Cordelia - le Recensioni

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SOGNO DA UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE (regia di Rosario Sparno)

Portare in scena Shakespeare è un esercizio teatrale e immaginativo di non poco conto che non ha nulla a che vedere con la ricerca dell’originalità scenica, quanto piuttosto con l’intelligenza (e l’interesse) di creare una prossimità irresistibile col pubblico, e di portare la magia della finzione per terra tra i piedi degli spettatori. Lo spazio del palcoscenico non è fatto di delimitazioni, ma di condivisione d’aria. Sogno d’una notte di mezza estate è effettivamente un gioco tra reale e finzione, tra il di qua e il di là, uno spazio cangiante in cui fate e uomini (e attori) convivono. Attori e uomini non sono la stessa cosa; il corpo dell’attore è lo spazio della scena, elemento evocativo dell’altra realtà: quando spalanca le braccia può diventare un muro, e se allarga le dita vuol dire che quel muro è crepato. Quando getta una manciata di foglie secche per terra, vuol dire che pochi attimi dopo potrà apparire una fata perché quello è il suo bosco. Attorno all’altalena di Puck (Lukas Lizama) si dispongono gli attori; nella realtà, uomini e donne improbabili, un po’ meschini e alquanto ridicoli, nella finzione, eroi indimenticabili. C’è chi (Angelica Bifano) nella vita vera è una macchietta con difficoltà locutorie, e nella finzione diventa la bellissima Ermia, promessa sposa di Demetrio (Luca Iervolino), amica di Elena (Biagio Musella) e innamorata di Lisandro (Gennaro Apicella). Ma Elena e Lisandro possono essere anche fate, così come Puck può diventare un albero, così come Elena e Demetrio possono diventare un muro. Il brillante riadattamento di Rosario Sparno rispetta la complessità dell’attore come spazio della finzione, e le sue maschere come architetture del teatro. Architetture più che mirabili: in particolare, Musella e Apicella, solidi e generosi, avanzano come una nuova convincente generazione di giovani attori che fanno della maschera un elemento della modernità, mai nostalgici e pieni d’inventiva. Il pubblico gioisce di un gioco così portentoso.

Visto a Sala Assoli, Napoli; Crediti; Da William Shakespeare; Adattamento e regia di Rosario Sparno; Aiuto regia Antonella Romano; Con Gennaro Apicella, Angelica Bifano, Luca Iervolino, Lukas Lizama, Biagio Musella; Scena Omar Esposito; Luci Simone Picardi; Costumi Giuseppe Avallone; Foto di scena Pino Miraglia; Produzione Casa del Contemporaneo.

PRÓXIMO (di Claudio Tolcachir)

Pablo ed Elian (Lautaro Perotti e Santi Marín) condividono uno spazio ristretto; elementi d’arredo molto diversi tra loro si  dispongono in un appartamento in cui i due possono muoversi un po’ a fatica. Ma la loro non è che la piacevole impressione di stare sempre assieme, poiché comunicano solo per mezzo di videochiamate. Non si sono mai fisicamente conosciuti: uno è un famoso attore spagnolo della televisione, l’altro è un lavoratore argentino emigrato in Australia. Il loro è uno spazio di proiezione emotiva, ma realistico proprio per quella familiarità con cui i due protagonisti vi si muovono. Un realismo "manualistico" fa della scena una teca priva d’aria. Le regole mielose del melodramma gestiscono le loro esistenze ben inquadrate in meccanismi di riconoscibilità narrativa; i ruoli e le azioni con le loro ragioni sono talmente smascherate da risultare facilmente prevedibili, se non proprio scontate. Anche i principi del genere sono seguiti con eccessiva pedanteria, senza vigore o estro. Ciò che li identifica è l’appartenenza a classi diverse: Pablo è un ricco viziato e un po’ superficiale, figlio oppresso di un politico reazionario, e con difficoltà ad accettare completamente la propria sessualità; Elian si arrangia come può tra numerosi lavori, una vita isolata, la preoccupazione per la madre malata, e il pressante problema dei documenti scaduti. Non ci sarebbe nulla di male se tutti questi elementi non avessero una sola funzione molto semplice: strutturare una storia d’amore che possa piacere a colpo sicuro a chiunque. L’aspetto emblematico della vicenda è mortificato dalla debolezza delle sue motivazioni: di sicuro coerente con l’idea che le brevi chiamate e la distanza aprano dei vuoti e delle mancanze nella visualizzazione di un individuo. Ma Pablo ed Elian non hanno vita; ciò che potrebbe meglio caratterizzarli viene lasciato allo stato di bozza, esattamente come i contesti in cui sono immersi, probabilmente perché non sono utili: approfondire con cura, scavare, vuol dire incontrare il gusto di alcuni e non di tutti.

Visto a Teatro Sannazzaro, Napoli; Crediti: Scritto e diretto da Claudio Tolcachir; Con Lautaro Perotti e Santi Marín; Scene Sofia Vicini; Costumi Cinthia Guerra; Luci Ricardo Sica; Produzione Timbre 4 – Carnezzeria

STAND UP POETRY (di Lorenzo Maragoni)

Una storia che ci contenga tutti, che ci faccia sentire parte di un destino collettivo, oppure una storia qualsiasi di una persona qualsiasi persa nel supermercato a inventarsi nuove identità da acquistare in offerta. Di questo ha bisogno Lorenzo Maragoni, poeta, attore e campione mondiale di Slam Poetry 2022: di una storia. Perciò questo fa, radunando attorno a sé il pubblico dell’Argot Studio: racconta storie. Il suo è il sorriso accogliente del poeta che nel 2023 non può e non vuole mettersi in posa, perché ha bisogno che la poesia sia una cosa viva, che viaggi per il mondo “dritta”, che vada a capo solo per lasciare quel vuoto utile a farsi riempire ancora. Il suo spettacolo fonde la Stand Up Comedy con la Slam Poetry, servendosi del classico palcoscenico sgombro, di uno sgabello utile solo a sorreggere un sorso d’acqua e dell’asta di un microfono cui poggiarsi. Con leggerezza i versi sciolti si alternano alle rime e alla prosa, in un’ora di saliscendi tra universale e quotidiano, miseria e sublime, gioia e profondo dolore. Tutti sono poeti, meglio sarebbe non esserlo eppure quanto ne gioveremmo se tutti scrivessimo, riconoscendo alla poesia il potere di essere la porta su questo mondo incomprensibile, consolazione e condanna, altrove e hic et nunc. Maragoni sfrutta benissimo la propria fresca presenza, la mimica facciale allenata a quel dire che tocca la performance, ma non si prende mai sul serio. Con gli occhi e il sorriso corre incontro al pubblico finché il suo declamare diventa un sussurro e inavvertitamente ci si ritrova sul palco con lui, vicini e protesi alla verità del suo scanzonato giocare con le parole. (Sabrina Fasanella)


Visto all’Argot Studio.
Di e con Lorenzo Maragoni.
produzione TRENTO SPETTACOLI

1936#CERCO MIO FIGLIO#SI CHIAMA FEDERICO (di M. Carniti)

Non c’è biografia che possa contenere l’anima di un poeta, i suoi paesaggi interiori, il suo sguardo sul mondo. Neanche declamarne i versi può restituire più di un’ombra della persona e del suo destino, antologia di segni. Soprattutto se il poeta è Federico García Lorca, il cui corpo barbaramente ucciso e mai rintracciato giace ancora nelle fosse comuni della guerra civile spagnola. Marco Carniti sceglie di raccontarlo consegnandone i versi a una voce altra e medesima, quella della madre che lo ha perso. La lettera iniziale del suo nome, lapide mai esistita, campeggia proiettata su uno schermo quando Carniti - spirito, guida, cronista – giunge dalla platea a inaugurare il viaggio. In un teatro da distruggere, spoglio e scarno, pronto a farsi abitare soltanto dalla vibrante presenza invisibile del duende, Caterina Vertova è Vicenta Lorca Romero. L’urlo soffocato del suo appello è cante jondo e fierezza, finestra aperta e cancello chiuso. La drammaturgia di Francesco Tozzi è frutto di un’attenta selezione: non c’è invenzione, ma composizione di un mosaico di versi del poeta che splendono di profetica efficacia sulle labbra della madre. Vertova è terra e sangue, piedi nudi e voce che esplora senza esitazione. Attorno a lei, come spiriti vorticanti, le scene di luce proiettata del pittore catalano Frederic Amat. Pochi gli elementi che la circondano, un tablao che è insieme palco e ambone, qualche fotografia, un ventaglio, mai didascalici. La messa in scena alterna verso e cronaca, volo e schianto, nel dialogo tra Carniti e Vertova: l’uno presta la voce alla Storia, all’inchiesta, al fatto reale. L’altra lo assorbe, se ne fa abitare, nella veglia permanente del dolore, con la dignità muta e ferma della perdita, l’ostinazione contro l’ingiustizia, la fede nella bellezza. “Quando morirò, lasciate il mio balcone aperto”: i versi di congedo di Lorca si compiono nello spettacolo. Il balcone è aperto, quell’universo poetico è così potentemente evocato che potrebbe fare a meno del racconto didascalico dei fatti. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Off-Off. Con Caterina Vertova e Marco Carniti. Testi di Federico García Lorca. Drammaturgia Francesco Tozzi /Marco Carniti. Scenografia Video Frederic Amat. Musiche Originali David Barittoni. Aiuto regia Francesco Lonano. Regia di Marco Carniti

MARINELLA (Di S. Riggi Regia C. Pagliucchi)

Marinella, Miché, Don Raffaé e Cicirinella: impossibile nominarli senza canticchiare le melodie che Fabrizio de André ha dedicato loro, ispirandosi a protagonisti della cronaca che la sua musica ha reso archetipi. Salvatore Riggi, classe 1996, prende in prestito questi nomi e destini e li fa incontrare nella Napoli degli anni 80, immaginando un intreccio che convergerà nell’epilogo raccontato da Faber. Cicirinella e Michele sono amici e complici di piccoli reati, uniti soprattutto dall’amore per Marinella, giovane prostituta che sogna di cambiare vita per amore. L’attrice che la interpreta (Roberta Di Somma) è delicata e innocente fin nel costume, a rappresentare più che la malavita, la freschezza della gioventù, la possibilità di riscatto, il desiderio di una vita libera. Ma Don Raffaele, boss giovane ma già potente e colluso con la polizia, ha in mano le loro vite. Se Marinella è l’oggetto del desiderio, Cicirinella (Mariano Viggiano) è il personaggio drammaturgicamente più efficace e completo: scanzonato e furbo, è lui a muovere la vicenda, disposto a sacrificarsi in nome dell’amicizia in un efficace climax emotivo. Il mood è quello di una storia di malavita, amicizia e amore, con gli ingredienti tipici del cinema e della tv di genere. La messa in scena si serve di contributi video che punteggiano lo svolgimento drammaturgico mutuandolo all’inchiesta televisiva; seppur ben realizzati e utili a gestire i diversi salti temporali della storia, a tratti compromettono il ritmo e la fluidità della narrazione, già divisa visivamente sui due palcoscenici perpendicolari del teatro Lo Spazio. Anche le scelte musicali, escludendo a ragione il repertorio di De André, sembrano confermare l’immaginario cinematografico/seriale che la regia di Christian Pagliucchi assegna alla messa in scena: naturalistica e al servizio della vicenda, dunque priva di quello slancio onirico/poetico che avrebbe maggiormente coronato la derivazione dai celebri brani del cantautore genovese. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Lo Spazio. Di Salvatore Riggi. Regia: Cristian Pagliucchi. Con: Bruno Ricci, Roberta Di Somma, Cristian Pagliucchi, Luca Carbone, Mariano Viggiano. Video: Matteo Genovese.

LA LUPA (regia di Donatella Finocchiaro)

Nelle intenzioni di Donatella Finocchiaro, regista de La lupa, il proprio recente rifacimento della novella verghiana, visto al Biondo di Palermo in questi giorni, dovrebbe «fornire un’inedita interpretazione grazie a un punto di vista per la prima volta totalmente femminile». La vicenda della 'Gna Pina, donna ossessionata dalla passione carnale per il giovane Nanni, era stata tratteggiata dal verista come manifestazione allucinata di un istinto animalesco incontrollabile, descritto a tinte cupe, già espressionistiche. Ora Finocchiaro decide di intestarsi una lettura superficialmente femminista della vicenda, enfatizzando della protagonista il suo essere vittima delle convenzioni sociali. Un'operazione prevedibile, concretizzatasi infatti in un allestimento da fiction. Il femminile descritto finisce per rinforzare gli stereotipi oggetto della presunta messa in discussione; la complessa sessualità della protagonista verghiana viene qui tradotta dalla regista, che oltretutto ne veste i panni, in una sorta di velata ninfomania pruriginosa e ammiccante. La scena è un quadro banalmente descrittivo: mura rustiche, paglia, polvere, lenzuola stese, mobili di legno, utensili agricoli. Tra giorno e notte, buio e luce, le donne sono depositarie silenziose e maliziose di una sensualità lasciata emergere in scenette di lontano gusto emmadantesco. La rigidità degli uomini vi si oppone senza troppa padronanza. Nelle scene di gruppo i numerosi intepreti affastellano la scena piuttosto caoticamente, nell'assenza di una concertazione corale dello spazio. L'elemento popolare vive in facili soluzioni comiche, mentre l'eloquio di attori e attrici è per lo più un fatto letterario, declamato in modi e pose affettate, poco verosimili. In questa co-produzione del Teatro Stabile di Catania e Teatro della Città ci si compiace del solito sicilianismo di maniera, che intercetta agevolmente il gusto della borghesia più provinciale ammiccando alle sue reminiscenze scolastiche. Il risultato: un drammone sentimentale da prima serata. (Tiziana Bonsignore)

Visto al teatro Biondo. Crediti: di Giovanni Verga, regia Donatella Finocchiaro, progetto drammaturgico e collaborazione alla regia Luana Rondinelli, movimenti di scena Sabino Civilleri, con Donatella Finocchiaro, Qui il cast completo

ION (regia Dino Lopardo)

Il Teatro Libero di Palermo ha recentemente ospitato Ion, da un'idea di Andrea Tosi, scritto e diretto da Dino Lopardo, già vincitore come miglior progetto al festival inDivenire 2019. In una stanza squallida e misera, arredata con pochi mobili industriali, abitano i due fratelli Paolo (Alfredo Tortorelli) e Giovanni (Lorenzo Garufo). Il primo è agile, scattante e insofferente: sul suo corpo grava una tuta proletaria, simbolo di quel mezzo utile a rasentare la sussistenza. Il secondo è un omone chino su se stesso, raccolto in un mondo di immagini poetiche, di simboli plasmati da un italiano cesellato, inconciliabile con l'asperità dialettale dell'altro. Due mondi a confronto: quello fittizio, della produzione, della catena di montaggio lungo il cui nastro si fabbricano sogni di plastica ma necessari alla sopravvivenza; quello immateriale e verissimo del come se, dell'arte che si erge sulle ceneri del come è rimanendovi irrimediabilmente estranea. Nulla accomuna Giovanni e Paolo, se non la condivisione di una vita che non hanno scelto e li costringe in una manciata di metri quadri. È tutto teso tra la crudezza del quotidiano arrancare e la fuga in una dimensione altra, questo Ion: dualità che si riverbera sulla concreta povertà nella quale i due protagonisti sono immersi, imponendovi atmosfere oniriche, lunari. Da queste emerge il contenuto traumatico latente: la violenza domestica, l'abuso, la "colpa" dell'omosessualità di cui Giovanni, anima delicata in un sud troppo profondo, si è macchiato agli occhi della parentela. La madre (Iole Franco), appare evanescente in episodi rievocati in flashback, chiave di volta per la comprensione del vissuto dei due. I movimenti dell'arredo scenico accompagnano questo processo di agnizione, aprendo la casa dei protagonisti ad altri universi. Le luci colpiscono ed evidenziano corpi, volti e particolari, ed enfatizzano l'essenziale fotografia: l'intero allestimento è una macchina di sogni crudeli. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Libero. Crediti: diretto da Dino Lopardo da un'idea di Andrea Tosi con Iole Franco, Alfredo Tortorelli e Lorenzo Garufo. Gommalacca Teatro / Dino Lopardo / Collettivo I.T.A.C.A. Foto di Giovanni Lancellotti

MADRE (Teatro delle Albe)

Prima delle parole di Marco Martinelli c’è Nora, “non volevo diventare come lei: era vecchia, aveva mani grosse e dure[...], la gente diceva che era una strega”, scrive Ermanna Montanari nel curatissimo libro di sala di Madre. E poi c’era il pozzo dove la vecchia Nora portava la bambina, sollevandola per farla guardare in basso, nel vuoto, “nel gran buio, un’eco assordante del boato della nostra voce”. La voce appunto, suono interiore, cercato nei decenni passati, perché Ermanna Montanari è ancora qui, presente alla sua ricerca, intenta a cercare quei toni, quei colori scuri, striduli con i quali dare voce alle streghe. Questo amore, questa cura da parte dell’artista verso il proprio talento, la propria ricerca, dopo tanti anni è commovente. Siamo nella sala studio dell’Auditorium, qui il Teatro delle Albe ha portato un concerto scenico, un lavoro suggestivo fatto di suoni dal vivo, quelli del contrabbasso di Daniele Roccato, delle voci spaventevoli di Montanari e delle immagini create, anche queste dal vivo, da Stefano Ricci. E, dalla prima fila, di Ricci si posso sentire i respiri, gli affanni, la fatica tutta performativa che impiega in questo atto quasi mistico, nel quale abbandona se stesso a una sorta di trance artistica in cui elabora e poi cancella ciò che appare proiettato su un fondale circolare, il pozzo della nostra visione. La storia ribalta la consuetudine, non è il solito incubo genitoriale, non è il figlio a cadere nel buco. Nei primi attimi, mentre Ricci disegna un ragazzo di spalle, Montanari suona il proprio strumento vocale creando fruscii, respiri, fiati tra le canne. Il ragazzo corre verso il pozzo, ha saputo che la madre ci è caduta dentro. Eppure in questo dialogo tra il figlio e la madre non sembra esserci possibilità per la tenerezza, è la durezza della campagna a manifestarsi. E allora quel dialetto romagnolo quando arriva non ha nulla di sorridente e affabile, è lingua spietata, affilata, diventa una macchina che macina parole e suoni, dal buio di un pozzo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Studio, Auditorum. di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato poemetto scenico di Marco Martinelli regia del suono Marco Olivieri realizzazione elementi di scena squadra tecnica Teatro delle Albe produzione e promozione Silvia Pagliano

SONOMA (coreografia, in collaborazione coi danzatori, di Marcos Morau)

Il gruppo spagnolo La Veronal di Marcos Morau è tornato al festival FOG di Triennale a Milano. Sonoma è lavoro ispirato alle opere e alla vita del regista Luis Buñuel, maestro del cinema surrealista. Riprende un precedente lavoro, nato per il Ballet de Lorraine nel 2016, dal titolo Le Surréalisme au service de la révolution, già visto a Les Recontres Chorégraphiques Internationales de Seine-Saint-Denis. All’epoca ricordo non mi convinse perché la dimensione teatrale non sembrava connettersi con quella coreografica, e l’impressione era di un mondo di segni ancóra incompiuto. Ora invece la macchina scenica è perfetta, sotto molti punti di vista: nove straordinarie interpreti, quasi sempre tutte in scena, orchestrano fughe e abbandoni, tra disciplina religiosa e trasgressione folklorica, come se nella dimensione onirica e in quella dell’istinto potesse prefigurarsi una nuova realtà. «È una storia strana, lontana, legata a una leggenda sulla valle di Sonoma, in California, dove i nativi americani credevano che la luna si accoccolasse», scriveva Anna Bandettini nel 2022 da Rovereto. Ed è davvero una luce lunare qui tutta in caduta libera. Le citazioni (anche musicali) naturalmente si inseguono e si sovrappongono, ma ciò che più colpisce è l’alta tenuta, l’intensa durata di una organizzazione scenica alla fine semplice, quasi elementare, anche poco coreografica. Nel senso che la gestica, così come i fitti percorsi e le entrate con costumi a effetto, sono intensamente ripetuti ma per disposizione (spaziale) non per invenzione (cinetica). Mentre la dimensione visiva della composizione è prevalente su quella psichica, così come la disposizione del set dilaga sempre in una maniacale frontalità. Fino allo splendido finale, con tanto di pieno accordo in crescendo di nove tamburi di Aragona, che conducono all’ultimo intenso climax prima degli applausi. Ora forse meglio comprendo il facile-facile testo d’avvio di El Conde de Torrefiel, La Tristura e Carmina S. Belda, tutto invocante cambiamento e salvezza nell’abbandono alle verità catartiche (ritmico-dinamiche) del sogno. (Stefano Tomassini)

Visto a FOG, Triennale di Milano. Ideazione, direzione artistica: Marcos Morau coreografia: Marcos Morau (in collaborazione con i danzatori) danzatori: Alba Barral, Angela Boix, Julia Cambra, Laia Duran, Anna Hierro, Ariadna Montfort, Núria Navarra, Lorena Nogal, Marina Rodríguez testo: El Conde de Torrefiel, La Tristura, Carmina S. Belda répétiteurs: Estela Merlos, Alba Barral consulenza artistica e drammaturgica: Roberto Fratini assistente vocale: Mònica Almirall direzione tecnica, luci: Bernat Jansà direttore di scena, oggetti di scena, effetti speciali: David Pascual suono: Juan Cristóbal Saavedra voce: María Pardo scenografia: Bernat Jansà, David Pascual costumi: Silvia Delagneau sartoria: Ma Carmen Soriano modisteria: Nina Pawlowsky maschere: Juan Serrano (Gadget Efectos Especiales) creazione giganti: Martí Doy oggetti di scena: Mirko Zeni produzione

EUROPEANA. BREVE STORIA DEL XX SECOLO (di Lino Guanciale)

Lino Guanciale. Europeana. Un secolo nel frullatore. È il titolo di un articolo che appare nei primi risultati del web e che mi colpisce, perché ben restituisce l’effetto dello spettacolo portato dall’attore/regista abruzzese nelle sale del Piccolo Teatro di Milano. Guanciale parte dall’ingarbugliato testo dello scrittore Patrik Ouředník, denso di informazioni sul secolo appena trascorso e frenetico nel suo sviluppo paratattico, per restituire “una mirabile costruzione di ecolalie coordinative”, in cui gli eventi “non accadono in modo lineare, ma si incrociano”. Così, per tutta la durata della vorticosa pièce l’attore resta in piedi, inchiodato su di un leggìo, e passa in rassegna tutti gli accadimenti che hanno caratterizzato un periodo storico travagliato, dall’invenzione dell’aspirapolvere alle guerre mondiali, dalle lotte femministe alla distribuzione massificata di Barbie e poi il positivismo, l’esistenzialismo, il dadaismo. Allora con forza mette piede sull’acceleratore. Muovendosi su una dimensione anacronistica del tempo le sue parole rimbalzano e si susseguono velocissime e le immagini che costruisce – anche tramite oggetti feticcio – inciampano senza fiato le une sulle altre. Diremmo che è decisamente agitata, questa Europeana, rispettosa anche dello stile linguistico del suo autore, e Guanciale non ne sembra spaventato: la sua prova attorale è vivida e impegnata e assume quelle tonalità strappate di un urlo affaticato. Nelle scelte registiche però, si percepiscono alcune incertezze che mostrano un certo immobilismo nella resa finale; l’insistere sulle potenzialità del racconto si trasforma in una rinuncia alle possibilità di un più elaborato lavoro sulla scena e l’elemento musicale, dolce e malinconico nella fisarmonica di Marko Hatlak, invece di sollecitare un dialogo con le parti del testo ne riempie solamente i buchi, come un respiro momentaneo. Una montagna di indumenti “alla Pistoletto” è l’immagine lapidaria di questa breve storia del Novecento; il narratore vi preleva ripetutamente le maglie/simbolo che la costituiscono, le indossa una sopra l’altra, assumendo su di sé la stratificazione dei segni tangibili di un’intera epoca. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: di Patrik Ourednik, traduzione Andrea Libero Carbone © 2017 Quodlibet srl, diretto e interpretato da Lino Guanciale, musiche eseguite dal vivo da Marko Hatlak, fisarmonica, costumi ed elementi di scena Gianluca Sbicca, luci Carlo Pediani, coproduzione Wrong Child Production e Mittelfest2021, in collaborazione con Ljubljana Festival. Foto di Luca A.D’Agostino

TOTÒ E LA SUA RADIOLINA (di Giada Baiamonte)

La radiolina che Totò porta al collo è l'omaggio di una prostituta, Gisella. Totò e Gisella sono il residuo, il precipitato di una società che per loro non ha spazio: lui è un figlio sfortunato, al quale la vita ha lasciato soltanto il ricordo della madre defunta e la propria disabilità mentale; lei è prostituta suo malgrado, una madre privata della possibilità di esserlo. Sul molo, dove i due casualmente si incontrano, è possibile per entrambi un piccolo riscatto. Totò e la sua radiolina, di Giada Baiamonte in veste di autrice e regista, è un'operina sospesa e poetica, tutta compresa negli episodi che si susseguono tra un buio e l'altro. La scena di Danilo Zisa, piuttosto ingombrante, indugia in una pur gradevole didascalia. Il porticciolo occupa tutto il palco dello Spazio Franco e comprende onde marine entro una struttura trasparente, grandi barchette di carta, la panchina attorno alla quale si svolgono i dialoghi di Gisella e Totò. Eletta del Castillo, nei panni della donna, sembra una pretty woman del quartiere Capo: la resa del suo personaggio è pulita e decisa. Nicolò Prestigiacomo, nei panni di Totò, ricorda Forrest Gump. Pure lui agisce con misura, riuscendo a divertire senza cedere al grottesco. Il suo personaggio lo ritroviamo oltretutto in un altro lavoro di Baiamonte, E muriu u cani, del quale Totò e la sua radiolina è uno spin-off in vista dello sviluppo di un più ampio ciclo. Intanto, nello spettacolo visto recentemente allo Spazio Franco, il garbo entro cui Gisella e Totò svolgono il racconto della loro vicenda puntella col sorriso lo scambio ben ritmato delle battute. A volte la scrittura illanguidisce in punte di patetismo che minano la ricercata verosimiglianza: questa, oltretutto, nonostante i dichiarati intenti neorealistici, non pare essere la cifra fondamentale della vicenda. Il dramma lascia la questione sociale sullo sfondo, trasfigurandola nella narrazione di una storia lieve ma non per questo banale. Il centro non è nella realtà, ma nelle sfumate sensazioni che da questa scaturiscono. (Tiziana Bonsignore)

Visto allo Spazio Franco, Palermo. Crediti: testo e regia Giada Baiamonte, disegno luci Andrea Schirmenti, scenografia Danilo Zisa, costumi Andrea Schirmenti, interpreti: Eletta Del Castillo e Nicolò Prestigiacomo. Foto di Vito Raia.

PERFETTI SCONOSCIUTI (di Paolo Genovese)

«Anche fosse, che fai glielo dici?», la battuta, e domanda retorica, è ormai diventata sineddoche di Perfetti sconosciuti, commedia drammatica firmata da Paolo Genovese che - dopo il film del 2016 campione di incassi, vincitore di David di Donatello, Nastri d’argento, Globo d’oro e Ciak d’oro e nel Guinness dei primati come film con più remake nella storia del cinema, ben 25 – arriva a teatro al debutto romano all’Ambra Jovinelli. Quasi una diretta filiazione dall’opera originale che già di per sé conteneva in nuce quell’impostazione drammaturgica da sviluppare per la scena, tant’è che il copione rispetta fedelmente la sceneggiatura (di Genovese, Filippo Bologna, Paolo Costella, Paola Mammini e Rolando Ravello). Al suo primo esordio teatrale, Genovese gioca facile: il testo si conferma un’opera da manuale, capace di dare risalto con fedeltà all’antopologia delle relazioni interpersonali nell’era digitale e nel suo corrispettivo reale, quotidiano. Bauman stesso ne godrebbe. Durante una serata di eclissi di Luna, il gioco, “al massacro”, che un gruppo di amici borghesi legati fin dall’infanzia decide di fare a cena lasciando i propri smartphone alla mercé di tutti e tutte, continua a emozionare il pubblico, si ride con precisione quasi matematica alle battute ormai classiche, si sta in tensione, ci si commuove anche. Nonostante si rimanga affezionati a quello del film, il cast di attori e attrici - Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino – non delude e regge il confronto, dando propria interpretazione ai caratteri – empatici, complessi e versatili Calabresi, Ferzetti e De Lorenzo – e restituendo fluidità anche nella lettura degli sms e email, che di certo stavolta non possono essere “inquadrati”. Alla prima, qualche problema tecnico non ha compromesso la prova attorale e il sold out ha spinto proprio stamane il teatro a comunicare delle repliche aggiuntive.(Lucia Medri)

Visto al Teatro Ambra Jovinelli di Roma. Con (in ordine alfabetico) Dino Abbrescia, Alice Bertini, Marco Bonini, Paolo Calabresi, Massimo De Lorenzo, Anna Ferzetti, Valeria Solarino, prodotto da NUOVO TEATRO diretta da Marco Balsamo in coproduzione con Fondazione Teatro Della Toscana e Lotus Production. Foto di Salvatore Pastore

AZUL. GIOIA, FURIA, FEDE Y ETERNO AMOR (di Daniele Finzi Pasca)

Accade di rado che il teatro acquisti quella sfumatura naturale e spontanea di una grassa e grossa risata. Accade di rado che l’improvvisazione si trasformi in spassoso divertimento, al di fuori del controllo di regista, tecnici e attori stessi. È quando il personaggio prende il sopravvento, si emancipa da coloro che l’hanno plasmato e comincia a fagocitare tutto, anche la distanza tra platea e palco. Sulla scena del Franco Parenti, Stefano AccorsiLuciano ScarpaSasà PiedepalumboLuigi Sigillo si calano così nei panni di quattro amici di lunga data, e amici sembrano esserlo per davvero nelle loro interpretazioni goliardiche e sincere. Al mondo ci sono piombati come dei superstiti, con soprannomi fiabeschi e orfani di madre, ma del tiepido grembo materno riescono a ritrovare traccia tramite l’ardore di una passione calcistica condivisa. S’ incontrano allo stadio, animati dalla voglia di fuggire le monotone liturgie dell’esistenza. Ma su quegli spalti si agitano, palpitanti, saltano e gridano, aprono mente e petto per accogliere ciò che dell’euforia continua a vibrare anche dopo che la partita è finita. Daniele Finzi Pasca si cala da maestro in questo immaginario comune e dona il ritratto di un’amicizia duratura con genuina semplicità. La sua scrittura sembra provenire da nessun posto e a nessun posto andare, ma nelle immagini aleatorie e trasognate che restituisce getta le basi per la costruzione di un terreno ludico, dove i personaggi possono sbizzarrirsi ed essere davvero sé stessi. A questo esercizio di libertà drammaturgica, il regista accosta frizzanti suoni jazz abbracciati da proiezioni video dalle calde tonalità fluide. Qui, si staglia il protagonismo della voce di Accorsi, modulata e avvolgente sul palco, matura e curiosa quando sconfina in platea nei tentativi di interrogare il pubblico per renderlo parte di questi eterni amori e delle amare disillusioni, di come tutto finisca ma sia destinato sempre ad avere un nuovo inizio. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: testo e regia Daniele Finzi Pasca, con Stefano Accorsi e con Luciano Scarpa, Sasà Piedepalumbo, Luigi Sigillo, designer luci Daniele Finzi Pasca, scene Luigi Ferrigno, costumi Giovanna Buzzi, video designer Roberto Vitalini, musiche originali Sasà Piedepalumbo. Foto di Filippo Manzini

SCONOSCIUTO. IN ATTESA DI RINASCITA (di Sergio Del Prete)

Un uomo è immesso all’interno di un perimetro rettangolare, illuminato da led e asfissiante; più che altro viene partorito con estremo dolore per lui. È vestito con giacca e cravatta, è agitato. È al mondo perché la madre, tempo prima, ha dovuto abortire. Il dolore e le mancanze, la quotidianità devastante di una famiglia disfunzionale, e la frustrazione per una vita indesiderata, costruiscono il suo stare al mondo. Tutt’intorno, nello spazio nero e spoglio al di fuori del perimetro – gabbia, viene evocata la vastità desolata della Periferia: un’entità distruttiva che fagocita le esistenze e ne rigetta carne senza spirito. Sergio Del Prete dona un’interpretazione preziosa: si muove con una disperazione che tende i nervi, i suoi e di chi osserva, oltre il sopportabile; la sua voce strozzata incalza i ricordi di una vita miserabile inchiodando lo spettatore al suo posto. La capacità di costruire immagini di una materialità pesante e ingombrante è il risultato di una penna che filtra la realtà attraverso la poesia e la restituisce più vivida; l’utilizzo realistico del dialetto, più sporco e volgare di quello cittadino, o di una strascicata cadenza contribuisce a reificare la bruttura di certi contesti sociali. E, tutto sommato, se la città è una città di miserabili pezzenti e bugiardi, perché la sua periferia dovrebbe essere meglio? Come devono essere gli uomini e le donne che vivono in luoghi dove l’amore non è altro che «una botta di culo» che non capita quasi a nessuno, o dove la tenerezza è un momento fugace rubato alla disperazione? L’uomo si chiede perché vivere col peso di tanti silenzi, e domanda stizzito a quel fratello inesistente perché non poteva prenderselo lui tutto questo peso. Forse questi frammenti di monologo profondamente intimo con il fratello peccano, oltre che per il numero di poco superiore al necessario, di un retorico che si lega poco all’andamento del resto; ma siamo alla minuzia, a una quasi impercettibile stortura in una costruzione pressoché perfetta. (Valentina V. Mancini)

Visto a Sala Assoli; Crediti Scritto diretto e interpretato da Sergio Del Prete; Elaborazioni sonore e musiche dal vivo Francesco Santagata; Scene e disegno luci Carmine De Mizio; Costumi Rosario Martone; Foto di scena Pepe Russo.

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