Cordelia - le Recensioni

HomeCordelia - le Recensioni

SEMPRE VERDE (di Caroline Baglioni, Michelangelo Bellani)

Catasta (di scarpe), cassa (di bottiglie), pile (di libri). Nomi collettivi, a indicare un “uno” eternamente moltiplicato, in pieces, movimentato. Caroline Baglioni maneggia oggetti, nella Trilogia dei legami. Dopo Gianni e Mio padre non è ancora nato, anche in Sempre verde (diretto da Michelangelo Bellani e scritto a quattro mani) il perimetro domestico è alluso per mezzo dell’oggetto quotidiano e molteplice (i libri, stavolta) che pretende la ripetitività, ma anche l’eversione, del gesto. Se nei primi due lavori Baglioni dominava in solitaria la scena – a significare, forse, il primato individuale della memoria – stavolta il suo corpo è contrappuntato da quello, agile e denso, di Christian La Rosa. Sono sorella e fratello, forse Antigone e Polinice, dei quali leggono, forse Gretel e Hänsel, per il sentimento oscuro che anima la peripezia, ma anche un po’ Vladimir ed Estragon, per la simbiosi alienata e dolente nella quale galleggiano. Forse due quasi-trentenni, simili a tanti altri quasi-trentenni. I libri saranno anche oggetti sacrificali, baluardi crollati, piccoli totem da contrapporre ai loro tabù: quelli dettati dall’ambivalenza, dalla lunga distanza (lui appare di ritorno, lei non si è mai mossa), dal pudore nudo della vicinanza. La geometria del rapporto cielo/terra (due ampi pannelli luminosi che si fronteggiano) è scossa dai movimenti degli interpreti (curati da Lucia Guarino) che sono inediti, disorientanti, infrangono e ricompongono di continuo, con naturalezza, il nesso tra segno e simbolo, sorvolano il realismo eppure, a tratti, lo riconvocano, come un’evidenza. È raro cogliere, nella parola e nella carne, la verità così disarmata, ma plurima, della relazione tra infanzia e adultità: intermittenti, mutevoli, di fatto sempre compresenti. La costruzione per quadri, scomponendo il legame, offre la possibilità di osservarlo isolandone piccoli istanti, destinati altrimenti a collocarsi in un flusso: proteggendoli, quindi, dall’impostazione retrospettiva e ordinatrice della mente che ricorda e non concedendoli, forse, neppure al rimpianto. Non prima, almeno, che si sia esaurito il loro palpito. (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Morlacchi – Crediti: di Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani; regia Michelangelo Bellani; con Caroline Baglioni, Christian La Rosa

LA MISURA (di Eduardo Di Pietro)

Italo Spinelli ha ottantadue anni e ha perso la moglie Angela; distrutto dal dolore, decide di iscriversi alla Facoltà di Filosofia di Macerata col ferreo proposito di dare delle risposte ai suoi interrogativi: l’anima esiste? Rivedrà sua moglie una volta morto? Italo, con ostinazione infantile, studia. Davanti a emozioni alterate da un eccesso di dolore, la razionalità (o la misura) non è sufficiente, ed Eduardo Di Pietro sa che per fronteggiare quel tipo di dolore bisogna abbandonare sé stessi allo stato di bambini. Italo diventa una marionetta (di Barbara Veloce), come un talismano; ad animarlo c’è Marco Montecatino, che ha perso la sua migliore amica a soli trent’anni: attraverso la storia di Italo, cerca di affrontare la propria. Marco è un trentenne mai cresciuto: la sua postura è quella di un ragazzino insicuro, con il collo incassato tra le spalle piegate; il modo di esprimersi è immaturo, spesso improprio, e le emozioni più complicate da gestire non può far altro che esternarle rappando. La morte è qualcosa di inconcepibile, quel vuoto lo impaurisce, almeno quando non è alle spalle di Italo. Quest’ultimo, prese le gambe di Marco, si dirige piano alla sua scrivania, sistemata da Martina Di Leva, che regala alla vecchia comparsa, con i suoi gorgheggi e sospiri, una tenerezza struggente: la ragazza monta e smonta la scena, interviene nelle coscienze dei due e li assiste nell’accettazione della perdita. Lo spettacolo procede come una terapia: ai tentativi di quella logica cercata tra i libri, risponde una testardaggine bambinesca e riottosa; ma anche quando viene assecondata l’irrazionalità del dolore, il risultato per Marco è lo stesso. Questo tipo di bilanciamento di prospettive, questo antagonismo, si protrae e si ribadisce fino alla fine (probabilmente troppo compiaciuto in questo estenuante ripetersi senza soluzione) producendo un circuito serrato da cui non si riesce ad uscire: non esiste un vero punto, forse proprio perché l’idea di una fine viene respinta.

Visto a Piccolo Bellini; Crediti: Progetto e regia Eduardo Di Pietro; Con Martina Di Leva, Marco Montecatino; Marionetta e scene Barbara Veloce; Disegno luci Andrea Iacopino; Progetto sonoro Tommy Grieco

QUEL CHE RESTA (concept e coreografia di Simona Bertozzi)

Un paio di assoli per duo con ciabatte: ecco ciò che resta. Pure con un po’ di glitter, le ciabatte. Chi legge non si allarmi. È uno splendido lavoro di due corpi dissimili che non fanno nulla per assimilarsi, e che probabilmente (cioè sicuramente) si riflettono a vicenda e si ritrovano concordi su un qualche altro piano. Gli outfit, va detto sùbito, sono improponibili. Una mia studentessa presente congettura siano fatti apposta perché le interpreti devono essere qui percepite oltre l’abito. Ok, ci credo. Si tratta di Quel che resta, concept e coreografia di Simona Bertozzi, interprete insieme a Marta Ciàppina (si legge così, sdrucciola), e accompagnate da una giusta drammaturgia musicale che comprende la voce di un documentario sugli ippopotami e il loro habitat. Visto al Festival internazionale Prospettiva Danza Teatro di Padova, in una location estremamente suggestiva: l’Agorà del Centro Culturale Altinate. Se Bertozzi è aerea (insisto: inspiegabilmente vestita con colori terreni), apre lo spazio e intercetta linee, mentre tutto libera e scioglie e svapora; Ciàppina, invece, è più concreta (ma di bianco vestita, che sempre un po’ carica, e una camiciola fiorata con maniche a sbuffo che da un po’ non si vedevano, e che allargano, squadrano) tiene il punto, marca lo spazio e tutto comprime, contempla, e trattiene. Dopo l’avvio in ciabattine glitterate, un po’ in tandem effacé come per presentarsi a noi, con movimenti di pieghe e geometrie, finalmente se ne liberano (delle stimate ciabatte) e parte un fitto dialogo fatto anche di distanza e indipendenza, di riprese e di appuntamenti diversamente intesi, sempre però raggiunti e condivisi. I gesti e gli sguardi che si rimandano non si sovrappongono: nessuna sparisce nel corpo e nella presenza dell’altra. A una certa pronunciano e poi ripetono, alternate, titoli di canzoni della propria memoria adolescente: un nuovo piano qui si schiude, quello della memoria certo, ma senza sfondo, senza cornice, nella libertà di un tempo che non ha confini. Si approda così a una sezione di pose in luce notturna, con musica molto lirica, davvero inattesa e seducente. Rinforcate per il finale le (sovra)stimate ciabatte con rametti (forse) di salvia, entrambe si offrono all’ultimo congedo. (Stefano Tomassini)

Visto all’Agorà del Centro Culturale Altinate-San Gaetano per il Festival internazionale Prospettiva Danza Teatro di Padova, Quel che resta, concept e coreografia di Simona Bertozzi, con Marta Ciappina e Simona Bertozzi, crediti completi

ABOUT ELIZABETH (Elliot Teatro)

Nella pellicola del 1998 diretta da Shekhar Kapur Cate Blanchett avanza verso la cinepresa, il volto imbiancato è la sua ascesi, Elisabetta è ora un'entità più vicina a Dio che agli esseri umani. Ha rinunciato agli affetti, ha rinunciato alla propria carne per farsi regina. La giovane compagnia Elliot Teatro prendendo spunto da Orlando di Virginia Woolf ribalta questa visione: la regina ha bisogno di “staccare”, oggi si direbbe, e così trova qualcuno che possa prendere il suo posto. Di fronte al pubblico di Fortezza Est la vicenda è agita dal momento in cui il poeta Orlando chiede udienza in cerca di fortuna, il giovane oltre a mettere in mostra le proprie capacità artistiche rivela un'identità complessa, fluida, in cui Elisabetta scorge la possibilità del femminile. Sarà Orlando a vestire i panni della regina; Elisabetta d’altronde è stata anche la monarca che ha dato il proprio nome all’epoca d'oro della rappresentazione, quella di Shakespeare e dei suoi contemporanei; storia e leggende si mescolano trovando sul palco un punto di fusione in cui la parola è solo una delle espressioni in gioco. Leonardo Bianchi, regista del gruppo e interprete del ruolo di Orlando, inventa un linguaggio teatrale in cui l’impianto visivo e soprattutto la stratificazione sonora (nelle musiche di Gian Maria Labanchi) chiedono allo spettatore di lasciarsi trasportare dai diversi livelli linguistici. Elisabetta è sempre pronta alla festa, sul fondo Labanchi con il suo tavolo di regia è uno sprezzante musicista di corte. Nei microfoni la regina di Maria Campana trova riverberi ed effetti vocali sorprendenti. Degli abiti rinascimentali rimangono le gorgiere e la ricerca di certi fasti che però si mescolano con un gusto e un’ironia moderni, come per gli occhiali da sole delle due dame di corte. E appunto l’ironia e la leggerezza sono tratti distintivi di un lavoro di gruppo che non rinuncia alla spettacolarità, mescolando la ricerca sonora live con le contaminazioni pop, ma sempre con un rigore generale in grado di tenere insieme i diversi piani. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Fortezza Est. Drammaturgia Leonardo Bianchi Gian Maria Labanchi Regia Leonardo Bianchi Con Leonardo Bianchi Maria Campana Anna Chiara Fanelli Claudia Guidi Gian Maria Labanchi Luigi Pedranzini Musiche Maria Campana Gian Maria Labanchi Progetto grafico Alessandro Bianchi Comunicazione Giulia Tremolada

GUARDARE IL SOFFITTO (di e con Giulia Francia)

Guardare il soffitto, neonato progetto dell’attrice e performer Giulia Francia scandaglia, mette in moto e ferma degli assunti sulla persona, semplici e empaticamente condivisibili, e nel mentre l’attrice li elenca, sola nella scena di Fortezza Est, dice di farlo. Una scrittura che è quindi una didascalia ridondante, circolare su se stessa, che si avvoltola come una coperta attorno alle fragilità: «Non voglio ricevere insulti. Non voglio ricevere complimenti. Non voglio niente. Solo quello che mi spetta. Mi aspetto tanto. Mi aspetto molto. Ma non arriva niente. Allora aspetto ancora». La malìa per la paranoia, e anche lo sforzo impiegato per allontanarsene, freme il corpo, lo sguardo, i nervi delle mani, le spalle: «Ma ci ho messo del tempo a capire che le forze della natura, sono un turbinio di forze confuse, travolgenti, che fanno fatica a direzionarsi». Nella pesantezza delle parole pronunciate impersonando diversi punti di vista, la bambina capricciosa, la donna sola, la vecchia rancorosa, l’attrice che si abbandona allo spiegone curatoriale; e nelle domande che incalzano questo esercizio di complessità - «Cosa ho scritto? Ti sei mai sentita così? Anche tu ti sei sentito così, qualche volta? Siamo tutti uguali?» traspare il riferimento all’osservazione della vita da parte degli Hikikomori che tuttavia non è definito, non c’è nella drammaturgia quella esasperazione del ritiro sociale, anzi, è un’eventualità…E nonostante la prossemica delle diverse voci debba ancora essere rodata, il finale aggiustato nel ritmo per dare incisività al salto, alcune parti limate per non farle tendere alla lamentatio; G.I.S, acronimo di “guardare il soffitto”, come indicato nel copione, è uno sfogo utile, un singulto necessario all’atterraggio, per cui si ha la sensazione di cadere ma poi in fondo non si cade e in quella sospensione del percorso da un punto all’altro, si può scegliere di tornare su: «Stavo pensando. Ho visto in tv che ci sono delle funi dove tu ti ci lanci, ma sei attaccato».

Visto a Fortezza Est: di e con Giulia Francia

SOGNO DA UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE (regia di Rosario Sparno)

Portare in scena Shakespeare è un esercizio teatrale e immaginativo di non poco conto che non ha nulla a che vedere con la ricerca dell’originalità scenica, quanto piuttosto con l’intelligenza (e l’interesse) di creare una prossimità irresistibile col pubblico, e di portare la magia della finzione per terra tra i piedi degli spettatori. Lo spazio del palcoscenico non è fatto di delimitazioni, ma di condivisione d’aria. Sogno d’una notte di mezza estate è effettivamente un gioco tra reale e finzione, tra il di qua e il di là, uno spazio cangiante in cui fate e uomini (e attori) convivono. Attori e uomini non sono la stessa cosa; il corpo dell’attore è lo spazio della scena, elemento evocativo dell’altra realtà: quando spalanca le braccia può diventare un muro, e se allarga le dita vuol dire che quel muro è crepato. Quando getta una manciata di foglie secche per terra, vuol dire che pochi attimi dopo potrà apparire una fata perché quello è il suo bosco. Attorno all’altalena di Puck (Lukas Lizama) si dispongono gli attori; nella realtà, uomini e donne improbabili, un po’ meschini e alquanto ridicoli, nella finzione, eroi indimenticabili. C’è chi (Angelica Bifano) nella vita vera è una macchietta con difficoltà locutorie, e nella finzione diventa la bellissima Ermia, promessa sposa di Demetrio (Luca Iervolino), amica di Elena (Biagio Musella) e innamorata di Lisandro (Gennaro Apicella). Ma Elena e Lisandro possono essere anche fate, così come Puck può diventare un albero, così come Elena e Demetrio possono diventare un muro. Il brillante riadattamento di Rosario Sparno rispetta la complessità dell’attore come spazio della finzione, e le sue maschere come architetture del teatro. Architetture più che mirabili: in particolare, Musella e Apicella, solidi e generosi, avanzano come una nuova convincente generazione di giovani attori che fanno della maschera un elemento della modernità, mai nostalgici e pieni d’inventiva. Il pubblico gioisce di un gioco così portentoso.

Visto a Sala Assoli, Napoli; Crediti; Da William Shakespeare; Adattamento e regia di Rosario Sparno; Aiuto regia Antonella Romano; Con Gennaro Apicella, Angelica Bifano, Luca Iervolino, Lukas Lizama, Biagio Musella; Scena Omar Esposito; Luci Simone Picardi; Costumi Giuseppe Avallone; Foto di scena Pino Miraglia; Produzione Casa del Contemporaneo.

PRÓXIMO (di Claudio Tolcachir)

Pablo ed Elian (Lautaro Perotti e Santi Marín) condividono uno spazio ristretto; elementi d’arredo molto diversi tra loro si  dispongono in un appartamento in cui i due possono muoversi un po’ a fatica. Ma la loro non è che la piacevole impressione di stare sempre assieme, poiché comunicano solo per mezzo di videochiamate. Non si sono mai fisicamente conosciuti: uno è un famoso attore spagnolo della televisione, l’altro è un lavoratore argentino emigrato in Australia. Il loro è uno spazio di proiezione emotiva, ma realistico proprio per quella familiarità con cui i due protagonisti vi si muovono. Un realismo "manualistico" fa della scena una teca priva d’aria. Le regole mielose del melodramma gestiscono le loro esistenze ben inquadrate in meccanismi di riconoscibilità narrativa; i ruoli e le azioni con le loro ragioni sono talmente smascherate da risultare facilmente prevedibili, se non proprio scontate. Anche i principi del genere sono seguiti con eccessiva pedanteria, senza vigore o estro. Ciò che li identifica è l’appartenenza a classi diverse: Pablo è un ricco viziato e un po’ superficiale, figlio oppresso di un politico reazionario, e con difficoltà ad accettare completamente la propria sessualità; Elian si arrangia come può tra numerosi lavori, una vita isolata, la preoccupazione per la madre malata, e il pressante problema dei documenti scaduti. Non ci sarebbe nulla di male se tutti questi elementi non avessero una sola funzione molto semplice: strutturare una storia d’amore che possa piacere a colpo sicuro a chiunque. L’aspetto emblematico della vicenda è mortificato dalla debolezza delle sue motivazioni: di sicuro coerente con l’idea che le brevi chiamate e la distanza aprano dei vuoti e delle mancanze nella visualizzazione di un individuo. Ma Pablo ed Elian non hanno vita; ciò che potrebbe meglio caratterizzarli viene lasciato allo stato di bozza, esattamente come i contesti in cui sono immersi, probabilmente perché non sono utili: approfondire con cura, scavare, vuol dire incontrare il gusto di alcuni e non di tutti.

Visto a Teatro Sannazzaro, Napoli; Crediti: Scritto e diretto da Claudio Tolcachir; Con Lautaro Perotti e Santi Marín; Scene Sofia Vicini; Costumi Cinthia Guerra; Luci Ricardo Sica; Produzione Timbre 4 – Carnezzeria

STAND UP POETRY (di Lorenzo Maragoni)

Una storia che ci contenga tutti, che ci faccia sentire parte di un destino collettivo, oppure una storia qualsiasi di una persona qualsiasi persa nel supermercato a inventarsi nuove identità da acquistare in offerta. Di questo ha bisogno Lorenzo Maragoni, poeta, attore e campione mondiale di Slam Poetry 2022: di una storia. Perciò questo fa, radunando attorno a sé il pubblico dell’Argot Studio: racconta storie. Il suo è il sorriso accogliente del poeta che nel 2023 non può e non vuole mettersi in posa, perché ha bisogno che la poesia sia una cosa viva, che viaggi per il mondo “dritta”, che vada a capo solo per lasciare quel vuoto utile a farsi riempire ancora. Il suo spettacolo fonde la Stand Up Comedy con la Slam Poetry, servendosi del classico palcoscenico sgombro, di uno sgabello utile solo a sorreggere un sorso d’acqua e dell’asta di un microfono cui poggiarsi. Con leggerezza i versi sciolti si alternano alle rime e alla prosa, in un’ora di saliscendi tra universale e quotidiano, miseria e sublime, gioia e profondo dolore. Tutti sono poeti, meglio sarebbe non esserlo eppure quanto ne gioveremmo se tutti scrivessimo, riconoscendo alla poesia il potere di essere la porta su questo mondo incomprensibile, consolazione e condanna, altrove e hic et nunc. Maragoni sfrutta benissimo la propria fresca presenza, la mimica facciale allenata a quel dire che tocca la performance, ma non si prende mai sul serio. Con gli occhi e il sorriso corre incontro al pubblico finché il suo declamare diventa un sussurro e inavvertitamente ci si ritrova sul palco con lui, vicini e protesi alla verità del suo scanzonato giocare con le parole. (Sabrina Fasanella)


Visto all’Argot Studio.
Di e con Lorenzo Maragoni.
produzione TRENTO SPETTACOLI

1936#CERCO MIO FIGLIO#SI CHIAMA FEDERICO (di M. Carniti)

Non c’è biografia che possa contenere l’anima di un poeta, i suoi paesaggi interiori, il suo sguardo sul mondo. Neanche declamarne i versi può restituire più di un’ombra della persona e del suo destino, antologia di segni. Soprattutto se il poeta è Federico García Lorca, il cui corpo barbaramente ucciso e mai rintracciato giace ancora nelle fosse comuni della guerra civile spagnola. Marco Carniti sceglie di raccontarlo consegnandone i versi a una voce altra e medesima, quella della madre che lo ha perso. La lettera iniziale del suo nome, lapide mai esistita, campeggia proiettata su uno schermo quando Carniti - spirito, guida, cronista – giunge dalla platea a inaugurare il viaggio. In un teatro da distruggere, spoglio e scarno, pronto a farsi abitare soltanto dalla vibrante presenza invisibile del duende, Caterina Vertova è Vicenta Lorca Romero. L’urlo soffocato del suo appello è cante jondo e fierezza, finestra aperta e cancello chiuso. La drammaturgia di Francesco Tozzi è frutto di un’attenta selezione: non c’è invenzione, ma composizione di un mosaico di versi del poeta che splendono di profetica efficacia sulle labbra della madre. Vertova è terra e sangue, piedi nudi e voce che esplora senza esitazione. Attorno a lei, come spiriti vorticanti, le scene di luce proiettata del pittore catalano Frederic Amat. Pochi gli elementi che la circondano, un tablao che è insieme palco e ambone, qualche fotografia, un ventaglio, mai didascalici. La messa in scena alterna verso e cronaca, volo e schianto, nel dialogo tra Carniti e Vertova: l’uno presta la voce alla Storia, all’inchiesta, al fatto reale. L’altra lo assorbe, se ne fa abitare, nella veglia permanente del dolore, con la dignità muta e ferma della perdita, l’ostinazione contro l’ingiustizia, la fede nella bellezza. “Quando morirò, lasciate il mio balcone aperto”: i versi di congedo di Lorca si compiono nello spettacolo. Il balcone è aperto, quell’universo poetico è così potentemente evocato che potrebbe fare a meno del racconto didascalico dei fatti. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Off-Off. Con Caterina Vertova e Marco Carniti. Testi di Federico García Lorca. Drammaturgia Francesco Tozzi /Marco Carniti. Scenografia Video Frederic Amat. Musiche Originali David Barittoni. Aiuto regia Francesco Lonano. Regia di Marco Carniti

MARINELLA (Di S. Riggi Regia C. Pagliucchi)

Marinella, Miché, Don Raffaé e Cicirinella: impossibile nominarli senza canticchiare le melodie che Fabrizio de André ha dedicato loro, ispirandosi a protagonisti della cronaca che la sua musica ha reso archetipi. Salvatore Riggi, classe 1996, prende in prestito questi nomi e destini e li fa incontrare nella Napoli degli anni 80, immaginando un intreccio che convergerà nell’epilogo raccontato da Faber. Cicirinella e Michele sono amici e complici di piccoli reati, uniti soprattutto dall’amore per Marinella, giovane prostituta che sogna di cambiare vita per amore. L’attrice che la interpreta (Roberta Di Somma) è delicata e innocente fin nel costume, a rappresentare più che la malavita, la freschezza della gioventù, la possibilità di riscatto, il desiderio di una vita libera. Ma Don Raffaele, boss giovane ma già potente e colluso con la polizia, ha in mano le loro vite. Se Marinella è l’oggetto del desiderio, Cicirinella (Mariano Viggiano) è il personaggio drammaturgicamente più efficace e completo: scanzonato e furbo, è lui a muovere la vicenda, disposto a sacrificarsi in nome dell’amicizia in un efficace climax emotivo. Il mood è quello di una storia di malavita, amicizia e amore, con gli ingredienti tipici del cinema e della tv di genere. La messa in scena si serve di contributi video che punteggiano lo svolgimento drammaturgico mutuandolo all’inchiesta televisiva; seppur ben realizzati e utili a gestire i diversi salti temporali della storia, a tratti compromettono il ritmo e la fluidità della narrazione, già divisa visivamente sui due palcoscenici perpendicolari del teatro Lo Spazio. Anche le scelte musicali, escludendo a ragione il repertorio di De André, sembrano confermare l’immaginario cinematografico/seriale che la regia di Christian Pagliucchi assegna alla messa in scena: naturalistica e al servizio della vicenda, dunque priva di quello slancio onirico/poetico che avrebbe maggiormente coronato la derivazione dai celebri brani del cantautore genovese. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Lo Spazio. Di Salvatore Riggi. Regia: Cristian Pagliucchi. Con: Bruno Ricci, Roberta Di Somma, Cristian Pagliucchi, Luca Carbone, Mariano Viggiano. Video: Matteo Genovese.

LA LUPA (regia di Donatella Finocchiaro)

Nelle intenzioni di Donatella Finocchiaro, regista de La lupa, il proprio recente rifacimento della novella verghiana, visto al Biondo di Palermo in questi giorni, dovrebbe «fornire un’inedita interpretazione grazie a un punto di vista per la prima volta totalmente femminile». La vicenda della 'Gna Pina, donna ossessionata dalla passione carnale per il giovane Nanni, era stata tratteggiata dal verista come manifestazione allucinata di un istinto animalesco incontrollabile, descritto a tinte cupe, già espressionistiche. Ora Finocchiaro decide di intestarsi una lettura superficialmente femminista della vicenda, enfatizzando della protagonista il suo essere vittima delle convenzioni sociali. Un'operazione prevedibile, concretizzatasi infatti in un allestimento da fiction. Il femminile descritto finisce per rinforzare gli stereotipi oggetto della presunta messa in discussione; la complessa sessualità della protagonista verghiana viene qui tradotta dalla regista, che oltretutto ne veste i panni, in una sorta di velata ninfomania pruriginosa e ammiccante. La scena è un quadro banalmente descrittivo: mura rustiche, paglia, polvere, lenzuola stese, mobili di legno, utensili agricoli. Tra giorno e notte, buio e luce, le donne sono depositarie silenziose e maliziose di una sensualità lasciata emergere in scenette di lontano gusto emmadantesco. La rigidità degli uomini vi si oppone senza troppa padronanza. Nelle scene di gruppo i numerosi intepreti affastellano la scena piuttosto caoticamente, nell'assenza di una concertazione corale dello spazio. L'elemento popolare vive in facili soluzioni comiche, mentre l'eloquio di attori e attrici è per lo più un fatto letterario, declamato in modi e pose affettate, poco verosimili. In questa co-produzione del Teatro Stabile di Catania e Teatro della Città ci si compiace del solito sicilianismo di maniera, che intercetta agevolmente il gusto della borghesia più provinciale ammiccando alle sue reminiscenze scolastiche. Il risultato: un drammone sentimentale da prima serata. (Tiziana Bonsignore)

Visto al teatro Biondo. Crediti: di Giovanni Verga, regia Donatella Finocchiaro, progetto drammaturgico e collaborazione alla regia Luana Rondinelli, movimenti di scena Sabino Civilleri, con Donatella Finocchiaro, Qui il cast completo

ION (regia Dino Lopardo)

Il Teatro Libero di Palermo ha recentemente ospitato Ion, da un'idea di Andrea Tosi, scritto e diretto da Dino Lopardo, già vincitore come miglior progetto al festival inDivenire 2019. In una stanza squallida e misera, arredata con pochi mobili industriali, abitano i due fratelli Paolo (Alfredo Tortorelli) e Giovanni (Lorenzo Garufo). Il primo è agile, scattante e insofferente: sul suo corpo grava una tuta proletaria, simbolo di quel mezzo utile a rasentare la sussistenza. Il secondo è un omone chino su se stesso, raccolto in un mondo di immagini poetiche, di simboli plasmati da un italiano cesellato, inconciliabile con l'asperità dialettale dell'altro. Due mondi a confronto: quello fittizio, della produzione, della catena di montaggio lungo il cui nastro si fabbricano sogni di plastica ma necessari alla sopravvivenza; quello immateriale e verissimo del come se, dell'arte che si erge sulle ceneri del come è rimanendovi irrimediabilmente estranea. Nulla accomuna Giovanni e Paolo, se non la condivisione di una vita che non hanno scelto e li costringe in una manciata di metri quadri. È tutto teso tra la crudezza del quotidiano arrancare e la fuga in una dimensione altra, questo Ion: dualità che si riverbera sulla concreta povertà nella quale i due protagonisti sono immersi, imponendovi atmosfere oniriche, lunari. Da queste emerge il contenuto traumatico latente: la violenza domestica, l'abuso, la "colpa" dell'omosessualità di cui Giovanni, anima delicata in un sud troppo profondo, si è macchiato agli occhi della parentela. La madre (Iole Franco), appare evanescente in episodi rievocati in flashback, chiave di volta per la comprensione del vissuto dei due. I movimenti dell'arredo scenico accompagnano questo processo di agnizione, aprendo la casa dei protagonisti ad altri universi. Le luci colpiscono ed evidenziano corpi, volti e particolari, ed enfatizzano l'essenziale fotografia: l'intero allestimento è una macchina di sogni crudeli. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Libero. Crediti: diretto da Dino Lopardo da un'idea di Andrea Tosi con Iole Franco, Alfredo Tortorelli e Lorenzo Garufo. Gommalacca Teatro / Dino Lopardo / Collettivo I.T.A.C.A. Foto di Giovanni Lancellotti

MADRE (Teatro delle Albe)

Prima delle parole di Marco Martinelli c’è Nora, “non volevo diventare come lei: era vecchia, aveva mani grosse e dure[...], la gente diceva che era una strega”, scrive Ermanna Montanari nel curatissimo libro di sala di Madre. E poi c’era il pozzo dove la vecchia Nora portava la bambina, sollevandola per farla guardare in basso, nel vuoto, “nel gran buio, un’eco assordante del boato della nostra voce”. La voce appunto, suono interiore, cercato nei decenni passati, perché Ermanna Montanari è ancora qui, presente alla sua ricerca, intenta a cercare quei toni, quei colori scuri, striduli con i quali dare voce alle streghe. Questo amore, questa cura da parte dell’artista verso il proprio talento, la propria ricerca, dopo tanti anni è commovente. Siamo nella sala studio dell’Auditorium, qui il Teatro delle Albe ha portato un concerto scenico, un lavoro suggestivo fatto di suoni dal vivo, quelli del contrabbasso di Daniele Roccato, delle voci spaventevoli di Montanari e delle immagini create, anche queste dal vivo, da Stefano Ricci. E, dalla prima fila, di Ricci si posso sentire i respiri, gli affanni, la fatica tutta performativa che impiega in questo atto quasi mistico, nel quale abbandona se stesso a una sorta di trance artistica in cui elabora e poi cancella ciò che appare proiettato su un fondale circolare, il pozzo della nostra visione. La storia ribalta la consuetudine, non è il solito incubo genitoriale, non è il figlio a cadere nel buco. Nei primi attimi, mentre Ricci disegna un ragazzo di spalle, Montanari suona il proprio strumento vocale creando fruscii, respiri, fiati tra le canne. Il ragazzo corre verso il pozzo, ha saputo che la madre ci è caduta dentro. Eppure in questo dialogo tra il figlio e la madre non sembra esserci possibilità per la tenerezza, è la durezza della campagna a manifestarsi. E allora quel dialetto romagnolo quando arriva non ha nulla di sorridente e affabile, è lingua spietata, affilata, diventa una macchina che macina parole e suoni, dal buio di un pozzo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Studio, Auditorum. di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato poemetto scenico di Marco Martinelli regia del suono Marco Olivieri realizzazione elementi di scena squadra tecnica Teatro delle Albe produzione e promozione Silvia Pagliano

SONOMA (coreografia, in collaborazione coi danzatori, di Marcos Morau)

Il gruppo spagnolo La Veronal di Marcos Morau è tornato al festival FOG di Triennale a Milano. Sonoma è lavoro ispirato alle opere e alla vita del regista Luis Buñuel, maestro del cinema surrealista. Riprende un precedente lavoro, nato per il Ballet de Lorraine nel 2016, dal titolo Le Surréalisme au service de la révolution, già visto a Les Recontres Chorégraphiques Internationales de Seine-Saint-Denis. All’epoca ricordo non mi convinse perché la dimensione teatrale non sembrava connettersi con quella coreografica, e l’impressione era di un mondo di segni ancóra incompiuto. Ora invece la macchina scenica è perfetta, sotto molti punti di vista: nove straordinarie interpreti, quasi sempre tutte in scena, orchestrano fughe e abbandoni, tra disciplina religiosa e trasgressione folklorica, come se nella dimensione onirica e in quella dell’istinto potesse prefigurarsi una nuova realtà. «È una storia strana, lontana, legata a una leggenda sulla valle di Sonoma, in California, dove i nativi americani credevano che la luna si accoccolasse», scriveva Anna Bandettini nel 2022 da Rovereto. Ed è davvero una luce lunare qui tutta in caduta libera. Le citazioni (anche musicali) naturalmente si inseguono e si sovrappongono, ma ciò che più colpisce è l’alta tenuta, l’intensa durata di una organizzazione scenica alla fine semplice, quasi elementare, anche poco coreografica. Nel senso che la gestica, così come i fitti percorsi e le entrate con costumi a effetto, sono intensamente ripetuti ma per disposizione (spaziale) non per invenzione (cinetica). Mentre la dimensione visiva della composizione è prevalente su quella psichica, così come la disposizione del set dilaga sempre in una maniacale frontalità. Fino allo splendido finale, con tanto di pieno accordo in crescendo di nove tamburi di Aragona, che conducono all’ultimo intenso climax prima degli applausi. Ora forse meglio comprendo il facile-facile testo d’avvio di El Conde de Torrefiel, La Tristura e Carmina S. Belda, tutto invocante cambiamento e salvezza nell’abbandono alle verità catartiche (ritmico-dinamiche) del sogno. (Stefano Tomassini)

Visto a FOG, Triennale di Milano. Ideazione, direzione artistica: Marcos Morau coreografia: Marcos Morau (in collaborazione con i danzatori) danzatori: Alba Barral, Angela Boix, Julia Cambra, Laia Duran, Anna Hierro, Ariadna Montfort, Núria Navarra, Lorena Nogal, Marina Rodríguez testo: El Conde de Torrefiel, La Tristura, Carmina S. Belda répétiteurs: Estela Merlos, Alba Barral consulenza artistica e drammaturgica: Roberto Fratini assistente vocale: Mònica Almirall direzione tecnica, luci: Bernat Jansà direttore di scena, oggetti di scena, effetti speciali: David Pascual suono: Juan Cristóbal Saavedra voce: María Pardo scenografia: Bernat Jansà, David Pascual costumi: Silvia Delagneau sartoria: Ma Carmen Soriano modisteria: Nina Pawlowsky maschere: Juan Serrano (Gadget Efectos Especiales) creazione giganti: Martí Doy oggetti di scena: Mirko Zeni produzione

ULTIMI ARTICOLI

Fondato da un attore per gli attori. Sul San Ferdinando, intervista...

È appena terminato l’anno che ha segnato il ricorrere di un doppio anniversario: il quarantesimo della morte di Eduardo De Filippo e il settantesimo...