Cordelia - le Recensioni

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QUI SOM? (Baro d’evel)

Gentili Baro d’evel, vi parlo a nome della città di Roma, in cui avete appena portato Qui som?, precisamente al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival. Ecco, vedete, vorremmo chiedervi una cosa: non è che potreste ricominciare da capo? No perché l’energia trascinante, l’intelligenza e la sapienza tecnica che avete riversato sul palco, in mezzo alla platea, fuori dal teatro, sono qualcosa di così raro e soprattutto, sapete, finiti questi mesi festivalieri ci aspetta ben poco con cui misurare le nostre urgenze di grandiosità artistica. Tredici attori, ma anche danzatori, cantanti, musicisti, performer, insomma tredici a fare di uno spettacolo (in – almeno – quattro lingue) la materia viva per riempire ogni angolo del teatro (con qualche uscita dai margini, sulla strada di fronte). C’è un elemento che sopra ogni altro sembra prendere corpo nella creazione di Baro d’evel: gli avvenimenti, ossia il tempo e lo spazio in cui si manifesta la relazione tra cose e persone, sembrano come cambiare di stato e gli oggetti tramutarsi in corpi vivi, o l’inverso; ne è un esempio tra tanti la scena di una danza nel fango, in cui sembra che sia proprio il fango stesso a divenire danza, oppure un Leviatano peloso che danza a modo suo ondeggiando su sé stesso, che occupa tutto il fondale, diventa un mare che restituisce indietro i rifiuti di plastica (ah, se davvero potesse!), sembra insomma che l’informe e dinamico infinito possa fare il percorso inverso e farsi misura del finito, ossia che renda pensabile l’impensabile. E non è per questo che l’essere umano ha in dotazione l’arte? Per un atto di superbia, forse. Sostituirsi a un’entità creatrice. Ma nel passaggio di stato c’è un altro elemento ricorrente: la situazione nasce da una buffoneria, un meccanismo comico lascia via via crescere una imprevedibile e radicale profondità; in tal modo si riesce a parlare di guerra a partire da quella danza del fango in cui si scivola e si fa scivolare qualcuno, raggiungendo poi una compattezza tribale che ordina i moduli coreografici nel nitore arioso del canto. L’ultima frase del testo recita: “Non è il pieno, è il vuoto, è quel che resta dopo che è difficile”. Ecco, appunto, non potreste rifarlo da capo? (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Argentina. Crediti: Autori: Camille Decourtye e Blaï Mateu Trias; Con Lucia Bocanegra, Noëmie Bouissou, Camille Decourtye, Miguel Fiol, Dimitri Jourde, Chen-Wei Lee, Blaï Mateu Trias o Claudio Stellato, Yolanda Sey, Julian Sicard, Marti Soler, Maria Carolina Vieira, Guillermo Weickert; Collaborazione alla regia: Maria Muñoz – Pep Ramis / Mal Pelo; Collaborazione alla drammaturgia: Barbara Métais-Chastanier; Scenografia e costumi: Lluc Castells; Disegno luci: Cube / María de la Cámara et Gabriel Pari; Collaborazione musicale e creazione del suono: Fanny Thollot; Collaborazione musicale e composizione: Pierre-François Dufour

OTELLO (Regia di Luigi Siracusa)

All’entrata del Cometa Off c’è il capannello nutrito, quello dei sold-out. Volti giovanissimi in platea e giovani in scena: c’è un Otello, Shakespeare per 6 attori e attrici, cosa rara in città, nei piccoli teatri (ma talvolta anche nei grandi). Lo dirige Luigi Siracusa, regista diplomato alla D’Amico con attori provenienti dallo stesso percorso. Una scenografia costituita da alti e bianchi pannelli di legno chiude la scena su tre lati (dove verrà proiettato il volto di Desdemoma), una sola entrata su quello di sinistra che non verrà mai usata, anche perché gli attori, secondo l’usanza registica ormai maggiormente in voga (e dunque a rischio cliché), non escono mai. Nel piccolo spazio della sala testaccina il palco è in gran parte occupato da un letto matrimoniale lasciato in disordine, ai piedi del quale si trovano vestiti, effetti personali, biancheria intima e perfino un pallone da basket. D’altronde l’ambientazione è contemporanea, gli attori vestono eleganti completi blu con tanto di fascia e un gilet per Otello; un vestito azzurro con ampia gonna in tulle per Desdemona e un blu scuro aderente per Emilia, come fossero appena usciti dalla festa di matrimonio del generale e della giovane veneziana. Lo spettacolo comincia con una sorta di coreografia: Desdemona trascina Otello sul letto, il quale scende e si allontana per poi ritornare, negli occhi e in quel rifiuto c’è già il finale della tragedia. Gli interpreti sono bravi a tessere la trama invisibile di gesti, stati d’animo e presenze emotive proprio quando i loro personaggi dovrebbero essere assenti dalla scena, come nel caso di Desdemona bendata o dei piccoli canti di Emilia e di quel ritmo frenetico a suon di dita schioccate. Siracusa manovra bene questo dispositivo, in alcuni casi con interessanti trovate sceniche, i tentennamenti sono però visibili quando testo e recitazione rischiano di appiattirsi troppo sul quotidiano perdendo la strada della poesia shakespeariana. Credibile e realistico il finale violento, con le mani di Otello che sul letto strangolano Desdemona a favore di platea, non si può non pensare ai femminicidi in Italia (già 65 nel 2024). (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Cometa Off. Crediti di William Shakespeare Regia e adattamento di Luigi Siracusa Con Francesco Sferrazza Papa (IAGO) Zoe Zolferino (DESDEMONA) Gianluigi Rodrigues (OTELLO) Laurence Mazzoni (CASSIO) Luca Carbone (RODERIGO) Eleonora Pace (EMILIA) Scena Francesco Esposito e Luigi Siracusa Costumi Francesco Esposito Luci Pasquale Mari produzione Goldenart Production e Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. Foto Manuela Giusto

AGE (2024) (CollettivO CineticO/Francesca Pennini)

Dodici anni sono passati dallo studio di CollettivO CineticO, Francesca Pennini, che per il Progetto Speciale 2012. Ripensando Cage presentava un primordiale embrione di una ricerca che in questi anni abbiamo visto mutare, interrogarsi, ibridarsi e che, all’epoca, trovava nella casualità di Cage un preciso “disordine ordinato”, volto a delineare pratiche, pensieri e successive creazioni. In questa edizione di REF24, incontriamo nuovamente quelle semantiche, stavolta al Teatro India: tra il rigore di una sequenzialità scientifica e l’impostazione ludica, prima si presentano gli elementi scenici inanimati: computer, gong piccolo e grande, panche, bottigliette d’acqua, un tavolo e una sedia – poi i 9 «giovani esemplari di esseri umani tra i 15 e i 19 anni», all’interno di una struttura drammaturgica suddivisa in quadri/tavole. Ognuna di esse, proiettate in ordine casuale sullo schermo, pone dei quesiti agli esemplari che in base alla loro volontà definitoria si alzeranno dalle panche e, con la loro presenza, si rappresenteranno alla platea. Il pubblico potrà allora iniziare a conoscerli immaginando biografie parziali e potenziali. L’impronta autoriale data al progetto è decisiva e quasi ingombrante, sopratutto quando gli esemplari sono chiamati a imitare Pennini, e diventa escludente quando si cita il lavoro di Marco D’Agostin: boutade colta solo da coloro che hanno visto lo spettacolo dell’artista performer e/o conoscono la sua poetica. Se la parte iniziale è molto lenta, i successivi 40/45 minuti diventano un divertente album fotografico di una generazione, non solo di adolescenti però: nel fissare quei corpi – senza escludere una certa componente di morbosità nostalgica – potremo pensare a come eravamo noi, come siamo, cosa avremmo voluto, o cosa siamo ancora in tempo, di voler essere. La scena sembra infatti un grande tavolo da still life sul quale si presenta una giovinezza fuggevole, caduca: una sequenza di scatti che imprimono la vitalità di quell’attimo e lo consegnano già al passato. (Lucia Medri)

Visto al Romaeuropa Festival Teatro India: regia e coreografia: Francesca Pennini; drammaturgia: Angelo Pedroni, Francesca Pennini; azione e creazione: Nicola Cipriano, Piero Cocca, Francesco Gelli, Giulio Mano, Beatrice Monesi, Alice Ada Petrini, Nicole Raisa, Sofia Russo, Adele Verri; cura e organizzazione: Matilde Buzzoni, Carmine Parise. Foto di Pietro Tauro

STORYGRAM (Collettivo Socrates)

Storygram è lo spettacolo concerto che apre la stagione del Teatrosophia, un teatro off – per quanto questa definizione possa essere ancora valida nel 2024 - di professionisti e amatori incastonato nel centro, più centro, di Roma, in una viuzza dietro Piazza Navona. Il Collettivo Socrates, che firma i testi, è un gruppo di appassionati che elabora agili e divertenti drammaturgie di intrattenimento che approfondiscono aspetti di cultura generale e legati all’immaginario collettivo, spesso dati per scontati. In Storygram, l’attrice Giulia Bornacin e il musicista Simone Martino, ricorrendo ad aneddoti, partiture musicali originali, pantomime, battute e sketch invitano il pubblico a riflettere su alcune fotografie passate alla Storia per conoscere le storie che si nascondono dietro scatti come Formigine. Ingresso Casa Colonica di Luigi Ghirri, V-J day in Times Square di Alfred Eisenstaedt, o meno note come La Lunga Notte del Dottor Religa di James Stanfield o come la misteriosa foto delle fate di Cottingley. Il pubblico partecipa, risponde alle domande, è in silenzio quando ci si prende il tempo di ragionare insieme, e con maggiore scrupolo, su ciò che vediamo: basti pensare alle ultime polemiche relative proprio alla foto del bacio in Times Square. Con leggerezza e semplicità, Storygram risponde senza boria concettuale al modo in cui ci relazioniamo con le immagini: se la realtà esiste solo quando viene fissata in una foto e postata sui social network e se l’eventualità del fake è il nostro corrispettivo di significato, e di interpretazione, potremmo mai affermare di aver visto? Quando vediamo una foto, la stiamo davvero osservando? Conosciamo quello che vediamo? (Lucia Medri)

Visto a Teatrosophia: Testi: Collettivo Socrates; Ideazione scenica: Alberto Bellandi, Giulia Bornacin, Emanuele Di Giacomo; Voci e percussioni: Giulia Bornacin; Voci e strumenti: Simone Martino - Amedeo Monda. Foto di Federica Milia

LA TRAIETTORIA CALANTE (Pietro Giannini)

La storia del crollo del ponte Morandi a Genova è cronaca di una tragedia annunciata fin dalla costruzione del ponte stesso, nella triste tradizione tutta italiana di incuria, malaffare, capitalismo violento, leggi ad personam. Un groviglio di concause, di personaggi grandi e piccoli, di dettagli minimi eppure fondamentali. Pietro Giannini si mette davanti alla matassa e inizia a sbrogliare il filo, dapprima da lontanissimo, rievocando una leggenda popolare genovese che gli dà modo di sfoggiare la sua freschissima formazione accademica. La storia poco edificante del contadino vittima del potere, persino di quello spirituale, ha la funzione di introdurre due personaggi, un civile e un prelato, la testa all’insù e gli stivali di gomma immersi nel letto del Polcevera negli anni 60, quando si cominciava a immaginare questo viadotto tra la Genova industriale e quella borghese. Il racconto procede rimbalzando tra la platea e l’eloquio incalzante di Giannini mentre alle sue spalle scorrono le immagini in soggettiva di un’automobile in viaggio verso Genova. L’attore e drammaturgo 24enne, ampiamente padrone del palcoscenico, ricostruisce la vicenda del ponte dalla nascita al tragico epilogo, inanellandone abilmente i complessi passaggi e inglobando lo spettatore nel suo gioco frenetico più vicino all’inchiesta e alla stand up satirica che alla ricostruzione drammaturgica tipica del cosiddetto teatro civile. Giannini è molto a suo agio nel chiamare in causa il pubblico, col risultato di instaurare a tratti uno stato d’animo confuso nella platea: il gioco a volte prende il sopravvento, mentre sfilano i soggetti e i dettagli terribili di quella traiettoria calante, ovvero l’esito fallimentare di un’impresa costata la vita a 43 persone, sacrificate da chi sapeva e ha taciuto in nome del profitto. L’ultima immagine proiettata dallo schermo è quella disarmante del gruppo di familiari delle vittime: lo sguardo dritto piantato sullo spettatore e su tutti i personaggi che tramite Giannini hanno attraversato quel palcoscenico vuoto. (Sabrina Fasanella)

Visto alla Pelanda, Romaeuropa Festival. Anni Luce. Di e con Pietro Giannini. Produzione Teatro Nazionale di Genova

LA FORESTA TRABOCCA (Antonio Tagliarini)

Siamo disposti sui quattro lati del perimetro dello Spazio K di Prato, il lavoro che ci accingiamo a vedere di Antonio Tagliarini chiude la densa serata di Contemporanea Festival cominciata con El Conde de Torrefiel. Qui il passaggio è in un uno stato morbido, la postura è diversa, non siamo chiamati a tenere il filo della narrazione, a interpretare gli incastri, ma siamo spettatori, prima di tutto, della fragilità umana. È il primo progetto di Tagliarini a cui mi capita di assistere dopo lo scioglimento del sodalizio artistico con Daria Deflorian: Antonio è in scena insieme a Gaia Ginevra Giorgi che dal vivo cura le atmosfere sonore della scena, entrambi hanno una presenza - in modo diverso - magnetica. Il pubblico può lasciare dei foglietti, contenenti delle frasi, che sono stati distribuiti all’entrata, sono come le tracce, «devo rispondere con assoluta sincerità» mi spiegherà più tardi. Le domande attivano il dato performativo: nel corpo, con la danza che si modifica nettamente generando dunque una risposta fisica o narrativa. il movimento leggero ma preciso, si alterna a piccoli brani recitati, che disegnano minute possibilità narrative, frammenti di vita che rimangono appesi a mezz'aria, come nel primo racconto: ci sono delle analisi mediche e un dottore che vorrebbe parlare con Antonio, c’è la tensione nell’attesa allo studio medico e poi la musica che si sovrappone proprio nel momento in cui si sta per svelare la questione, forse dolorosa, quasi a voler chiudere alla vita, alla realtà personale, per pudore. E poi un sogno kafkiano in cui la depressione diventa un buco nel pavimento di casa, dal quale non si riesce ad uscire: Tagliarini apre una feritoia nel tappeto bianco e ci si nasconde. Ma quest’opera, influenzata dai pensieri di  Jack Halberstam sul concetto di fallimento, è la vivida testimonianza di una rinascita: Antonio salterà da una parte all’altra della scena, come in una danza di riattivazione vitale, prima di lasciare lo spazio a disposizione di un ultimo sussulto poetico, forse troppo slegato dal resto, un ricordo d’infanzia soffiato al microfono da Gaia Ginevra Giorgi. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Spazio K, Contemporanea Festival un progetto di Antonio Tagliarini con Gaia Ginevra Giorgi e Antonio Tagliarini collaborazione artistica Gaia Ginevra Giorgi cura del suono Emanuele Pontecorvo disegno luci e direzione tecnica Elena Vastano abiti Matteo Brizio coproduzione INDEX, Triennale Milano Teatro, Ass. Cult. A.D. residenze di creazione Triennale Milano Teatro, Spazio Matta, Casa degli Artisti per INDEX Valentina Bertolino, Francesco Di Stefano, Silvia Parlanicon il supporto del MiC – Ministero della Cultura

LA LUZ DE UN LAGO (El Conde de Torrefiel)

La compagnia formata da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert continua il proprio percorso incentrato sulle possibilità della parola narrativa a teatro. A Contemporanea Festival ha debuttato in Italia (e poi sarà al Festival delle colline torinesi) il nuovo La luz nel lago che riprende proprio i meccanismi indagati in Ultraficción n1 e ben spiegati da Bayler in questa intervista. L’obiettivo è dunque sempre quello di creare un teatro della mente a partire dalla proiezione del testo su un fondale. Ma in questo nuovo progetto El Conde vuole lavorare anche sulla materialità della scena. Mentre una squadra di tre performer/tecnici muove pannelli, svela fondali o - addirittura - dipinge di nero proprio uno degli schermi cancellandolo, dopo che lo spazio di proiezioni era stato colpito anche da immagini sgranate e colori molto vividi, noi entriamo nelle tre storie attraverso la lettura. Una voce registrata ci avverte, ci troviamo di fronte a una storia d’amore. In realtà le storie sono almeno tre e come in una struttura a matrioska, in ognuna delle storie, i protagonisti saranno spettatori di quella precedente. Tutto comincia negli anni ‘90, durante un concerto dei Massive Attack a Manchester (ma tutta la colonna sonora è imperdibile), due ragazzi si conoscono, passano la serata insieme. Nella storia successiva, in cui due uomini si incontrano in un cinema, sapremo che i due ragazzi della prima narrazione (protagonisti del film che i due amanti stanno vedendo in sala), si sono lasciati dopo aver passato parte della vita insieme. Le storie, come l’ultima su una biologa marina transgender, hanno tutte un piccolo risvolto politico, sono storie della minoranza, di controcultura o di lotta, esplicita come nel caso degli attivisti per il clima nel finale, oppure legata alle scelte dei singol*. Per chi è abituato al linguaggio del Conde in questo caso non si stupirà per la riflessione su narratività e spettatorialità. Forse la macchina teatrale viene penalizzata dai troppi elementi (gli schermi in movimento, la voce fuori campo, i video, ecc.) rispetto al compatto minimalismo di Ultraficción n1, ma le storie continuano ad essere il cuore della questione. (Andrea Pocosgnich)

Prossime date in Italia

12,13 ottobre Teatro Astra, Torino, Festival delle Colline Torinesi

Visto al Teatro Metastasio, Contemporanea Festival idea e creazione El Conde de Torrefiel regia, testo e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert scene La Cuarta Piel (César Fuertes, Iñigo Barrón García, Ximo Berenguer), Isaac Torres, El Conde de Torrefiel scultura Mireia Donat Melús direzione e coordinamento tecnico Isaac Torres disegno sonoro Rebecca Praga, Uriel Ireland disegno luci Manoly Rubio García creazione video Carlos Pardo e María Antón Cabot

LA PRIMA LUCE DI NERUDA (di R. Cappuccio, regia César Brie)

Come un macroalveare di più asteroidi, una massa di destini letterari, poetici, musicali e scenici, e di accostamenti umani, storici, genealogici e politici, convergono in uno spettacolo con trasposizione e regia d’un artista migrante, il bonaerense César Brie, un argentino di casa in Italia, in Bolivia, nell’Europa dell’Odin o (qui diremmo) un sudamericano che è stato anche di stanza a Santiago del Cile. Ha un senso molto legato alle sue radici, il fatto che ora si sia ben prestato ad adattare per la ribalta il romanzo “La prima luce di Neruda” di Ruggero Cappuccio, lavoro che ha avviato il Campania Teatro Festival diretto dall’autore di quel volume. Ma la sintonia geoculturale tra Brie e Neruda non è l’unica che sovviene, in questa impresa. Risale a un’amicizia fraterna nei centri sociali milanesi degli anni ‘60, il rapporto tra il regista e Elio De Capitani e Cristina Crippa, due dei coprotagonisti della messinscena, un legame sviluppatosi col Teatro dell’Elfo, qui coproduttore col Festival. Un assetto sinergico della compagnia fa poi sì che a impersonare Pablo Neruda e la sua amata ultima moglie da giovani siano Umberto Terruso e Silvia Ferretti, due attori di Brie, e a dar vita alla coppia (per 27 anni) del poeta e della sua donna in età matura si siano prestati De Capitani e Crippa, duetto d’arte e nella vita, in dialogo da anni con Cappuccio e con la manifestazione campana. Naturalmente il testo di Brie è un bellissimo referto poetico della letteratura intima e diaristica (e cronologico-diacronica) del libro partigiano, schierato e drammatico di Cappuccio. Con un impianto frugalmente costituito solo da due letti singoli e panche per lo scrittore e la sua amata incontratisi a 48 anni lui e a 39 anni lei. Col fascino d’un decreto d’espulsione da Napoli cui alla stazione Termini s’oppone una folla d’intellettuali, col buen retiro a Capri dei due bravi attori giovani, finché la staffetta è conclusa in Cile (Neruda muore di cancro e di assassinio del regime di Pinochet) dai due generosi campioni dell’Elfo. Tra i canti incantevoli di Francesca Breschi. Con bei video. Dalle Ande agli Appennini. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Campania Teatro Festival. Crediti: di Ruggero Cappuccio regia e adattamento di César Brie con Elio De Capitani, Cristina Crippa, Silvia Ferretti, Umberto Terruso musiche eseguite dal vivo da Francesca Breschi luci e scena di Nando Frigerio video di Umberto Terruso costumi di Alessia Lattanzio produzione di Teatro dell’Elfo e del Campania Teatro Festival

LA GUERRA COM’È (Elio Germano, Teho Teardo )

Quanta necessaria arte umana, quanta generosità destinata agli sconosciuti del mondo, quante considerazioni civili in difesa della gente qualunque presa di mira dagli omicidi di massa degli eventi bellici, e quanto frugale e tenace altruismo privo di ascendenti spettacolari ho percepito a teatro, a metà settembre, nella grande prova orale di Elio Germano che all’Auditorium Parco della Musica di Roma, con i flussi sonori e sintonici creatigli lì accanto da Teho Teardo, ha tirato dritto leggendo e dicendo (su un podio da convention) La guerra com’è, manifesto biografico e geopolitico che lo stesso Germano ha contribuito a trarre dal libro di Gino Strada Una persona alla volta pubblicato postumo da Feltrinelli a cura di Simonetta Gola di Emergency. Organizzazione umanitaria cui erano devoluti, per impegno dei protagonisti, quasi tutti gli incassi della serata. Non ho mai visto un Elio così serio, così meticoloso, così coinvolto, qui in un biopic d’un eroe mondiale dell’emerita chirurgia da campo che, pur nato lui a un passo dalla Breda, trascorrerà tutta la vita a ricucire corpi offesi dal cinismo delle bombe. E ci stanno benissimo assieme, le scelte di Strada per gli ospedali di paesi poveri, e l’opzione di Germano per un teatro etico. Eppure il lavoro con la storia di Emergency non è privo di dure emozioni: l’immagine del padre pakistano che porta un bimbo con la mano esplosa ha una forza pietosa sconvolgente, i ragazzi con gli arti amputati sono gli scandali costruiti da fabbriche cinesi, russe e purtroppo anche italiane. E’ un attore a doverci ricordare, con le pagine e le parole d’un medico in prima linea, che i pazienti operati nelle aree dei combattimenti appartengono a una popolazione quasi integralmente civile, tranne un solo 7% di militari. Il bersaglio delle ostilità contemporanee sono i normali. La voce offesa e testimoniale di Germano dice che gli ordigni aerei non vedono il sangue. Ma i feriti, gli sfollati, gli inermi che affollano luoghi pubblici sono il bersaglio, il cliente delle macchine della guerra. E i toni del nostro messaggero dal fronte sono inesorabili. Mai applausi a scena aperta sono stati più civili, spontanei e sconfortantemente allarmati di quelli diretti a Germano e a Teardo. Anche i miei. (Rodolfo di Giammarco)

Visto all'Auditorium Parco della Musica: dal libro postumo di Gino Strada “Una persona alla volta” a cura di Simonetta Gola di Emergency riduzione di Elio Germano con Elio Germano e Teho Teardo produzione di Pierfrancesco Pisani per Infinito Teatro e Argot Produzioni in collaborazione con Emergency

MOFTARAK (Masse Art)

Uscire un mercoledì sera, dopo aver dato solo un’occhiata veloce al programma e ritrovarsi in zona Pigneto in quello spazio bellissimo e funzionale per l’arte dal vivo contemporanea che è Centrale Preneste, in questi giorni animato con le luci rosa e le performance internazionali di Interazioni Festival. La rassegna ideata e diretta dal danzatore e coreografo Salvo Lombardo in queste tre edizioni si è lentamente ritagliata un piccolo spazio in un periodo dell’anno in cui Roma è attraversata da numerose alternative; è terminato da poco Short Theatre e siamo nel pieno di Romaeuropa Festival. Ma la proposta di Interazioni si difende attraverso una curatela piena di ricerca e specificità. Così il nostro mercoledì sera è terminato con la poesia inaspettata e struggente di Moftarak (grazie alla quale abbiamo dimenticato presto la performance precedente, un po' pretenziosa, di Youness Atbane), un lavoro della compagnia Masse Art che è frutto di una conversazione (il titolo in arabo vuol dire “incroci”) tra Lara Odin e Moad Haddadi, tra uno strano e rarissimo strumento e un danzatore. Lara Odin fa parte di una delle pochissime famiglie in Europa a costruire e suonare gli organi a rullo, scatole misteriose e decorate che attraverso la rotazione di una manovella da parte dell’artista emettono la musica “scritta” su appositi cartoncini secondo una specifica perforazione. Lo strumento, introdotto in Italia nel XVIII secolo, ricorda i primissimi computer che funzionavano proprio leggendo le schede perforate. Ma lo spettacolo, nel bianco crema della scena perimetrata da una coda lunghissima di cartoncini, comincia con un canto, intanto Haddadi è quasi immobile, lentamente comincia a muoversi, la sua danza è quella di un corpo scosso dagli impulsi. Poi Odin si sistema dietro l’organetto e comincia a suonare, mentre il rullo cattura la lunga coda di cartoncini possiamo seguirne il defluire. La musica - nostalgica ma densa - si consuma, preparandosi a un lungo silenzio di carta non scritta, per poi riprendere. Il suono e il tempo scivolano tra le dita, fino a quando Haddadi attraversa la quarta parete come un avventuriero proveniente da un altro mondo,  diventando esso stesso oggetto poetico e luminoso. Siamo fortunati ad essere in questo altrove. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Centrale Preneste, Interazioni Festival coreografie Moad Haddadi musica Lara Odin scenografia Antonin Odin

GIULIETTA E ROMEO (regia Roberto Latini)

In apertura il Romeo di Roberto Latini somiglia splendidamente a Sean Penn in panni di vissuta rock star nel film di Paolo Sorrentino, con bel gioco speculare quando in chiusura a stringere una chitarra elettrica è la Giulietta alias Elvis della partner odierna Federica Carra. Il titolo, “Giulietta e Romeo”, inverte l’ordine dei protocollari nomi elisabettiani, e cela forse un tributo implicito. Entrando dentro l’opera di Shakespeare, la drammaturgia e la regia di Latini esaltano al festival Inequilibrio 2024 solo le scene in cui l’universale coppia senza futuro si trova a confronto, ed è così poetica, l’impresa, da far sovvenire la sequenza delle battute esclusivamente amletiche dell’ “ExAmleto” di Roberto Herlitzka. All’oralità struggente e tossica dei cinque quadri qui evocati (incontro, balcone, matrimonio, alba, finale), il lavoro associa fulminei video con riflessioni tematiche di trentenni mostrati in una sorta di showreel, per vigorosa iniziativa del collettivo italo-svizzero Treppenwitz che ha sondato giovani d’adesso su amore, sesso, solitudine, tradimento, paura, gelosia, ipocrisia. Oltre alle battute di Giulietta e Romeo, individuiamo due momenti che per voce della protagonista femminile evocano una quotidianità autobiografica di condivisioni e di tempi liberi attuali. Non bastasse, dopo vari monologhi di un Latini trepido nell’accorpare e cucire (coi toni carmelobeniani da sballo che gli conosciamo) gli scambi di Lui e Lei, è alla Carra che viene affidato l’epilogo ondeggiante a base di frasi/memoria da L’ultimo nastro di Krapp di Beckett. Colpo finale di maestria moderna vissuta insieme, perché al termine si intuisce che stavolta Giulietta e Romeo non muoiono, sono sdraiati in una terra che potrebbe essere disabitata, e abitata però da loro. Da vedere e ascoltare. Repliche a Firenze fino al 28/9 nell’Estate Fiorentina al Liceo Artistico di Porta Romana, poi per ora a Caserta, Pescara, Rovigo, Parma. Coproduzione compagnia Lombardi-Tiezzi e ERT. Buon lavoro a Roberto Latini, nel frattempo, anche neo-direttore dell’Orizzonti Festival di Chiusi. (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Nardini di Rosignano Marittimo per Inequilibrio Festival: drammaturgia e regia di Roberto Latini con Roberto Latini e Federica Carra musiche e suono di Gianluca Misiti luci di Max Mugnai costumi di Daria Latini video Collettivo Treppenwitz produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi e Emilia Romagna Teatro

SE RESPIRA EN EL JARDIN COMO EN UN BOSQUE (El Conde de Torrefiel)

Didattico per chi non è solito andare a teatro e non conosce “le funzioni” dello spettacolo dal vivo, curioso per coloro che invece, avendo un’abitudine al gioco scenico, scelgono di riviverla in una composizione in cui si possono interpretare entrambi i ruoli: quello di chi guarda e di chi viene guardato. Durante Short Theatre 2024 l’ensemble catalano El Conde de Torrefiel presenta al Teatro Cometa Off, vicino al centro festival de La Pelanda, Se respira en el jardin como en un bosque, uno dei diversi progetti guidati da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert programmati durante l’ultima edizione curata da Piersandra di Matteo, e drammaturgicamente pensato per dare corpo e tangibilità, attraverso chi vi partecipa, ai concetti di immaginazione, fruizione, azione. Indossate le cuffie, uno alla volta, si è invitati a entrare in scena e a seguire una drammaturgia: prendi questo, posizionati al centro, muoviti in maniera solenne, corri ecc ecc Nel mentre, uno spettatore/spettatrice ci guarda dalla platea; posto che occuperemo alla fine del nostro ruolo attoriale per passare a quello spettatoriale e osservare quello che una nuova persona farà al nostro posto. E così via. Il teatro non è il mondo e il jardin, il giardino, non è di certo un bosque, un bosco, ma in entrambi respiriamo allo stesso modo, nell’uno come nell’altro. L’efficacia di questo dispositivo sta infatti nel far esperire, quindi comprendere, in una modalità agile, libera, divertente principi che spesso vengono assunti passivamente come delle convenzioni e invece sono degli strumenti di azione, creazione e reinvenzione della realtà che ci circonda. Nulla di nuovo quindi ma, in un momento storico in cui tutto è improntato alla user experience e tutto può quindi diventare un fake, conoscere i meccanismi attraverso cui la realtà viene modificata non è solo intrattenimento ma diventa una difesa. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Cometa Off durante Short Theatre 2024: di El Conde de Torrefiel; regia, drammaturgia e testo a cura di Tanya Beyeler y Pablo Gisbert; progettazione suono Rebecca Praga coordinazione tecnica Isaac Torres; suono Uriel Ireland; amministrazione Uli Vandenberghe produzione e distribuzione Alessandra Simeoni; produzione esecutiva CIELO DRIVE SL; co-produzione Santarcangelo Festival (IT), CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia con il supporto di Mas Nyam Nyam, Mieres (ES). Foto Claudia Pajewski

THE SECOND BODY (Ola Maciejewska)

C’è una donna, bionda, molto alta, giovane e vigorosa, veste solo un paio di pantaloni larghi, beige, stringe a sé un pezzo di ghiaccio, sembra essere una scultura; non è un semplice blocco, ha delle parti ondulate, degli incavi che le permettono di afferrarlo. Nella sala della Pelanda c’è il pubblico di Short Theatre posto su quattro lati, a circondare l’area dell’azione, le luci sono accese. Le tende nere sulle grandi pareti di vetro che danno sulla strada sono annodate ai lati, entra la luce della sera e qualche curioso da fuori guarda l’interno, soprattutto due ragazzi si fermano, lui fa qualche foto, lei ride. Intanto in scena Leah Marojević, interprete della performance ideata dall’artista polacca (residente in Francia) Ola Maciejewska, ha cominciato la sua lotta con la scultura di ghiaccio. C’è anche un libro, si intitola, come lo spettacolo, The Second Body, e lo ha scritto Daisy Hildyard nel 2017, non è in scena, ma ispira lo spettacolo. Per Hildyard oltre al primo, in carne ed ossa, abbiamo un secondo corpo, diffuso, in relazione con altri ecosistemi. Nel lavoro performativo di Maciejewska il ghiaccio (rappresentazione fisica del secondo corpo?) si scioglie a causa della temperatura e della frizione del corpo della donna. Il rimando con «gli effetti dell’azione distruttiva dell’essere umano» è davvero troppo leggibile, telefonato si direbbe. Nelle note di accompagnamento della performance si legge che «Ola Maciejewska esplora la dissoluzione tra oggetto e soggetto, animato e inanimato, fino al punto in cui il processo coreografico è trasformato dall’interconnessione con la materia, laddove diversi corpi diventano interdipendenti e correlati». Ma come spesso accade in questi casi il pensiero ideativo è più efficace del lavoro performativo. Il ghiaccio non può fare altro che sciogliersi nell’abbraccio, o rompersi in alcuni punti (quando viene gettato a terra); non c’è altro, neanche un pensiero coreografico o musicale. Non basta la fatica, la passione con la quale la protagonista si contorce sul freddo manufatto, per distrarre dalla noia durante la lunghissima ora di performance. (Andrea Pocosgnich)

Visto alla Pelanda, Short Theatre. Ideazione, coreografia e drammaturgia Ola Maciejewska performer Leah Marojević  costruzione coreografica (blocco di ghiaccio) Alix Boillot luci Rima Ben Brahim suono, collaborazione drammaturgia Gilles Amalvi prototipo e calco Mathieu Peyroulet Ghilini assistenza scenica Guenaël Morvan produzione/amministrazione so we might as well dance – Caroline Redy

BLESS THIS MESS (Katerina Andreou)

Probabilmente, quel “mess” a cui fa riferimento il titolo della coreografia di Katerina Andreou, a cui potremmo attribuire significati di caos, pasticcio, disordine, e che a prima vista potrebbe anche descrivere quanto accade sulla scena, sembra più una provocazione, una sfida: casino, sì, ma benediciamolo perché vitale. Perché sottende in realtà a ritmi diversificati, che coinvolgono differentemente i quattro magnifici danzatori - tra cui la stessa coreografa greca, attualmente residente in Francia - su diversi piani fisici, scindendo parti anatomiche, variando il ritmo, l’oscillazione, l'intenzione di esecuzione di uno stesso gesto. In questa costruzione entropica, che parte in maniera più contenuta sotto moduli musicali reiterati e a cura sempre di Andreou, esplode nel corso dei 55 minuti di esecuzione per diventare una summa di energie mai paghe. Anche la disposizione del palco rifiuta l’ordine centripeto: le pedane sono accatastate sul fondo e a un lato, dal cui soffitto pendono alcuni microfoni ambientali che raccoglieranno le sonorizzazioni dei quattro; un ventilatore sotto a una pedana, alcune parrucche e cap diventano escamotage per aumentare le varianti di movimento. Tuttavia, il cuore di tutta l’operazione è il gioco di reiterazioni con varianti dei movimenti pulsatori, come lo scuotimento del capo a destra e sinistra con cui si apre il pezzo, che poi diventa rotazione a 360° ma che, negli occhi di chi guarda assume connotazioni ogni volta differenti e che passa da una dimensione più placida, quasi sonnolenta dell’inizio fino a un contesto da festa con tanto di fuochi d’artificio, rave e after party. Proprio questa capacità di riuscire a caratterizzare il gesto, senza fronzoli narrativi ma attingendo da un quotidiano intimo, da passi che rievocano alla lontana musiche tradizionali, possibili rituali, o all'esasperazione di codici più astratti, innesca un alto grado di coinvolgimento, tanto da augurarsi di riuscire a vederlo nuovamente in una disposizione più libera, augurandoci di poter danzare insieme a loro. (Viviana Raciti)

Visto alla Pelanda, Short Theatre. Ideato da Katerina Andreou interpretato da Katerina Andreou, Lily Brieu Nguyen, Baptiste Cazaux, Mélissa Guex suono Katerina Andreou con Cristian Sotomayor luci e scenografia Yannick Fouassier consulenza Costas Kekis direzione tecnica Thomas Roulleau Gallais produzione-touring Elodie Perrin

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