FAG/STAG. AMICI DI GENERE (di Gabriele Colferai)
Ha vinto il FringeMI nell’edizione dell’anno scorso conquistandosi un posto nella programmazione del Teatro Elfo Puccini (rassegna Nuove Storie), partner del festival. In realtà Fag/Stag. Amici di genere, prodotto da Dogma Theatre Company, è un lavoro tutt’altro che italiano, tutt’altro che milanese come il festival che l’ha lanciato. Le sue origini affondano in territori più remoti e desertici, come quelli degli orizzonti australiani: Jeffrey Jay Fowler & Chris Isaacs sono gli autori che ne firmano la drammaturgia lasciando tuttavia ampio margine alla rivisitazione e all’appropriazione da parte di chi la interpreta. Lo sanno bene Gabriele Colferai (anche regista dell’opera) e Angelo Di Figlia che in quel testo ci sguazzano, pasticciano, giocano e si divertono mescolando teatro e stand up comedy e offrendo una nuova geografia identitaria – dai sapori tipicamente milanesi - ai luoghi che lo popolano. Qui Ludo e Giammy sono due amici single (da fag stag, etimologicamente maschio senza compagna) che si ritrovano ad essere invitati al matrimonio di una ex in comune. Sulla soglia dei trenta vivono spaesati, quasi inconsapevoli della loro stasi esistenziale, bloccati dalla paura di diventare grandi e trovando il massimo godimento nelle nottate passate a sfidarsi alla play e a “matchare” su Tinder/Grindr. Allora durante il rituale del rimorchio si fanno da spalla, ammiccano e bisticciano come accade nelle amicizie di una vita. Eppure, nulla riesce a togliergli di dosso quella sensazione di vuoto e inconcludenza. Con un linguaggio immediato e nudo, diretto e scarnificato, Colferai e Di Figlia ci accompagnano in un viaggio che fin troppo conosciamo, ma lo fanno con dolce amarezza, con lo scherno di un riso e una consapevolezza che piace e si compiace della città che racconta. Non rimane che prendere parte a quel salto finale, nelle braccia dell’altro, prendere la rincorsa e buttarsi di nuovo nel flusso della vita. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Jeffrey Jay Fowler & Chris Isaacs, regia di Gabriele Colferai, con Gabriele Colferai e Angelo Di Figlia, produzione Dogma Theatre Company, spettacolo vincitore del FringeMI 2022
THE PRIVILEGED (di Jamal Harewood)
Jamal Harewood, a performance artist that makes theatre from the perspective of a black man. È lui stesso a presentarsi così in questo video sulle cinque lezioni che ha imparato dalla sua performance The Privileged, “from my Polar Bear Teacher, Cuddles”. Cuddles - Coccolino - è l’orso polare incarnato dal performer inglese con un costume da peluche gigante e che il pubblico trova addormentato al centro della scena costruita da un rettangolo di sedie sulle quali sedersi. Ben presto si scopre che l’unica possibilità di azione drammaturgica - svegliare l’orso - è imposta proprio al pubblico; aprendo una decina di buste numerate, disposte su alcune delle sedie, gli spettatori sono chiamati a confrontarsi con la provocazione del perfomer che spinge all’estremo il patto di finzione tra artista e spettatore, fino ad annientarlo. Con un dispositivo costruito apposta per guidare nell’incontro con l’orso polare, Harewood indaga gli effetti di razzializzazione, razzismo e identità nella comunità. Il risultato è un esperimento collettivo che scava nel singolo e allo stesso tempo mette in dubbio le regole del gruppo. Ogni replica è diversa dall’altra, perché ogni nuovo pubblico costituisce una nuova comunità, con le sue regole da impostare. Esperimento, processo, costruzione di uno spazio e di un ambiente nel quale chiedersi: fin dove posso, fin dove possiamo? La provocazione di Harewood è talmente potente e ben incarnata che nell’invito alla finzione ci ritroviamo ancora più reali e nudi. Un’esperienza talmente intensa che ha poi bisogno di un momento di rielaborazione collettiva; l’artista lascia uno spazio al pubblico, un luogo altro da quello della performance, senza nessun conduttore, dove poter condividere riflessioni, sfogarsi, giustificarsi o anche solo ascoltare. The Privileged termina così, senza fine e senza applausi. Ognuno di noi è abbandonato a fare i conti con se stesso. The Priviliged wouldn’t exist without you. (Luca Lòtano e Valeria Tacchi - Redazione Multi.lingue ad Up To You 2023)
Visto a UP TO YOU Spettacolo dal vivo Festival 2023 - Qui e Ora Residenza Teatrale, progetto Praticare Alleanze in collaborazione con Festival Orlando, Daste. Crediti: di e con Jamal Harewood | A questo link (www.lerem.eu) puoi leggere l’intervista che la REdazione Multi.lingue/Come Together del Festival UpToYou ha fatto a Jamal Harewood dopo aver preso parte alla performance.
ONDE (di Simona Bertozzi)
Visto in anteprima a Bologna, poco prima dell’imminente debutto al Festival Danza Estate di Bergamo (8 giugno), il nuovo lavoro di Simona Bertozzi, Onde ispirato all’omonimo antiromanzo di Virginia Woolf (The Waves, 1931), sembra già fra quelli imperdibili di quest’estate. A partire dai performer (Arianna Brugiolo, Rafael Candela, Valentina Foschi), giovanissimi e perfettamente centrati e imbrigliati fra loro in un flusso che è forza e insieme fragilità, sempre singolari eppure plurali. (La creazione, la trasmissione e la consegna del gesto, quando avvengono senza ricatto di pratiche opache e impotenti, disseminano speranza.) Dal soundmaker, anch’egli in scena, Luca Perciballi, ‘ribaltato’ già di suo il giusto, in consistente sintonia con il progetto compositivo e la presenza dei corpi che lo precedono, capace quindi di esistere in solitudine o di balzare a gamba tesa (a voce spiegata...) perché «tutto è velocità e trionfo». E poi alla composizione coreografica, davvero articolata, complessa, propositiva pure bizzarra. Vi sono temi di movimenti ricorrenti, come la sospensione, la spirale, l’ondulare naturalmente, l’oscillare, il tremolare intenso e vibratile, il vacillare fluttuante, l’asincrono e poi il sincrono ma secondo una precisa drammaturgia della dissolvenza (perché, come in The Waves: «Niente dura. Un momento non conduce ad un altro»). Una partitura che senz’altro consuona in profondità con l’operazione di Woolf, che scandaglia e districa nel ritmo (della scrittura) i nodi i grovigli e gli intrecci del desiderio. Ma qui vi è molto di più: questa vita che balza nella forza dell’istante, rinuncia alla forma per stare «in acque agitate», per interporre coi corpi all’espansione dello spazio omogeneo la ricchezza espressivo-situazionale dello spazio vissuto. Con buona pace di Nadia Fusini, studiosa e (ottima) traduttrice di Woolf, The Waves non è un’esperienza di scrittura ‘sul tempo’ ma sulla sua affettiva spazializzazione. E qui, il pensiero coreografico di Simona Bertozzi, fra mille allargamenti e distensioni e contrasti, dà proprio il suo meglio. (Stefano Tomassini)
Visto in anteprima a Ateliersi; Progetto e coreografia Simona Bertozzi; Danza Arianna Brugiolo, Rafael Candela, Valentina Foschi; Musica originale eseguita dal vivo Luca Perciballi; Disegno luci Rocio Espana Rodriguez; Costumi Vicini d’Istanti; Organizzazione Roberto Berti.
IL TRIONFO DEL TEMPO E DEL DISINGANNO (coreografia di Saburo Teshigawara)
Tutto comincia, per il Barocco, con il disinganno. Fu come la rottura di una diga: «y solamente | lo fugitivo permace y dura» («solamente | il fuggevole ormai permane e dura»: così il Quevedo del nostro Bodini). Mentre molti discorsi sul moderno sono all’origine della Barok Renaissance: le iperboli di Gaudì come le visioni dei Ballets Russes dialogano tutte in flagranza con la musica barocca (di quella romantica non se ne poteva quasi più...). Per questo, l’occasione di riascoltare dal vivo il primo oratorio di Georg Friedrich Händel, composto ventiduenne a Roma nel 1707, su commissione illustre del mecenate e cardinale Benedetto Pamphilj che scrisse pure il libretto, equivale a riaprire una finestra. Teatrale ed estetica. Il Trionfo del Tempo e del Disinganno visto e ascoltato al Teatro Malibran in un nuovo allestimento affidato alle mille abilità sceniche del danzatore e coreografo Saburo Teshigawara, e alla sapiente, efficacissima, direzione musicale di Andrea Marcon, combina perfettamente gusto e sincretismo. Questa ipotesi scenica di una performance allegorica a quattro voci e altrettanti danzatori (a bassa densità di azione e quasi tutta risolta in un intenso bianco e nero), funziona qui benissimo. In una cura formale estremamente sobria ma efficace, come un moralista classico alla Montaigne e Pascal, Teshigawara predispone alcuni elementi cubici che incorniciano, comprendono o escludono i protagonisti, li costringono anche a un difficile (ma non impossibile) equilibrio, oppure li contengono come in uno spazio sicuro della presenza e della voce. Anche i costumi, perfetti, rendono dell’allegoria che incorporano l’essenza della loro possibilità di stare in scena. Fra le voci, il soprano Silvia Frigato (la protagonista Bellezza) è stata molto apprezzata soprattutto nel maggior impegno della seconda parte. Vi è stato anche lo spazio per un mirabile e rivelatore assolo di Teshigawara, su una musica di transizione tra gli atti, fluente e scattoso, con lo sguardo riflessivo su ciò che di Bellezza resta nel Tempo del Disinganno: è conversione di realtà. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Malibran di Venezia per VeneziaMusica e dintorni, interpreti Silvia Frigato, Giuseppina Bridelli, Valeria Girardello, Krystian Adam; danzatori Saburo Teshigawara, Rihoko Sato, Alexandre Ryabko, Javier Ara Sauco; maestro concertatore e direttore Andrea Marcon; regia, scene, costumi, light design e coreografia Saburo Teshigawara.
MARÍA (di Hangar Teatri)
Nel buio fa la sua apparizione un uomo claudicante con cappello e faccia sfregiata, bruciata; porta delle sedie sulle spalle e le posa con un tonfo alla sinistra del palco. Di nuovo buio. Manichini seduti uno accanto all’altro, due sedie vuote davanti occupate da una ragazza (Elena Delithanassis) e da un’altra donna, che si rivelerà una sadica infermiera (Ilaria Santostefano). Sono venuta solo per telefonare è uno dei Dodici racconti raminghi di Gabriel García Márquez che la regista triestina Delithanassis riceve in regalo da un’amica quando nel 2014 parte per la Colombia, e che decide di adattare nel lavoro María. Restituendo quell’indeterminatezza degli scritti di Márquez, la drammaturgia si connota sin da subito per apparizioni, lampi che illuminano scene autonome tra loro, le quali spazialmente sono collocate a destra o sinistra del palco e illuminate tramite sagomatori. La storia di María, ex ballerina, moglie e assistente del Mago Saturno è ambientata a Barcellona e “fotografata” teatralmente nell’ineluttabilità del suo accadere: dopo essere rimasta in panne, la ragazza accetta il passaggio su un autobus, il cui autista promettendole di farle chiamare il suo compagno, la conduce invece in un ospedale psichiatrico nel quale subirà abusi e trattamenti sanitari violenti. Il cast, alle attrici citate si aggiunge Marco Palazzoni nel ruolo del marito, sceglie un’interpretazione quasi clownesca, incantata, efficace più nella gestualità del mimo che nella parola. Rimangono registicamente in sospeso alcuni passaggi, primo fra tutti il legame tra l’uomo dell’inizio, quasi un narratore, con i protagonisti; oppure la voce femminile del finale che subentra per spiegare e concludere la vicenda. Nei silenzi, quanto nell’espressività corporea, questo immaginario evanescente, una finzione reale e un realismo finzionale, che unisce il linguaggio poetico del circo a quello del teatro di figura, denuncia con soavità ma vividezza politica lo spaccato sociale della repressione franquista. (Lucia Medri).
Visto al Festival Inventaria, Teatro Basilica. Crediti: adattamento e regia di Elena Delithanassis con Marco Palazzoni, Elena Delithanassis, Ilaria Santostefano; voci di Fulvio Falzarano, Tullia Alborghetti, Valentina Milan, Sergio Pancaldi; foto di Luca Innocente; produzione Hangar Teatri
MONDO (di Gennaro Lauro)
Santa Eulalia dei Catalani è una chiesa sconsacrata in piena Vucciria; attualmente, il monumento è una delle sedi dell'Istituto Cervantes. Qui abbiamo assistito a Mondo, di e con Gennaro Lauro, co-prodotto da Sosta Palmizi, in occasione dell'anteprima della tredicesima edizione del Queer Film Fest; la performance è stata posta in dialogo con le opere della personale dell'artista Pepe Espaliú. "Mondo" osserva Lauro, è al contempo il nome della Terra, quello di un gioco infantile, ma è anche l'opposto di immondo. Il lavoro di scrittura ha comportato dunque una ricerca sull'essenzialità di ogni singolo movimento, mondato fino al perseguimento di una forma essenziale. La performance è un complesso di gesti minimi, organizzati in partiture sintetiche, sulle quali spesso prevale la stasi, il vuoto, il silenzio tra differenti brani musicali. In questa successione di frammenti, Lauro sottopone il proprio fisico a continue chiusure e distensioni, ora imprigionandosi come un pugno nel confine della propria spina dorsale, ora stirandosi come un elastico nell'ambiente. È un grumo energetico, una concrezione spaziale innervata da spasmi, pause e cadute. In questo ritmo continuo, che solca la terra e l'aria, il volto del performer, animato da un'ironica sequela di espressioni facciali, sembra cercare nell'osservatore una conferma, agognata come fosse fonte di sopravvivenza ma, al contempo, pare che se ne prenda gioco. D'altronde, Mondo intende problematizzare la "smania di compimento" propria dell'individuo contemporaneo, alla continua ricerca «di una narrazione accurata e definitiva» di sè. Ma tali narrazioni sono negate, e così la possibilità di inserirsi nelle rassicuranti categorie e definizioni che Lauro a un certo punto urla alla platea. Il lavoro, nel quale sembrano rinvenibili echi di certo concettualismo, è agito con duttilità dal performer. Forse pecca di un eccesso di solipsismo, dal quale non sempre il discorso coreutico riesce a levarsi in quella universalità ricercata fin dal titolo (Tiziana Bonsignore).
Visto al Queer Film Fest, Istituto Cervantes. Crediti: idea e creazione Gennaro Lauro luci Gaetano Corriere produzione Lauro/ Cie Meta coproduzione Associazione Sosta Palmizi Foto di Dario Bonazza
MADRE COURAGE (di Elena Gigliotti)
Il rapporto tra gli esseri umani e la storia è complesso: c’è chi la interroga o chi la diffonde, ma pochi riescono a sentirsene parte; ciò deriva probabilmente dal carattere di posterità che la storia incarna. Tra coloro che hanno tentato: Bertolt Brecht, soprattutto nel Madre Courage e i suoi figli che Elena Gigliotti porta con 11 attori al Teatro Nazionale di Genova. L’indagine di Gigliotti nel testo esplicita come la storia, oggi che il carico mediatico di informazioni ci fa diventare insensibili alle immagini di guerra, può e deve essere compresa nel tempo presente, forzando cioè quel carattere endemico che ne regola gli equilibri. La scena si apre con una donna davanti a una parete di abiti diversi e dismessi, sanguina un parto doloroso e dà alla luce un mitra, che presto sparerà: siamo in guerra, cui le madri danno i loro figli. Questo è il tema noto di Madre Courage (sontuosa Simonetta Guarino), ma l’indagine di Gigliotti affonda nell’idea che l’impero del capitalismo della guerra sia il motore, radicalizzando le idee marxiste di Brecht. La vicenda ruota infatti attorno ai commerci di Courage (il cui carretto ha la M di madre con il logo di McDonald’s) nel mezzo del conflitto che, per lei, è fonte di guadagno e sopravvivenza ma a cui vende, non volendo, anche i propri figli. Se il presupposto è ricco di interesse, se soprattutto gli attori ballano, cantano, recitano e poche volte accade su un palco, la proposta scenica pecca di un eccesso di elementi e un approccio che non traduce al meglio la filosofia nella pratica: la scelta dei video trailer separa le scene per evidenziare il posticcio dell’informazione ma va a ridicolizzare anche le immagini sul palco; non aiuta di certo una recitazione che, mescolando varie lingue, vuole riprodurre una sorta di Babele, ma che nei fatti si riduce a una sequela di stereotipi linguistici vicini più al macchiettismo; non diverso è ciò che accade alle varie canzoni trattate con Auto-Tune, che rende poco credibili le doti vocali. Ma la regista ha talento e tenacia, la qualità del ragionamento filosofico e critico ne segnala un valore di certo avvenire. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Nazionale di Genova Gustavo Modena. Crediti: di Bertolt Brecht; regia di Elena Gigliotti, con Simonetta Guarino, Sebastiano Bronzato, Didì Garbaccio Bogin, Aleksandros Memetaj, Andrea Nicolini, Aldo Ottobrino, Matteo Palazzo, Sarah Pesca, Alfonso Postiglione, Esela Pysqyli, Ivan Zerbinati; Link al cast completo
PRIMA (di Pascal Rambert)
Quando l’incontro è vera matrice drammaturgica ed espressiva, allora il teatro ne diviene luogo di possibilità, spazio dell’accadimento ma anche strumento attraverso cui la vita fluisce e si organizza. È questo l’incontro che scandisce la genesi e lo sviluppo della pièce di Pascal Rambert, portata al Piccolo Teatro di Milano: quello con il direttore Claudio Longhi, quello con gli attori, quello con l’arte di Paolo Uccello. Dell’artista quattrocentesco, innovatore della visione prospettica pittorica, Rambert riprende non soltanto la struttura compositiva dell’iconografia che l’ha reso celebre ma anche l’idea di successione del trittico, sviluppando, per l’appunto, un progetto che si divide in tre spettacoli. Attraverso questa scansione per fasi, evidenziata anche dai titoli delle opere Prima, Durante, Dopo, il regista francese porta avanti una personale indagine metateatrale, che vuole sviscerare le dinamiche di costruzione spettacolare attraverso uno sguardo che tenta continuamente di conciliare due prospettive, una esterna alla scena e una interna. È forse questo il problema che si riscontra in Prima: la stratificazione dei ruoli, reali e interpretati, – registi, attori, costumisti – invece di liberare i personaggi li cristallizza, attraverso un linguaggio drammaturgico sicuramente di rilievo, poetico e di una matericità quasi carnale, ma che affatica lo spettatore, incapace di ancorarsi pienamente alla pratica sulla scena perché eternamente scisso sia nello sguardo sia nel respiro. L’unico cardine attivo resta quello visivo, che evidenzia il raffinato gusto estetico dell’autore: l’ambiente creato nelle luci di Yves Godin riflette così un candore tipico delle cose non ancora avvenute e l’ambiguità di qualcosa che sta per accadere, incalzato al tempo stesso dalle inquietanti musiche di Alexandre Meyer. Sullo sfondo, La Battaglia di San Romano permea la scena e le relazioni tra i personaggi – di amore, di amicizia, di professione – e diviene non solo riferimento ma traccia costante, tensione di conflitto, agitazione nervosa dei corpi, intensificando quel rapporto necessario tra rappresentazione e realtà, tra dimensione verbale e dimensione scenica, tra vita e teatro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: testo e regia Pascal Rambert, traduzione Chiara Elefante, con Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi. Link al cast completo
NANO EGIDIO CONTRO IL MALE DI VIVERE SPESSO INCONTRATO
Il male di vivere lo puoi tenere a bada per il tempo di uno spettacolo, poi ritorna. Questa la sintesi di una delle ultime battute che hanno chiuso le repliche a Fortezza Est, con le quali il Nano Egidio ha salutato i propri spettatori. Un trio di artisti, Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti che dodici anni fa inventò un progetto di teatro comico con il nome e l'immagine di un nano da giardino. Ne fecero una vera e propria serie ambientata nel "regno della fantasia". Questo spettacolo, nel 2017, suggellava la lunga epopea, ma per le repliche di addio il Nano non poteva non sconfessare se stesso: gli spettatori si sono trovati di fronte a una drammaturgia aggiornata e nel grande tritacarne comico hanno trovato posto frecciatine ai cliché e distorsioni del linguaggio inclusivo, ma anche allusioni alle nuove maggioranze politiche, brani di vecchi episodi e poi una storia in cui Batman è una sorta di tenente Colombo in preda alla depressione. Dovrà, come il genere insegna, salvare il mondo da un politico cattivissimo, ma in realtà il tentativo è quello di salvarsi dal dolore, dalla sofferenza quotidiana, da quel male di vivere in cui precipitano tutte le nostre fragilità e che riconosciamo negli occhi di Batman, sotto la maschera. Il Nano Egidio non ha avuto l’opportunità di confrontarsi con possibilità produttive non indipendenti o con i circuiti più importanti, è un peccato che dimostra per l’ennesima volta la difficile relazione della cultura e del sistema teatrale con la comicità, quando questa non è normalizzata all’interno del dispositivo drammatico borghese. Una spettatrice alla mia destra ride fino alle lacrime: quanto mancava questa catarsi! E proprio ora, in questa epoca di tristezze e dolori globali che ci fanno sentire piccolissimi e senza scopo sentiamo il bisogno di una risata fragorosa, di artisti in grado di far apparire lo sberleffo dal nulla, da ciò che sembra stupido ma che qui invece acquisisce per la radicalità esponenziale, per il talento e il mestiere altissimi di questi tre clown la capacità di diventare un fatto teatrale poetico. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Fortezza Est, Crediti: da un’idea di Marco Ceccotti con Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti. Regia Nano Egidio Luci | Camila Chiozza Foto di Scena | Elena Consoli Realizzato grazie al sostegno e alla residenza di Teatro Studio Uno
POCHOS (di Benedetto Sicca)
Per una volta bisognerebbe cominciare dai numeri, questo spettacolo va in scena per la prima volta nel 2019, sul palco ci sono 5 attori, una scenografia tutt’altro che faraonica; in 4 anni la drammaturgia di Benedetto Sicca è andata in scena solo per 20 repliche. Non è solo colpa della pandemia, ma soprattutto delle tante difficoltà del nostro sistema di circolazione degli spettacoli. Anche perché qui siamo di fronte a un prodotto in grado di mettere in campo importanti riflessioni sociali con un linguaggio teatrale tutt’altro che scontato e un lavoro attorale di pregio. Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, prende le mosse da un fatto realmente accaduto, ovvero la piccola epopea dei Pochos: una squadra di calcio creata a Napoli da un gruppo di amici omosessuali; nel 2011 è stata un vero e proprio caso in grado di attivare esperienze simili, tentando di rompere tabù privati (quelli legati alle famiglie dei protagonisti) e di far cadere un velo più ampio, quello sociale appunto. D’altronde Sicca lo fa dire a uno dei suoi attori, la battaglia è indirizzata anche al mondo del calcio professionistico, in Serie A non c’è mai stato un solo coming out. Pochos però - che dopo le repliche romane approderà all’Elfo Puccini di Milano - non si accontenta di raccontare una storia: per un’ora e mezza, la messinscena non si chiude infatti nel racconto ma si apre da subito al pubblico, tra riflessioni, momenti più colloquiali, canzoni e un microfono aperto, lì oltre il proscenio, che verrà utilizzato da chi avrà il coraggio di esprimere ad alta voce il proprio orientamento sessuale. «Non si può più raccontare una storia dritto per dritto», afferma uno dei personaggi, sono i brandelli di vita a comporre la drammaturgia e a mescolarsi abilmente con la realtà del qui e ora, tanto che più di una volta lo spettatore si chiederà se alcuni di questi momenti siano esistiti davvero nelle biografie degli attori. Dalla sala si esce emozionati, consapevoli, ma anche leggeri e sorridenti. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, Crediti: scritto e diretto da Benedetto Sicca con Francesco Aricò, Riccardo Ciccarelli, Emanuele D’Errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca scene Luigi Ferrigno costumi Giuseppe Avallone assistente alla regia Marialuisa Bosso luci Marco Giusti produzione Tradizione e Turismo – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro
ZOOLOGIA (di Compagnia Oltrenotte)
Si è recentemente conclusa la diciassettesima edizione del festival Presente Futuro promosso dal Teatro Libero di Palermo. L'offerta ha presentato spunti di maggiore interesse rispetto a quanto avvenuto l'anno precedente; il primo premio è stato attribuito a Zoologia, della Compagnia Oltrenotte, di e con Lucrezia Maimone. Si tratta di «un progetto di ricerca coreografica per la creazione di diversi esseri immaginari di natura zoolatrica che nascono da un corpo umano»: l'essere nato dal corpo di Maimone è un curioso personaggio, un'estensione prostetica dotata di testa e arti superiori. In una delicata sospensione tra teatro di figura e modi desunti dal teatro-danza, e anzi nel loro reciproco, fisico incorporarsi, Zoologia racconta le fasi di una simbiosi progressiva. Dapprima, Maimone è una persona sola, vestita di clowneschi abiti sovradimensionati; successivamente, le sue braccia si allungano, si sdoppiano al di fuori della giacca abbandonata. Da un'iniziale gestualità frammentata, appena allucinata, si passa al continuo, fluido inanellarsi delle quattro braccia in moti circolari. Gli arti si intersecano e si incrociano, spingono il corpo della danzatrice fino al totale presentarsi dell'alterità che il corpo ospita, e con la quale lo stesso finisce per intrattenere una duplice relazione di appartenenza e rifiuto. Lungo la persona di Maimone si svolge la storia di un metamorfico duplicarsi, trascorso attraverso sequenze di estetica vagamente surrealista. In una successione che trasla dall'iniziale ironia, allo sgomento, alla pacificazione e alla tenerezza, la coreografia misura e sonda, membro per membro, il limite del fisico e la possibilità di accogliere un doppio, o di esserne addirittura accolti. In Zoologia «gli oggetti della creazione sono costruiti per attraversare il corpo, spesso animati in una danza come un unico organo che si trasforma e modifica il suo peso»: la coesistenza delle alterità produce un complesso inscindibile, nel quale, come per magia, anche il conflitto può trovare una soluzione (Tiziana Bonsignore).
Visto al festival Presente Futuro, Teatro Libero. Crediti: Compagnia Oltrenotte / con Lucrezia Maimone ideazione, messa in scena, coreografie e costumi Lucrezia, Maimone, realizzazione oggetti di scena Lucrezia Maimone e Vinka Delgado, progettazione e realizzazione luci Riccardo Serra, musica Elsa Paglietti. Foto Sara Montalbano
FUCK ME(N) (di Evoè Teatro)
Tre voci all'unisono: “Me le ricordo le foto di quel giornale porno…”, hanno costumi vistosi, di tulle rosa, sopra a camicie e felpe da uomo; nonostante l’apparenza esteriore, innestata, sono tre personaggi che incarnano il maschio retrivo. Schiavi di stereotipi tossici legati alla propria posizione sociale, alla relazione con le donne, violenta o ossessiva. Sono tre apparizioni queste di Evoè Teatro, tra i controluce, nel buio del palco dello del Teatro Lo Spazio e inaugurano l'edizione 2023 di Inventaria. Festival urbano cresciuto in maniera importante negli ultimi anni e che al di là dell'etichetta riservata al teatro off - una caratteristica ormai appannata dalla complessità del sistema teatrale - riesce a portare a Roma una serie di compagnie e artisti che troverebbero difficoltà ad apparire singolarmente nei teatri della capitale. E poi va sottolineata la capacità di creare un reticolo di luoghi, quetsa settimana la rassegna si sposterà al Teatro Basilica ad esempio. Le tre apparizioni maschili, che vestono abiti da stereotipo femminile sono i protagonisti di Fuck Me(n), scritto da Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani, Roberto Traverso e interpretato da Giovanni Battaglia, Emanuele Cerra e Paolo Grossi. Evoè Teatro è una compagnia di Rovereto attenta alle drammaturgie del contemporaneo e in questo caso ha affidato al regia a Liv Ferracchiati. Lo schema è semplice ma funzionale nella tripartizione: un professore universitario ossessionato dal sesso e dalla conquista di giovani studentesse, un padre violento che racconta i grandi incontri di boxe al figlio prima di sfogarsi con la moglie; e una relazione che esplode, in cui un uomo chiede di essere punito di fronte alla tragedia di quel bambino abbandonato in una macchina assolata. Sono uomini cinici, pericolosi, perché non riescono ad affrontare le proprie inadeguatezze e fragilità. La mano di Ferracchiati lavora con mestiere creando suggestivi unisoni e momenti in cui la narrazione singola si ferma per dare spazio a piccole dilatazioni narrative, il contrasto con i costumi contribuisce a creare un’atmosfera inquieta e non pacificata. (Andrea Pocosgnich)
Visto al teatro Lo Spazio per Inventaria Festival. Crediti: di Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani, Roberto Traverso; Regia Liv Ferracchiati; Con Giovanni Battaglia, Emanuele Cerra, Paolo Grossi; Disegno Luci Emanuele Cavazzana; Scenografia e costumi Lucia Menegazzo; Sound designer Giacomo Agnifili
LEAR E IL SUO MATTO (L. Radaelli e W. Broggini)
Immagina è un festival diffuso, organizzato nei Teatri in Comune Teatro Villa Pamphilj, Teatro del Lido di Ostia, Teatro Biblioteca Quarticciolo e da quest’anno anche in un paio di altri luoghi all’Eur, come il Museo della Civiltà e EUR SpA/Eur Culture – Giardino delle Cascate Parco dell’Eur. È arrivato alla terza edizione e permette di assistere a spettacoli di teatro di figura adatti a bambini e adulti. Ci è capitato qui di incontrare Lear e il suo matto, di Teatro Invito e Compagnia Walter Broggini, spettacolo che avremmo dovuto vedere proprio al Giardino delle cascate, ma che a causa dell’ allerta meteo è invece andato in scena nella Sala Quaroni del Palazzo degli Uffici dell’Eur. Peccato per la platea che contava poche sedie occupate (a causa dello spostamento o dell’inaspettato sole della domenica pomeriggio), soprattutto perché il lavoro di Luca Radaelli e Walter Broggini è un’opportunità interessante per far conoscere il mondo letterario shakespeariano a tutti, bambini compresi. Nel mezzo dei marmi e delle librerie della storica sala campeggia un teatrino in legno, Radaelli fa gli onori di casa cominciando a riassumere la prima parte della vicenda, da un baule tira fuori i burattini, saranno i personaggi del Re Lear di Shakespeare, uno a uno finiscono appesi. Walter Broggini li animerà con mestiere, donando voci e posture ad ogni pupazzo, tra la platea e le piccole teste colorate c’è Radaelli, pronto a dare carne e sostanza al personaggio del vecchio Re. Il risultato è una tragedia shakespeariana per burattini e attori in cui la complessità del testo viene domata dal dispositivo drammaturgico quasi favolistico. Non manca la cura dei dettagli, come quando le orbite di Lear rimangono vuote e rosse di sangue, e poi quei leggeri inserti metateatrali in cui Brighella si lamenta di dover rappresentare proprio una tragedia shakespeariana invece delle solite farse. Ci dispiace per Brighella ma speriamo proprio di poter vedere altre avventure del Bardo tra i legni e i bauli di questo piccolo teatro. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Sala Quaroni del Palazzo degli Uffici, Festival Immagina. Crediti: Dramma per attore e burattini da William Shakespeare con Luca Radaelli e Walter Broggini traduzione e drammaturgia Luca Radaelli testo e regia Luca Radaelli e Walter Broggini figure e scene Walter Broggini costumi figure Elide Bolognini e Graziella Bonaldo
MDMA_primo studio (di e con Gennaro Maione) + Memento (coreografia di Nyko Piscopo)
Il FIC Fest 2023 ha ospitato anche due lavori d’area napoletana. MDMA_primo studio è un intenso omaggio di Gennaro Maione al cinema di Dario Argento. I toni sono volutamente cupi, ricreano atmosfere oscure o rosso sangue, in uno spazio vuoto colmo solo di figurazioni della paura, sollecitate in modo (forse troppo) dirompente da una colonna sonora presa direttamente dai film e da un assai (forse troppo) mobile disegno luci. L’idea è che l’immaginario deviato, come risultato di una negoziazione tra il corpo e la mente, abbia ricadute soprattutto sul piano interiore: la paura lavora autonoma nel corpo di ognuno, e alla fine libera ciò che non può più restare imprigionato. Maione mi ricorda Cesc Gelabert, con una mobilità espressiva estremamente versatile, capace anche di micromutazioni. Memento di Nyko Piscopo del gruppo Cornelia, è parte di una coreografia a serata intera (ha debuttato in Polonia, al Gdańsk Dance Festival, e poi in Italia al Visavì di Gorizia). Qui in formato ridotto e senza la scena e le luci al loro completo, è un estratto comunque autonomo. L’avvio è intrigante: i quattro interpreti nerovestiti (Nicolas Grimaldi Capitello, Eleonora Greco, Leopoldo Guadagno e Francesco Russo) sono riuniti e di spalle al pubblico, marcano immobili il tempo, quello dell’attesa. L’eleganza degli abiti, la quasi costante prossimità dei corpi, l’aria condivisa di sguardi che indagano il circostante per risposte inevase, il sincrono che sempre ordina e regola: è celebrazione di un’uguaglianza di genere possibile, ma comunque piegata alla speranza, che è sentimento ipotecato, come insegna Lee Edelman, dal vangelo riproduttivo. Piscopo ha ricchezza e facilità di costruzione del movimento, cura delle forme e dell’ascolto musicale; ma qui è assediato dall’ombra (non si sorride mai!), sulla quale non riesce a saltare (la futurità del senso? l’eternità garantita dal ricordo?). E allora prende corpo una persistente cupezza ‘modernista’, una rassegnata inclemenza, un’austerità affettiva come in cerca di compensazione. Senza esperienza della libertà, e del caos. (Stefano Tomassini)
Visto al FIC Fest 2023, Scenario Pubblico . Crediti completi
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