Cordelia - le Recensioni

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FEMALE ESCAPE | THE THREE OF US (di SicilyMade)

Nel corso della quarta edizione del FIC Festival / Focolaio di Infezione Creativa, promosso da Scenario Pubblico / Compania Zappalà Danza, si è tenuta Female Escape | The three of Us a cura del collettivo SicilyMade. Tre donne, dalle fisicità molto diverse, entrano in lenta processione all'interno del grande white box in cui si svolge la performance. Brandiscono utensili da cucina, adottati come rudimentali strumenti a percussione: tra Amalia Borsellino, Silvia Oteri, Marta Greco (interpreti alle quali si deve concept e coreografia) si stabilisce anzitutto un lungo rapporto di sonori colpi e contraccolpi; a seguire, momenti che rimandano a una ritualità muliebre condivisa. Dapprima, tutto sembra avvenire in un misterioso gineceo, animato da un'ironia crescente, a tratti surreale. Tuttavia corpo, movimento, parola che, frammentata, è chiamata a decostruire (nel senso più letterale del termine) luoghi comuni e prassi intorno al femminile, diventano presto il mezzo di una fuga che esplode in una corsa tra glitter e lustrini, enfatizzata dalle musica cristallina di Andrea Cable. In qualche divertente e quasi assurdo modo, Female Escape recupera un femminile pre-indoeuropeo, agito da un consesso di Grazie insofferenti e provocatorie. Deposte le ormai troppo scontante introversioni vittimistiche, Female Escape offre un punto di vista sul femminile libero dalla postura spesso vuota degli -ismi. Ciò avviene attraverso un'incalzante raccolta di quadri imprevedibili e forse un po' troppo autonomi, vibranti di soluzioni singolarmente interessanti ma forse poco concertate nella loro totalità organica. Si avverte la mancanza di una considerazione complessiva delle fasi progressive che, isolate l'una dall'altra, sembrano appena sospese nel vuoto. Ma è da questo vuoto che, tuttavia, emergono nuove gioiose possibilità: «Ci siamo poste una serie di domande, e abbiamo deciso di rispondere a modo nostro, con ironia». Non è così scontato. (Tiziana Bonsignore)

Visto alCrediti: progetto a cura di collettivo SicilyMade; concept, coreografia, interpreti Amalia Borsellino, Silvia Oteri, Marta Greco; occhio esterno Simona Miraglia; musiche originali Andrea Cable, foto Giovanna Mangiù

BODY TEACHES (di Roberto Zappalà)

Il FIC Fest 2023 si è concluso negli spazi di Scenario Pubblico a Catania con la prima assoluta di Body teaches di Roberto Zappalà: in scena 8 danzat* della Compagnia Zappalà Danza e 13 elementi dell’ensemble d’archi dell’Orchestra del Teatro Massimo Bellini, con il coordinamento musicale di Alessandro Cortese. L’evento fa parte della collaborazione tra l’ente lirico etneo e Scenario Pubblico siglato nel protocollo d’intesa Be resident: nella città la danza. Il lavoro sul territorio di questo Centro di Rilevante Interesse siciliano è davvero impressionante, ogni volta che ci torno mi sembra di riconoscere una ‘casa’ più grande. Tanto lavoro ripaga e ripagherà sempre più. Anche la compagnia in questi ultimi anni si è rinnovata ed è cresciuta moltissimo, in presenza e in qualità, perché attorno ha un sistema tecnico ed economico virtuoso fatto di condivisione e di cura, tra formazione e produzione, che la sostiene e che la favorisce in ogni modo. Tutto il lavoro sembra già convergere in una forte consapevolezza di che cosa può essere un centro coreografico nazionale. Body teaches è un progetto che sarà destinato soprattutto alle scuole catanesi perché esemplificativo del linguaggio di questa compagnia. Ma propone anche un’esperienza fondativa: quella della performance danzata con la musica eseguita dal vivo, e tutta la complessa trasversalità e la pluralità di competenze necessarie a questi processi compositivi e interpretativi. E non vorremmo parlare d’altro. Il programma musicale (da Biber a Beethoven e Vivaldi) è costruito secondo una precisa drammaturgia, anche decostruttiva e ostentatamente impura, in un contagio continuo tra il beat dei corpi e le misure musicali nonché vocali, grazie agli interventi della soprano Marianna Cappellani. In uno spazio stracolmo di pubblico su tutti i lati del perimetro (ma tutto il festival ha registrato presenze massime e manifestazioni continue di apprezzamento), la consegna del pubblico è immediata perché tutto qui è complice, nulla sembra essere capace di resistere all’evento che accade. (Stefano Tomassini)

Visto al FIC Fest 2023, Scenario Pubblico. Crediti Compagnia Zappalà Danza e Ensemble dell’Orchestra del Teatro Massimo Bellini; ideazione, regia e coreografia Roberto Zappalà

SE CI FOSSE LUCE (di Francesca Garolla)

Buio. Il suono dei passi. Dal baule Anahì Traversi estrae un videoproiettore e lo posa su un lungo tavolo centrale. Lo spettacolo prende avvio dall’immagine, le diapositive scure si susseguono con le note scritte dalla regista Francesca Garolla e introducono lo spettatore in una zona instabile, di penombra visiva ma anche segnica, di cui è difficile scorgere i confini. Marco Grisa ne costruisce gli ambienti con essenziale precisione, per restituirci un nucleo percettivo denso, dal sapore freddo e metallico. Lo spazio che si crea è un non-luogo di discussione e revisione, usato da Garolla per analizzare «Quando la colpa entra nella libertà e la pietà entra nella colpa» e dove mettere l’essere umano sotto giudizio nel tentativo di comprendere ancor prima che condannare. Riprendendo nel titolo le parole di Aldo Moro, Se ci fosse luce, rappresenta il terzo capitolo di una trilogia drammaturgica che affronta il tema della libertà di scelta e le sue implicazioni tra responsabilità personali e collettive. L’indizio è il suono proveniente da un mangiacassette che riproduce l’ultima telefonata avvenuta il 9 maggio 1978 tra il brigatista Valerio Morucci e Francesco Tritto. Quattro personaggi poi entrano in scena e raccolgono ciò che di quella registrazione è traccia mnemonica, ossessivamente ripetuta dai gesti materici che generano un’eco alle serrate conversazioni. Le voci di due donne, figlie anonime delle vittime, e di due uomini, padri colpevoli, ricostruiscono i frammenti di quegli avvenimenti, concentrandosi, nell’intento di Garolla, sulle complesse psicologie, sulle implicazioni morali, sociali, politiche. Sulle sfere umane. La drammaturga dimostra così una interessante capacità di rilettura di un fatto storico già ampiamente conosciuto e l’indagine della sua scrittura genera intrecci, riferimenti e collegamenti tra vicende, in un connubio disorientante davvero ben riuscito tra realtà e finzione, attraverso le modulazioni sofisticate di una ricerca sintattica in perenne tensione. Tensione che nelle scelte registiche - rigorose ma troppo contenute - andrebbe maggiormente maturata e dilatata, per aprirsi alla percezione di un pubblico che il peso di quella Storia nascosta ancora oggi non l’ha del tutto compreso né elaborato. (Andrea Gardenghi)

Visto al LAC di Lugano. Crediti: testo e regia Francesca Garolla, con Giovanni Crippa, Angela Dematté, Paolo Lorimer, Anahì Traversi, scene Davide Signorini, costumi Margherita Platé, disegno luci Luigi Biondi, suono Emanuele Pontecorvo

MERIDIANI (di C. Galiero, regia C. Sorrentino)

C’è un sole immobile in alto sulla scena semivuota, resta lì per il giorno e per la notte, forse diventa luna ma poco importa, protegge e rende luce a ciò che sta di sotto, se ne frega del tempo che passa perché semplicemente lui è il tempo, che gli esseri umani, lì sotto, sono costretti a misurare. Per capire. Per vivere. Perché chi non ha più tempo, chi non lo misura più, allora vuol dire che non ha più un metro, non ha più vita. Ci sono due orfani, Reii lui (Giuseppe Brunetti) e Gigo lei (Chiarastella Sorrentino), cresciuti insieme e ora, per questo, inseparabili; per lavoro celebrano le feste dei bambini che non sono stati mai, con la chitarra e certe canzoncine, ma una volta l’anno se ne vanno all’Isola dei Morti, dove per l’occasione i morti, magari i genitori, tornano a parlare con i vivi. Proprio lì, sulla sponda tra l’isola e il mare attorno, Dinamo (Loris De Luna) sta per lanciarsi in mare e diventarne parte. Ma Gigo (anagramma di oggi) lo vede, non sa nulla di lui ma una forza più grande la innamora, lo stesso accade al giovane, un po’ diverso è per Reii (ieri) che non accetta questa unione. Ma Dinamo (domani) ha vita breve, il suo gesto era motivato da una morte imminente. Ma che importa se con i morti si può continuare a parlare? Sono come i Meridiani, titolo dello spettacolo scritto da Carlo Galiero e diretto dalla stessa Sorrentino, che partono da un punto della Terra, fanno un giro immenso e lì si ritrovano all’origine. Scrittura intelligente quella di Galiero, dosata da un’idea sorprendentemente tenace e non banale alla regia, con attori generosi e solidi e la notevole cura estetica definita dalle luci che giocano con la complementarità dei colori. La riflessione su amore e morte, altrove definita da intenti tragici e compiacimento lacrimoso, vive qui una tappa in cui si mescolano poeticamente leggerezza e profondità, reale e surreale. Il sole, che per splendere deve consumarsi, resta acceso: solo da morti, sembra far intendere, si è eterni. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Vittoria Crediti: di Carlo Galiero; regia di Chiarastella Sorrentino; con Giuseppe Brunetti, Loris De Luna e Chiarastella Sorrentino; musiche originali Giuseppe Brunetti; scene Rosita Vallefuoco; costumi Rachele Nuzzo; disegno luci Sebastiano Cutiero; progetto sonoro Filippo Conti

DOPO LA BORA (di F. Miranda Rossi, regia F. Dordei)

C’è la storia dei manicomi, dei pazienti e la loro fragilità, ma poi c’è la storia poco indagata di chi ne vive l’effetto, i familiari che scontano il punto di crisi tra coscienza e martirio. La loro condizione produce storie attraverso cui passa il vento, le sconvolge o solo le accarezza, le può lasciare intatte o confonderle, fino a spostarle altrove dove saranno parte di altri racconti. C’è una data, dietro Dopo la bora di Francesca Miranda Rossi che Federica Dordei porta in scena: il 13 maggio 1978, giorno in cui la Legge Basaglia chiuse tutti i manicomi. Ma, sembra chiedersi il testo, cosa invece apre? Quale conseguenza è frutto di una causa in apparenza così nobile? Le storie dal vento raccolgono detriti, spore che vi germogliano dentro i ricordi, il passato, e i desideri, cioè il futuro. I germogli sono tre personaggi che raccontano in dialetto triestino (tre gli attori: Nicholas Andreoli, Giulia Chiaramonte, Isabella Delle Monache), sui quali emerge la presenza assente del Dottor F, un telefono rosso appeso in alto che squilla senza risposta, la voce da fuori che determina il dentro. È Franco Basaglia, direttore del manicomio di Trieste dal 1971, medico e pensatore che ha rivoluzionato la concezione di malattia psichica in rapporto all’istituzione. Ma c’è chi vi ha scoperto una libertà ignota, per cui si sente inadeguato, i dubbi di chi ha con fatica ricostruito la “vita senza” e non sa come immaginare una nuova “vita con”. Il testo si interroga sul mondo fuori dal manicomio, Dordei al debutto da regista si concede qualche ovvia ingenuità che una maggiore severità potrà certo equilibrare, ma la necessità del lavoro è inquadrare ciò che sfugge alle cronache, determinato dai grandi fatti e a cui la storia deve medesima cura. “Entrare fuori, uscire dentro”, l’espressione è di un ex paziente del manicomio a Roma, ora nome del progetto museo Laboratorio della Mente che ne inquadra gli sviluppi. Forse è il momento che tutti, anche chi non si occupa di malattie, capiscano e accettino cosa sia il fuori e cosa il dentro. (Simone Nebbia)

Visto a Fortezza Est Crediti: di Francesca Miranda Rossi; regia Federica Dordei; con Nicholas Andreoli, Giulia Chiaramonte, Isabella Delle Monache; realizzazione scene Cristina Magliocchetti

LO STATO DELLE COSE (di Massimiliano Bruno)

La locandina, con Massimiliano Bruno che sovrasta i piccoli personaggi, è una delle pubblicità teatrali maggiormente visibili a Roma. Lo stato delle cose è al Parioli per quasi tre settimane (possibilità di tenitura che non hanno più neanche i grandi nomi del teatro). Operazione di fine stagione questa del Parioli, al limite tra la formula della rivista e quella dello showcase di fine anno delle scuole teatrali. Il nome popolare tira sempre, il pubblico risponde: Bruno è molto amato, gli applausi cominciano addirittura quando l'attore e autore entra in scena, tributo che certe platee ancora offrono ai propri divi. Sul Messaggero scrivono che Massimiliano Bruno ha inventato la “serie teatrale”, ignorando il fatto che qui di seriale non c’è nulla: lo spettacolo porta in scena una decina di monologhi (ogni settimana diversi) affidati a giovani attori e allievi (più di trenta in tutto), ma davvero nulla di innovativo c’è in questa modalità. Bruno recita la parte di se stesso, in maniera prevedibile e la crisi che dovrebbe rappresentare è posticcia, poco credibile: l’autore è alle prese con uno spettacolo da fare e ripete più volte di non avere idee, e questo d’altronde è evidente visto lo schema utilizzato. Con un pensiero pirandelliano di superficie i suoi personaggi spuntano da dietro la scenografia (un grande studio pieno di libri), ogni tanto si litigano un monologo di cui l’autore comincia a parlare con la propria assistente e poi via, verso il proscenio per l’assolo. Nel finale c’è addirittura un momento in cui i personaggi finalmente si rendono visibili all’autore, lui li saluta tutti, uno per uno. Insomma un’impaginazione (di idea registica non si può parlare) davvero scolastica, in cui si salvano le interpretazioni delle attrici e degli attori (di sicuro un’esperienza importante per i più giovani), in gran parte all’altezza dei personaggi, talvolta in grado di caratterizzare narrazioni sbiadite dalla poca originalità. Alcune storie riescono a toccare, quelle che sfuggono al meccanismo dello sketch televisivo, quelle in cui si intravede la città metropolitana. Non manca un certo moralismo bonario, sotto forma di prevedibile frecciatina ai costumi sociali. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Parioli Scritto, diretto ed interpretato da Massimiliano Bruno. Tutti i crediti e il cast a questo link

STANZA CON COMPOSITORE, DONNE STRUMENTI MUSICALI, RAGAZZO (di F. Ramondino Regia M. Martone)

Buttato sopra un divano, con metà corpo oltre il sipario chiuso e con tono confidenziale, il compositore (Lino Musella) fa partecipe il pubblico della sua profonda insofferenza; appartiene a una famiglia di nobiltà decaduta, e la vita gli procura indicibili noie. Aperto il sipario, avanti a lui sfilano la madre instabile (Iaia Forte), la moglie semi anaffettiva (Tania Garribba), la sfarfalleggiante figlia (India Santella) e il ragazzo amico di lei (Matteo De Luca): ciascuno di loro, nell’immaginazione del compositore, ricopre il ruolo di uno strumento a corda, che lui accompagna col piano. C’è del Doctor Faustus di Thomas Mann nei deliri musicali del compositore, e di Gruppo di Famiglia in un interno di Visconti nelle dinamiche famigliari ambigue e intollerabili; senza, però, l’insostenibile dolore e strazio, la comprensione di un tempo e della fine di un tempo, di questi due immensi capi d’opera. Il testo inedito di Fabrizia Ramondino, redatto in due copie ed editato da Ippolita di Majo, ha un enorme problema (oltre a un contenuto piuttosto debole): il suo sembra un testo più adatto alla lettura che alla messa in scena. Procede inutilmente caustico in un monologo fatto di giochi di parole ed estenuanti battibecchi, infiocchettato di orpelli e colte delizie che stancano per il loro essere gratuite e viziose, se non a una certa incomprensibili e difficili da seguire. Due gioielli lasciano tuttavia piacevolmente coinvolti: la messa in scena curata da Mario Martone, ricca eppure desolata, bella e pesante, espressiva nell’ordine degli interni di lusso, e l’interpretazione quasi agonistica di Musella, che però (e deve essere sempre un problema di scrittura) fagocita i suoi compagni di scena, compressi a forza in rapide comparse senza alcuna energia espressiva. Il lezioso ritratto di gente annoiata il cui unico pregio è quello di divertire un pubblico borghese (napoletano) che da quell’aristocrazia (napoletana) ha ereditato l’inutilità ma, ahinoi, la predominanza culturale.(Valentina V. Mancini)

Visto al Teatro San Ferdinando; Crediti: Testo inedito di Fabrizia Ramondino; Regia e scene Mario Martone; Con la collaborazione di Ippolita di Majo; Con Lino Musella, Iaia Forte, Tania Garribba, Totò Onnis, India Santella, Matteo De Luca.

DOV’È PIÙ PROFONDO (di Irene Russolillo)

È capitato a tutt* di sentirsi a casa di fronte a un paesaggio estraneo alla propria biografia, ben oltre le narrazioni identitarie che spesso elevano campanilismi anche tra paesi e frazioni distanti pochi chilometri. È un sentimento profondo e complesso: su di esso si fondano da sempre concetti opposti da cui generano comunità e sodalizi, ma anche, proprio per questo, alterità e conflitti. Dov’è più profondo, della coreografa e performer Irene Russolillo e con la creazione sonora e partecipazione scenica di Edoardo Sansonne, è un’asserzione e insieme un quesito, postura paradossale ma anche unica possibile a indagare quel confine invisibile e frastagliato che ci lega al mondo, fisico in primis, poi sociale e storico, che genera appartenenza, che ci fa dire: io, tu, noi. Il linguaggio della performance convoca strumenti eterogenei, dal canto alla lettura, dal live set al video, come metodologia per risalire con cura e sapiente diffrazione un argomento inafferrabile secondo cui qui è anche infiniti altrove. Così Russolillo, originaria del Tavoliere delle Puglie, dispiega perfettamente con la sua corporeità, voce e movimento, il paesaggio sonoro e orografico delle montagne di nord-ovest, fra Piemonte e Val D’Aosta, dove ancor oggi esistono alcune comunità Walser. Il luogo virtuale in cui Russolillo e Sansonne ci invitano è l’archivio, la raccolta di testimonianze visive e sonore di quelle popolazioni, le cui origini e vicende migratorie restano incerte, ma la cui sopravvivenza, una punteggiatura di minuscoli borghi e malghe di montagna sulla cartina delle Alpi, è sufficiente a illuminare un luogo misterioso e marginale della nostra stessa identità. L’esplorazione di questa geografia rimossa produce commozione, scandita dalla straordinaria coreografia, scritta seguendo la fatica del corpo in scalata, o dalla raffinata sonorizzazione dei canti tradizionali, come l’abissale rintocco del canto dei battipali. Il filo che rammaglia le fonti è la ricerca di quella fatica umana e sociale che precede e forgia la dimensione della lotta, ma la luce che più ci ferisce e resta nello sguardo, ancorché in fondo politica, è l’eco che quelle forme, visive e sonore, suscitano nello spettatore, come se ci appartenessero da sempre, senza capire il perché. (Andrea Zangari)

Visto a Spazio Rossellini nell’ambito di Impronte. La primavera della sostenibilità. Progetto, coreografia, scrittura vocale e performance di Irene Russolillo; creazione sonora e performance di Edoardo Sansonne

IL PAESE DELLE FACCE GONFIE (de La Confraternita del Chianti)

Immaginate di vedere in un cielo terso di azzurro, un’enorme nube nera che aleggia, e immaginate di dover lasciare casa a seconda di come il vento la sposta, perché è una nube tossica. Tra i disastri ambientali più gravi della storia, si ricorda quello del 10 luglio 1976 quando il reattore della fabbrica di cosmetici dell’Icmesa a Seveso, in Brianza, raggiunse la temperatura di 500 gradi e esplodendo liberò nell’aria una massiccia formazione di diossina (TCDD) che investì i comuni limitrofi di Meda, Cesano Maderno, Limbiate, Desio e, il più colpito, Seveso. Nel teatro civile de Il paese delle facce gonfie, «un monologo agrodolce per un evitabile disastro ambientale» - scritto da Paolo Bignami e adattato dalla dramaturg Chiara Boscaro per la regia di Marco Di Stefano – si parla con, poetica antropologia, del rapporto del protagonista, interpretato da Stefano Panzeri, con la fabbrica e di questa con la cittadina di Seveso. Solo in scena, con berretto e tuta da lavoro, seduto su una borsa frigo e con un pallone in mano, Poldo aspetta. Aspetta che Diego, detto Zorro, scenda con lui a giocare a pallone, aspetta Olivia per andare al cinema, l’Armando che deve suonare la tromba, aspetta i personaggi di un racconto singolare ma condiviso con tutte quelle “città-fabbrica” disseminate nel nostro paese. Aspetta, con il sorriso sulle labbra, l’espressione buffa un po’ impacciata, e si guarda la punta dei piedi perché in fondo, a dispetto di quello che gli dicono, lui le cose le sa, non è poi tanto “Poldo”. Alle persone si gonfia la faccia, e poi diventano nuvole, bianche, grandissime e soffici, e scompaiono. È una storia di aria questa de La Confraternita del Chianti, lo è nelle metafore - aria che gonfia e uccide, aria che libera - e nelle musiche scelte, tutte cover di pezzi celebri arrangiate con sax, trombe e tromboni. Il dramma leggero, aereo ma non volatile, di un bambino che è già uomo, la Storia che resta come denuncia nelle persone, nei luoghi, nei ricordi e sì, anche nelle nuvole. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Argot Studio durante la rassegna Over Emergenze Teatrali in collaborazione con Overview. Di Paolo Bignami, con Stefano Panzeri, dramaturg Chiara Boscaro, regia Marco Di Stefano, assistente alla regia Cristina Campochiaro, responsabile tecnico Enzo Biscardi. Foto di Sara Lamassa.

SONGS & BORDERS (di Michael Getman)

È andato a bussare alle porte delle case Michael Getman, nell’Israele del nord, vicino ai confini con il Libano, la necessità era quella di incontrare donne non professioniste provenienti da culture e tradizioni differenti. Getman è un coreografo di caratura internazionale, nato da genitori russi e residente a Tel Aviv, ha lavorato a lungo con la Batsheva Dance Company e già era stato al Teatro Quarticciolo di Roma nella programmazione di danza curata da Valentina Marini con un solo molto profondo e suggestivo. Ma in questo caso, l’esplorazione è altra, le pratiche artistiche si avvicinano a quelle antropologiche. Il palcoscenico va riempito con parole, gesti, danze e canzoni di culture strette tra confini di minoranza. In scena ci sono Neveen con le tradizioni culturali della comunità maronita cristiana di Gush Halav, Rab’a del villaggio druso di Majdal Shams (che prima del ‘67 apparteneva alla Siria e poi fu occupato da Israele), da diverse comunità dei Kibbutz provengono Ronny e Nira, Marina vive in una città circassia della Galilea e Ronit è originaria dell’Algeria, in Israele è diventata attivista per la liberazione del Libano dall’esercito israeliano. Getman parla di questo Songs & Borders come di un lavoro documentaristico nel quale ha dovuto mettersi prima in ascolto delle storie delle partecipanti e solo successivamente organizzare il materiale teatrale. Danze tradizionali, canzoni nelle lingue di origine e momenti di recitazione fisica nella quale i gesti del corpo e le espressioni facciali servono a trasmettere uno stato d’animo e uno stato delle cose: l’incomunicabilità, ma anche il prendersi cura degli altri, come nel caso di un pupazzo fatto di fil di ferro (a ricordare proprio il filo spinato dei confini invalicabili). Il progetto di Getman è importante e affascinate, per questo il pubblico andrebbe accompagnato maggiormente durante la performance, con la traduzione dei testi e delle canzoni nelle varie lingue e con un apparato iconografico, in linea con l'obiettivo documentaristico. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo nella stagione di Orbita Coreografie Michael Getman Assistente coreografica e dramaturg Yael Venezia Ricerca Dániel Péter Biró Cantante Neue Vocalsolisten Costumi Renee van Ginkel Pupazzi e scenografie Ma’ayan Tsameret Oggetti scenici Ayelet Adiv

B-OR DER (di Masoumeh Jalalieh)

Masoumeh Jalalieh sceglie con cura le parole: durante l’incontro avuto dopo lo spettacolo spiega che questa performance di venti minuti vista sul palco del Teatro Quarticciolo, all’interno della stazione di danza Orbita, sia un lavoro nato prima dell’ultima ondata di proteste che ha infiammato l’Iran alla fine del 2022. Jalalieh spiega anche che la percezione del pubblico è cambiata dopo i fatti scaturiti a causa dell’uccisione di Masha Amina, con i riflettori di tutto il mondo puntati sulle donne che hanno sfidato la morale della repubblica islamica. All’artista di Tehran ora residente a Vienna non interessa però il messaggio politico univoco, ma come l’opera possa essere percepita diversamente e possibilmente senza preconcetti. Ed è vero che escludendo dai nostri pensieri le lotte iraniane questa figura che dal buio lentamente comincia ad agitarsi nel bozzolo di un tessuto grigio potrebbe essere qualsiasi cosa: Jalalieh si riferisce anche alla pelle, ai confini più intimi e interiori,  alla difficoltà che spesso abbiamo ad uscire da noi stessi. C’è un corpo chiuso in sacco grigio, come un lenzuolo cucito attorno al corpo, il movimento della figura crea la forma tridimensionale bagnata da una tenue luce, mentre una voce femminile e una maschile si rincorrono in respiri e frasi in tedesco: una forma modulata in rientranze, nodi, spinte e vuoti. Lentamente la figura comincia ad alzarsi in piedi, inizia ad essere visibile forse una capigliatura, intano le frasi in tedesco hanno lasciato il posto a sonorità più sincopate; il corpo dell’artista è ora in piedi e comincia a ruotare, sembra un rito ipnotico, fin quando un suggestivo controluce sul finale mostra i lineamenti della figura dietro al telo. Ora la testa è completamente fuori, ma il volto è ancora e sempre negato. B-or-der, primo di una trilogia che già incuriosisce, è un lavoro denso, in cui perdersi, nel quale si può ammirare la trasformazione materica delle forme o emozionarsi per l'ascesa finale, per quel respiro di libertà. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo nella stagione di Orbita. Coreografia Masoumeh Jalalieh Ricerca sul movimento Soolmaz Shoaie/Zahra Roostami, Masoumeh Jalalieh Musiche Payman Abdali

FROM SYRIA: IS THIS A CHILD? (di N. di Chio, M. S. Fieno)

«Più o meno tutti arriviamo da un dolore». E non importa che dolore sia, la sua genesi è sempre complessa da ricostruire, la sua eredità è ancora più difficile da curare. Di fronte ad esso, avvertiamo come il bisogno di una guida, qualcuno che quel dolore ci aiuti a raccoglierlo e proteggerlo, a scandagliarlo per giungervi alle origini più profonde. Avvertiamo il bisogno di una voce che lo comprenda per condividerlo. Mirian Selima Fieno e Nicola Di Chio ne raccolgono da anni i frammenti sparsi sulla superficie della terra, usandoli nella propria pratica di ricerca come autentici strumenti d’indagine. In From Syria: is this a child? calano il teatro documentario all’interno di due giovani microcosmi, anfratti di vite che vibrano sul palco di Zona K in cerca di ascolto. Qui, Giorgia è una ragazza italiana di 14 anni. Porta sempre con sé la macchina da presa e indaga attraverso di essa le fratture della propria storia per trovare una spiegazione alla sofferenza provata per la separazione dei suoi. E poi c’è Abdo, un ragazzo siriano di poco più grande, costretto fin da piccolo ad abbandonare la propria casa e la propria terra per una guerra che ha distrutto tutto, anche la sua infanzia, perché «in guerra non esistono bambini». La distanza delle geografie identitarie si trasforma nella vicinanza delle emozioni condivise; i due s’incontrano nella vita vera e sulla scena, uniti dal linguaggio della telecamera che attraverso riprese in diretta e preregistrate conferisce una veridicità grezza e pura al racconto. È questa la materia pulsante del giovane lavoro (che si avvale inoltre di attori non professionisti), l’eredità umana di un fare teatro che riflette una visione ben precisa dei due registi, l’impegno sociale che è sincera responsabilità, affidata ora a chi tra noi deve ancora scegliere chi vuole essere domani. (Andrea Gardenghi)

Visto a Zona K, Milano. Crediti: concept e regia Nicola di Chio, Miriam Selima Fieno in scena Abdo Al Naseef Alnoeme, Giorgia Possekel drammaturgia Miriam Selima Fieno scenografia virtuale e light design Maria Elena Fusacchia videomaking Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno, Abdo Al Naseef Alnoeme, Giorgia Possekel video di archivio Hazem Alhamwy realizzazione miniature Ilenia Lella Fieno video di archivio Hazem Alhamwy spazio sonoro Antonello Ruzzini produzione Tieffe Teatro Menotti, Bottega degli Apocrifi. Foto di Alice Durigatto

LA COMPAGNIA DEL SONNO (di R. Alajmo, regia A. Pugliese)

Inizia lo spettacolo: cala dall'alto una duplice cortina, sulla quale si proiettano un volto maschile e il disegno di un cervello. Collage di gusto surrealista, come d'altronde surreale, nel senso letterale del termine, è la vicenda che si sta per svolgere. Una compagnia di due uomini (uno stentoreo Nando Paone, e un giovane vilipeso, Claudio Zappalà) e due donne (una prima attrice, Stefania Blandeburgo, e una "promessa del sogno contemporaneo", Angela Bertamino) discute sul da farsi. Sembra che stiano per allestire uno spettacolo, ma ciò che stanno per rappresentare è in realtà un sogno. Proprio così: il gruppo è direttamente collegato al riposo di un misterioso committente il quale, quando si addormenta, deve essere intrattenuto con finzioni oniriche. È tutto un discorso metateatrale, quello escogitato da Roberto Alajmo e diretto da Antonio Pugliese: ma pure in questa dimensione onirica in cui il teatro viene trasfigurato, non vengono meno problemi organizzativi, discussioni neghittose, penuria di fondi. Con questi la compagnia del sonno deve pure confrontarsi, nella speranza dell'arrivo di Scalogno (Gigio Morra, dinoccolato e divertente), "capo-sogno" di lungo corso. Ma il suo intervento, ormai troppo disincantato per poter sortire un aiuto effettivo, risulta inutile, vano come una vana parvenza. La compagnia del sonno è una commediola brillante e malinconica, acuta nelle trovate drammaturgiche e tersa nella resa formale. La scena, di Andrea Taddei, è un grande camerone con scaffali e letti, da primo Novecento, animato soltanto dai coloratissimi oggetti di scena, assemblati dagli attori sul palco, per allestire sogni. Allo stesso modo i costumi di Dora Argento si animano quando diventano abiti di scena, tanto sgargianti quanto posticci. La macchina dei sogni è tutto un inganno, immerso dalle musiche di Nicola Piovani; impietoso esso si disvela agli occhi del pubblico. Il "centro di produzione sogni" offre un intrattenimento misurato ed elegante, ben sostenuto, nel complesso, dalle interpretazioni. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Biondo. Crediti: di Roberto Alajmo, regia Armando Pugliese, con Nando Paone, Gigio Morra, Stefania Blandeburgo, Angela Bertamino, Claudio Zappalà, scene Andrea Taddei, costumi Dora Argento, musiche Nicola Piovani, aiuto regia Giacomo De Cataldo, produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo. Fotografo Ivan Nocera

ZIO VANJA (di Simona Gonnella)

Lo Zio Vanja di Anton Čechov, nella regia di Simona Gonnella, è una precisissima trappola dai violenti toni scarlatti. Il luogo dove avviene il dramma è scarno, denso e claustrofobico nel disegno scenico di Federico Biancalani, e autore di quella lenta e irrevocabile consunzione dei rapporti affrontata dallo scrittore russo nelle sue opere. Siamo in una tenuta di campagna, il capriccioso professore vi fa ritorno da malato accompagnato dalla seconda moglie Elena. Il loro arrivo rompe lo stantìo equilibrio che governa la casa in cui vivono lo zio Vanja, la nipote Sonja, il dottor Astrov, Telegin e la balia/madre: Elena è il motore di questo movimento distruttivo, annoiata e di un’irrequietezza seducente nell’interpretazione di Stefanie Bruckner, attira le passioni e gli ideali di due uomini che la contendono invano. C’è Vanja (un lascivo Woody Neri), uomo sulla mezza età frustrato e privo di speranze per il futuro, vestito con bretelle rosse e ciabatte che schiacciano rumorosamente a terra il peso della vita. E c’è Astrov (Marco Cacciola), ecologista dagli abiti un po’ punk e oggetto delle premure della figlia del professore, Sonja. Il loro disagio esistenziale si trasforma rapidamente in un urlo squassante e due colpi di pistola e lo scontro umano che ne deriva è logorante, soffocato sia dagli ambienti sonori di Donato Paternoster sia dalle luci taglienti pensate da Rossano Siragusano. Non c’è soluzione all’ insoddisfazione implosa di questi personaggi čhecoviani, tutti così contratti nella loro incapacità di incidere sul reale. All’inettitudine, però, Gonnella accompagna un sottile sentimento di scherno, intervenendo nel testo con alcune note di regia che Stanislavskij scrisse a margine del suo storico allestimento dell’opera, e producendo uno scarto ironico e di spaesamento tra scrittura e rappresentazione, affidato alla voce di Anna Coppola. Il risultato è una reintepretazione solida e verace, che offre al pubblico una lettura inedita del classico čhecoviano. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Fontana di Milano. Crediti: Di Anton Čechov, Regia e drammaturgia Simona Gonella, Con Stefano Braschi, Stefanie Bruckner, Marco Cacciola, Anna Coppola, Stefania Medri, Woody Neri, Donato Paternoster

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