TUTTE LE PERSONE VIVE (di Rosalinda Conti)
La straziante gentilezza che «cerca di convincere e convincersi» arrovellandosi nelle curve delle parole, come in una corsa ma senza affanno, anima Tutte le persone vive, scritto da Rosalinda Conti per la regia di Lorenzo Montanini. Il lavoro, dopo la residenza multidisciplinare della bassa Sabina al Teatro delle Condizioni Avverse, della quale si percepisce la stratificazione di tempo e studio, debutta a Fortezza Est che lo produce e presenta in anteprima in una sala strapiena di pubblico, per il quale c’è stato bisogno di aggiungere sedie e panche ulteriori rispetto a quelle previste. Una struttura di ferro esile rivestita di pannelli di plastica è montata al centro della scena, una sorta di serra all’interno della quale in alto a sinistra è accesa una tv con segnale assente, mentre sulla destra al tavolo di legno è seduta l’attrice Giordana Morandini, Agata. Bandierine colorate a tagliare in obliquo lo spazio, una bottiglia di spumante, una torta. Nessuna festa: «ho letto che inevitabilmente i funghi [...] prenderanno possesso di ogni nostro oggetto». Da questo assunto prende la discesa, perché non ci sarà risalita alcuna se non l'umanità di una conclusione nichilista che confessa «io non so niente», il soliloquio sulla vita e la perdita, denso di anafore e ripetizioni e congiunzioni e avverbi compressi in frasi che si alternano a pause di lunghi silenzi e a sfoghi sulle note di Rocky Roberts. E anche lacrime, quelle che scivolano sul volto insieme allo sciogliersi del trucco. La scrittura segna il momento in cui, prima o poi, tutte e tutti ci troveremo scoperti nel nostro mezzogiorno della vita, «in un tempo senza riparo e senza rifugi» e così Agata, davanti al lutto dell’albero con il quale condivideva il rettangolo davanti casa, escogita una dichiarazione di emotività, esagerata in alcune ridondanze interpretative e testuali che sarebbe consigliabile limare ulteriormente, che ci interroga palesando i disgraziati tentativi tramite cui non accetta la fine, «io posso morire gli altri no», e che permettono, nella solitudine, di trovare tuttavia «un modo di salvare me e di salvarmi il cuore». (Lucia Medri)
Visto a Fortezza Est: di Rosalinda Conti, regia Lorenzo Montanini, con Giordana Morandini, locandina Francesca Mariani, uno speciale ringraziamento a Daniela Dellavalle, Residenza multidisciplinare della bassa Sabina Teatro Delle Condizioni Avverse, produzione Fortezza Est. Foto Manuela Giusto
Il giardino dei ciliegi (regia Rosario Lisma)
All'inizio del secondo atto Ljuba, Leonid e Lopachin prendono il sole abbandonati sulle sdraio, Lopachin cerca di imitare la postura del fratello spensierato e giocoso di Ljuba: braccia incrociate dietro la testa, gambe stese e tallone del piede destro in equilibrio sul sinistro. Un menefreghismo aggraziato, un quieto vivere nonostante qualche giorno dopo la proprietà con tutti i suoi ciliegi andrà in vendita. Questa scena è emblematica dell'intera messinscena di Rosario Lisma; nei piccoli gesti emerge l'umanità di un attore che mette a disposizione se stesso per il ruolo. Negli occhi di Lisma c'è una fragilità commovente che poi si trasforma nell'arrivismo con il quale Cechov fotografa il passaggio di un'epoca: il nuovo capitalismo è alle porte e i ciliegi possono lasciare spazio ai villini in grado di rendere tutti ricchi, anche questa famiglia adagiata su un passato aristocratico. Lisma tenta di avvicinare Cechov al pubblico di oggi: da Parigi Ljuba riceverà messaggi sullo smartphone da parte dell'uomo che l'ha lasciata e certi atteggiamenti e battute posizioneranno questa storia, di inetti malinconici e poetici, nel nostro tempo. Non tutti apprezzeranno le scelte: alla fine della prima parte una spettatrice si lamenta (e non rientrerà al secondo tempo) proprio degli inserti contemporanei, come di certi ruoli, di una Ljuba poco aristocratica, poco regale. Ma la proprietaria terriera di Milvia Marigliano è una viziata di oggi, che non impara dai propri errori, frutto di un’epoca tutto fuorché regale, la nostra. Siamo noi quei personaggi che entrano dalla cornice come i fantasmi pirandelliani dei celebri Sei: abbiamo perso tutto - in questa versione il maggiordomo Firs è già morto, rimane la voce di Roberto Herlitzka - e chiusi in un eterno ritorno non ci rimane altro che ricordare la stanza dei giochi; alcuni di noi, quelli che meglio intendono il nostro tempo fanno come il Lopachin di Lisma dirigono l’orchestra delle motoseghe, mentre tutto cade, mentre i ciliegi vengono abbattuti. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sala Umberto di Anton Cechov adattamento e regia di Rosario Lisma con Milvia Marigliano, Rosario Lisma, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli, Dalila Reas scene: Federico Biancalani costumi: Valeria Donata Bettella luci: Luigi Biondi con la partecipazione in voce di Roberto Hertlizka produzione Tieffe Teatro Milano/Teatro Nazionale Genova/Viola Produzioni srl
ULTRA Screendance Festival
La videodanza è viva e gode di ottima salute. A Udine, grazie all’intraprendenza del danzatore e coreografo Francesco Collavino è nata ULTRA Screendance Festival, rassegna di due giorni con 23 cortometraggi e mediometraggi, provenienti da 18 paesi del mondo. Il progetto è stato realizzato in sinergia con il celebre Dance ON Screen FilmFestival di Graz: ed è una garanzia sul valore delle opere selezionate. A partire dal bellissimo corto dell’israeliano danzatore di Batsheva Matan Arie Cohen, Composure(2021). In un assolo tutto fisico, tutto vibrato nelle ossa e nella pelle, compendia in progressione oscurità e pazzia sulla musica di Beethoven. Ma il corpo è al centro anche quando trova nuove possibilità nella sparizione, come nel video di Nicole Seiler, Amauros (3) (2014). Si tratta di una breve audiodescrizione, su schermo nero, con in primo piano i rumori dei gesti e dei movimenti di coreografie che non sono mostrate. Presenza (nell’udito) in assenza (della vista), per espandere la percezione e dilatare l’immaginario. Fra le proposte italiane, Vito Alfarano ha presentato Intangout (2018), realizzato nel carcere di Bari. Dopo un corso di tango di sei mesi, i detenuti mettono in relazione questo «ballo da soli uomini ballato» con le prossimità dei corpi e i vincoli alla persona imposti dalla condizione carceraria. Ancorato invece alle dinamiche confessionali, e alla retorica intimista, delle dirette online in tempo di pandemia è invece il video di William Amstrong, Unspoken (2021). Qui il noto coreografo e direttore artistico del Netherlands Dance Theatre, Paul Lightfoot, lavora a distanza con un danzatore danese per elaborare il trauma di non potersi congedare dal padre morente in ospedale. Più in generale, sembrano precisarsi almeno due diverse tensioni: da una parte la necessità di usare il video per espandere le possibilità compositive della danza; dall’altra, la capacità di intensificare ciò che riguarda la danza, e il mondo che la circonda, attraverso il linguaggio filmico e la contaminazione transmediale della cultura cinematografica. (Stefano Tomassini)
Visto al Visionario di Udine, 16-17 marzo 2023. Direzione ULTRA Francesco Collavino, curatela Valentina Moar, coordinamento Beatrice Pellos, progettazione grafica Lorenzo Rindori
LA MARIA BRASCA (regia di Andrée Ruth Shammah)
Dirompente e popolana, ma anche persuasiva, irrequieta e anticonformista. La Maria Brasca di Testori è sempre stata una vertigine di passioni e umori. Calzettaia ma anche donna emancipata dal ruolo sociale entro cui è costretta a immaginarsi, vive gli Anni Sessanta ai margini della città milanese, indifferente al chiacchiericcio pregiudizievole della sua piccola comunità di periferia. Non si fa problemi, questa donna Brasca dai riccioli biondi - briosa e risoluta nell’impetuosa performance di Marina Rocco in scena al Franco Parenti - quando esce con uomini diversi, non si fa problemi se questi uomini poi la stufano e l’annoiano, non si fa problemi neanche quando decide di lasciarli, innescando quel moto centripeto di dicerie che finisce, come un appuntamento consolidato, per abitare le bocche di tutti. Ma è quando incontra l’amore, che porta il nome di Romeo (Filippo Lai), che comprende che, alla fine, “nella vita le cose son di chi ci mettere sopra le mani per primo”. E difatti nulla la trattiene dai suoi slanci amorosi, nemmeno i moniti della coppia familiare con cui convive, formata dall’accogliente e fedele sorella Enrica e dal lavativo cognato Angelo (rispettivamente una Mariella Valentini e un Luca Sandri che battibeccano attraverso interpretazioni davvero genuine e bilanciate). È allora che tutto il suo agire si fa dinamica di conquista: di un amore corrisposto, di una relazione esclusiva e del mantenimento di una posizione di desiderata indipendenza. Trent’anni dopo il lavoro che portò in scena negli Anni Novanta, sempre prodotto dal Teatro Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah riprende in mano questa pièce e ne rinnova con premura i caratteri, modificando con alcuni accorgimenti l’originale e riflettendo su un nuovo allestimento, curato da Albertino Accalai, che fa convivere sul palco con tragicomica armonia i calorosi ambienti domestici e i tremori delle pareti al passaggio dei treni, le autunnali corti milanesi e i sedili vuoti di uno spettacolo che non ha ancora smesso di divertire. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: di Giovanni Testori, uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah, con Marina Rocco, Mariella Valentini, Luca Sandri, Filippo Lai, scene Gianmaurizio Fercioni, costumi Daniela Verdenelli, luci Oscar Frosio, musiche Fiorenzo Carpi,
L’AMANTE (regia Veronica Cruciani)
La vita coniugale di Richard e Sarah, protagonisti de L’amante di Pinter, non è forse esemplare. Veronica Cruciani, nella sua recente regia del dramma, intende «affondare ancora di più il coltello nella piaga», come lei stessa ammette. Della vicenda dei due personaggi, una coppia di sposi che ricorre a travestimenti e tradimenti fittizi per restare unita, il lavoro di Cruciani, visto al Brancati di Catania, coglie da un lato la concretezza della vicenda umana, dall’altro, al contrario e al contempo, quanto appartiene alla finzione scenica. Sul primo fronte, alla vicenda di Richard e Sarah si sovrappone quella degli interpreti, Graziano Piazza e Viola Graziosi – coppia nella vita, e il dettaglio non è insignificante. All’inizio dello spettacolo, vestiti dei loro abiti, agiscono sul palco come provando lo spettacolo che sta per svolgersi. Si attirano subito l’empatia del pubblico, e la manterranno per tutto il tempo: sono vivaci, potremmo dire autentici. Sono davvero marito e moglie, mostrano le mani con le fedi; copione alla mano, si confrontano col testo ripassandone e ripetendo le battute. Ma un po’ alla volta costruiscono il gioco teatrale: scoprono l’arredo della scena (un arredamento in stile Mid-century, “comodo e di buon gusto”), indossano gli abiti di Richard e Sarah. Gli attori incarnano ora i loro personaggi, dunque il loro camuffamenti; tuttavia, su di loro, negli occhi del pubblico, rimane impressa la concreta, smascherata esperienza di vita. Ed è proprio in questa ambivalenza tra il come se e il come è che lo spettacolo diviene un grande dispositivo dal quale, sempre più, viene bandito il richiamo a ogni referenza oggettiva. A consumarsi, sul palco, è un’allucinazione in cui vengono scoperte le turbe e le psicosi di una vita matrimoniale fondata, al pari del dramma in cui essa trova rappresentazione, sulla sospensione dell’incredulità. L’interno borghese diviene un dispositivo in cui gli effetti sonori (di John Cascone), luminosi e cromatici (di Andrea Chiavaro) invadono e trasfigurano la scena, trasformandola nella proiezione di un inconscio rovente, pulsante oltre le più gelide convezioni di rappresentanza. Perché è nelle apparenze della vita reale, il problema; nel mondo dell’immaginazione è ancora possibile salvarsi, insieme. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Brancati, Catania. Crediti: di Harold Pinter, traduzione Alessandra Serra, regia Veronica Cruciani con Viola Graziosi e Graziano Piazza scene e costumi Veronica Cruciani e John Cascone drammaturgia sonora John Cascone disegno di luci Andrea Chiavaro
IO SONO NIJINSKY (di Daniele Bernardi)
Un uomo vestito di bianco tira una slitta, il vento lo colpisce, una luce azzurro ghiaccio lo accompagna mentre attraversa lo spazio da destra a sinistra fino a quando metterà i piedi in un quadrato, anch’esso bianco, in quel momento la luce cambierà mostrando con maggiore calore la figura nella sua interezza. Sulla slitta una marionetta, verrà poi appoggiata su una croce. A destra della lapide una casa in miniatura, illuminata. Sul limitare sinistro un albero di natale. Daniele Bernardi, bianco in volto, in bocca una bizzarra pronuncia che si incaglia sulle r e sulle s. Nijinsky aveva difficoltà a parlare, mi spiegherà poi. Ma questo lavoro visto al Teatro Lo Spazio è tutt’altro che un racconto realistico della vita del mitico danzatore dei Balletti Russi. Bernardi ha la capacità evidente di estrarre l’essenza poetica dalla drammaturgia da lui stesso costruita a partire dai diari dei Balletti Russi di Vaslav Nijinsky e dalle biografie scritte dalla moglie del ballerino, la contessa ungherese Romola de Pulszky. Come d’altronde è poetico il piano visivo, nel bianco di un segno preciso che ha un purezza orientale (si veda l’omaggio a Masaki Iwana sulla locandina) nella costruzione di un personaggio teatrale che, al di là della sovrapposizione o meno con il ballerino, è omaggio alla passione artistica e all’immagine teatrale intesa come epifania scenica. Io sono Nijinsky, visto sul palco del Teatro Lo Spazio, è una scoperta preziosa; Bernardi ha trovato un linguaggio in grado di creare un piccolo mondo in cui far apparire la vita dolorosa, ma anche affascinante del Dio della danza: dal rapporto - oggi diremmo tossico - con il celebre impresario Djagilev, al tempo trascorso a St. Moritz, dalla povertà in Russia alle grandi tournée internazionali. Poi quella scena, debordante, eccessiva, ma coerente con chi credeva d’altronde di avere un canale diretto di comunicazione con Dio, Bernardi la racconta con maestria. L’attesa di fronte a centinaia di persone per uno spettacolo in casa, proprio a St. Moritz: Nijinsky è immobile, guarda gli spettatori senza cominciare, per un tempo infinito, prima di prendere il volo. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Lo Spazio di e con Daniele Bernardi a partire dall’opera di Vaslav Nijinsky scenografia, oggetti di scena e tessuto sonoro Ledwina Costantini costumi Luisa Beeli voce fuori campo Raissa Avilés assistente Elisa Pagliaro fotografie di scena Alessandro Ligato. Dal 17 al 19 marzo al Teatro o Spazio di Roma
PENG (regia di Giacomo Bisordi)
Ci vogliono attori capaci per rimanere in bilico in quel limbo in cui realtà, demenzialità e surreale si incrociano, ci vuole una mano registica in grado di organizzare gli elementi sulla scena e restituire così al pubblico una mappa di senso: a Giacomo Bisordi bisogna riconoscere il coraggio delle sfide, sempre alle prese con il teatro inteso come atto collettivo. Qui, con il testo di Marius von Mayenburg del 2017, la cifra politica è evidente. Ma il regista ha un acuto senso dello spettacolo e dunque cerca mille modi per fuggire dall’immobilismo, dal banale e dal pensiero statico. Ralph Peng (un Fausto Cabra che non si risparmia) è il protagonista di una storia bizzarra, a metà tra l’apologo acido e la distopia. In scena di fronte a noi, tra uno schermo issato in alto e un altro laterale, nasce un bambino, già adulto, sotto il segno della violenza e della sopraffazione: è stato lui ad ammazzare la sorella gemella mentre erano ancora nel grembo materno. Ha negli occhi quel male oscuro di un Alex di Arancia Meccanica, ma ha ambizioni più grandi e assolute. Lo spettacolo visto al Vascello che ne è anche produttore, segue la vita del ragazzo inserendo quella dei genitori in una sorta di reality televisivo, con tanto di finte pubblicità. Bisordi riadattando il testo di Mayenburg, anche con importanti interventi, ci dice che oggi non si può evitare di stare al centro della scena. I genitori di Ralph (brillanti Aldo Ottobrino e Sara Borsarelli) non rinunciano alla visibilità di un documentario sulla loro vita, ma non hanno il minimo potere sulle follie del figlio. Vi è una divertente tensione negli accadimenti scenici che riescono a stimolare continuamente lo spettatore a discapito di una logica drammaturgia ferrea (forse avrebbe giovato qua e là il recupero di una certa coerenza). Da segnalare, tra le tante scene in grado di accendere riflessioni, il monologo della dottoressa che aveva fatto nascere il bambino: violenza, guerre e assassini hanno a che fare con l’ormone maschile, la dottoressa, nell’invocazione accorata e toccante di Anna Chiara Colombo, sogna un mondo senza il veleno del testosterone.
Visto al Teatro Vascello di Marius Von Mayenburg traduzione Clelia Notarbartolo con Fausto Cabra, Aldo Ottobrino, Sara Borsarelli, Francesco Sferrazza Papa, Anna C. Colombo, Francesco Giordano e con la partecipazione in video di Manuela Kustermann regia Giacomo Bisordi produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello con il contributo di NuovoImaie
SAMMARZANO (di Malmand Teatro)
Secondo gli ultimi dati pubblicati da openpolis «nel settore agricolo il tasso di irregolarità è stato riscontrato al 58%; il 44% dei lavoratori impiegati risulta completamente in nero e quello agricolo risulta il primo settore per vittime di sfruttamento […] Peculiare del sistema italiano è soprattutto la gerarchizzazione interna […] nonché una particolare esposizione dei lavoratori stranieri e tra questi soprattutto di quelli extracomunitari». Giusto qualche dato per comprendere quella tratta palese rappresentata dagli enormi camion su cui lavoratori - provenienti principalmente da India, Albania e Marocco – vengono ammassati alle prime luci dell’alba per poi rientrare dopo minimo 12 ore di raccolta dei pomodori nelle baracche del Gran Ghetto, nel Foggiano. Questo stato delle cose è il punto di partenza di Sammarzano, lazzo scenico di Malmand Teatro, con la regia di Ivano Picciallo, che trasla la realtà in una narrazione funambolica privata del peso del dramma e ci parla del caporalato attraverso gli occhi di Dino, senza dubbio lo scemo del villaggio. Perché solo uno scemo potrebbe infatti spiegare questa disumanità messa a sistema. La favella ingenua ma cinica di Dino - un convincente e incantato Francesco Zaccaro, insieme a Adelaide Bitonto, Giuseppe Innocente e Ivano Picciallo, loro sono più maschere che personaggi definiti - restituisce il gioco delle parti e ruoli della Commedia dell’Arte. Meno credibile e chiaro tuttavia è l’uso delle maschere sul volto che, se da un alto avvalora il grottesco, dall’altro rischia invece di stigmatizzare la figura del bracciante in quella del servo, o comunque in un ruolo che non permette il riscatto sociale. Dino tra un intercalare e l’altro, seduto a lato della scena, tesse insieme la drammaturgia suddivisa in quadri autonomi: immagini rappresentative, quasi luoghi comuni, del Sud, come le lamentele degli anziani seduti al vespro davanti ai portoni, la taranta ballata da una vedova, i numeri degli imprenditori agricoli e anche la morte, di chi non ce la fa, sancita da una finale risata beffarda. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Basilica: di Malmand Teatro; regia Ivano Picciallo; con Adelaide Di Bitonto, Giuseppe Innocente, Ivano Picciallo, Francesco Zaccaro; luci Camilla Piccioni; costumi Lorena Curti; aiuto regia Marta Franceschelli; maschere Officine Zorba; foto e grafica Manuela Giusto; produzione Teatro Kismet – Teatri di Bari; con il sostegno di IAC – I nuovi scalzi - Nuovo Cinema Palazzo
QUANTO RESTA DELLA NOTTE (di e con Salvatore Arena)
Una sedia, di legno. La scena dello Spazio Franco non prevede altro se non questo umile, funzionale elemento di arredo. Al monologo scritto e interpretato da Salvatore Arena non serve altro. Quanto resta della notte è un viaggio a ritroso, una risalita spazio-temporale che inverte il flusso più consueto. Il protagonista di questo pellegrinaggio giunge infatti dalla Sicilia, dove ha moglie e figli, in una non meglio precisata località settentrionale – l’accento sembra emiliano. Qui l’attende la madre morente, e assieme a lei un passato immobile, riemerso troppo dolorosamente. Come Silvestro Ferrauto, il protagonista della Conversazione di Vittorini, anche il Pietro interpretato da Arena intraprende un itinerario geografico e psichico nel ricordo e nella sua rievocazione. Si tratta di un affondo nella condizione esistenziale di un’umanità offesa, di un mondo offeso. Seduto su quella sedia, Arena cesella la parola con perizia genuina, imprimendo nella mente del pubblico una serie di immagini vividissime. Il loro susseguirsi delinea l’arco vitale di un’esistenza, singolare e universale, abitata da un’intera collettività e dai suoi usi. All’interno del monologo la provincia pre-industriale, con i suoi legami parentali e comunitari, trova riverbero in una caratterizzazione variegata, agita da Arena attraverso un efficace alternarsi di climax e ritmi. Gli astratti furori di Pietro, comunque sia, non trovano pace neppure nella condivisione della propria esperienza. Il momento in cui il trauma riemerge, definitivo, rappresenta il culmine di una progressiva agnizione che non risolve, e anzi enfatizza, il senso di colpa latente. I tre giorni di permanenza nella casa materna si concludono con la morte della genitrice. Una morte simbolica, nella quale si consuma l’infanzia e la possibilità di recuperare nel presente quel passato. E non è neppure vero: esso si vivifica, per tutta la durata del monologo, nella parola e nell’azione di Arena, così come negli occhi e nella mente dello spettatore. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco. Crediti: di e con Salvatore Arena. di e con Salvatore Arena. Produzione Mana Chuma Teatro. Foto di Marco Costantino
OF THE NIGHTINGALE I ENVY THE FATE (Motus)
Inserendosi sulla scia di un percorso avviato con Tutto brucia, i Motus approfondiscono la loro personalissima traccia nel mito e ne sondano il potere di riemersione, dilatandone i margini periferici della percezione. In Of The Nightingale I Envy The Fate il buio occludente dal quale emerge il volto con lunghe ciglia piumate di Stefania Tansini, una moderna Cassandra, è un manto tragico che plasma un ambiente in incessante divenire; il buio è trafitto così da una luce profetica disegnata da Theo Longuemare, che rischiara il candore della pelle di un essere femmineo metamorfico, impressiona nel pulviscolo dell’atmosfera delle immagini in sequenza (memori di certe cronofotografie di Muybridge) e ricrea la visione dell’ampio piumaggio dei volatili. Nonostante questo forte potere che assume la costruzione di immagini nella ricerca di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, l’incipit e l’asse su cui sviluppano il lavoro coreografico si lega in primo luogo all’aspetto sonoro, materico e significante, suono che è al tempo stesso eco premonitore nei riverberi acuti e sibilanti, esile cinguettio di usignolo e silente vocalità umana. È a partire da queste sofisticate estensioni create da Demetrio Cecchitelli, che assistiamo alla trasformazione repentina della figura di Cassandra, ora essere umano inascoltato, ora essere animale mimetico, come nei passaggi descritti dall’epos. Ma lo sconfinamento tra corpo – denso e vibrante nei movimenti coreografici di Tansini – e voce, sibilante e sospesa tra ciò che vuole dire e ciò che è costretta a tacere, è continuo, agito sempre dall’impianto performativo che tenta di reinterpretare le chiavi del mito attraverso le dinamiche del rituale. La pedana, divisa da un lungo tappeto, è il luogo ascetico dove si compirà l’ineluttabile destino; squarciante è il lamento finale di Cassandra, una “litania per la sopravvivenza”, grido acutissimo, fuoco che divampa, luce che strappa il futuro alle tenebre e che torna a parlare nell’orizzonte del presente. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale Teatro di Milano. Crediti: ideazione, regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande, con Stefania Tansini, drammaturgia Daniela Nicolò, suono dal vivo Enrico Casagrande, ambienti sonori Demetrio Cecchitelli, direzione tecnica e disegno luci Theo Longuemare, brano musicale R.Y.F. (Francesca Morello) Ph Andrea Macchia
ROMEO E GIULIETTA (di Mario Martone)
“Non mi ricordavo che Verona fosse un bosco…”, questo dice una signora dalle file dietro mentre inizia Romeo e Giulietta, certo presa ad osservare l’imponente foresta incastonata nel Teatro Strehler da Margherita Palli, per questa versione del capolavoro shakespeariano firmata da Mario Martone. Eppure, estesa sopra una periferia meccanica di barili polverosi dove una vecchia automobile giace come un relitto di nave nell’oceano, quella foresta piena di viluppi e rami intrecciati è metafora della città in cui vita e morte si confrontano come opposti coesistenti, dove odio e amore si danno convegno portando nei medesimi luoghi un linguaggio antitetico. Quelle parole, urlate o sussurrate, sono il codice dell’adolescenza, fatto di assoluti, espressioni prive di dubbio o negazione, sferzate di cui si ignora ogni conseguenza, anche estrema. L’idea di Martone accompagna la vicenda degli amanti pareggiandone l’età: adolescenti i personaggi e così anche la maggior parte dei 30 attori (Francesco Gheghi e Anita Serafini i due amanti), giunti su questo palco dalla vicina scuola del Piccolo Teatro, assieme a un cast in cui brillano di luci aggressive Licia Lanera e Lucrezia Guidone – rispettivamente nutrice e madre Capuleti – ma in cui emergono, come se danzassero con le parole e i gesti, il Mercuzio satiresco di Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti che veste l’abito freak di un dionisiaco Frate Lorenzo e uno straordinario Michele Di Mauro che libera un’energia esplosiva e seduttiva nella brutalità di padre Capuleti. La vicenda è nota, ma vi emerge una freschezza espressiva che tiene assieme la dolcezza e la violenza di quest’opera, quel carattere definitivo che nelle parole degli adolescenti esprime il pensiero che il mondo sia eterno. E non lo è. Ma Shakespeare, sembra dire Martone, è dei giovani, dei solitari che non riescono più a pensarsi come comunità e non si fanno più trovare, di coloro che rifiutano il presente perché sconfitti dall’eccessiva gravità del passato e perché forse troppo è il futuro di fronte, per dirsi davvero parte di qualcosa. (Simone Nebbia)
Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: di William Shakespeare, traduzione Chiara Lagani adattamento e regia Mario Martone; scene Margherita Palli; con Alessandro Bay Rossi, Gabriele Benedetti, Leonardo Castellani, Michele Di Mauro, Raffaele Di Florio, Emanuele Maria di Stefano, Francesco Gheghi, Jozef Gjura, Lucrezia Guidone, Licia Lanera, Anita Serafini, Benedetto Sicca, Alice Torriani... Qui il cast completo
LE RELAZIONI PERICOLOSE (di Carmelo Rifici)
Pubblicato a Parigi nel 1782, Les Liaisons dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos appare subito come uno scritto scabroso, un romanzo epistolare frutto di un’epoca senza religione, che deride le passioni amorose per esaltare invece la più lussuriosa corruzione della carne. In questo testo dello scrittore francese non c’è davvero scampo per i personaggi, tutti morbosamente legati da un efferato istinto di sopraffazione e morte; non c’è scampo nemmeno per quelli della nuova regia di Carmelo Rifici, la cui oppressione è acutizzata dalla precisa fissità nella recitazione, dalle soffocanti tonalità tetre e dai suoni roboanti di un’atmosfera infestata (curati con tagliente sguardo da Federica Furlani). Sul palco che è un’arena, i corpi degli attori - nei costumi che fanno corrispondere all’universo militare quello nobiliare - sono le pedine di un gioco pericoloso, che si mostra nella metafora di un duello di scherma; l’eco delle parole di René Girard «l’Uomo diventa veramente Uomo solo nella Guerra» sono il preludio funesto di un conflitto senza vincitore alcuno. Ora due giovani dal volto mascherato si fronteggiano nell’inevitabilità dello scontro, i fioretti entrano in collisione, gli slanci del corpo ne assestano i violenti colpi, creando una risonanza materica agli elementi testuali recitati. Intorno a questo combattimento di immagini, parole e suoni che ossessivamente rievocano una malattia insita nell’umano, e vero focus su cui la regia insiste, si sviluppa la vicenda: la Marchesa di Merteuil manipola con tediosa lascivia le smanie di potere del visconte Valmont; tramite il suo aiuto si vendica dell’ex-amante Gercourt e induce il visconte a corromperne la promessa sposa Cécile. Agendo sul testo, Rifici e Livia Rossi, sono osservatori attenti e partono dall’originale per riscrivere una drammaturgia integrata agli scritti di altri pensatori (da Nietzsche a Simone Weil ad Artaud): la risonanza è contemporanea e il terreno di scontro che si crea apre uno squarcio vivo, oggi più che mai necessario, tra linguaggi, idee e tempi storici. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: drammaturgia Carmelo Rifici, Livia Rossi, ricerca delle fonti Carmelo Rifici, Ugo Fiore, Livia Rossi, regia Carmelo Rifici, con (in ordine alfabetico) Flavio Capuzzo Dolcetta, Federica Furlani, Elena Ghiaurov, Monica Piseddu, Edoardo Ribatto, Livia Rossi
DA LONTANO – CHIUSA SUL RIMPIANTO (di Lucia Calamaro, con Isabella Ragonese)
La fisionomia dei nostri prossimi è un territorio mutevole. La lontananza è come un agente atmosferico che erode, leviga, dissesta le forme di quel territorio, un vento fra le cose che mangia i confini, mettendo in crisi il concetto di identità. Così la domanda più semplice e radicale che ci possiamo porre di fronte all’alterità, chi-sei-tu, spesso finiamo per rivolgerla nel tono più dolente alle figure che dovremmo conoscere meglio. È possibile una risposta che non ci disorienti, che non inauguri una miriade di altri interrogativi, fino a minare il senso stesso della propria identità? Da lontano – chiusa sul rimpianto di Lucia Calamaro dà forma a questa paralisi, quando il volto messo in questione è quello di una madre. Isabella Ragonese entra in scena esitando, su una porzione bianca del palco che forse è casa, forse è una sala d’attesa, forse un interno, forse un esterno. Dietro una quinta bianca il rumore e la voce di una madre (Emilia Verginelli) distorta da una distanza imprecisata, ma tratteggiata dal tono acuto di bambina o di anziana, dal suono-memoria di una tv accesa o dall’immagine-memoria di un untissimo supplì. Isa è una psicoterapeuta in seduta con sé stessa, a convegno con la rimozione rappresentata da quella parete bianca che protegge e nasconde una fragilità. Sua madre è quella fragilità, una fragilità senza oggetto che non prende mai le forme di una biografia, ma di un rimpianto cosmico. La statura archetipale, sospesa fra realtà e sogno di questa figura si staglia ancor più netta che in altri personaggi nati dalla penna di Lucia Calamaro: tuttavia, proprio qui, l’inafferrabilità del personaggio si scontra con l’interpretazione di Isabella Ragonese, in cui il lirismo del testo diviene affettatezza e cui difetta di efficacia il registro comico connaturato alla scrittura. Finisce così sottotraccia il suo personaggio, soverchiato proprio dall’assenza perfetta della madre, tutta riassunta nel suo cimento, portato avanti durante il dialogo con la figlia, di aprire una finestra sul cielo stellato in quella stanza-al di là, oltre la parete. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro India, Roma. Scritto e diretto da Lucia Calamaro, per e con Isabella Ragonese, con la partecipazione di Emilia Verginelli, disegno luci Gianni Staropoli, costumi Francesca Di Giuliano, scene Katia Titolo, foto di Natalia Nieves Iszakovits, produzione Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini per Infinito Teatro e Argot Produzioni, in collaborazione con Riccione Teatro
EX-ESPLODANO GLI ATTORI (di Gabriel Calderón, regia Emanuele Valenti)
Un angolo bianco straborda dal sipario chiuso del Teatro Metastasio di Prato giungendo fino in platea. Emanuele Valenti, regista e interprete, apre lo spettacolo in entrambe le vesti, avanzando dalla platea e chiamando in causa lo spettatore. Il denso testo del giovane drammaturgo uruguaiano Gabriel Calderón, qui per la prima volta allestito in Italia, contiene già nel titolo un monito rivolto a chi decide di metterlo in scena. Benché si tratti di una citazione di Pepe Mujica circa l’unica possibilità di fare i conti con gli orrori del passato, racconta efficacemente l’andamento schizofrenico del testo e la richiesta che questo fa tanto alla compagine attoriale quanto al pubblico. Calderón gioca con il tempo, fa schizzare in lungo e largo i suoi frammenti e sfida lo spettatore a ricomporre un puzzle familiare tenuto insieme da poche certezze: la forza della lotta, l’irraggiungibilità del vero e la solitudine del dolore. Il background storico originario può qui essere accessorio al focus della vicenda, orientato sulle conseguenze di segreti e dolori che ogni famiglia nasconde. A muovere una narrazione non priva di umorismo è Ana (Lisa Imperatori), figlia cresciuta tra i misteri della propria famiglia e decisa ora a scoprire la verità. L’espediente fantascientifico cui spesso ricorre Calderón è qui una macchina del tempo che riporta i morti in vita e fa convergere i generi letterari e teatrali più distanti, dal realismo magico a Pirandello fino a Eduardo de Filippo (particolarmente evocato dalla provenienza di gran parte del cast di questa produzione, oltre che dalla tragedia che si consuma attorno alla tavola natalizia). Valenti muove agilmente le schegge della storia sulle gambe di sette interpreti generosi messi alla prova da un ritmo serrato che corre (con qualche sporcatura di esasperata caratterizzazione) fino all’epilogo. La forza del finale coincide con la semplicità devastante dell’assenza di una possibile risposta: il bianco abbacinante avvolge Ana e la sua solitudine, mentre da fuori arrivano i suoni di un’esplosione che forse è soltanto la vita che scorre. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Metastasio. di Gabriel Calderón. Traduzione di Teresa Vila. Regia Emanuele Valenti. Con Monica Demuru, Christian Giroso, Lisa Imperatore, Marcello Manzella, Daniela Piperno, Lello Serao, Emanuele Valenti. Scene Giuseppe Stellato. Costumi Daniela Salernitano. Disegno luci Massimo Galardini
ULTIMI ARTICOLI
Orecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender
Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...