Cordelia - le Recensioni

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LO STATO DELLE COSE (di Massimiliano Bruno)

La locandina, con Massimiliano Bruno che sovrasta i piccoli personaggi, è una delle pubblicità teatrali maggiormente visibili a Roma. Lo stato delle cose è al Parioli per quasi tre settimane (possibilità di tenitura che non hanno più neanche i grandi nomi del teatro). Operazione di fine stagione questa del Parioli, al limite tra la formula della rivista e quella dello showcase di fine anno delle scuole teatrali. Il nome popolare tira sempre, il pubblico risponde: Bruno è molto amato, gli applausi cominciano addirittura quando l'attore e autore entra in scena, tributo che certe platee ancora offrono ai propri divi. Sul Messaggero scrivono che Massimiliano Bruno ha inventato la “serie teatrale”, ignorando il fatto che qui di seriale non c’è nulla: lo spettacolo porta in scena una decina di monologhi (ogni settimana diversi) affidati a giovani attori e allievi (più di trenta in tutto), ma davvero nulla di innovativo c’è in questa modalità. Bruno recita la parte di se stesso, in maniera prevedibile e la crisi che dovrebbe rappresentare è posticcia, poco credibile: l’autore è alle prese con uno spettacolo da fare e ripete più volte di non avere idee, e questo d’altronde è evidente visto lo schema utilizzato. Con un pensiero pirandelliano di superficie i suoi personaggi spuntano da dietro la scenografia (un grande studio pieno di libri), ogni tanto si litigano un monologo di cui l’autore comincia a parlare con la propria assistente e poi via, verso il proscenio per l’assolo. Nel finale c’è addirittura un momento in cui i personaggi finalmente si rendono visibili all’autore, lui li saluta tutti, uno per uno. Insomma un’impaginazione (di idea registica non si può parlare) davvero scolastica, in cui si salvano le interpretazioni delle attrici e degli attori (di sicuro un’esperienza importante per i più giovani), in gran parte all’altezza dei personaggi, talvolta in grado di caratterizzare narrazioni sbiadite dalla poca originalità. Alcune storie riescono a toccare, quelle che sfuggono al meccanismo dello sketch televisivo, quelle in cui si intravede la città metropolitana. Non manca un certo moralismo bonario, sotto forma di prevedibile frecciatina ai costumi sociali. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Parioli Scritto, diretto ed interpretato da Massimiliano Bruno. Tutti i crediti e il cast a questo link

STANZA CON COMPOSITORE, DONNE STRUMENTI MUSICALI, RAGAZZO (di F. Ramondino Regia M. Martone)

Buttato sopra un divano, con metà corpo oltre il sipario chiuso e con tono confidenziale, il compositore (Lino Musella) fa partecipe il pubblico della sua profonda insofferenza; appartiene a una famiglia di nobiltà decaduta, e la vita gli procura indicibili noie. Aperto il sipario, avanti a lui sfilano la madre instabile (Iaia Forte), la moglie semi anaffettiva (Tania Garribba), la sfarfalleggiante figlia (India Santella) e il ragazzo amico di lei (Matteo De Luca): ciascuno di loro, nell’immaginazione del compositore, ricopre il ruolo di uno strumento a corda, che lui accompagna col piano. C’è del Doctor Faustus di Thomas Mann nei deliri musicali del compositore, e di Gruppo di Famiglia in un interno di Visconti nelle dinamiche famigliari ambigue e intollerabili; senza, però, l’insostenibile dolore e strazio, la comprensione di un tempo e della fine di un tempo, di questi due immensi capi d’opera. Il testo inedito di Fabrizia Ramondino, redatto in due copie ed editato da Ippolita di Majo, ha un enorme problema (oltre a un contenuto piuttosto debole): il suo sembra un testo più adatto alla lettura che alla messa in scena. Procede inutilmente caustico in un monologo fatto di giochi di parole ed estenuanti battibecchi, infiocchettato di orpelli e colte delizie che stancano per il loro essere gratuite e viziose, se non a una certa incomprensibili e difficili da seguire. Due gioielli lasciano tuttavia piacevolmente coinvolti: la messa in scena curata da Mario Martone, ricca eppure desolata, bella e pesante, espressiva nell’ordine degli interni di lusso, e l’interpretazione quasi agonistica di Musella, che però (e deve essere sempre un problema di scrittura) fagocita i suoi compagni di scena, compressi a forza in rapide comparse senza alcuna energia espressiva. Il lezioso ritratto di gente annoiata il cui unico pregio è quello di divertire un pubblico borghese (napoletano) che da quell’aristocrazia (napoletana) ha ereditato l’inutilità ma, ahinoi, la predominanza culturale.(Valentina V. Mancini)

Visto al Teatro San Ferdinando; Crediti: Testo inedito di Fabrizia Ramondino; Regia e scene Mario Martone; Con la collaborazione di Ippolita di Majo; Con Lino Musella, Iaia Forte, Tania Garribba, Totò Onnis, India Santella, Matteo De Luca.

DOV’È PIÙ PROFONDO (di Irene Russolillo)

È capitato a tutt* di sentirsi a casa di fronte a un paesaggio estraneo alla propria biografia, ben oltre le narrazioni identitarie che spesso elevano campanilismi anche tra paesi e frazioni distanti pochi chilometri. È un sentimento profondo e complesso: su di esso si fondano da sempre concetti opposti da cui generano comunità e sodalizi, ma anche, proprio per questo, alterità e conflitti. Dov’è più profondo, della coreografa e performer Irene Russolillo e con la creazione sonora e partecipazione scenica di Edoardo Sansonne, è un’asserzione e insieme un quesito, postura paradossale ma anche unica possibile a indagare quel confine invisibile e frastagliato che ci lega al mondo, fisico in primis, poi sociale e storico, che genera appartenenza, che ci fa dire: io, tu, noi. Il linguaggio della performance convoca strumenti eterogenei, dal canto alla lettura, dal live set al video, come metodologia per risalire con cura e sapiente diffrazione un argomento inafferrabile secondo cui qui è anche infiniti altrove. Così Russolillo, originaria del Tavoliere delle Puglie, dispiega perfettamente con la sua corporeità, voce e movimento, il paesaggio sonoro e orografico delle montagne di nord-ovest, fra Piemonte e Val D’Aosta, dove ancor oggi esistono alcune comunità Walser. Il luogo virtuale in cui Russolillo e Sansonne ci invitano è l’archivio, la raccolta di testimonianze visive e sonore di quelle popolazioni, le cui origini e vicende migratorie restano incerte, ma la cui sopravvivenza, una punteggiatura di minuscoli borghi e malghe di montagna sulla cartina delle Alpi, è sufficiente a illuminare un luogo misterioso e marginale della nostra stessa identità. L’esplorazione di questa geografia rimossa produce commozione, scandita dalla straordinaria coreografia, scritta seguendo la fatica del corpo in scalata, o dalla raffinata sonorizzazione dei canti tradizionali, come l’abissale rintocco del canto dei battipali. Il filo che rammaglia le fonti è la ricerca di quella fatica umana e sociale che precede e forgia la dimensione della lotta, ma la luce che più ci ferisce e resta nello sguardo, ancorché in fondo politica, è l’eco che quelle forme, visive e sonore, suscitano nello spettatore, come se ci appartenessero da sempre, senza capire il perché. (Andrea Zangari)

Visto a Spazio Rossellini nell’ambito di Impronte. La primavera della sostenibilità. Progetto, coreografia, scrittura vocale e performance di Irene Russolillo; creazione sonora e performance di Edoardo Sansonne

IL PAESE DELLE FACCE GONFIE (de La Confraternita del Chianti)

Immaginate di vedere in un cielo terso di azzurro, un’enorme nube nera che aleggia, e immaginate di dover lasciare casa a seconda di come il vento la sposta, perché è una nube tossica. Tra i disastri ambientali più gravi della storia, si ricorda quello del 10 luglio 1976 quando il reattore della fabbrica di cosmetici dell’Icmesa a Seveso, in Brianza, raggiunse la temperatura di 500 gradi e esplodendo liberò nell’aria una massiccia formazione di diossina (TCDD) che investì i comuni limitrofi di Meda, Cesano Maderno, Limbiate, Desio e, il più colpito, Seveso. Nel teatro civile de Il paese delle facce gonfie, «un monologo agrodolce per un evitabile disastro ambientale» - scritto da Paolo Bignami e adattato dalla dramaturg Chiara Boscaro per la regia di Marco Di Stefano – si parla con, poetica antropologia, del rapporto del protagonista, interpretato da Stefano Panzeri, con la fabbrica e di questa con la cittadina di Seveso. Solo in scena, con berretto e tuta da lavoro, seduto su una borsa frigo e con un pallone in mano, Poldo aspetta. Aspetta che Diego, detto Zorro, scenda con lui a giocare a pallone, aspetta Olivia per andare al cinema, l’Armando che deve suonare la tromba, aspetta i personaggi di un racconto singolare ma condiviso con tutte quelle “città-fabbrica” disseminate nel nostro paese. Aspetta, con il sorriso sulle labbra, l’espressione buffa un po’ impacciata, e si guarda la punta dei piedi perché in fondo, a dispetto di quello che gli dicono, lui le cose le sa, non è poi tanto “Poldo”. Alle persone si gonfia la faccia, e poi diventano nuvole, bianche, grandissime e soffici, e scompaiono. È una storia di aria questa de La Confraternita del Chianti, lo è nelle metafore - aria che gonfia e uccide, aria che libera - e nelle musiche scelte, tutte cover di pezzi celebri arrangiate con sax, trombe e tromboni. Il dramma leggero, aereo ma non volatile, di un bambino che è già uomo, la Storia che resta come denuncia nelle persone, nei luoghi, nei ricordi e sì, anche nelle nuvole. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Argot Studio durante la rassegna Over Emergenze Teatrali in collaborazione con Overview. Di Paolo Bignami, con Stefano Panzeri, dramaturg Chiara Boscaro, regia Marco Di Stefano, assistente alla regia Cristina Campochiaro, responsabile tecnico Enzo Biscardi. Foto di Sara Lamassa.

SONGS & BORDERS (di Michael Getman)

È andato a bussare alle porte delle case Michael Getman, nell’Israele del nord, vicino ai confini con il Libano, la necessità era quella di incontrare donne non professioniste provenienti da culture e tradizioni differenti. Getman è un coreografo di caratura internazionale, nato da genitori russi e residente a Tel Aviv, ha lavorato a lungo con la Batsheva Dance Company e già era stato al Teatro Quarticciolo di Roma nella programmazione di danza curata da Valentina Marini con un solo molto profondo e suggestivo. Ma in questo caso, l’esplorazione è altra, le pratiche artistiche si avvicinano a quelle antropologiche. Il palcoscenico va riempito con parole, gesti, danze e canzoni di culture strette tra confini di minoranza. In scena ci sono Neveen con le tradizioni culturali della comunità maronita cristiana di Gush Halav, Rab’a del villaggio druso di Majdal Shams (che prima del ‘67 apparteneva alla Siria e poi fu occupato da Israele), da diverse comunità dei Kibbutz provengono Ronny e Nira, Marina vive in una città circassia della Galilea e Ronit è originaria dell’Algeria, in Israele è diventata attivista per la liberazione del Libano dall’esercito israeliano. Getman parla di questo Songs & Borders come di un lavoro documentaristico nel quale ha dovuto mettersi prima in ascolto delle storie delle partecipanti e solo successivamente organizzare il materiale teatrale. Danze tradizionali, canzoni nelle lingue di origine e momenti di recitazione fisica nella quale i gesti del corpo e le espressioni facciali servono a trasmettere uno stato d’animo e uno stato delle cose: l’incomunicabilità, ma anche il prendersi cura degli altri, come nel caso di un pupazzo fatto di fil di ferro (a ricordare proprio il filo spinato dei confini invalicabili). Il progetto di Getman è importante e affascinate, per questo il pubblico andrebbe accompagnato maggiormente durante la performance, con la traduzione dei testi e delle canzoni nelle varie lingue e con un apparato iconografico, in linea con l'obiettivo documentaristico. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo nella stagione di Orbita Coreografie Michael Getman Assistente coreografica e dramaturg Yael Venezia Ricerca Dániel Péter Biró Cantante Neue Vocalsolisten Costumi Renee van Ginkel Pupazzi e scenografie Ma’ayan Tsameret Oggetti scenici Ayelet Adiv

B-OR DER (di Masoumeh Jalalieh)

Masoumeh Jalalieh sceglie con cura le parole: durante l’incontro avuto dopo lo spettacolo spiega che questa performance di venti minuti vista sul palco del Teatro Quarticciolo, all’interno della stazione di danza Orbita, sia un lavoro nato prima dell’ultima ondata di proteste che ha infiammato l’Iran alla fine del 2022. Jalalieh spiega anche che la percezione del pubblico è cambiata dopo i fatti scaturiti a causa dell’uccisione di Masha Amina, con i riflettori di tutto il mondo puntati sulle donne che hanno sfidato la morale della repubblica islamica. All’artista di Tehran ora residente a Vienna non interessa però il messaggio politico univoco, ma come l’opera possa essere percepita diversamente e possibilmente senza preconcetti. Ed è vero che escludendo dai nostri pensieri le lotte iraniane questa figura che dal buio lentamente comincia ad agitarsi nel bozzolo di un tessuto grigio potrebbe essere qualsiasi cosa: Jalalieh si riferisce anche alla pelle, ai confini più intimi e interiori,  alla difficoltà che spesso abbiamo ad uscire da noi stessi. C’è un corpo chiuso in sacco grigio, come un lenzuolo cucito attorno al corpo, il movimento della figura crea la forma tridimensionale bagnata da una tenue luce, mentre una voce femminile e una maschile si rincorrono in respiri e frasi in tedesco: una forma modulata in rientranze, nodi, spinte e vuoti. Lentamente la figura comincia ad alzarsi in piedi, inizia ad essere visibile forse una capigliatura, intano le frasi in tedesco hanno lasciato il posto a sonorità più sincopate; il corpo dell’artista è ora in piedi e comincia a ruotare, sembra un rito ipnotico, fin quando un suggestivo controluce sul finale mostra i lineamenti della figura dietro al telo. Ora la testa è completamente fuori, ma il volto è ancora e sempre negato. B-or-der, primo di una trilogia che già incuriosisce, è un lavoro denso, in cui perdersi, nel quale si può ammirare la trasformazione materica delle forme o emozionarsi per l'ascesa finale, per quel respiro di libertà. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo nella stagione di Orbita. Coreografia Masoumeh Jalalieh Ricerca sul movimento Soolmaz Shoaie/Zahra Roostami, Masoumeh Jalalieh Musiche Payman Abdali

FROM SYRIA: IS THIS A CHILD? (di N. di Chio, M. S. Fieno)

«Più o meno tutti arriviamo da un dolore». E non importa che dolore sia, la sua genesi è sempre complessa da ricostruire, la sua eredità è ancora più difficile da curare. Di fronte ad esso, avvertiamo come il bisogno di una guida, qualcuno che quel dolore ci aiuti a raccoglierlo e proteggerlo, a scandagliarlo per giungervi alle origini più profonde. Avvertiamo il bisogno di una voce che lo comprenda per condividerlo. Mirian Selima Fieno e Nicola Di Chio ne raccolgono da anni i frammenti sparsi sulla superficie della terra, usandoli nella propria pratica di ricerca come autentici strumenti d’indagine. In From Syria: is this a child? calano il teatro documentario all’interno di due giovani microcosmi, anfratti di vite che vibrano sul palco di Zona K in cerca di ascolto. Qui, Giorgia è una ragazza italiana di 14 anni. Porta sempre con sé la macchina da presa e indaga attraverso di essa le fratture della propria storia per trovare una spiegazione alla sofferenza provata per la separazione dei suoi. E poi c’è Abdo, un ragazzo siriano di poco più grande, costretto fin da piccolo ad abbandonare la propria casa e la propria terra per una guerra che ha distrutto tutto, anche la sua infanzia, perché «in guerra non esistono bambini». La distanza delle geografie identitarie si trasforma nella vicinanza delle emozioni condivise; i due s’incontrano nella vita vera e sulla scena, uniti dal linguaggio della telecamera che attraverso riprese in diretta e preregistrate conferisce una veridicità grezza e pura al racconto. È questa la materia pulsante del giovane lavoro (che si avvale inoltre di attori non professionisti), l’eredità umana di un fare teatro che riflette una visione ben precisa dei due registi, l’impegno sociale che è sincera responsabilità, affidata ora a chi tra noi deve ancora scegliere chi vuole essere domani. (Andrea Gardenghi)

Visto a Zona K, Milano. Crediti: concept e regia Nicola di Chio, Miriam Selima Fieno in scena Abdo Al Naseef Alnoeme, Giorgia Possekel drammaturgia Miriam Selima Fieno scenografia virtuale e light design Maria Elena Fusacchia videomaking Nicola Di Chio, Miriam Selima Fieno, Abdo Al Naseef Alnoeme, Giorgia Possekel video di archivio Hazem Alhamwy realizzazione miniature Ilenia Lella Fieno video di archivio Hazem Alhamwy spazio sonoro Antonello Ruzzini produzione Tieffe Teatro Menotti, Bottega degli Apocrifi. Foto di Alice Durigatto

LA COMPAGNIA DEL SONNO (di R. Alajmo, regia A. Pugliese)

Inizia lo spettacolo: cala dall'alto una duplice cortina, sulla quale si proiettano un volto maschile e il disegno di un cervello. Collage di gusto surrealista, come d'altronde surreale, nel senso letterale del termine, è la vicenda che si sta per svolgere. Una compagnia di due uomini (uno stentoreo Nando Paone, e un giovane vilipeso, Claudio Zappalà) e due donne (una prima attrice, Stefania Blandeburgo, e una "promessa del sogno contemporaneo", Angela Bertamino) discute sul da farsi. Sembra che stiano per allestire uno spettacolo, ma ciò che stanno per rappresentare è in realtà un sogno. Proprio così: il gruppo è direttamente collegato al riposo di un misterioso committente il quale, quando si addormenta, deve essere intrattenuto con finzioni oniriche. È tutto un discorso metateatrale, quello escogitato da Roberto Alajmo e diretto da Antonio Pugliese: ma pure in questa dimensione onirica in cui il teatro viene trasfigurato, non vengono meno problemi organizzativi, discussioni neghittose, penuria di fondi. Con questi la compagnia del sonno deve pure confrontarsi, nella speranza dell'arrivo di Scalogno (Gigio Morra, dinoccolato e divertente), "capo-sogno" di lungo corso. Ma il suo intervento, ormai troppo disincantato per poter sortire un aiuto effettivo, risulta inutile, vano come una vana parvenza. La compagnia del sonno è una commediola brillante e malinconica, acuta nelle trovate drammaturgiche e tersa nella resa formale. La scena, di Andrea Taddei, è un grande camerone con scaffali e letti, da primo Novecento, animato soltanto dai coloratissimi oggetti di scena, assemblati dagli attori sul palco, per allestire sogni. Allo stesso modo i costumi di Dora Argento si animano quando diventano abiti di scena, tanto sgargianti quanto posticci. La macchina dei sogni è tutto un inganno, immerso dalle musiche di Nicola Piovani; impietoso esso si disvela agli occhi del pubblico. Il "centro di produzione sogni" offre un intrattenimento misurato ed elegante, ben sostenuto, nel complesso, dalle interpretazioni. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Biondo. Crediti: di Roberto Alajmo, regia Armando Pugliese, con Nando Paone, Gigio Morra, Stefania Blandeburgo, Angela Bertamino, Claudio Zappalà, scene Andrea Taddei, costumi Dora Argento, musiche Nicola Piovani, aiuto regia Giacomo De Cataldo, produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo. Fotografo Ivan Nocera

ZIO VANJA (di Simona Gonnella)

Lo Zio Vanja di Anton Čechov, nella regia di Simona Gonnella, è una precisissima trappola dai violenti toni scarlatti. Il luogo dove avviene il dramma è scarno, denso e claustrofobico nel disegno scenico di Federico Biancalani, e autore di quella lenta e irrevocabile consunzione dei rapporti affrontata dallo scrittore russo nelle sue opere. Siamo in una tenuta di campagna, il capriccioso professore vi fa ritorno da malato accompagnato dalla seconda moglie Elena. Il loro arrivo rompe lo stantìo equilibrio che governa la casa in cui vivono lo zio Vanja, la nipote Sonja, il dottor Astrov, Telegin e la balia/madre: Elena è il motore di questo movimento distruttivo, annoiata e di un’irrequietezza seducente nell’interpretazione di Stefanie Bruckner, attira le passioni e gli ideali di due uomini che la contendono invano. C’è Vanja (un lascivo Woody Neri), uomo sulla mezza età frustrato e privo di speranze per il futuro, vestito con bretelle rosse e ciabatte che schiacciano rumorosamente a terra il peso della vita. E c’è Astrov (Marco Cacciola), ecologista dagli abiti un po’ punk e oggetto delle premure della figlia del professore, Sonja. Il loro disagio esistenziale si trasforma rapidamente in un urlo squassante e due colpi di pistola e lo scontro umano che ne deriva è logorante, soffocato sia dagli ambienti sonori di Donato Paternoster sia dalle luci taglienti pensate da Rossano Siragusano. Non c’è soluzione all’ insoddisfazione implosa di questi personaggi čhecoviani, tutti così contratti nella loro incapacità di incidere sul reale. All’inettitudine, però, Gonnella accompagna un sottile sentimento di scherno, intervenendo nel testo con alcune note di regia che Stanislavskij scrisse a margine del suo storico allestimento dell’opera, e producendo uno scarto ironico e di spaesamento tra scrittura e rappresentazione, affidato alla voce di Anna Coppola. Il risultato è una reintepretazione solida e verace, che offre al pubblico una lettura inedita del classico čhecoviano. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Fontana di Milano. Crediti: Di Anton Čechov, Regia e drammaturgia Simona Gonella, Con Stefano Braschi, Stefanie Bruckner, Marco Cacciola, Anna Coppola, Stefania Medri, Woody Neri, Donato Paternoster

SEMPRE VERDE (di Caroline Baglioni, Michelangelo Bellani)

Catasta (di scarpe), cassa (di bottiglie), pile (di libri). Nomi collettivi, a indicare un “uno” eternamente moltiplicato, in pieces, movimentato. Caroline Baglioni maneggia oggetti, nella Trilogia dei legami. Dopo Gianni e Mio padre non è ancora nato, anche in Sempre verde (diretto da Michelangelo Bellani e scritto a quattro mani) il perimetro domestico è alluso per mezzo dell’oggetto quotidiano e molteplice (i libri, stavolta) che pretende la ripetitività, ma anche l’eversione, del gesto. Se nei primi due lavori Baglioni dominava in solitaria la scena – a significare, forse, il primato individuale della memoria – stavolta il suo corpo è contrappuntato da quello, agile e denso, di Christian La Rosa. Sono sorella e fratello, forse Antigone e Polinice, dei quali leggono, forse Gretel e Hänsel, per il sentimento oscuro che anima la peripezia, ma anche un po’ Vladimir ed Estragon, per la simbiosi alienata e dolente nella quale galleggiano. Forse due quasi-trentenni, simili a tanti altri quasi-trentenni. I libri saranno anche oggetti sacrificali, baluardi crollati, piccoli totem da contrapporre ai loro tabù: quelli dettati dall’ambivalenza, dalla lunga distanza (lui appare di ritorno, lei non si è mai mossa), dal pudore nudo della vicinanza. La geometria del rapporto cielo/terra (due ampi pannelli luminosi che si fronteggiano) è scossa dai movimenti degli interpreti (curati da Lucia Guarino) che sono inediti, disorientanti, infrangono e ricompongono di continuo, con naturalezza, il nesso tra segno e simbolo, sorvolano il realismo eppure, a tratti, lo riconvocano, come un’evidenza. È raro cogliere, nella parola e nella carne, la verità così disarmata, ma plurima, della relazione tra infanzia e adultità: intermittenti, mutevoli, di fatto sempre compresenti. La costruzione per quadri, scomponendo il legame, offre la possibilità di osservarlo isolandone piccoli istanti, destinati altrimenti a collocarsi in un flusso: proteggendoli, quindi, dall’impostazione retrospettiva e ordinatrice della mente che ricorda e non concedendoli, forse, neppure al rimpianto. Non prima, almeno, che si sia esaurito il loro palpito. (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Morlacchi – Crediti: di Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani; regia Michelangelo Bellani; con Caroline Baglioni, Christian La Rosa

LA MISURA (di Eduardo Di Pietro)

Italo Spinelli ha ottantadue anni e ha perso la moglie Angela; distrutto dal dolore, decide di iscriversi alla Facoltà di Filosofia di Macerata col ferreo proposito di dare delle risposte ai suoi interrogativi: l’anima esiste? Rivedrà sua moglie una volta morto? Italo, con ostinazione infantile, studia. Davanti a emozioni alterate da un eccesso di dolore, la razionalità (o la misura) non è sufficiente, ed Eduardo Di Pietro sa che per fronteggiare quel tipo di dolore bisogna abbandonare sé stessi allo stato di bambini. Italo diventa una marionetta (di Barbara Veloce), come un talismano; ad animarlo c’è Marco Montecatino, che ha perso la sua migliore amica a soli trent’anni: attraverso la storia di Italo, cerca di affrontare la propria. Marco è un trentenne mai cresciuto: la sua postura è quella di un ragazzino insicuro, con il collo incassato tra le spalle piegate; il modo di esprimersi è immaturo, spesso improprio, e le emozioni più complicate da gestire non può far altro che esternarle rappando. La morte è qualcosa di inconcepibile, quel vuoto lo impaurisce, almeno quando non è alle spalle di Italo. Quest’ultimo, prese le gambe di Marco, si dirige piano alla sua scrivania, sistemata da Martina Di Leva, che regala alla vecchia comparsa, con i suoi gorgheggi e sospiri, una tenerezza struggente: la ragazza monta e smonta la scena, interviene nelle coscienze dei due e li assiste nell’accettazione della perdita. Lo spettacolo procede come una terapia: ai tentativi di quella logica cercata tra i libri, risponde una testardaggine bambinesca e riottosa; ma anche quando viene assecondata l’irrazionalità del dolore, il risultato per Marco è lo stesso. Questo tipo di bilanciamento di prospettive, questo antagonismo, si protrae e si ribadisce fino alla fine (probabilmente troppo compiaciuto in questo estenuante ripetersi senza soluzione) producendo un circuito serrato da cui non si riesce ad uscire: non esiste un vero punto, forse proprio perché l’idea di una fine viene respinta.

Visto a Piccolo Bellini; Crediti: Progetto e regia Eduardo Di Pietro; Con Martina Di Leva, Marco Montecatino; Marionetta e scene Barbara Veloce; Disegno luci Andrea Iacopino; Progetto sonoro Tommy Grieco

QUEL CHE RESTA (concept e coreografia di Simona Bertozzi)

Un paio di assoli per duo con ciabatte: ecco ciò che resta. Pure con un po’ di glitter, le ciabatte. Chi legge non si allarmi. È uno splendido lavoro di due corpi dissimili che non fanno nulla per assimilarsi, e che probabilmente (cioè sicuramente) si riflettono a vicenda e si ritrovano concordi su un qualche altro piano. Gli outfit, va detto sùbito, sono improponibili. Una mia studentessa presente congettura siano fatti apposta perché le interpreti devono essere qui percepite oltre l’abito. Ok, ci credo. Si tratta di Quel che resta, concept e coreografia di Simona Bertozzi, interprete insieme a Marta Ciàppina (si legge così, sdrucciola), e accompagnate da una giusta drammaturgia musicale che comprende la voce di un documentario sugli ippopotami e il loro habitat. Visto al Festival internazionale Prospettiva Danza Teatro di Padova, in una location estremamente suggestiva: l’Agorà del Centro Culturale Altinate. Se Bertozzi è aerea (insisto: inspiegabilmente vestita con colori terreni), apre lo spazio e intercetta linee, mentre tutto libera e scioglie e svapora; Ciàppina, invece, è più concreta (ma di bianco vestita, che sempre un po’ carica, e una camiciola fiorata con maniche a sbuffo che da un po’ non si vedevano, e che allargano, squadrano) tiene il punto, marca lo spazio e tutto comprime, contempla, e trattiene. Dopo l’avvio in ciabattine glitterate, un po’ in tandem effacé come per presentarsi a noi, con movimenti di pieghe e geometrie, finalmente se ne liberano (delle stimate ciabatte) e parte un fitto dialogo fatto anche di distanza e indipendenza, di riprese e di appuntamenti diversamente intesi, sempre però raggiunti e condivisi. I gesti e gli sguardi che si rimandano non si sovrappongono: nessuna sparisce nel corpo e nella presenza dell’altra. A una certa pronunciano e poi ripetono, alternate, titoli di canzoni della propria memoria adolescente: un nuovo piano qui si schiude, quello della memoria certo, ma senza sfondo, senza cornice, nella libertà di un tempo che non ha confini. Si approda così a una sezione di pose in luce notturna, con musica molto lirica, davvero inattesa e seducente. Rinforcate per il finale le (sovra)stimate ciabatte con rametti (forse) di salvia, entrambe si offrono all’ultimo congedo. (Stefano Tomassini)

Visto all’Agorà del Centro Culturale Altinate-San Gaetano per il Festival internazionale Prospettiva Danza Teatro di Padova, Quel che resta, concept e coreografia di Simona Bertozzi, con Marta Ciappina e Simona Bertozzi, crediti completi

ABOUT ELIZABETH (Elliot Teatro)

Nella pellicola del 1998 diretta da Shekhar Kapur Cate Blanchett avanza verso la cinepresa, il volto imbiancato è la sua ascesi, Elisabetta è ora un'entità più vicina a Dio che agli esseri umani. Ha rinunciato agli affetti, ha rinunciato alla propria carne per farsi regina. La giovane compagnia Elliot Teatro prendendo spunto da Orlando di Virginia Woolf ribalta questa visione: la regina ha bisogno di “staccare”, oggi si direbbe, e così trova qualcuno che possa prendere il suo posto. Di fronte al pubblico di Fortezza Est la vicenda è agita dal momento in cui il poeta Orlando chiede udienza in cerca di fortuna, il giovane oltre a mettere in mostra le proprie capacità artistiche rivela un'identità complessa, fluida, in cui Elisabetta scorge la possibilità del femminile. Sarà Orlando a vestire i panni della regina; Elisabetta d’altronde è stata anche la monarca che ha dato il proprio nome all’epoca d'oro della rappresentazione, quella di Shakespeare e dei suoi contemporanei; storia e leggende si mescolano trovando sul palco un punto di fusione in cui la parola è solo una delle espressioni in gioco. Leonardo Bianchi, regista del gruppo e interprete del ruolo di Orlando, inventa un linguaggio teatrale in cui l’impianto visivo e soprattutto la stratificazione sonora (nelle musiche di Gian Maria Labanchi) chiedono allo spettatore di lasciarsi trasportare dai diversi livelli linguistici. Elisabetta è sempre pronta alla festa, sul fondo Labanchi con il suo tavolo di regia è uno sprezzante musicista di corte. Nei microfoni la regina di Maria Campana trova riverberi ed effetti vocali sorprendenti. Degli abiti rinascimentali rimangono le gorgiere e la ricerca di certi fasti che però si mescolano con un gusto e un’ironia moderni, come per gli occhiali da sole delle due dame di corte. E appunto l’ironia e la leggerezza sono tratti distintivi di un lavoro di gruppo che non rinuncia alla spettacolarità, mescolando la ricerca sonora live con le contaminazioni pop, ma sempre con un rigore generale in grado di tenere insieme i diversi piani. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Fortezza Est. Drammaturgia Leonardo Bianchi Gian Maria Labanchi Regia Leonardo Bianchi Con Leonardo Bianchi Maria Campana Anna Chiara Fanelli Claudia Guidi Gian Maria Labanchi Luigi Pedranzini Musiche Maria Campana Gian Maria Labanchi Progetto grafico Alessandro Bianchi Comunicazione Giulia Tremolada

GUARDARE IL SOFFITTO (di e con Giulia Francia)

Guardare il soffitto, neonato progetto dell’attrice e performer Giulia Francia scandaglia, mette in moto e ferma degli assunti sulla persona, semplici e empaticamente condivisibili, e nel mentre l’attrice li elenca, sola nella scena di Fortezza Est, dice di farlo. Una scrittura che è quindi una didascalia ridondante, circolare su se stessa, che si avvoltola come una coperta attorno alle fragilità: «Non voglio ricevere insulti. Non voglio ricevere complimenti. Non voglio niente. Solo quello che mi spetta. Mi aspetto tanto. Mi aspetto molto. Ma non arriva niente. Allora aspetto ancora». La malìa per la paranoia, e anche lo sforzo impiegato per allontanarsene, freme il corpo, lo sguardo, i nervi delle mani, le spalle: «Ma ci ho messo del tempo a capire che le forze della natura, sono un turbinio di forze confuse, travolgenti, che fanno fatica a direzionarsi». Nella pesantezza delle parole pronunciate impersonando diversi punti di vista, la bambina capricciosa, la donna sola, la vecchia rancorosa, l’attrice che si abbandona allo spiegone curatoriale; e nelle domande che incalzano questo esercizio di complessità - «Cosa ho scritto? Ti sei mai sentita così? Anche tu ti sei sentito così, qualche volta? Siamo tutti uguali?» traspare il riferimento all’osservazione della vita da parte degli Hikikomori che tuttavia non è definito, non c’è nella drammaturgia quella esasperazione del ritiro sociale, anzi, è un’eventualità…E nonostante la prossemica delle diverse voci debba ancora essere rodata, il finale aggiustato nel ritmo per dare incisività al salto, alcune parti limate per non farle tendere alla lamentatio; G.I.S, acronimo di “guardare il soffitto”, come indicato nel copione, è uno sfogo utile, un singulto necessario all’atterraggio, per cui si ha la sensazione di cadere ma poi in fondo non si cade e in quella sospensione del percorso da un punto all’altro, si può scegliere di tornare su: «Stavo pensando. Ho visto in tv che ci sono delle funi dove tu ti ci lanci, ma sei attaccato».

Visto a Fortezza Est: di e con Giulia Francia

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