri aranciati a coprire i volti evidenziando i lineamenti e gesti. Le vicende storiche si diluiscono nella voce recitante di Mastriciano, un po’ naive nei toni ma tuttavia adatta nell’interpretare un testo costruito su una metrica poetica incantata, suggestiva nelle immagini evocate, nella descrizione dell’ambientazione, nell’interpretare i pensieri di questi uomini e i loro ricordi familiari, che si enunciano con stupore, paura e poi orrore, facendo emergere attraverso le parole l’horror vacui della solitudine (Lucia Medri).

Visto al Teatro Trastevere per Inventaria 2024: di e con Alessia Giovanna Matrisciano, musiche originali Marco Olivieri, videointerventi a cura di Luca Travaglini, in video Alessandro Giova, Dimitri D'Urbano, Michele Daini, Francesco Guglielmi, Giuseppe Mortelliti, Giacomo de Rose, Elena Contrino. Foto di Grazia Menna

TUTTA LA VITA DAVANTI 2024

C’è un festival che dallo scorso anno tenta di farsi luogo di ascolto per la generazione dei venti/trentenni: con la cura artistica di Alice Sinigaglia tutta la vita davanti, prodotto a La Spezia dagli Scarti, si fa comunità per dare un’occhiata  dell’arte e per condividere, palcoscenici, platee, musica, chiacchiere e un tavolo da ping pong. Anche quest'anno una tavola rotonda è stata il baricentro dei due giorni in cui giovani artiste e artisti critici e critiche, operatrici e operatori hanno interloquito rispondendo anche alle riflessioni di qualche quarantenne. Dopo il dibattito dello scorso anno sulle questioni politiche e materiali il nodo si è spostato sulla poetica. Gran parte degli artisti intervenuti convergono sulla mancanza di necessità  nel categorizzare il proprio lavoro, nel definirlo rispetto al passato, è una generazione che non ha bisogno di creare strappi, di uccidere padri o madri, maestri o maestre. Sono autrici e autori che tengono in gran considerazione il pubblico, forse talvolta hanno troppa paura di perderlo, non si sentono avanguardia, non parlano di esplorazione radicale dei linguaggi, ma surfano tra il post drammatico, la stand-up comedy, la performance urbana, i linguaggi del video e della multimedialità, la musica dal vivo, la poesia e la narrazione, il teatro di figura. Non sono l’ennesima new wave, non stilano manifesti ma tessono alleanze. Di alcuni degli spettacoli visti avevamo già scritto, è il caso di Suck My Iperuranio di Giovanni Onorato e Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso del Gruppo della Creta, gli altri li attraversiamo ora per la prima volta. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero

SWAN (di Gaetano Palermo)

A Venezia, dove la performance di Gaetano Palermo ha debuttato nel 2023, prodotta attraverso il bando della Biennale dedicato alle opere site specific, gli sguardi erano anche dei turisti, dei cittadini; a La Spezia invece c’è l’incontro di almeno due comunità, quella del festival (composta dal pubblico, dai professionisti, dalle artisti e dagli artisti) e quella composta da qualche famiglia, donne, probabilmente bengalesi con i propri figli che giocano. Qualcuno si affaccia anche dalle case che circondano il campetto rosso di Fossitermi. Una giovane donna (Rita di Leo) si sistema i pattini, l’abbigliamento e le cuffie, su una panchina, ancora nessuno si accorge di lei, poi si alza e comincia a danzare percorrendo lo spazio del campetto rosso. La performer stringe tra le mani uno smartphone con il proprio cavalletto, talvolta lo sistema a terra e si lascia riprendere mentre esegue i suoi volteggi. Immaginiamo che la sua possa essere una performance live, per un pubblico altro, quello dei suoi follower, oppure un lavoro ossessivo per avere i migliori frammenti da montare in un video pensato per tik tok. Palermo ha strutturato l'opera e a partire dall’assolo La morte del cigno che Michel Fokine coreografò per Anna Pavlova nel 1901. Il cigno d’altronde è una trasformazione dell’umano e anche qui è presente un’interferenza nella realtà: la pattinatrice ha un viso strano, come fosse una pelle più spessa del normale, forse una maschera, si comprende meglio quando si avvicina al pubblico. Da un certo momento in poi la danza verrà interrotta dal suono improvviso degli spari. La pattinatrice/cigno ogni volta cade, poi si rialza, lentamente il ventre si insanguina, ogni volta alcuni dei bambini stringono le mani alle orecchie. Assistiamo inermi, mentre il sound di Luca Gallio avvolge lo spazio di ulteriore inquietudine e non basterà lo svelamento, attraverso la rimozione della maschera e della parrucca, mentre echeggia la celebre hit pop, a salvarci da quel senso di fallimento e di colpa, la colpa di essere solo spettatori. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. Di Gaetano Palermo con Rita Di Leo sound design Luca Gallio direzione tecnica Luca Gallio assistenza e cura Michele Petrosino organizzazione e distribuzione Arianna Di Bello amministrazione KLm – Kinkaleri, Le Supplici, mk prosthetics Crea Fx produzione La Biennale di Venezia con il supporto di Casa della cultura Italo Calvino, H(ABITA)T – Rete di Spazi per la Danza, Associazione QB Quanto Basta progetto vincitore di Biennale College Teatro – Performance Site-Specific e di Danza Urbana XL

PERSONNE. CHRONIQUES D’UNE JEUNESSE (di Ugo Fiore e Livia Rossi)

C’è uno spazio bianco, pulitissimo e asettico, sulla parte di sinistra, in profondità è seduto in terra, sul bianco linoleum Ugo Fiore, autore e interprete di questo spettacolo vincitore della scorsa edizione di Forever Young, il concorso indetto dalla Corte Ospitale per accompagnare la produzione di nuove opere. Sulla sinistra, più vicina al pubblico Federica Furlani suona il theremin e creerà le atmosfere sonore di una fiaba per adulti in cui lentamente l’oscurità si mangerà anche il bianco della scena, anche il sorriso un po’ obliquo del protagonista. Ugo Fiore è un artista italo francese trentatreenne che insieme a Livia Rossi ha tratto dalla propria esperienza un dramma autobiografico ambientato nell’infanzia francese, tra le anguste stanze della casa familiare. Sul fondale le immagini della vecchia casa vengono montate con la prospettiva e il ritmo di una soggettiva animalesca, quella del ratto. D’altronde la narrazione si apre con frammenti di filastrocche, un po’ in italiano e un po’ in francese e poi con una variazione del classico C’era una volta, che qui diventa immagine suggestiva e inquietante: «Tanto tempo fa, quando i mostri esistevano solo nelle storie, nella periferia di una grande città, in Francia, c’era una bellissima casa. La mia.Il portone di quella casa somigliava al portone di un carcere. Era una frontiera, che divideva due mondi.». La prima persona di Fiore procede come un una torcia accesa in un passato oscuro, lentamente e con la gravità sospesa di qualcosa che sta per accadere, che deve accadere:  i giochi con il fratello, un vicino di casa immaginato come uno stregone e poi quel bagno del parco che ogni tanto torna, come frammento di un’immagine più inquietante che verrà dissotterrata successivamente, dopo anni, in un racconto al padre (il testo è bellissimo anche solo da leggere). E poi quel finale in cui viene raccontato l’incontro di questo bambino di 11 anni con un adulto e il sesso: il bambino non tenta di scappare, è affascinato, suggestionato, manipolato e forse solo l’adultità gli darà coscienza della violenza subita.

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. di Ugo Fiore e Livia Rossi drammaturgia Livia Rossi con Ugo Fiore e Federica Furlani progetto sonoro Federica Furlani disegno luci Giulia Pastore consulenza alle scene Paolo Di Benedetto scene realizzate da Laboratorio di Scenografia “Bruno Colombo e Leonardo Ricchelli” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa produzione La Corte Ospitale co-produzione Proxima Res con il sostegno di MiC e Regione Emilia-Romagna Spettacolo vincitore Forever Young 2021/2022 – La Corte Ospitale

CIAK SI GIRA, LA VITA È UNA TORTURA (di C. Rossi, E. Rosselli)

Gruppo Uror, ovvero Caterina Rossi ed Evelina Rosselli, avrebbero dovuto portare a La Spezia il loro bellissimo Rosso visto a Contemporaneo Futuro, ma a causa dell'indisponibilità di un’attrice (Rebecca Sisti, impegnata in un’altra tournée) hanno rilanciato con una nuova proposta: uno spettacolo più piccolo per mezzi e lunghezza, che dispiega una tavolozza di colori, segni e temi apparentemente lontana da quella riscrittura dark della favola di Charles Perrault. Le due autrici e performer qui allestiscono la rappresentazione di una trasmissione podcast che è sia parodia di un certo mondo radiofonico sia demenziale accoglienza di alcune contraddizioni del nostro presente. In scena due sedie, un tavolino con mixer e strumentistica per musica ed effetti pronti all’uso, dietro di loro campeggia la scritta un po' pacchiana e illuminata Good Vibes. “Ciak si gira vita è una tortura”, canta allegramente il jingle perfettamente intonato dalle due. Il tema è quello del disagio, della sofferenza e attraverso un ribaltamento comico le due conduttrici sorridono alle torture a cui le nostre vite sono sottoposte quotidianamente. Non manca l'invenzione di una pubblicità, che altro non può essere se non l’ennesimo ritrovato farmacologico per perdere peso. Come ogni trasmissione radiofonica che si rispetti c’è anche lo spazio per alcune ospiti: l’esperta di amori catastrofici che risponde alle telefonate di cuori torturati e solitudini eterne sempre con lo stesso consiglio, quello sostanzialmente di preferire un cane a una relazione umana; c’è una mental coach, dallo spiccato accento americano, che insegna la cattiveria gratuita per liberarsi dallo stress. Si ride, con intelligenza, una punta di cinismo e si rimane anche affascinati dalla presenza scenica, anche solo se seduta, di queste due artiste, per il loro trasformismo, per i loro talenti così limpidi e per quella capacità di incarnare l'artigianato del teatro di figura, tra maschere e pupazzi, antichi eppure modernissimi.

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. Intervento ironico registico di gruppo UROR con Caterina Rossi, Evelina Rosselli ( gruppo UROR ) realizzazione maschere e marionette Caterina Rossi con il sostegno di PAV

UN HORROR DEDICATO A MAMMA E PAPÀ (di Niccolò Fettarappa)

«Mamma, siediti vicino a me, ho paura!». Il titolo non andrebbe preso alla lettera. Forse. «Ma non faceva paura», ha detto poi la piccola spettatrice con le codine. «A me sì», ha risposto la mamma tra i denti. La scrittura ormai riconoscibile di Niccolò Fettarappa nel suo tratto sagace e penetrante ripropone una altrettanto riconoscibile dinamica scenica che ha il suo vertice appuntito rivolto alla platea. La famiglia sembra essere una tappa inevitabile nel percorso drammaturgico di Fettarappa (o forse solo un lapsus?), non tanto per il carico tematico sempreverde, ma come specchio – sempre distorto e disturbante – di un discorso allargato a una generazione disgregata, ancorata a valori deformati, aggrappata a certezze insulse, smarrita. In quello che si presenta come primo studio “sulla nausea di nascere”, Lorenzo Guerrieri e Maria Anolfo sono mamma e papà di un figlio silente, spettatore pescato in platea e portato di peso sulla scena (Filippo Amatiste). Sono tre solitudini obbligate dal vincolo famigliare ad occuparsi dell’altro, attraversando le dinamiche spietate della crescita: i risultati scolastici, la competizione con i coetanei, le foto ricordo, le carriere supposte. Il dialogo è un perenne monologo, violento come solo gli affetti di sangue sanno essere, in un’altalena ossessiva che oscilla tra amarezza e tenerezza, spietatezza e umanità. Non c’è redenzione, non c’è una morale, non c’è speranza, non c’è il futuro: c’è l’esistere, un sadico gioco con la morte che è meglio imparare presto, tanto prima o poi tocca gestirlo. In un palleggio allucinato eppure consapevole, sotto gli occhi aperti e innocenti del figlio, Guerrieri e Anolfo rappresentano con efficacia l’involucro del ruolo genitoriale portato alle sue estreme conseguenze: un vestito che è d’obbligo indossare e che impone una serie di movenze, attitudini, posture. Pur indugiando a tratti nel suo stesso gioco, la scrittura si regge su ciò che nasconde, lasciando trapelare nonostante tutto un calore imperfetto, una flebile luce: una realtà disastrata, ma pur sempre, spietatamente umana. (Sabrina Fasanella)

Visto al teatro Centrale Preneste nella rassegna YOU- The Young City – You under 35. Di Niccolò Fettarappa. Con Maria Anolfo, Lorenzo Guerrieri e la partecipazione speciale di Filippo Amatiste. Compagnia Bruttipensieri

LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI (di Joseph Roth, regia Giacomo Pedini)

Nella koinè transfrontaliera inaugurata da Mittelfest nel 1991 arriva come anteprima all'edizione 2024 la regia del direttore artistico Giacomo Pedini, che discute l’identità meticcia di questo festival. Ne La cripta dei cappuccini (1938) il cantore della Mitteleuropa Joseph Roth tenta una summa del transito dalla vecchia alla nuova Europa: il disgregarsi dell’Impero Austro-Ungarico, il sanguinoso strisciare nelle trincee della Grande guerra, fino all’Anschluss, atto finale delle glorie asburgiche e fondazione del nuovo disastro che avrebbe riorganizzato il mondo. A portarne il peso, come epico testimone, è Trotta, umili origini nobilitate da un atto d’onore, interpretato da un malinconico Natalino Balasso. Come un corpo astrale attraversa il vissuto e insieme lo commenta infilando in tasca le mani, con voce piccola che mastica l'amaro. La scena è una fatiscente giostra che, girando, mostra i set d’ambientazione; la pigra velocità di rotazione fa da contrappunto alle scene: in quasi quattro ore di spettacolo il ritmo non subisce quasi variazione; il mondo pare incastrato tra passato e futuro, in un affresco estremamente terreo dove si muovono personaggi colorati dai costumi d’epoca e da una recitazione oleografica non sempre semplice da condurre e sostenere. Al monito furioso di Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità (1922) Roth preferisce la forma del requiem: la guerra è una tempesta osservata da lontano e da cui si è al sicuro, non foss’altro perché si è già morti dentro. Ma vi assistiamo con occhi e orecchie di oggi, foderati di narrazioni inattendibili che ci scagliano via dall'evento. Si avverte certo la celebrazione di microstoria locale (lo spettacolo è sostenuto anche da Gorizia/Nova Gorica 2025) e però anche la perizia con cui Pedini affonda in un immaginario che gli è caro, restituendo, in una resa a tratti statica, il ragionamento sulla letale letargia della Storia specchiandolo in quello odierno, tra terremoti internazionali e speranze nella “certa idea d’Europa” steineriana, alla vigilia del nuovo Parlamento. (Sergio Lo Gatto)

Visto a Teatro Verdi Gorizia. Crediti: traduzione Laura Terreni; adattamento Giacomo Pedini e Jacopo Giacomoni; regia Giacomo Pedini; dramaturg Jacopo Giacomoni; musiche Cristian Carrara eseguite da FVG Orchestra; scene Alice Vanini; costumi Gianluca Sbicca e Francesca Novati; luci Stefano Laudato; suono Corrado Cristina; con Natalino Balasso; e con (in o.a.) Nicola Bortolotti, Primož Ekart, Francesco Migliaccio, Ivana Monti, Alberto Pirazzini, Camilla Semino Favro, Giovanni Battista Storti, Simone Tangolo, Matilde Vigna;

IL RIFORMATORE DEL MONDO (di Thomas Bernhard, regia Leonardo Capuano)

Un testo, anche un grande testo, non esiste se non in scena. E per questo ci vogliono gli attori, meglio quando sono grandi attori. Anche se il testo è Il riformatore del mondo di Thomas Bernhard. Perché senza la fragile, puerile tracotanza di Leonardo Capuano, qui anche regista, o la minuta cura dai gesti antichi di Renata Palminiello, di un’intensità scultorea, quel testo non sarebbe stato lo stesso, sarebbe rimasto pagina appena detta, non vissuta appieno come invece quella sera al Teatro Fabbricone. L’uomo entra nel buio, la sua veste bianca è bagnata di luce (da Gianni Staropoli) mentre dondola come un acrobata sugli anelli; ma se questo è un prologo, nella vicenda sconta un’immobilità, o almeno così sembra pur dando l’impressione che non muoversi sia una scelta, o un vezzo, più che una necessità; è lui il Riformatore che presto, quella stessa sera, riceverà il maggior onore: la laurea honoris causa, merito del suo magnifico testo, appunto, per riformare il mondo. La donna è serva e amante, mai moglie, il suo corpo sembra non essere corpo ma si muove con una qualità da strip comica, tratteggia la scena avvicinando lati e angoli con le sue azioni, gestisce la relazione del Riformatore con lo spazio intorno – tre cassapanche perimetrali sotto i grossi finestroni, un lampadario antico appeso in alto, una poltrona enorme e un’altra, piccola – dà l’impressione di seguire le sue indicazioni e invece le determina con una sapienza che appare svagata ma non è. Il legame tra i due, molto simile a quello che Samuel Beckett definì tra Ham e Clov nel suo Finale di partita, ha un presente ma, allo stesso tempo, ha un evidente passato: c’è un’usata consuetudine tra i due, si nota dai gesti semplici con cui lei si tocca l’abito, con cui porta degli oggetti in scena, si nota dalla dolce canaglieria in cui lui scioglie la sua apparente misantropia. “Chi soffre non è tenuto a rispettare l’etichetta”, dirà questo re di un regno perduto, diseredato in un tempo precedente, che ha bisogno, per sopravvivere, che il suo regno sia narrato, signore di un dolore mascherato. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Thomas Bernhard; traduzione Roberto Menin; regia Leonardo Capuano; con Leonardo Capuano, Renata Palminiello; con le voci di Andrea Bartolomeo, Andrea Macaluso e Mariano Nieddu; aiuto regia Andrea Bartolomeo; assistente ai movimenti di scena Paola Corsi; sound designer Francesco Giubasso; scene e costumi Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano e Renata Palminiello; light designer Gianni Staropoli

IL QUARANTOTTO (regia Laura Sicignano)

Una grande giostra: la macchina scenica diretta da Laura Sicignano per Il Quarantotto, da Gli di zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, è un enorme carillon che domina l'intera Sala Futura dello Stabile di Catania. Lungo questo prisma rotante (di Elio Di Franco) si svolgono i tempi e i luoghi di una rivoluzione affatto rivoluzionaria le cui fasi, comprese tra i moti liberali e l'annessione all'Italia, sono un grande mascheramento che si cela e si rivela. I tre interpreti (Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, Enrico Sortino – Vucciria Teatro) si scambiano costantemente abiti (di Vincenzo La Mendola) e ruoli: tra loro si instaura un grande gioco delle parti dove il ricorso a segni minimi e riconoscibili determina l'avvicendarsi di personaggi e situazioni. Nobili, popolani, borghesi e in genere arrivisti rincorrono l'affermazione di sé tra pareti rotanti, inarrestabili nonostante la stasi domini di fondo lo svolgimento degli eventi. I protagonisti sono ridotti a burattini, pupi manipolati dall'interno da attori e attrice a ritmo serrato ma fluido, in cui movimenti di scena e incalzare dell'intrigo si incuneano l'uno nell'altro senza cedimenti. La storia torna sempre su stessa, in circolo, destinata a un eterno ritorno; il baratto di indumenti e casacche scorre sui corpi di interpreti sottoposti a incarnazioni sempre nuove e vecchie. Era facile scadere nel macchiettismo, ma il pericolo è stato sventato da una parodia ben calibrata; al contempo, le musiche di Puccio Castrogiovanni, eseguite sul palco, imprimono al dramma un sapore consapevolmente tradizionale e non folkloristico. Sicignano entra nel testo sciasciano con lodevole asciuttezza, isolandone l'ossatura narrativa senza scadere nell'usuale retorica insulare. Piuttosto, inserisce il fatto letterario in un discorso teatrale aggiornato, fruibile e contemporaneo, sostenuto da una compagnia appassionata e affiatata. Sono questi gli spettacoli di cui auspichiamo un'adeguata circuitazione anzitutto in Sicilia, dove spesso la cultura siciliana è poco più che un polveroso fossile auto-elogiativo. Ma che si vorrebbe elogiare, di grazia? (Tiziana Bonsignore)

Visto in Sala Futura, Teatro Stabile di Catania. Crediti: tratto da Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, regia Laura Sicignano, con Joele Anastasi Federica Carruba Toscano, Enrico Sortino, musiche Puccio Castrogiovanni, scene Elio Di Franco, costumi Vincenzo La Mendola, produzione Teatro Stabile di Catania

THE CONFESSIONS (di Alexander Zeldin)

Poteva non essere Milano, da sempre Porta Europa, ad ospitare al Piccolo Teatro le maggiori proposte internazionali? Non c’è voluto molto, per creare con Presente Indicativo qualcosa di ricco eppure agile, che somigliasse a una festa estiva balneare con musica, cocktail e sdraio colorate di fronte all’ingresso del Teatro Strehler o dello Studio, dove tra gli altri abbiamo visto Pascal Rambert e Mariano Pensotti, Caroline Guiela Nguyen e Tiago Rodrigues o Łukasz Twarkowski, insieme agli italiani Marco D’Agostin, Fanny&Alexander, Davide Carnevali. Tra questi, il britannico Alexander Zeldin ha portato a Milano The Confessions, viaggio a ritroso nella storia di una donna, Alice, nata in Australia e giunta poi in Europa attraverso passaggi di stato e imprevisti, come tutti. Ecco, “come tutti” è proprio il punto: Zeldin, come già in Love e Faith, Hope And Charity, spinge ancora il tasto della rappresentazione collettiva attraverso l’ordinario, il consueto. Alice – Amelda Brown delimita anche la narrazione del racconto sulla scena – è un’attivista, il suo corredo esistenziale si è arricchito via via di esperienze alimentate dai cambiamenti epocali culturali, ne ha vissuto i benefici e anche gli effetti negativi, drammatici. Sullo sfondo della guerra del Vietnam, di rapporti familiari sfilacciati, delle lotte per i diritti femminili contro la repressione di aspirazioni e desideri, Alice è una donna che sempre ha saputo ricreare con errori e impegno l’habitat adatto alla vita, la propria e quella degli altri, ha saputo farsi carico anche del dolore di uno stupro per trasformarlo in altra vita. La struttura scenica, in cui attori straordinari si prendono il tempo del teatro, è un interno casalingo, ma il contesto familiare da un’epoca all’altra muta, lo spazio accoglie le trasformazioni della società e dunque degli individui che lo abitano, finché la storia di Alice ricorre in tante donne che possono riconoscere in lei i segni di una vittoriosa emancipazione, affondando nel reale perché sia esso il terreno fertile ove possa crescere il seme della nuova realtà. (Simone Nebbia)

Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: testo e regia Alexander Zeldin; con Amelda Brown, Kate Duchêne, Jerry Killick, Lilit Lesser, Brian Lipson, Hannah Morrish, Gabrielle Scawthorn, Jacob Warner, Yasser Zadeh; scene e costumi Marg Horwell; coreografia e cura dei movimenti Imogen Knight; luci Paule Constable; musiche Yannis Philippakis; suoni Josh Anio Grigg; direttore del casting Jacob Sparrow; dramaturg Faye Merralls, Sasha Milavic Davies; Ph Alípio Padilha

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