IN NOME DELLA MADRE (di E. De Luca, regia G. Barbadori)
Nella cultura ebraica non esiste una tradizione figurativa fino alla seconda metà dell’Ottocento, per cui la sola parola, che è parola quasi esclusivamente di legge, reifica la realtà. Forse questo aveva in mente Gianluca Barbadori nel portare in scena il testo di Erri De Luca, dal momento che l’unica immagine presente in scena è quello del corpo di Miriam (Galatea Ranzi) più simile a un’icona cristiana, mentre alla sola parola è concesso il compito di evocare il mondo (fatto anche esso di parole) a cui appartengono. Il racconto dall’Annunciazione alla Natività, così come è stato manomesso, diventa un racconto rivoluzionario perché passa per bocca di donna. E maggiormente rivoluzionario perché è il racconto carnale di uno spirito solidissimo; una rivolta che sorride nella temperatura beata di una vocalità tiepida e monotona, che è fatta di gesti minuti e morbidi. Galatea Ranzi si fa lieve e riduce l’espressività fino all’imperturbabile, appiana la voce e alleggerisce il passo, copre la testa e con un sorriso che le distende le labbra: la sua Miriam, ormai matura, narra del miracolo che l’ha fatta donna e che l’ha resa presente a sé stessa in quanto donna; una donna che ha amato il suo Josef nel modo che le è più congeniale, che ha accolto la maternità come un modo per conoscere davvero il proprio corpo, che ha preso decisioni secondo la propria coscienza, che non si è vergognata delle decisioni prese. Le parole, nella gaiezza della voce che le veicola, scorrono fluide e senza ritmo, come se fosse una litania ma più leggera. La poesia non è in quelle parole, feriali e quotidiane, ma in ciò che viene raccontato. La finzione si insinua nel sacro con gli espedienti delle luci, cariche di colori brillanti dell’ocra del verde e del blu, che pervadono lo spazio scenico e lo fanno mistico. In un blu sospeso e silenzioso, la beatissima, ormai madre, ritorna per un attimo donna e, a capo scoperto e col braccio teso verso l’alto, urla che quel figlio non le muoia troppo presto. (Valentina V. Mancini);
Visto a Ridotto del Mercadante; Crediti Di Erri De Luca; Regia Gianluca Barbadori; Con Galatea Ranzi; Costume Lia Francesca Morandini; Produzione Teatro Biondo Palermo; Foto Rosellina Garbo In collaborazione con soc. coop. Ponte tra Culture / AMAT – Associazione Marchigiana Attività Teatrali.
AL COSMO lettura corale (di Ateliersì)
Porpora Marcasciano, attivista, sociologa scrittrice e fondatrice nel 1979 del MIT (Movimento Identità Trans) è un corpo-mente splendente; dai suoi testi, e recenti articoli, l’ultimo dedicato alla memoria di Lucy Salani, unica transgender sopravvissuta all’orrore dei lager nazisti, non possiamo che cogliere doni di pensiero che esulano dalla fissità definitoria diventando esperienza nella dialettica politica delle cose, delle persone, dei tempi di cui parlano. Al cosmo è una lettura corale – ideata e creata da Fiorenza Menni (Ateliersì) insieme a_partecipanti dei percorsi laboratoriali tenuti nel 2022 all’Angelo Mai e a Short Theatre – dedicata a Tra le rose e le viole. La storia e le storie di travestiti e transessuali di Porpora Marcasciano edito da Manifestolibri nel 2008 e ristampato nel 2020 da Alegre. Dalle 18 alle 24 di venerdì scorso all’Angelo Mai in un’oasi di libertà, a piedi scalzi e su cuscini e coperte, Toni Allotta, Giulia Felici, Sofia Gerosa, Laura Giannatiempo, Andrea Alessandro La Bozzetta, Francesca Macci, Elena Martusciello, Alex Paniz, Luce Sant’Ambrogio, Emilia Verginelli leggevano, senza alcun obbligo di interpretazione attoriale, frammenti di questo diario manifesto di Marcasciano in cui la sua biografia diventa strumento di indagine socio politica di denuncia. Nonostante il pubblico in ascolto potesse entrare e uscire dallo spazio a piacimento, veniva la voglia, sperimentata in prima persona, di prendere in mano una copia del testo e di partecipare al rituale di lettura, rispettando il gioco dell’alzata del libro a indicare la volontà di leggerne un estratto. Una linea unisce la parola-azione di Marcasciano con quella fotografica di Lisetta Carmi, ritrovata nella nuova ristampa del suo storico reportage: è il rifiuto del ruolo imposto da una tradizione autoritaria e il vibrante desiderio di rivendicare la libertà di essere ciò che si vuole e si sente, come dice Marcasciano «dimenticarsi del trans e far emergere me stessa». (Lucia Medri)
Visto all'Angelo Mai: a cura di Fiorenza Menni con Toni Allotta, Giulia Felici, Sofia Gerosa, Laura Giannatiempo, Andrea Alessandro La Bozzetta, Francesca Macci, Elena Martusciello, Alex Paniz, Luce Sant’Ambrogio, Emilia Verginelli; in collaborazione con Angelo Mai e Short Theatre. Foto di Fiorenza Menni
COME UNA SPECIE DI VERTIGINE. IL NANO, CALVINO, LA LIBERTÀ (di Mario Perrotta)
Il palco spoglio è tutto ciò di cui Mario Perrotta ha bisogno. Vi si siede al centro con una struttura che regge un microfono, su di una postazione di immobile fissità. Luogo trasformativo però, perché spazio dello sdoppiamento (tra attore-autore-caratteri) dove prendono continuamente vita i personaggi di Calvino da “una trilogia sul come realizzarsi esseri umani, tre gradi di approccio alla libertà”. E di libertà si tratta, quando a parlare è un uomo imprigionato in un corpo con disfunzioni espressive e di movimento (estrapolato dai passi de La giornata di uno scrutatore). Perrotta lo chiama nano, affetto da nanismo, diversamente abile, veste abiti luccicanti e non si sposta dalla sedia su cui è saldamente bloccato. Il suo corpo si agita di fronte al pubblico, genera dei forti spasmi, l’afasia lo porta invece a riprodurre suoni lontani, incomprensibili, sospesi a metà tra il detto e non-detto. “Io non sono libero”, confessa poi. Ma quest’affermazione è una cerniera d’apertura, accecante come l’intensità della luce che ci fa chiudere gli occhi pur di non reggerne il confronto, perché raccoglie in sé una spinta vigorosa, una verità taciuta che è motore del racconto di un viaggio personalissimo nell’universo di Italo Calvino. Qui, ancora niente è perduto e il testo del regista si rivela essere una ricerca nostalgica, attenta e fedele nei sentimenti, che trova un’ancora salda ed evocativa nella capacità interpretativa, spaziando dal racconto al canto ai versi rap. Perrotta si addentra così nelle trame calviniane e agisce su di esse come un ricamatore, aggiunge dettagli, intensifica passioni ed estrae delle riflessioni sul valore dell’autodeterminazione e sulla questione dell’alterità, per recuperare infine la meraviglia, quella delle città invisibili, le possibilità metamorfiche dell’armatura vuota di Agilulfo e il silenzio disincantato di Palomar. E la febbrile disobbedienza di Cosimo, Cosimo che rifiuta le lumache, Cosimo che vive sugli alberi, Cosimo che ancora s’innamora. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Carcano. Crediti: di e con Mario Perrotta, aiuto regia Paola Roscioli, co-produzione Permàr, Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale. Foto di Luigi Burroni
SULL’ATTIMO (coreografia di Camilla Monga)
Superba Monga nel «tempo senza tempo» che danza l’istante. Sull’attimo è un vero gioiello compositivo, proprio nella sua (apparente) semplicità. Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza, dura quaranta minuti ma si vorrebbe non finisse mai. È costruito in diretta pèrmuta, fatta di ascolto e sintonía, con le tecniche di improvvisazione e contaminazione jazz del polistrumentista Emanuele Maniscalco. Tutte le strategie di presenza sono con lui negoziate in scena, oltre che da Camilla Monga, da Stefano Roveda e Francesco Saverio Cavaliere. Tre corpi diversi, strategicamente complementari ma attivati in una relazione sempre convergente, capace in termini cinetici di produrre differenze. La musica per prima, d’accordo. Maniscalco al pianoforte anche percuote ritmicamente le corde esposte dello strumento, mentre scivola in lentissimi e meditativi swing. Ma nella performance dei corpi, che si concepisce tutta nell’istantaneo, le strutture e gli spazi aperti dalle ripetizioni, dagli accordi di ingressi e uscite, dagli appuntamenti raggiunti e dalle forme plurali dell’abbandono e della restanza, sono tutte figure del cambiamento. La durata allora non predispone cadute nella cronologia, ma ritrova e libera istruzioni per riconoscere, in ciò che può la coreografia, tutto il vivente. Oltre l’umano, al fondo di questa creazione traspare un’idea estetica transpecie: non in termini di rappresentazione, ovviamente, ma di gerarchie. La natura qui non ama nascondersi. Il tempo dell’istante di musica e danza, è allora quello dell’avvento. Gli elementi sono pochi: un tappeto bianco in parte segnato da cromie geometriche che si inseguono autonome; un disegno luci calibrato sui vuoti necessari a ogni epifania. Tutto è misura, equilibrio e affermazione sottile di una ipotesi generativa di bilico, di frattura, di errore. Forse qualche improvvida scivolata in velocità, o l’appoggio improvviso e in gravità di un braccio a terra lo sono letteralmente. Ma ciò che più importa, è che l’errore è la variazione di ciò che agisce nell’imprevedibile. (Stefano Tomassini)
Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza: progetto di Camilla Monga ed Emanuele Maniscalco, concept e coreografia di Camilla Monga, danzatori Camilla Monga, Stefano Roveda e Francesco Saverio Cavaliere, musica dal vivo Emanuele Maniscalco (pianoforte, batteria), collaborazione artistica e realizzazione arazzo Meris Angioletti produzione Van
COME NEVE (coreografia di Adriano Bolognino)
Difficile davvero sospettare che dietro al recente lavoro di Adriano Bolognino, Come neve, ci possa essere il tema del benessere. Il gelo che affonda, forse. L’algido nitore del cristallo, piuttosto. L’affanno convulsivo di neuroni in corpi di sasso. La compiaciuta atmosfera di un malessere sempre in procinto di precipitare, sempre trattenuto e arginato da maglie e da reti intessute dal tempo, e attraverso cui resistere. Più che la neve, è forse la velocità della sua caduta a interessare l’arguto coreografo napoletano, che non ci pensa proprio ad assolvere il tema di una commissione: piuttosto lo trasforma, perentorio, nel suo rovescio. In scena, è un duo quasi tutto speculare e ossessivamente sincronizzato, secondo le compulsioni mentali più irrefrenabili, le paure mentali più obbliganti. Tenute a bada da due straordinarie (inquietanti il giusto) interpreti, Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, che sembrano prefiche nordiche, beghine artiche, pinzocchere boreali: come in un Hansel&Gretel versione horror. Compiutamente agghindate di costumi con gonna a terra tessuti in filato multicolore, con tanto di ampio guardinfante, ottimamente pensati, disegnati e realizzati (dal Club dell’uncinetto di Napoli). Ed è tutto un proliferare di passi nascosti, movimenti repentini di gambe e ginocchia, anche a terra, faticosi eppure sempre perfettamente dissimulati. E tutto funziona, splendidamente, non si può che ammirare tanta intelligenza scenica, cura interpretativa e sapere compositivo. L’impressione è che, in termini coreografici, sia possibile perfezionare e intensificare il gesto nel disegno soprattutto drammaturgico. Il compimento non è mai solo una conclusione della coreografia: ma lo scongiurare che qualcosa della performance vada perduta. Come per la musica: se Olafur Arnalds è perfetto per l’atmosfera di avvio, dopo una lunga muta transizione Bolognino cede alla tentazione di un finale rassicurante, dunque sedativo, con l’indie pop di Josin, quando forse meglio si sarebbero precisati, per esempio, gli inquietanti loop glaciali di un Thomas Köner, o chessò dei dropped pianos alla Tim Hecker. (Stefano Tomassini)
Visto al Festival Danza in Rete del Teatro Comunale Città di Vicenza: coreografia di Adriano Bolognino, danzatrici Rosaria Di Maro e Noemi Caricchia, musiche di Olafur Arnalds/Josin, costumi Club dell’uncinetto (Napoli), produzione Körper
LA COMMEDIA PIÙ ANTICA DEL MONDO (de I Sacchi di Sabbia)
C’è risata e risata. Non è vero in assoluto che il “potere” teme la comicità, come spesso si dice, poiché v’è certamente un modo di ridere accondiscendente, mellifluo, disposto a favore dello stato delle cose. Si potrebbe andare oltre e distinguere fra un ghigno amaro e fatalista, conservatore ma a suo modo apotropaico, e la risata violenta, a orologeria, disposta dal potere per segregare e ridicolizzare – la risata del bullo, o la risata dei media di massa, dal Bagaglino a Pio e Amedeo. Ma la risata può anche contorcersi e ritorcersi, fino a diventare “ostile”, a far mostra della dentatura da sotto in su quando la bocca si spalanca e il collo flette all’indietro, a erompere in un suono sguaiato che libera un’energia atavica. Per I Sacchi di Sabbia la risata della commedia più antica del mondo, la risata più profonda i tutte, è questa – insolente e sboccata, pronta a misurarsi violentemente con la violenza. Gli Acarnesi di Aristofane, la commedia più antica giunta a noi (portata in scena al concorso lenaico del 426 a.C), diventa il canovaccio per una brillantissima lectio sul senso del ridere e sulle geografie impossibili che la risata può tracciare in una realtà ingiusta e perennemente in guerra. Massimo Grigò, solo in scena, è un anfitrione virtuosissimo e spassoso, che nella sala piccola del Teatro Tor Bella Monaca riesce a disegnare una moltitudine di presenze foltissime: ci sono i personaggi del testo greco, ci siamo noi impietriti, poi stanchi, poi sbadati di fronte alle notizie di guerre vicine e lontane. Senza ricorrere a viete retoriche e didascalie cronachistiche, il testo greco è riscritto in una lingua viva e originalissima fra la sardonica verve toscana e l’iperlingua grecista dei dipartimenti accademici, pur trattenendone con lieve ironia tutto il gusto per la metrica e la filologia greca. Con Grigò, su un tavolino di legno che è cattedra e scranno d’osteria, una candida scultura di fallo (di Noela Lotti) dà forma a un mondo che contrappone all’orgia del sangue e della becera convenienza l’orgia incarnata di una sessualità popolare, precristriana, terricola. Con uno spassoso slittamento, il protagonista della commedia diventa Dickeopoli, che infine trionfa sull’antieroe Lamaco, generale delle armate ateniesi. Ma la commedia più antica del mondo è in fondo una tragedia, e questa vista in scena un'utopia amara che racconta brillantemente la complessità politica e psicologica del ridere, oggi. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Tor Bella Monaca. Con Massimo Grigò, con la collaborazione di Francesco Morosi, scultura Noela Lotti, produzione I Sacchi di Sabbia
MENO DI DUE (di Teatrodilina)
Una ricorrenza, non come le feste comandate con il parentame e il peso di dover essere in quel certo modo lì, affatto, puoi essere e stare come vuoi, nessuno ti giudica, neanche tu ti giudichi; inizi a conoscerli bene, sai che li incontrerai e ascolterai e loro sapranno di te, delle pieghe, crepate, dei pieni emotivi che fanno sussultare, svuotano, atterriscono. Dovremmo tutte e tutti avere la nostra dose di Teatrodilina: più volte all’anno, d’inverno preferibilmente quando fa più freddo per trovare calore, dopo i pasti. Pezzi di vita inevitabili scritti e diretti da Francesco Lagi, l’ultimo, al debutto a Carrozzerie not, è Meno di due. Già il titolo si incastra tra il cervello e il cuore, in quel limbo in cui sai, eccome, ma poi senti in maniera non coincidente: due linee rette parallele, che non si incrociano. «Se conosci le rotatorie, ti trovi bene al Nord» e quindi dovremmo prendere le curve al meglio per imboccare l’uscita esatta, evitando di continuare a girare...Due, lui calabrese (Francesco Colella), lei veneta (Anna Bellato) iniziano una relazione da remoto, messaggi, foto, vocali, like, una quantità enorme di dati scambiati. Poi si incontrano in un bar - foglie a terra e ombrelli - lui è venuto a trovarla, non ha deciso quando ripartirà, vuole vedere dove vive, se le foto ricevute corrispondono a una verità, intanto ha affittato un B&B. Ballano in ciabatte e arriva l’altro lui (Leonardo Maddalena), ha le chiavi di casa, avrebbe voluto cenare con lei, parlare con lei, addormentarsi con lei. Come sempre. O meno. Nella bellezza dei dubbi accigliati, dei sorrisi grandi, e negli sguardi, nella commozione della voce; gli interpreti sono definitivamente giusti. La virtualità delle esistenze unisce tempo e spazio e Teatrodilina la rende ricorrenza, riflessione sulla prossimità. Ombre di migliaia di anni fa ballano tra il reale e la sua idea, lui e lei le ritrovano disegnate nel buio delle grotte. Sono ancora loro? «Ma io ti piaccio?» «Non tanto» «Rimani qui». (Lucia Medri)
Visto a Carrozzerie not: con Anna Bellato, Francesco Colella e Leonardo Maddalena, suono Giuseppe D’Amato, scene Salvo Ingala, luci Martin Palma, organizzazione Regina Piperno, illustrazione locandina Antonio Pronostico, scritto e diretto da Francesco Lagi, uno spettacolo di Teatrodilina, in collaborazione con DOG, si ringrazia EX RUGIADA e Maria Grasselli residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t
LE VACANZE (di Alessandro Berti)
Due giovani, adolescenti o poco più, si immergono in acqua, fino al petto, forse in uno stagno; nella sala dedicata a Thierry Salmon dell’Arena del Sole la scena è la ricostruzione realistica di una radura chiusa ai due lati da piante ad alto fusto che si stringono in una breve prospettiva. Sabbia, terra e un odore forte, un po’ dolciastro, di natura innaturale. Nel proscenio la lingua d’acqua in cui i due si immergono, non la vediamo, ne sentiamo il rumore. I ragazzi passano il tempo raccontandosi episodi legati alla memoria delle vacanze, immagini di viaggi in famiglia si mescolano a pensieri a piccole riflessioni: «i miei dicevano che era meglio non viaggiare. Per non vedere quel che sarebbe scomparso». Non accade altro che non sia in questo dialogo e poi due piccole performance di un danzatore (Stefano Questorio in sostituzione per alcune repliche di Giovanni Campo)… in quale strano universo (o proiezione di un tempo altro) una coppia di adolescenti «affitta» un perfomer per un'azione artistica in una radura? Il testo di Alessandro Berti lentamente e con grazia accende piccole domande nello spettatore. Le zanzare non esistono più, l’uomo le ha sterminate vincendo una sorta di guerra genetica, ma forse un insetto sopravvissuto riappare proprio ora. Berti disegna i due caratteri con precisione e ricchezza (interpretati da Francesco Bianchini, Sebastiano Bronzato): uno è studioso, umanista e inquieto, l’altro è più sportivo, rilassato e si dedicherà alla scienza. Sullo sfondo di un chiacchiericcio apparentemente inutile si intravede la natura, la relazione con l’uomo, la dominazione sul pianeta «hanno aumentato le proteine del riso [...] ci hanno sterilizzati». Prima di questa tranquilla radura c’è stato un tempo di cambiamenti epocali, ci sono stati dei morti, i genitori sono rimasti in quel passato. Ora non rimane che addormentarsi, mentre il performer torna per la seconda parte dello spettacolo acquistato. È triste l'immagine di quest'uomo, un artista che si accorge di avere un pubblico addormentato, allora anche lui si siede lì, nella radura in cui le distopie sono sussurrate al presente. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Arena del Sole. Crediti: di Alessandro Berti con Francesco Bianchini, Sebastiano Bronzato e la partecipazione di Stefano Questorio regia Alessandro Berti danza Giovanni Campo assistente alla creazione e organizzazione Gaia Raffiotta disegno luci Théo Longuemare scene costruite e decorate presso il Laboratorio di Scenotecnica di ERT
MEDEA, UNA MADRE (di Liv Ferracchiati)
Si chiamano Mermero e Fere, anche se nella storia della tragedia sono più spesso nominati come “i figli di Medea”. Sulla scena di Liv Ferracchiati – qui in collaborazione drammaturgica con Piera Mungiguerra – hanno i corpi e le voci di Anna Coppola e Francesca Cutolo, e la scelta di segnare una distanza (anagrafica, prima che di genere) dilata le possibilità dell’astrazione. La figura di Medea, identificata nell’immaginario con il proprio gesto infanticida, è qui destrutturata in forma di enigma femminile e materno. La drammaturgia è composta intersecando passi tratti da Euripide, da Seneca e dalla Medea inedita di Antonio Tarantino, tra i quali si insinuano frammenti originali, e richiede alle attrici di muoversi con destrezza e mestiere, entrando e uscendo dai personaggi che convocano via via sulla scena. Grazie anche a una regia solida e misurata, le interpreti riescono a non smarrire il proprio sguardo di figli – e la propria relazione fraterna, fatta di tenerezza e di agonismo – al cospetto dell’incomprensibile. Sul fondale, in una teca, che si rivelerà accessibile, è custodito il simulacro di Medea. Troneggia nel proprio mutismo di totem ma diverrà – al di qua del tabù, della linea di sangue che ha tracciato – un oggetto che può essere smontato in parti (principessa barbara nel contesto della polis greca, maga, anche lei vittima sacrificale) e dunque, forse, destituito. Se, da un lato, in questa possibilità di ripercorrere e dimenticare sembra racchiusa la promessa della psicanalisi, dall’altro la messa in questione del valore della memoria si fa, sul finale, più radicale e insieme più dolce. Quando il mistero permane, vivere coincide con un’altra crudele cerimonia: quella durante la quale ci si mutila dell’esigenza di comprendere, e di ricordare. Si tratta dell’unica breccia che, per i due, è possibile aprire nella prigionia programmatica del meccanismo della tragedia, che è scritta per essere compiuta. Persino i figli, si dice incidentalmente, se potessero estraniarsi e assistervi, vorrebbero che si compisse. La verità più elementare della violenza pretende di essere elaborata per mezzo del rituale. E, come scrive René Girard ne La violenza e il sacro (1972), «è criminale uccidere la vittima perché essa è sacra...ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uccidesse». (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Mercadante. Crediti: con testi da Antonio Tarantino, Seneca e Euripide; ideazione e regia Liv Ferracchiati; drammaturgia Liv Ferracchiati e Piera Mungiguerra; con Anna Coppola, Francesca Cutolo; aiuto regia Anna Zanetti; scene e costumi Lucia Menegazzo; disegno suono e luci spallarossa.
LANCILLOTTO E GINEVRA (di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva)
Quattro secoli prima che Jeffrey Eugenides lo ponesse in esergo al suo romanzo The marriage plot, François De la Rochefoucauld scriveva che «nessuno si innamorerebbe se non avesse mai sentito parlare dell’amore». Se la concezione occidentale di amore si fonda (è Denis de Rougemont a dirlo) sui romanzi cortesi, l’amore, di quella tradizione, costituisce il solo elemento superstite: la pietra dello scandalo, certo, ma anche quella tombale. Nella riscrittura firmata da Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro si avvertono gli echi di una lunga storia letteraria e cinematografica (da Chretien de Troyes a Robert Bresson) ma, al contempo, anche la loro mise en abyme. Lancillotto e Ginevra appaiono in forma di fendenti (e la luce si imprime sulla scena come lacerazione, primaria e verticale, del buio) di una vicenda che si è edificata, nei secoli, attraverso le proprie sistematiche rinarrazioni. Tutte le scelte (verbali, espressive, scenografiche) concorrono a una composizione profonda e disadorna che evoca, degli amanti, i profili carnali eppure esangui, precedenti la leggenda. Sono impegnati in un dialogo continuo, intessuto di visioni: le armi nere, la mano che gronda sangue, i capelli chiari e lucenti. Ma, di tutte le visioni, le più struggenti sono quelle sacrificate per sempre al dettato dell’amore: la benedizione della spada, gli scudi che, come pietre preziose, riflettono le fiamme delle torce, i boschi, gli stendardi, il legno della tavola rotonda che affratella i cavalieri. Tutto ciò che sulla scena non appare, per cedere invece lo spazio centrale a un’armatura smontata, simile a un guscio, a un detrito, a un sembiante. Edoardo Sorgente è un Lancillotto delicato ed eroso, che contrappunta con il proprio disarmo la perfezione con cui Leda Kreider aderisce all’incanto di Ginevra. Se lo sfondo non esiste più, sono il buio e il silenzio a custodire la verità: il primo è ferito appena dalla grazia di ciò che si intravede, dal secondo affiorano le parole, testimonianze dolenti di un eterno insondabile. La felicità più alta, quella che sarebbe dovuta essere taciuta e che determina la rovina, finisce per appartenere a tutti, in forma di leggenda. E dunque ci innamoriamo. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Basilica, Crediti: di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva; regia di Giovanni Ortoleva: musiche di Pietro Guarracino; luci Massimo Galardini; con Leda Kreider e Edoardo Sorgente; produzione Teatro Metastasio di Prato
RITRATTO DELL’ARTISTA DA MORTO (Davide Carnevali, Michele Riondino)
È necessario, oggi più che mai, che il teatro sia politico. E non si intende che abbia contenuti politici, ma che sviluppi dai propri contenuti un’azione che si possa definire politica. C’è una storia dentro il Ritratto dell’artista da morto (Italia ’41 – Argentina ’78) che Davide Carnevali, dopo averne realizzato una versione in Germania nel 2018 e in attesa della versione francese del prossimo anno, disegna attorno a Michele Riondino, una vicenda che arretra al 1978 durante la dittatura in Argentina e ancora fino all’Italia fascista del 1941, ma non si tratta della muta narrazione dell’esproprio di una abitazione appartenuta a un musicista dissidente, che attende una sentenza di riassegnazione dopo 44 anni: la biografia dell’attore Riondino, abilissimo a gestire un dispositivo affascinante ma molto delicato, si mescola a diventare materia viva del racconto, così che la storia resta continuamente in bilico tra il vero e il falso. Ma a ben vedere non importa più se sia vera o falsa. Cosa è vero e cosa falso? Una storia – la storia – è sempre una mistificazione, vive un tempo non suo, lontano dai fatti, protetta, dai fatti. Carnevali gioca sapientemente su questo confine, accettandone i margini perché siano parte di una discutibilità più estesa: che diritto abbiamo di raccontare la storia? E, più precisamente, questa o altre storie? Che diritto abbiamo di rappresentare o, meglio, di credere alla nostra rappresentazione delle cose? Un inquietante racconto di scatole cinesi ha luogo nella ricostruzione di un appartamento di Buenos Aires, attorno al quale compaiono fantasmi che evocano un’oscurità crescente di torture, ingiustizie, rapimenti, omicidi. Gli elementi della vicenda, che via via si aggiungono e che si espandono in una relazione sempre più immediata con lo spettatore, sembrano darsi appuntamento sul palco e stringono lentamente sulla figura dell’attore, caduto in una storia in cui non c’entra, con cui non ha niente a che vedere, in apparenza. Ma non è, proprio la storia, apparenza? (Simone Nebbia)
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato. Crediti: scritto e diretto da Davide Carnevali; scene e costumi Charlotte Pistorius; luci Luigi Biondi, Omar Scala; musiche Gianluca Misiti; con Michele Riondino; assistente alla regia Virginia Landi; con la partecipazione di Gaston Polle Ansaldi; produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa; coproduzione Comédie de Caen – CDN de Normandie, Comédie – Centre dramatique national de Reims, Théâtre de Liège
IO SONO MIA MOGLIE (di Michele Di Giacomo)
Il modellino di una casa. Poi cumuli di scatole. Scatole con dentro documenti, fotografie, nastri da registratore, vestiti. Scatole che racchiudono storie (o le nascondono?). E teli, bianchi, leggeri, che tutto ricoprono e proteggono. L’ambientazione di Riccardo Canali, creata in collaborazione con Mulinarte per la rappresentazione Io sono mia moglie di Michele Di Giacomo, ha il sapore delle soffitte dimenticate, è vividissima costellazione mnestica, luogo germinale del ricordo – riemerso, stratificato, alterato – e spazio famigliare della narrazione. Gli elementi che la abitano non sono semplice sfondo alla vicenda ma si rivelano veri strumenti attraverso cui la condivisione del racconto si fa atto partecipativo; essi contengono la scoperta di quel punctum barthiano che è ferita, segno pungente che agisce sulla memoria stessa. È attraverso questi oggetti che sul palco dell’Elfo Puccini prende vita la storia vera di Lothar, ragazzo nato alla fine degli Anni Venti a Berlino; ma Lothar (nei meravigliosi giochi di ruolo di Di Giacomo) è una donna costretta nel corpo di uomo. Sulla soglia di una relazione paterna conflittuale e parricida, Lothar prende il nome di Charlotte Von Mahlsdorf, indossa lunghi vestiti con tacchi neri e (soprav)vive inspiegabilmente nella Germania del nazismo e delle persecuzioni antisemite. Accade che faccia pure fortuna, aprendo un museo di antiquariato in cui raccoglie le tracce delle esistenze negate dal regime (“Quando le famiglie morivano io diventavo le loro cose”). Colpisce davvero, in questa nuova produzione, la rilettura registica del testo di Doug Wright, vincitore nel 2004 del Premio Pulitzer, perché in grado di calibrare sapientemente l’interpretazione camaleontica (entrando e uscendo nelle vesti di decine di personaggi con fare quasi naturale), le luci intense e vibranti di Valentina Montali e le sonorità vintage di Marco Mantovani. Alla fine, ciò che restituisce non è soltanto la complessità di un personaggio ma anche quella di un’intera epoca, situando la narrazione in una dimensione di curiosa ambiguità, a metà tra reale e pura immaginazione. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Doug Wright, tradotto, diretto e interpretato da Michele Di Giacomo, scene Riccardo Canali, luci Valentina Montali, suono Marco Mantovani, assistente alla regia Iacopo Gardelli, direttore tecnico Massimo Gianaroli, capo elettricista Valentina Montali, fonico Marco Mantovani, scene realizzate da Mulinarte, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, produzione originale di Broadway presentata da David Richenthal. Foto di Matteo Toni
LA MADRE (di Florian Zeller, regia Marcello Cotugno)
Dopo gli allestimenti di Piero Maccarinelli (Il padre e il figlio), la scrittura teatrale di Florian Zeller torna in Italia per la regia di Marcello Cotugno. La madre (2010) è il primo capitolo della trilogia sulla famiglia borghese, anche in questo caso la crisi è messa in evidenza dalla perdita di presa con la realtà, la malattia mentale è un'ombra, costantemente pronta a manifestarsi non appare mai in forma esplicita, mai viene nominata. Lunetta Savino crea un personaggio nel quale non possiamo non rivedere madri e mogli, donne fragili sacrificate per il benessere e la carriera dei maschi di famiglia. Il drammaturgo francese su questo non fa sconti: il marito (ottima la prova di Paolo Zuccari che si è trovato a dover sostituire Andrea Renzi dopo la prima al Quirino) è un uomo piccolo ed egoista, non ha il coraggio di confessare alla moglie di avere una relazione parallela con una giovane donna; il figlio (Niccolò Ferrero) se n'è andato via di casa, ma potrebbe tornare a causa di un litigio avuto con la fidanzata (Chiarastella Sorrentino). Il testo di Zeller è però un meccanismo di specchi, vuoti ed iterazioni in cui la realtà si confonde con l'invenzione, con le paure e le immagini interiorizzate. La regia di Cotugno è minimale come la scenografia: degli interni casalinghi rimangono solo pochi suppellettili, le cornici delle porte che segnano gli ingressi e le uscite dei personaggi nel mondo della donna. Lei, chiusa in un antro quasi metafisico, sola, ha fatto da madre e da moglie, ora si sente abbandonata. Il pubblico ride alle battute amarissime, alla durezza con la quale questa donna, interpretata con intensità e naturalezza da Savino, accusa ora senza remore il marito. La malattia svela il non detto, lascia emergere il tabù scoprendo piccole e dolorose verità. Ma ogni volta rimane il dubbio: l'ha detto veramente? L'altro personaggio lo ha sentito? Cotugno riesce a far convivere le diverse possibilità già contenute nella scrittura di Zeller, anche nel finale, quando l'arrivo del figlio in ospedale può essere una speranza o una nuova illusione .(Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Quirino di Florian Zellerc con Lunetta Savinoe con Andrea Renzi, Niccolò Ferrero, Chiarastella Sorrentino regia Marcello Cotugno produzione Compagnia Molière in coproduzione con Teatro di Napoli Teatro Nazionale e Accademia Perduta Romagna Teatri
I MEZZALIRA – panni sporchi fritti in casa (di Agnese&Tiziano)
Il teatro popolare ha quella qualità di mescolarsi facilmente a un gran numero di spettatori, perché spesso le narrazioni affondano dentro le storie di chi vi assiste, che si chiamino in un modo o l’altro, provengano dall’una o l’altra origine, le radici si somigliano tutte e svolgono la stessa funzione di vedersi – noi umani – ancorati alla storia, intrisi di passato affrontiamo il tempo presente. Agnese Fallongo (autrice della drammaturgia) e Tiziano Caputo (che cura le musiche originali) si firmano per nome proprio, senza cognome, come se volessero appunto dichiarare aderenza al contesto popolare, da cui trarre le tracce del loro teatro. Una storia di paese come tante diventa un giallo che solo verso la fine esplicita il proprio svelamento; il testo si articola per scene cronologiche narrate al passato dal figlio piccolo, ormai adulto (Adriano Evangelisti) e il cui sguardo è filtro per il pubblico. I Mezzalira, questo il titolo, sono una famiglia che da un errore a fin di bene sconta una condanna più grande, priva di una misura adeguata; la loro è una storia di preghiere, di sogni, di una ferrea volontà di affrancarsi dalla condizione di schiavitù, verso la città che sembra accoglierne i desideri. Ma una vendetta li attende e cambierà il destino di ognuno. Dietro questa storia, incastonata in una struttura in legno che sovrasta la scena, c’è però una riflessione più ampia, una filigrana politica in trasparenza che mette in luce la relazione tra potere e popolo, una goccia di lotta di classe caduta dalla spremitura d’olio nuovo. Al netto di qualche scivolata retorica, delle parti troppo spiegate e qualche ingenuità della regia (di Raffaele Latagliata), soprattutto in chiusura dei quadri, lo spettacolo vibra di una vigorosa tempra attoriale, la parola in dialetto del sud Italia si prende la libertà di caratterizzare i personaggi con precisione e andare dal tragico al comico senza alcun disagio, la musica e il canto filano con intensità le cuciture di questa trama, ne fanno un abito buono perché arrivi, prima o poi, un giorno di festa. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Manzoni di Roma. Crediti: di Agnese Fallongo; Con Agnese Fallongo, Tiziano Caputo e con Adriano Evangelisti; Scenografia Andrea Coppi; Costumi Daniele Gelsi; Regia Raffaele Latagliata
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