Cordelia - le Recensioni

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FELICISSIMA JURNATA (Putéca Celidònia)

Fumo denso e ambrato e uno stridere di strada accompagnano il pubblico del Teatro Sybaris verso una sagoma imponente in penombra. Un’immagine suggestiva chiama da subito in causa lo spettatore, accecandolo con un fascio di luce calda che dall’alto e dal fondo disegna una figura umana. Antonella Morea appare in cima all’altissima struttura conica (vulcano, vestito), dalla quale troneggia e nella quale è incastrata. È la Winnie di Giorni Felici, ma siamo a Napoli, nei vicoli della Sanità dove nasce e vive la giovanissima compagnia Putéca Celidònia, animata da artisti e maestranze under 30. Frutto di un lavoro di anni nei bassi del quartiere, questa esplicita riscrittura (presentata in prima nazionale al Festival Primavera dei Teatri) sovrappone la grazia raggelante di Beckett con la risoluta concretezza partenopea, mondo che ruba luce alla penombra, dove la felicità non è un obbligo borghese, ma un canto tra le macerie. Come lava palpitante, una colata di parole sgorga dalla gola ruvida e calda di Morea, nel cui vestito/prigione si nasconde Lello (Dario Rea), un Willie/Calibano docile, incastrato nell’arredamento irrazionale tipico del basso napoletano. Le voci raccolte nei vicoli e cucite insieme da Emanuele D’Errico sullo scheletro beckettiano a tratti irrompono reali, registrazioni di racconti quotidiani, quasi un omaggio o un monito di realtà. Ma è la poesia che le eleva ad archetipo, impastando lingua e colore, in un articolato collaborare di suono, luce e voce. Così l’orizzonte desolante di Giorni Felici diventa tenerezza e dignità, cambiando di segno l’assunto beckettiano: forse è felicità anche la solitudine che non si piange addosso, il calore dei dolori conosciuti, la confidenza con il dubbio e il suo sapore amaro. Non più plurimi e generici momenti di gioia posticcia, ma il superlativo di un solo momento apicale, dove fine e inizio coincidono in un’unica Felicissima Jurnata. (Sabrina Fasanella)

Visto al teatro Sybaris, Primavera dei Teatri. Drammaturgia e regia Emanuele D’Errico. Con Antonella Morea e Dario Rea e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità. Scene Rosita Vallefuoco. Musiche originali Tommy Grieco. Suono Hubert Westkemper. Luci Desideria Angeloni. Costumi Rosario Martone. Aiuto regia Clara Bocchino. Produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia. In collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022. Con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania

CITTÀ SOLA (Lacasadargilla)

Scrive in prima persona Olivia Laing, facendo dell’incontro tra autobiografia e saggistica la sua cifra: l’aneddoto personale si fa pretesto per un’indagine profonda e ampia di luoghi e soprattutto persone. Città sola, il suo primo lavoro pubblicato in Italia, rientra in questa definizione di saggio intimo. Lacasadargilla ne coglie spunti e temi per farne materia di lavoro teatrale. L’esperienza di solitudine e la suggestione proveniente dallo spazio urbano di New York porta l’autrice a interrogare e farsi amici i fantasmi di grandi artisti e grandi solitari come Wharol, Hopper, David Wojnarowicz, Klaus Nomi. Emerge la conferma di come l’arte sia cura, ascolto, presenza, medicina o veleno, in ogni caso eredità. Il carattere compilativo del testo non lo rende immediatamente traducibile in drammaturgia: non a caso il primo approccio della compagnia lacasadargilla al bestseller è un progetto sonoro, un podcast che ricalcava sulla metropoli milanese l’idea dell’attraversamento urbano, proponendo allo spettatore l’ascolto in cuffia delle parole di Laing (la stessa formula, rimodulata sul parco di Tor Fiscale, verrà proposta durante il festival Attraversamenti Multipli 2023). A Primavera dei Teatri ha debuttato la versione scenica di questo lavoro modulare. Nel trasporlo dal solo suono alla messa in scena, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni ne affidano la mediazione al corpo vagante della regista. Insieme lettrice della Laing e Laing stessa, Natoli dispiega i sette capitoli di questo percorso circondata dalle immagini mutevoli di una scenografia proiettata e sostenuta da un denso ambiente sonoro. Il percorso tra immagini e biografie si articola dando ampio spazio alla parola scritta, la cui presenza è enfatizzata dal corposo interagire di Natoli con libri e dispositivi di lettura. Il risultato è una sorta di conferenza spettacolo sull’arte contemporanea che dice più che tradurre in segno teatrale la solitudine che racconta. (Sabrina Fasanella)

Visto al Capannone Autostazione di Castrovillari per Primavera dei Teatri. Di Olivia Laing. Traduzione Francesca Mastruzzo. Riduzione e drammaturgia Fabrizio Sinisi. Regia Alessandro Ferroni e Lisa Ferlazzo Natoli. Con Lisa Ferlazzo Natoli. Voci registrate Emiliano Masala, Tania Garribba. Ambienti visivi/spazio scenico Maddalena Parise. Paesaggi sonori Alessandro Ferroni. Luci/direzione tecnica Omar Scala. Costumi Anna Missagllia. Sound design Pasquale Citera. Aiuto regia Matteo Finamore. Coordinamento artistico Alice Palazzi. Una produzione lacasadargilla, Angelo Mai, Bluemotion, Teatro Vascello La Fabbrica dell’Attore. In coproduzione con Theatron Produzioni. In collaborazione con Piccolo Teatro Milano. In network con Margine Operativo/Attraversamenti Multipli

NAPOLEONE. LA MORTE DI DIO (di Davide Sacco)

Destinato per nome ai fasti del potere, Napoleone II fu imperatore solo per due giorni prima di vedere il cugino, Luigi III, portargli via il titolo. Se ne andò, a causa della tisi, ventunenne, nel 1832; era dunque già morto quando nel 1840 tornarono in patria le spoglie del padre. La morte di Dio di Davide Sacco insomma non può essere uno spettacolo storico, e dunque dalla storia prende solo ispirazione per mettere in scena un figlio frustrato che piange il padre. Vorrebbe essere invenzione metaforica e poetica, ma il ricordo del giovane corre sul filo del sentimentalismo. In scena una lunga panca, della terra, due comprimari relegati a servi di scena, una (Simona Boo) canta di tanto in tanto e l’altro (Amedeo Carlo Capitanelli) gestisce delle azioni fisiche per movimentare quello che difatti è un monologo con l’interpretazione pulita ma abbastanza monotona di Lino Guanciale. Sul fondale un telo e una grande scacchiera di fari caldi che poi verranno puntati sul pubblico. Il testo prende le mosse da Victor Hugo che in un libricino, I funerali di Napoleone, raccontava con abilità e dettagli documentaristici la celebrazione delle esequie in quel 15 dicembre 1840 e difatti i momenti drammaturgicamente più riusciti sono quelli in cui si fanno spazio le immagini e i racconti della storica giornata. Ma si ha difficoltà a comprendere l’idea di teatro che dovrebbe emergere da questo allestimento: Guanciale, con una maglia scura abbottonata da un lato, usa la prima persona, si strugge nel ricordo di questo padre rimanendo chiuso in un approccio finzionale poco credibile e non giustificato dagli elementi drammaturgici. Se questo personaggio non è il figlio di Napoleone, chi è? Da dove parla e in quale relazione è con la platea? Non basta la voce rotonda e affabile di Guanciale. Il pubblico del Campania Teatro Festival applaude, qualcuno alza i telefoni per fotografare il protagonista ai saluti, a loro sì, basta il proprio idolo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Politeama, Campania Teatro Festival. drammaturgia e regia Davide Sacco con Lino Guanciale scene Luigi Sacco luci Andrea Pistoia aiuto regia Claudia Grassi organizzazione Ilaria Ceci, Luigi Cosimelli comunicazione Raffaella Martellotti, Emiliano Luciani ufficio stampa Carla Fabi, Roberta Savona produzione LVF

L’APERTO (di Lucia Guarino)

Tra la flora disordinata e selvatica di Villa Mercede, di fronte la Biblioteca Tullio De Mauro, un corpo esile e illuminato dalla luce a neon del lampione incede lentamente; agli angoli, alti alberi fungono da quinte. Nel buio, con la testa china, la danzatrice e performer Lucia Guarino, in questo suo L’aperto perlustra l’ambiente procedendo a piccoli, minimali e graduali passi, a ricordare la poetica della Nexus Factory di Simona Bertozzi della quale Guarino è artista associata. Prendendo le misure e circoscrivendo lo spazio attorno a sé, tiene in mano quella che, a primo acchito, risulta essere un’asta/bastone, funzionale proprio a quell’operazione di avanscoperta. De Il versante animale di Jean-Christophe Bailly, testo da cui l’autrice trae ispirazione, rintracciamo l’attitudine al non addomesticamento, alla coabitazione di un habitat attraverso l’imprevedibilità della relazione tra le specie. L’asta allora diventa un pannello steso e poggiato dalla danzatrice al centro della “scena”, come un visore, la cui rifrangenza metallica segna un’ulteriore simbiosi coi metalli nativi che si trovano in natura. La musica, è una dimensione sonora che affina percettivamente i sensi della vista e dell’udito, non è invadente ma contigua al movimento e allo stare del pubblico astante, seduto a terra e sulle panchine. Il corpo umano, dopo la quasi immobilità iniziale, si espande in una gestualità fluida e direzionale a tracciare diagonali, costruita su una frontalità variabile, che si allarga tra le piante, i cespugli, gli alberi, respirando del respiro dell’ambiente circostante. (Lucia Medri)

Visto alla Festa della Danza. Crediti: di e con Lucia Guarino

SIMPATIA N.6 CONCERTO PER CAMPANILE E CORPO (di F. Lilli e V. Sansone)

Con la testa all’insù verso il campanile, un gruppo di persone attende in silenzio, nonostante si senta in lontananza quell’ansia del traffico, dei clacson, di frenate e ripartenze. Una zona di decompressione, in cui ascoltare lo sfrecciare delle rondini, le risate dei gabbiani, il vociare da tavolino da bar e partecipare a Simpatia n.6 Concerto per campanile e corpo di Filippo Lilli (sound artist e musicista) e Valentina Sansone (performer), programmato durante la prima edizione della Festa della Danza nel piazzale antistante la Chiesa di San Giorgio in Velabro, nel rione Ripa. Dopo aver scongiurato l’eventualità del diluvio, Lilli e Sansone salgono sulla torre del campanile romanico dando inizio a questo diletto gioioso, relazione vibrante e sinestetica tra musica, corpi (della performer e dell’architettura), spazio, persone e, anche, sacralità. Come fosse un rito medioevale, l’inizio di una giostra, Sansone scioglie dei lunghi nastri che accarezzano la torre seguendo il rintocco della campana sostenuto da Lilli, la cui partitura fissata si concede però delle "improvvisazioni ambientali". La danza, aerea, dei nastri in alto dialoga con quella di Sansone articolata in basso, alla base del campanile, in corrispondenza dell’arco degli Argentari, i cui bassorilievi fungono da ulteriore scenografia. Il costume (di Vittorio Gargiuolo) è un’imbracatura leggera di nastri che riprendono il colore di quelli sciolti dalla torre, e legati da anelli a suddividere il corpo in una serie di parti, alle estremità delle quali i merletti ricordano delle gorgiere, che prima di diventare dei colletti per l’abbigliamento facevano appunto parte delle armature. Il dindondare si incarna nella coreografia, che ne dà rappresentazione tangibile e vivente, liberata e entusiasmante nell’espressione del volto di Sansone, un’estasi coinvolgente, semplice e evocativa che termina, e ascende, svanendo nella rarefazione di fumogeni colorati. (Lucia Medri)

Visto alla Festa della Danza. Crediti: di e con Filippo Lilli e Valentina Sansone, costume Vittorio Gargiuolo

CIRCUS DON CHISCIOTTE (Di R. Cappuccio, regia A. Latella)

Guardiamo dall’alto dei palchetti la platea del Mercadante svuotata dalle abituali poltrone: nello spazio una serie di sedute diverse tra loro, semplici sedie, comode poltrone in pelle, pezzi di arredamento vintage o di design, su queste sedute verranno accompagnati una ventina di uomini e donne, più o meno anziani; di fronte a loro comodini, o tavolini per fare da appoggio a vecchi televisori a tubo catodico. Sul palco, dalla graticcia, pende un tabellone in cui di tanto in tanto scorrono lettere e numeri, e sul quale si formeranno parole chiave. Questa scena, firmata da Giuseppe Stellato, suggestiva nella nebbia che si alzerà e nelle luci di Simone De Angelis dobbiamo guardarla per due ore sporgendo la testa dalle nostre balaustre perché gran parte dello spettacolo avviene nello spazio della platea. Ma la stanchezza non è solo fisica, come dirà un’amica dopo lo spettacolo: “è un corpo a corpo tra il testo di Ruggero Cappuccio e la regia di Antonio Latella e a rimetterci è lo spettatore”. Il teatro può essere una fatica per chi guarda? Certo, ma non uno sfiancamento (penso alle emozioni dei lunghi spettacoli latelliani). Il regista di fronte alla drammaturgia di Cappuccio - barocca, poetica, debordante per immagini e lingua, eccessiva - ha risposto con la carta del gioco attorale da un parte - sono splendidi Dalisi e Cacciola, soprattutto il secondo dimostra un talento cristallino nei cambi, nelle esplosioni, nella gestione del dialetto napoletano. Dall’altra ha edificato ulteriori stratificazioni di senso: le silenti presenze degli ospiti dell’ospizio in platea (generazione di poveri cristi assuefatti davanti alla tv), i colori che inondano la scena durante lunghe pause, gli spifferi di fumo dai televisori e nell’ultima scena dal corpo di Salvo - il nome dato dall'autore a Sancho Panza in questa riscrittura del celebre romanzo di Miguel de Cervantes (già messa in scena da Cappuccio nel 2017, che in quel caso era anche attore e regista). Forse con maggiore semplicità, anche nella drammaturgia, avremmo apprezzato di più il gioco delle maschere di questi due demenziali cavalieri, l’utopia di rincorrere il mondo; e la fatica nostra si sarebbe specchiata in quella degli attori. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Mercadante, Campania Teatro Fetsival. DI RUGGERO CAPPUCCIO REGIA ANTONIO LATELLA CON MARCO CACCIOLA E MICHELANGELO DALISI SCENE GIUSEPPE STELLATO COSTUMI GRAZIELLA PEPE MUSICHE FRANCO VISIOLI SOUND DESIGN FRANCO VISIOLI E DARIO FELLI LUCI SIMONE DE ANGELIS ASSISTENTE AL PROGETTO ARTISTICO BRUNELLA GIOLIVO

Il GIARDINO DEI CILIEGI (regia di Roberto Bacci)

Alla sua terza esperienza di regia con il Giardino dei ciliegi, Roberto Bacci incontra gli allievi dell’accademia del Teatro della Toscana. L’esito è un lungo tableau vivant allestito su un lago di petali bianchi. Una fisarmonica, allegra e malinconica insieme, raccoglie e guida gli spettatori del Teatro della Pergola verso il Saloncino Paolo Poli, per poi scandire tutta la vicenda. I personaggi riempiono il palcoscenico omogeneamente, in un gioco di primi piani alternati, mentre il fruscio della carta accompagna ogni loro passo. L’adattamento drammaturgico di Stefano Geraci condensa il testo in un atto unico intermezzato a più riprese da canti della tradizione russa, ucraina e georgiana. Il cast risalta per freschezza ed energia; non c’è differenza anagrafica tra i ruoli e questa omogeneità produce l’effetto di traslocare nel presente i nodi checoviani, pur così strettamente legati alla Russia di inizio secolo. Così questo vaudeville si consuma leggero sulle gambe di un gruppo variegato di trentenni che si congeda da un mondo in rovina, quello contemporaneo. Generazione di mezzo, che ha ereditato il concetto di possibilità, ma è cresciuta vedendolo assottigliarsi, inventando sopravvivenze e illusioni di felicità. Il goffo incedere di Epichodov che perde ripetutamente fiori dal suo bouquet finché a cadergli inavvertitamente è una pistola, nero presagio sul letto bianchissimo della scena; la vaghezza di Ljuba, anestetizzata dal dolore e rossa di passione; la concretezza di Lopachin che ha sposato il sistema; le speranze di Trofimov e l’austera operosità di Varja: sono tutti possibili ritratti, senza forzature attualizzanti, di una generazione che oggi vede le certezze del mondo sgretolarsi, un sistema economico che mostra sempre più i suoi limiti, una crisi climatica incombente e la guerra così anacronistica e sempre più vicina. Non a caso Firs chiude lo spettacolo pronunciando le battute finali in lingua originale: quel non aver vissuto risuona di nuova amarezza su labbra giovani. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro della Pergola. Di Anton Čechov con Maddalena Amorini, Davide Arena, Maria Casamonti, Davide Diamanti, Ghennadi Gidari, Annalisa Limardi, Alberto Macherelli Bianchini, Claudia Ludovica Marino, Luca Pedron, Marco Santi, Nadia Saragoni, Sebastiano Spada, Emanuele Taddei. Regia e scene Roberto Bacci. Adattamento drammaturgico Stefano Geraci. Costumi Elena Bianchini.

CENERENTOLA (Zaches Teatro)

La Cenerentola di Zaches Teatro è una fiaba materica che sfrutta un ampio spettro di linguaggi teatrali e restituisce un’esperienza di suggestioni. Dalla luce alle voci e all’ambiente sonoro, ogni elemento concorre con precisione alla parabola della protagonista, al suo viaggio dalla cenere alla luce. Tra le più antiche fiabe dell’umanità, Cenerentola è una storia di libertà e di autodeterminazione, i cui contorni oscuri sono ricalcati dalla regia di Luana Gramegna quasi a suggerire di farceli amici, di non temere di esplorarli: conoscerli è necessario. Così l’inquietudine diventa leggerezza, l’oscurità affascina, col fumo e la cenere si può giocare. Questo teatro guarda le nuove generazioni negli occhi e non dall’alto, appellandosi a quel senso di meraviglia che viene da un’esperienza avvolgente e completa, pulita, organica. Un tetto diventa un camino per poi farsi palazzo, fulcro della scena dall’inizio alla fine. Tre corvi, tre spiriti animati da Gianluca GabrieleAmalia Ruocco ed Enrica Zampetti commentano, raccontano, aiutano la protagonista che ha le fattezze misteriose e innocenti del pupazzo. Lo spettacolo è una carillon dark in cui ogni elemento, in costante movimento, si trasforma con generosità, accompagnando la protagonista verso quello scrigno di luce potente e liberatorio: finalmente in carne ed ossa, un sorriso arioso e un vestito rosa, Cenerentola corre libera lontana dalla cenere, dal passato, da quel principe azzurro che è solo una silhouette in controluce. Il suo pupazzo inerte rimane sulla scena, immerso nel fumo, simulacro del viaggio, come la pelle del serpente. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Fonderia Leopolda di Follonica. Con Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Enrica Zampetti. Regia, drammaturgia, coreografia Luana Gramegna. Scene, luci, costumi, maschere e pupazzi Francesco Givone. Progetto sonoro e musiche originali Stefano Ciardi. Produzione Zaches Teatro con il sostegno del MIC, Regione Toscana, Teatro Fonderia Leopolda di Follonica e Giallo Mare Minimal Teatro. In collaborazione con Fondazione Teatro Metastasio, Fondazione Toscana Spettacolo onlus, Centro di Produzione della Danza Virgilio Sieni.

TOM À LA FERME (di M. M. Buchard, Regia di G. Bucci)

Tante complesse tematiche convergono nella pièce canadese Tom à La Ferme, con la menzogna come comune denominatore. Persino il titolo è una bugia fuorviante, come dichiara l’autore Michel Marc Bouchard. Il testo pluripremiato (Xavier Dolan ne fece un film nel 2015) è densissimo, carico di sfaccettature al limite con l’eccesso: non si limita a denunciare pregiudizi non ancora superati verso l’omosessualità, ma le insidie esistenziali della stessa, l’esperienza della morte che scardina certezze, la disarmante violenza delle verità postume, l’imprevisto e pericoloso assottigliarsi del confine tra attrazione e repulsione. La messa in scena firmata da Giuseppe Bucci è dunque giustamente essenziale: nel dipanare la mole di spunti tragici ne esalta i tratti ironici, a volte indugiandovi. Una parete luminosa di fondo presenta i personaggi dapprima in controluce: sagome che entrano in scena per svelarsi lentamente nell’intimità dei propri lati oscuri. Tom (Salvatore Langella) è un brillante ragazzo di città che si trova calato in un contesto estraneo con la violenza di un evento tragico: la morte del suo compagno Guillaume. Langella stesso compie un percorso attoriale che asseconda il viaggio di formazione del personaggio, inspessendosi gradualmente in intensità e adesione. Al polo opposto Francis (Lorenzo Balducci), l’incarnazione della paura che si fa violenza, della fragilità vestita di muscoli e rancore. La sua prova è statica, conformemente a quanto richiesto dal ruolo, che pure avrebbe potuto meritare maggiore tridimensionalità. Tra i due Agathe, madre in lutto, ingenuamente bigotta ma capace di perdono e comprensione materna, resa con notevole efficacia, misura e profondità da Marina Remi. La messa in scena di Bucci è funzionale e sentita, pur se l’avvicendarsi non sempre fluido delle scene, il cui ritmo è frammentato da ripetuti cambi a vista, rischia di togliere forza al climax finale. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Belli. di Michel Marc Bouchard. Con Salvatore Langella, Lorenzo Balducci, Marina Remi, Maria Lomurno. Musiche Pericle Odierna. Regia, luci e spazio scenico Giuseppe Bucci

In-Box 2023. Segnali positivi dal teatro emergente

Di rassegne, festival e concorsi dedicati al teatro emergente ce ne sono diversi, per la maggior parte sono dedicati alla creazione, come supporto produttivo di nuove opere. Il tallone d’Achille del sistema teatrale, lo abbiamo scritto più volte, è però nella distribuzione. Le nuove opere rischiano di rimanere nuove, e questo spesso vale anche per produzioni non indipendenti ma sostenute da importanti teatri pubblici o privati. Ecco allora che una vetrina come quella di In-Box, ideata quasi quindici anni fa, rappresenta un’occasione vera per incidere proprio sulle programmazioni dei teatri. Anche perché nell’edizione di quest’anno i soggetti partner (senza contare quelli dedicati al teatro ragazzi) sono diventati 55 e rappresentano un reticolo eterogeneo e variegato (festival, circuiti, teatri e centri di produzioni), distribuiti in tutta Italia, ma con una netta maggioranza nel Nord. I partner coordinati da Straligut Teatro (Fabrizio Trisciani, Francesco Perrone) si ritrovano a Siena per la prova “dal vivo” sugli spettacoli scelti tra centinaia attraverso una seleziona collettiva in video. L’edizione 2023 segna alcune importanti evidenze: la qualità generale dei progetti finalisti, mediamente alta, e alcune interessanti novità dal punto di vista delle proposte estetiche e dei contenuti. Tra gli spettacoli a cui abbiamo potuto assistere ne raccontiamo alcuni di seguito.

SID – FIN QUI TUTTO BENE (Cubo Teatro)

Sid ha convinto 19 soggetti, 19 è infatti anche il numero di repliche vinte dal collettivo torinese che si è preso il rischio di proporre un prodotto in cui ibridare la forma teatrale e quella concertistica. Sid è il nome del giovane protagonista, un ragazzo di origine Nord Africana, sul palco del settecentesco Teatro dei Rinnovati - quasi fosse un alieno sbarcato da un mondo lontano - Alberto Boubakar Malanchino (nato a Cernusco sul Naviglio, padre italiano e madre del Burkina Faso) stringe il microfono e indossa una tuta bianca; per un’ora sarà il protagonista di un racconto su musica dal vivo, quella suonata dalla tromba di Ivan Bert e dalla batteria elettronica di Max Magaldi (vera e propria postazione musicale polivalente), in una scena vuota e nera come un antro scuro che sembra poter inghiottire tutti. Cambi di tono e di registro, bruschi passaggi verso il rap o una certa scansione recitativa che rimanda a una modalità simile a quella utilizzata dai Massimo Volume. Malanchino, - tra i pochissimi attori professionisti afrodiscendenti che ci è capitato di incontrare nella scena teatrale - è una forza sorprendente. Lo spettacolo scritto e diretto da Girolamo Lucania ha l’impatto del concerto rock. La storia procede per salti, tra le parole appare un omicidio, perché qui nessuno è innocente. Malanchino vomita fiumi di parole, l’immaginario è quello di un fumetto underground con un giovane antieroe: «Spesso sto chiuso in camera. Leggo. Leggo sempre. Di giorno, di notte. Guardo film. Se hai un cervello come il mio, non puoi che fare così. [...] Vestito di bianco Adidas, Lacoste, Fila, etc. Per il resto, si fanno cazzate. Trovi sempre qualcuno con cui fare cazzate. In generale, ci si annoia da morire.» Non manca uno psicologo da trollare, una scuola dalla quale fuggire, le periferie di una grande città e il razzismo quotidiano. Sid attraversa mondi, sembra invincibile, sembra un passo avanti agli altri, ma qualcosa gli sfugge, per non perdersi non basta leggere e ascoltare Mozart, Vivaldi, Stravinskij.

Visto al Teatro dei Rinnovati per In-box dal Vivo 2023. Crediti: Regia: Girolamo Lucania Drammaturgia: Girolamo Lucania Attori: con Alberto Boubakar Malanchino Sound design e colonna sonora live di Ivan Bert e Max Magaldi

STILL ALIVE (di Caterina Marino)

C’è una figura nascosta da un piumone, cammina, raggiunge un microfono: «è così che dovrebbe cominciare uno spettacolo sulla depressione? Chiedo perché non l’ho mai fatto.» La voce di Caterina Marino è piccola e gentile, ma non nasconde la coloritura suggestiva. D’altronde, come si fa uno spettacolo sulla depressione? La depressione di chi, poi? L’abbrivio di questo lavoro visto al Teatro dei Rozzi come primo finalista di In-box dal Vivo 2023 (dopo un passaggio anche ai debutti del Premio Scenario 2021) rischia di far pensare allo spettacolo a tema, generica idea teatrale su un tema importantissimo. Ma qui c’è il corpo di Caterino Marino, piegato su se stesso, seduto, nascosto, immobile in terra. C’è la scrittura, quella di parola (che in alcune occasioni subito riporta a Lucia Calamaro) e quella scenica che spiazzano e riescono a tornare sul particolare, di quella vita che sta di fronte a noi e a un certo punto ci chiede se abbiamo qualcosa da darle da mangiare - qualcuno risponde offrendo una di quelle bustine di frutta secca. Siamo allo stato zero della rappresentazione, certo nulla di nuovo, senza spettacolarizzazione e senza quarta parete, ma con una capacità di porre in relazione una verità intima con il pubblico. E poi c’è un movimento, dall’intimità di questo personaggio minuto all’esterno di un mondo che cambia e si autodistrugge. E allora si capisce che questa opera è qualcosa di più di uno spettacolo sulla depressione: è anche un piccolo manifesto generazionale. «credo di avere 83,84 anni, ma per l’anagrafe 30, posso ancora partecipare ai bandi». C’è qualcosa di felicemente improduttivo in questo lavoro, una stasi che va oltre il semplice gioco del teatro nel teatro. Colpisce la gentilezza, il modo con il quale l’altra figura silente (Lorenzo Bruno) si prende cura della protagonista. E nonostante l’aggregazione eterogenea dei materiali, e una sintassi né levigata né in cerca di effetti speciali, emerge lentamente un’inquietudine che tutti abbiamo conosciuto. Poi la stasi a un certo punto si rompe e la fragilità di questa giovane donna deve scontrarsi con le richieste di una madre, con le richieste del mondo. E non rimane che gridare, gridare forte. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro dei Rozzi per In-Box dal vivo 2023. Crediti: Regia: Caterina Marino; Drammaturgia: Caterina Marino ; Attori: Caterina Marino e Lorenzo Bruno

TOPI. A VENT’ANNI DAL G8 di GENOVA (Usine Baug)

Anche di Topi dei giovani Usin Baug abbiamo uno sguardo dal debutto, all’interno della rassegna del Premio Scenario di Napoli, nel '21. Sul palco del Teatro dei Rozzi c’è un interno casalingo spoglio, con un tavolo e, qualche sedia, l’abitante di questo interno è in attesa di visite, qualche amico per una cena a casa. Lentamente cominciano a manifestarsi dei suoni, sono squittii di topi. D’ora in poi l’uomo dovrà combattere con le piccole creature, che avranno la meglio fino allo sterminio finale. L’immagine del roditore è un’evidente metafora, più che esplicita, per indicare i manifestanti del G8 di Genova 2001. C’è infatti un altro racconto parallelo di cui sono protagonisti Claudia Russo e Stefano Rocco, un racconto che dalla platea scende poi verso il pubblico e lo attraversa per rompere la lontananza data dalla grande sala: i fatti vengono messi in fila con precisione e passione, drammaturgia e recitazione riescono però a mantenere un tono documentaristico e mai empatico; i fatti sono quelli di via Tolemaide, di Piazza Alimonda, della Diaz e di Bolzaneto, insomma quella geografia della violenza in cui l’abuso delle forze dell’ordine ha determinato “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea” (Amnesty International). Inoltre questo racconto arriva per bocca di un gruppo di trentenni che durante quelle giornate erano fin troppo piccoli per farsi un’idea e comprendere; c’è dunque un importante tentativo di trasmissione della memoria verso le nuove generazioni. Poco invece viene aggiunto per chi ha già consapevolezza e conoscenza di quelle giornate (se non una suggestione emotiva pur necessaria). Peccato invece per lo svolgimento teatrale del plot casalingo: a fronte dell’immediatezza della metafora, purtroppo anche le azioni sul palco risultano troppo semplici per coinvolgere un pubblico smaliziato; nel finale qualcosa fortunatamente cambia, in una sorta di esplosione che lascia incrociare i due piani, il fumo chimico con il quale l’uomo cerca di stanare i topi è il fumo delle strade di Genova. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro dei Rozzi per In-Box dal Vivo 2023. Crediti: Regia: Usine Baug Drammaturgia: Usine Baug Attori: Claudia Russo, Ermanno Sandro Pingitore, Stefano Rocco

R+G (di Stefano Cordella, Tommaso Termariello)

Riscritture shakespeariane? Il genio dello scrittorle di Stratford-upon-Avon può accogliere tutte. Quella vista sul palco dei Rinnovati è una riduzione e reinvenzione per due attori e una band musicale (come per Sid dunque un’evidente ibridazione con il concerto rock), firmata da Tommaso Fermariello (alla scrittura) e Stefano Cordella (alla regia). Dietro l’operazione ci sono anche le forze produttive di un teatro pubblico, lo Stabile del Veneto e dell’annessa accademia, dalla quale provengono i due interpreti, Caterina Benevoli, Duccio Zanone: ventenni o poco più, sono portavoce ma anche protagonisti del racconto. Cordella e Fermariello scelgono una via netta, un racconto in terza persona, i due giovani incarnano gli amanti shakespeariani ma se ne discostano, non solo per la modalità epica, ma anche per una riscrittura volta ad ambientare la tragedia nel nostro tempo (non si può non pensare a Shake, il teen drama, su raiplay ispirato a Otello). La scrittura di Fermariello evita con destrezza l’adattamento banale della trama e dei caratteri mescolando e inventando, così da prendere lo spettatore in contropiede. Insomma i presupposti per un lavoro interessante ci sono, forse manca ancora un graffio teatrale: tutto è racconto e la presenza dei due interpreti in scena non è supportata da azioni fisiche che abbiano un valore drammaturgico e scenico, non bastano le canzoni dal vivo, l’allestimento sconta comunque una freddezza, una certa lontananza, soprattutto nella prima parte. Lo spettacolo comincia a diventare coinvolgente quando la scrittura emerge nonostante la staticità scenica e tramite i nuovi snodi narrativi. Nella riscrittura di Fermariello, ad esempio, i due giovani si troveranno a fronteggiare il padre di lei che troverà della droga nascosta in camera, come nelle più classiche tragedie dei bassifondi moderni. Muore un padre dunque, non Tebaldo, e poi stacco di montaggio: siamo in teatro, il tempo di uno spettacolo con la scuola per poi salire sul tetto di un luogo abbandonato. Il suicidio è una scelta, tra fuga e pentimento. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro dei Rinnovati per In-Box dal Vivo 2023. Crediti: liberamente ispirato a Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Regia: Stefano Cordella Drammaturgia: Tommaso Fermariello Attori: Attori: Caterina Benevoli, Duccio Zanone Musicista: Gianluca Agostini

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