MONDO (di Gennaro Lauro)
Santa Eulalia dei Catalani è una chiesa sconsacrata in piena Vucciria; attualmente, il monumento è una delle sedi dell'Istituto Cervantes. Qui abbiamo assistito a Mondo, di e con Gennaro Lauro, co-prodotto da Sosta Palmizi, in occasione dell'anteprima della tredicesima edizione del Queer Film Fest; la performance è stata posta in dialogo con le opere della personale dell'artista Pepe Espaliú. "Mondo" osserva Lauro, è al contempo il nome della Terra, quello di un gioco infantile, ma è anche l'opposto di immondo. Il lavoro di scrittura ha comportato dunque una ricerca sull'essenzialità di ogni singolo movimento, mondato fino al perseguimento di una forma essenziale. La performance è un complesso di gesti minimi, organizzati in partiture sintetiche, sulle quali spesso prevale la stasi, il vuoto, il silenzio tra differenti brani musicali. In questa successione di frammenti, Lauro sottopone il proprio fisico a continue chiusure e distensioni, ora imprigionandosi come un pugno nel confine della propria spina dorsale, ora stirandosi come un elastico nell'ambiente. È un grumo energetico, una concrezione spaziale innervata da spasmi, pause e cadute. In questo ritmo continuo, che solca la terra e l'aria, il volto del performer, animato da un'ironica sequela di espressioni facciali, sembra cercare nell'osservatore una conferma, agognata come fosse fonte di sopravvivenza ma, al contempo, pare che se ne prenda gioco. D'altronde, Mondo intende problematizzare la "smania di compimento" propria dell'individuo contemporaneo, alla continua ricerca «di una narrazione accurata e definitiva» di sè. Ma tali narrazioni sono negate, e così la possibilità di inserirsi nelle rassicuranti categorie e definizioni che Lauro a un certo punto urla alla platea. Il lavoro, nel quale sembrano rinvenibili echi di certo concettualismo, è agito con duttilità dal performer. Forse pecca di un eccesso di solipsismo, dal quale non sempre il discorso coreutico riesce a levarsi in quella universalità ricercata fin dal titolo (Tiziana Bonsignore).
Visto al Queer Film Fest, Istituto Cervantes. Crediti: idea e creazione Gennaro Lauro luci Gaetano Corriere produzione Lauro/ Cie Meta coproduzione Associazione Sosta Palmizi Foto di Dario Bonazza
MADRE COURAGE (di Elena Gigliotti)
Il rapporto tra gli esseri umani e la storia è complesso: c’è chi la interroga o chi la diffonde, ma pochi riescono a sentirsene parte; ciò deriva probabilmente dal carattere di posterità che la storia incarna. Tra coloro che hanno tentato: Bertolt Brecht, soprattutto nel Madre Courage e i suoi figli che Elena Gigliotti porta con 11 attori al Teatro Nazionale di Genova. L’indagine di Gigliotti nel testo esplicita come la storia, oggi che il carico mediatico di informazioni ci fa diventare insensibili alle immagini di guerra, può e deve essere compresa nel tempo presente, forzando cioè quel carattere endemico che ne regola gli equilibri. La scena si apre con una donna davanti a una parete di abiti diversi e dismessi, sanguina un parto doloroso e dà alla luce un mitra, che presto sparerà: siamo in guerra, cui le madri danno i loro figli. Questo è il tema noto di Madre Courage (sontuosa Simonetta Guarino), ma l’indagine di Gigliotti affonda nell’idea che l’impero del capitalismo della guerra sia il motore, radicalizzando le idee marxiste di Brecht. La vicenda ruota infatti attorno ai commerci di Courage (il cui carretto ha la M di madre con il logo di McDonald’s) nel mezzo del conflitto che, per lei, è fonte di guadagno e sopravvivenza ma a cui vende, non volendo, anche i propri figli. Se il presupposto è ricco di interesse, se soprattutto gli attori ballano, cantano, recitano e poche volte accade su un palco, la proposta scenica pecca di un eccesso di elementi e un approccio che non traduce al meglio la filosofia nella pratica: la scelta dei video trailer separa le scene per evidenziare il posticcio dell’informazione ma va a ridicolizzare anche le immagini sul palco; non aiuta di certo una recitazione che, mescolando varie lingue, vuole riprodurre una sorta di Babele, ma che nei fatti si riduce a una sequela di stereotipi linguistici vicini più al macchiettismo; non diverso è ciò che accade alle varie canzoni trattate con Auto-Tune, che rende poco credibili le doti vocali. Ma la regista ha talento e tenacia, la qualità del ragionamento filosofico e critico ne segnala un valore di certo avvenire. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Nazionale di Genova Gustavo Modena. Crediti: di Bertolt Brecht; regia di Elena Gigliotti, con Simonetta Guarino, Sebastiano Bronzato, Didì Garbaccio Bogin, Aleksandros Memetaj, Andrea Nicolini, Aldo Ottobrino, Matteo Palazzo, Sarah Pesca, Alfonso Postiglione, Esela Pysqyli, Ivan Zerbinati; Link al cast completo
PRIMA (di Pascal Rambert)
Quando l’incontro è vera matrice drammaturgica ed espressiva, allora il teatro ne diviene luogo di possibilità, spazio dell’accadimento ma anche strumento attraverso cui la vita fluisce e si organizza. È questo l’incontro che scandisce la genesi e lo sviluppo della pièce di Pascal Rambert, portata al Piccolo Teatro di Milano: quello con il direttore Claudio Longhi, quello con gli attori, quello con l’arte di Paolo Uccello. Dell’artista quattrocentesco, innovatore della visione prospettica pittorica, Rambert riprende non soltanto la struttura compositiva dell’iconografia che l’ha reso celebre ma anche l’idea di successione del trittico, sviluppando, per l’appunto, un progetto che si divide in tre spettacoli. Attraverso questa scansione per fasi, evidenziata anche dai titoli delle opere Prima, Durante, Dopo, il regista francese porta avanti una personale indagine metateatrale, che vuole sviscerare le dinamiche di costruzione spettacolare attraverso uno sguardo che tenta continuamente di conciliare due prospettive, una esterna alla scena e una interna. È forse questo il problema che si riscontra in Prima: la stratificazione dei ruoli, reali e interpretati, – registi, attori, costumisti – invece di liberare i personaggi li cristallizza, attraverso un linguaggio drammaturgico sicuramente di rilievo, poetico e di una matericità quasi carnale, ma che affatica lo spettatore, incapace di ancorarsi pienamente alla pratica sulla scena perché eternamente scisso sia nello sguardo sia nel respiro. L’unico cardine attivo resta quello visivo, che evidenzia il raffinato gusto estetico dell’autore: l’ambiente creato nelle luci di Yves Godin riflette così un candore tipico delle cose non ancora avvenute e l’ambiguità di qualcosa che sta per accadere, incalzato al tempo stesso dalle inquietanti musiche di Alexandre Meyer. Sullo sfondo, La Battaglia di San Romano permea la scena e le relazioni tra i personaggi – di amore, di amicizia, di professione – e diviene non solo riferimento ma traccia costante, tensione di conflitto, agitazione nervosa dei corpi, intensificando quel rapporto necessario tra rappresentazione e realtà, tra dimensione verbale e dimensione scenica, tra vita e teatro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: testo e regia Pascal Rambert, traduzione Chiara Elefante, con Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi. Link al cast completo
NANO EGIDIO CONTRO IL MALE DI VIVERE SPESSO INCONTRATO
Il male di vivere lo puoi tenere a bada per il tempo di uno spettacolo, poi ritorna. Questa la sintesi di una delle ultime battute che hanno chiuso le repliche a Fortezza Est, con le quali il Nano Egidio ha salutato i propri spettatori. Un trio di artisti, Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti che dodici anni fa inventò un progetto di teatro comico con il nome e l'immagine di un nano da giardino. Ne fecero una vera e propria serie ambientata nel "regno della fantasia". Questo spettacolo, nel 2017, suggellava la lunga epopea, ma per le repliche di addio il Nano non poteva non sconfessare se stesso: gli spettatori si sono trovati di fronte a una drammaturgia aggiornata e nel grande tritacarne comico hanno trovato posto frecciatine ai cliché e distorsioni del linguaggio inclusivo, ma anche allusioni alle nuove maggioranze politiche, brani di vecchi episodi e poi una storia in cui Batman è una sorta di tenente Colombo in preda alla depressione. Dovrà, come il genere insegna, salvare il mondo da un politico cattivissimo, ma in realtà il tentativo è quello di salvarsi dal dolore, dalla sofferenza quotidiana, da quel male di vivere in cui precipitano tutte le nostre fragilità e che riconosciamo negli occhi di Batman, sotto la maschera. Il Nano Egidio non ha avuto l’opportunità di confrontarsi con possibilità produttive non indipendenti o con i circuiti più importanti, è un peccato che dimostra per l’ennesima volta la difficile relazione della cultura e del sistema teatrale con la comicità, quando questa non è normalizzata all’interno del dispositivo drammatico borghese. Una spettatrice alla mia destra ride fino alle lacrime: quanto mancava questa catarsi! E proprio ora, in questa epoca di tristezze e dolori globali che ci fanno sentire piccolissimi e senza scopo sentiamo il bisogno di una risata fragorosa, di artisti in grado di far apparire lo sberleffo dal nulla, da ciò che sembra stupido ma che qui invece acquisisce per la radicalità esponenziale, per il talento e il mestiere altissimi di questi tre clown la capacità di diventare un fatto teatrale poetico. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Fortezza Est, Crediti: da un’idea di Marco Ceccotti con Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti. Regia Nano Egidio Luci | Camila Chiozza Foto di Scena | Elena Consoli Realizzato grazie al sostegno e alla residenza di Teatro Studio Uno
POCHOS (di Benedetto Sicca)
Per una volta bisognerebbe cominciare dai numeri, questo spettacolo va in scena per la prima volta nel 2019, sul palco ci sono 5 attori, una scenografia tutt’altro che faraonica; in 4 anni la drammaturgia di Benedetto Sicca è andata in scena solo per 20 repliche. Non è solo colpa della pandemia, ma soprattutto delle tante difficoltà del nostro sistema di circolazione degli spettacoli. Anche perché qui siamo di fronte a un prodotto in grado di mettere in campo importanti riflessioni sociali con un linguaggio teatrale tutt’altro che scontato e un lavoro attorale di pregio. Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, prende le mosse da un fatto realmente accaduto, ovvero la piccola epopea dei Pochos: una squadra di calcio creata a Napoli da un gruppo di amici omosessuali; nel 2011 è stata un vero e proprio caso in grado di attivare esperienze simili, tentando di rompere tabù privati (quelli legati alle famiglie dei protagonisti) e di far cadere un velo più ampio, quello sociale appunto. D’altronde Sicca lo fa dire a uno dei suoi attori, la battaglia è indirizzata anche al mondo del calcio professionistico, in Serie A non c’è mai stato un solo coming out. Pochos però - che dopo le repliche romane approderà all’Elfo Puccini di Milano - non si accontenta di raccontare una storia: per un’ora e mezza, la messinscena non si chiude infatti nel racconto ma si apre da subito al pubblico, tra riflessioni, momenti più colloquiali, canzoni e un microfono aperto, lì oltre il proscenio, che verrà utilizzato da chi avrà il coraggio di esprimere ad alta voce il proprio orientamento sessuale. «Non si può più raccontare una storia dritto per dritto», afferma uno dei personaggi, sono i brandelli di vita a comporre la drammaturgia e a mescolarsi abilmente con la realtà del qui e ora, tanto che più di una volta lo spettatore si chiederà se alcuni di questi momenti siano esistiti davvero nelle biografie degli attori. Dalla sala si esce emozionati, consapevoli, ma anche leggeri e sorridenti. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, Crediti: scritto e diretto da Benedetto Sicca con Francesco Aricò, Riccardo Ciccarelli, Emanuele D’Errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca scene Luigi Ferrigno costumi Giuseppe Avallone assistente alla regia Marialuisa Bosso luci Marco Giusti produzione Tradizione e Turismo – Centro di Produzione Teatrale – Teatro Sannazaro
ZOOLOGIA (di Compagnia Oltrenotte)
Si è recentemente conclusa la diciassettesima edizione del festival Presente Futuro promosso dal Teatro Libero di Palermo. L'offerta ha presentato spunti di maggiore interesse rispetto a quanto avvenuto l'anno precedente; il primo premio è stato attribuito a Zoologia, della Compagnia Oltrenotte, di e con Lucrezia Maimone. Si tratta di «un progetto di ricerca coreografica per la creazione di diversi esseri immaginari di natura zoolatrica che nascono da un corpo umano»: l'essere nato dal corpo di Maimone è un curioso personaggio, un'estensione prostetica dotata di testa e arti superiori. In una delicata sospensione tra teatro di figura e modi desunti dal teatro-danza, e anzi nel loro reciproco, fisico incorporarsi, Zoologia racconta le fasi di una simbiosi progressiva. Dapprima, Maimone è una persona sola, vestita di clowneschi abiti sovradimensionati; successivamente, le sue braccia si allungano, si sdoppiano al di fuori della giacca abbandonata. Da un'iniziale gestualità frammentata, appena allucinata, si passa al continuo, fluido inanellarsi delle quattro braccia in moti circolari. Gli arti si intersecano e si incrociano, spingono il corpo della danzatrice fino al totale presentarsi dell'alterità che il corpo ospita, e con la quale lo stesso finisce per intrattenere una duplice relazione di appartenenza e rifiuto. Lungo la persona di Maimone si svolge la storia di un metamorfico duplicarsi, trascorso attraverso sequenze di estetica vagamente surrealista. In una successione che trasla dall'iniziale ironia, allo sgomento, alla pacificazione e alla tenerezza, la coreografia misura e sonda, membro per membro, il limite del fisico e la possibilità di accogliere un doppio, o di esserne addirittura accolti. In Zoologia «gli oggetti della creazione sono costruiti per attraversare il corpo, spesso animati in una danza come un unico organo che si trasforma e modifica il suo peso»: la coesistenza delle alterità produce un complesso inscindibile, nel quale, come per magia, anche il conflitto può trovare una soluzione (Tiziana Bonsignore).
Visto al festival Presente Futuro, Teatro Libero. Crediti: Compagnia Oltrenotte / con Lucrezia Maimone ideazione, messa in scena, coreografie e costumi Lucrezia, Maimone, realizzazione oggetti di scena Lucrezia Maimone e Vinka Delgado, progettazione e realizzazione luci Riccardo Serra, musica Elsa Paglietti. Foto Sara Montalbano
FUCK ME(N) (di Evoè Teatro)
Tre voci all'unisono: “Me le ricordo le foto di quel giornale porno…”, hanno costumi vistosi, di tulle rosa, sopra a camicie e felpe da uomo; nonostante l’apparenza esteriore, innestata, sono tre personaggi che incarnano il maschio retrivo. Schiavi di stereotipi tossici legati alla propria posizione sociale, alla relazione con le donne, violenta o ossessiva. Sono tre apparizioni queste di Evoè Teatro, tra i controluce, nel buio del palco dello del Teatro Lo Spazio e inaugurano l'edizione 2023 di Inventaria. Festival urbano cresciuto in maniera importante negli ultimi anni e che al di là dell'etichetta riservata al teatro off - una caratteristica ormai appannata dalla complessità del sistema teatrale - riesce a portare a Roma una serie di compagnie e artisti che troverebbero difficoltà ad apparire singolarmente nei teatri della capitale. E poi va sottolineata la capacità di creare un reticolo di luoghi, quetsa settimana la rassegna si sposterà al Teatro Basilica ad esempio. Le tre apparizioni maschili, che vestono abiti da stereotipo femminile sono i protagonisti di Fuck Me(n), scritto da Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani, Roberto Traverso e interpretato da Giovanni Battaglia, Emanuele Cerra e Paolo Grossi. Evoè Teatro è una compagnia di Rovereto attenta alle drammaturgie del contemporaneo e in questo caso ha affidato al regia a Liv Ferracchiati. Lo schema è semplice ma funzionale nella tripartizione: un professore universitario ossessionato dal sesso e dalla conquista di giovani studentesse, un padre violento che racconta i grandi incontri di boxe al figlio prima di sfogarsi con la moglie; e una relazione che esplode, in cui un uomo chiede di essere punito di fronte alla tragedia di quel bambino abbandonato in una macchina assolata. Sono uomini cinici, pericolosi, perché non riescono ad affrontare le proprie inadeguatezze e fragilità. La mano di Ferracchiati lavora con mestiere creando suggestivi unisoni e momenti in cui la narrazione singola si ferma per dare spazio a piccole dilatazioni narrative, il contrasto con i costumi contribuisce a creare un’atmosfera inquieta e non pacificata. (Andrea Pocosgnich)
Visto al teatro Lo Spazio per Inventaria Festival. Crediti: di Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani, Roberto Traverso; Regia Liv Ferracchiati; Con Giovanni Battaglia, Emanuele Cerra, Paolo Grossi; Disegno Luci Emanuele Cavazzana; Scenografia e costumi Lucia Menegazzo; Sound designer Giacomo Agnifili
LEAR E IL SUO MATTO (L. Radaelli e W. Broggini)
Immagina è un festival diffuso, organizzato nei Teatri in Comune Teatro Villa Pamphilj, Teatro del Lido di Ostia, Teatro Biblioteca Quarticciolo e da quest’anno anche in un paio di altri luoghi all’Eur, come il Museo della Civiltà e EUR SpA/Eur Culture – Giardino delle Cascate Parco dell’Eur. È arrivato alla terza edizione e permette di assistere a spettacoli di teatro di figura adatti a bambini e adulti. Ci è capitato qui di incontrare Lear e il suo matto, di Teatro Invito e Compagnia Walter Broggini, spettacolo che avremmo dovuto vedere proprio al Giardino delle cascate, ma che a causa dell’ allerta meteo è invece andato in scena nella Sala Quaroni del Palazzo degli Uffici dell’Eur. Peccato per la platea che contava poche sedie occupate (a causa dello spostamento o dell’inaspettato sole della domenica pomeriggio), soprattutto perché il lavoro di Luca Radaelli e Walter Broggini è un’opportunità interessante per far conoscere il mondo letterario shakespeariano a tutti, bambini compresi. Nel mezzo dei marmi e delle librerie della storica sala campeggia un teatrino in legno, Radaelli fa gli onori di casa cominciando a riassumere la prima parte della vicenda, da un baule tira fuori i burattini, saranno i personaggi del Re Lear di Shakespeare, uno a uno finiscono appesi. Walter Broggini li animerà con mestiere, donando voci e posture ad ogni pupazzo, tra la platea e le piccole teste colorate c’è Radaelli, pronto a dare carne e sostanza al personaggio del vecchio Re. Il risultato è una tragedia shakespeariana per burattini e attori in cui la complessità del testo viene domata dal dispositivo drammaturgico quasi favolistico. Non manca la cura dei dettagli, come quando le orbite di Lear rimangono vuote e rosse di sangue, e poi quei leggeri inserti metateatrali in cui Brighella si lamenta di dover rappresentare proprio una tragedia shakespeariana invece delle solite farse. Ci dispiace per Brighella ma speriamo proprio di poter vedere altre avventure del Bardo tra i legni e i bauli di questo piccolo teatro. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Sala Quaroni del Palazzo degli Uffici, Festival Immagina. Crediti: Dramma per attore e burattini da William Shakespeare con Luca Radaelli e Walter Broggini traduzione e drammaturgia Luca Radaelli testo e regia Luca Radaelli e Walter Broggini figure e scene Walter Broggini costumi figure Elide Bolognini e Graziella Bonaldo
MDMA_primo studio (di e con Gennaro Maione) + Memento (coreografia di Nyko Piscopo)
Il FIC Fest 2023 ha ospitato anche due lavori d’area napoletana. MDMA_primo studio è un intenso omaggio di Gennaro Maione al cinema di Dario Argento. I toni sono volutamente cupi, ricreano atmosfere oscure o rosso sangue, in uno spazio vuoto colmo solo di figurazioni della paura, sollecitate in modo (forse troppo) dirompente da una colonna sonora presa direttamente dai film e da un assai (forse troppo) mobile disegno luci. L’idea è che l’immaginario deviato, come risultato di una negoziazione tra il corpo e la mente, abbia ricadute soprattutto sul piano interiore: la paura lavora autonoma nel corpo di ognuno, e alla fine libera ciò che non può più restare imprigionato. Maione mi ricorda Cesc Gelabert, con una mobilità espressiva estremamente versatile, capace anche di micromutazioni. Memento di Nyko Piscopo del gruppo Cornelia, è parte di una coreografia a serata intera (ha debuttato in Polonia, al Gdańsk Dance Festival, e poi in Italia al Visavì di Gorizia). Qui in formato ridotto e senza la scena e le luci al loro completo, è un estratto comunque autonomo. L’avvio è intrigante: i quattro interpreti nerovestiti (Nicolas Grimaldi Capitello, Eleonora Greco, Leopoldo Guadagno e Francesco Russo) sono riuniti e di spalle al pubblico, marcano immobili il tempo, quello dell’attesa. L’eleganza degli abiti, la quasi costante prossimità dei corpi, l’aria condivisa di sguardi che indagano il circostante per risposte inevase, il sincrono che sempre ordina e regola: è celebrazione di un’uguaglianza di genere possibile, ma comunque piegata alla speranza, che è sentimento ipotecato, come insegna Lee Edelman, dal vangelo riproduttivo. Piscopo ha ricchezza e facilità di costruzione del movimento, cura delle forme e dell’ascolto musicale; ma qui è assediato dall’ombra (non si sorride mai!), sulla quale non riesce a saltare (la futurità del senso? l’eternità garantita dal ricordo?). E allora prende corpo una persistente cupezza ‘modernista’, una rassegnata inclemenza, un’austerità affettiva come in cerca di compensazione. Senza esperienza della libertà, e del caos. (Stefano Tomassini)
Visto al FIC Fest 2023, Scenario Pubblico . Crediti completi
FEMALE ESCAPE | THE THREE OF US (di SicilyMade)
Nel corso della quarta edizione del FIC Festival / Focolaio di Infezione Creativa, promosso da Scenario Pubblico / Compania Zappalà Danza, si è tenuta Female Escape | The three of Us a cura del collettivo SicilyMade. Tre donne, dalle fisicità molto diverse, entrano in lenta processione all'interno del grande white box in cui si svolge la performance. Brandiscono utensili da cucina, adottati come rudimentali strumenti a percussione: tra Amalia Borsellino, Silvia Oteri, Marta Greco (interpreti alle quali si deve concept e coreografia) si stabilisce anzitutto un lungo rapporto di sonori colpi e contraccolpi; a seguire, momenti che rimandano a una ritualità muliebre condivisa. Dapprima, tutto sembra avvenire in un misterioso gineceo, animato da un'ironia crescente, a tratti surreale. Tuttavia corpo, movimento, parola che, frammentata, è chiamata a decostruire (nel senso più letterale del termine) luoghi comuni e prassi intorno al femminile, diventano presto il mezzo di una fuga che esplode in una corsa tra glitter e lustrini, enfatizzata dalle musica cristallina di Andrea Cable. In qualche divertente e quasi assurdo modo, Female Escape recupera un femminile pre-indoeuropeo, agito da un consesso di Grazie insofferenti e provocatorie. Deposte le ormai troppo scontante introversioni vittimistiche, Female Escape offre un punto di vista sul femminile libero dalla postura spesso vuota degli -ismi. Ciò avviene attraverso un'incalzante raccolta di quadri imprevedibili e forse un po' troppo autonomi, vibranti di soluzioni singolarmente interessanti ma forse poco concertate nella loro totalità organica. Si avverte la mancanza di una considerazione complessiva delle fasi progressive che, isolate l'una dall'altra, sembrano appena sospese nel vuoto. Ma è da questo vuoto che, tuttavia, emergono nuove gioiose possibilità: «Ci siamo poste una serie di domande, e abbiamo deciso di rispondere a modo nostro, con ironia». Non è così scontato. (Tiziana Bonsignore)
Visto alCrediti: progetto a cura di collettivo SicilyMade; concept, coreografia, interpreti Amalia Borsellino, Silvia Oteri, Marta Greco; occhio esterno Simona Miraglia; musiche originali Andrea Cable, foto Giovanna Mangiù
BODY TEACHES (di Roberto Zappalà)
Il FIC Fest 2023 si è concluso negli spazi di Scenario Pubblico a Catania con la prima assoluta di Body teaches di Roberto Zappalà: in scena 8 danzat* della Compagnia Zappalà Danza e 13 elementi dell’ensemble d’archi dell’Orchestra del Teatro Massimo Bellini, con il coordinamento musicale di Alessandro Cortese. L’evento fa parte della collaborazione tra l’ente lirico etneo e Scenario Pubblico siglato nel protocollo d’intesa Be resident: nella città la danza. Il lavoro sul territorio di questo Centro di Rilevante Interesse siciliano è davvero impressionante, ogni volta che ci torno mi sembra di riconoscere una ‘casa’ più grande. Tanto lavoro ripaga e ripagherà sempre più. Anche la compagnia in questi ultimi anni si è rinnovata ed è cresciuta moltissimo, in presenza e in qualità, perché attorno ha un sistema tecnico ed economico virtuoso fatto di condivisione e di cura, tra formazione e produzione, che la sostiene e che la favorisce in ogni modo. Tutto il lavoro sembra già convergere in una forte consapevolezza di che cosa può essere un centro coreografico nazionale. Body teaches è un progetto che sarà destinato soprattutto alle scuole catanesi perché esemplificativo del linguaggio di questa compagnia. Ma propone anche un’esperienza fondativa: quella della performance danzata con la musica eseguita dal vivo, e tutta la complessa trasversalità e la pluralità di competenze necessarie a questi processi compositivi e interpretativi. E non vorremmo parlare d’altro. Il programma musicale (da Biber a Beethoven e Vivaldi) è costruito secondo una precisa drammaturgia, anche decostruttiva e ostentatamente impura, in un contagio continuo tra il beat dei corpi e le misure musicali nonché vocali, grazie agli interventi della soprano Marianna Cappellani. In uno spazio stracolmo di pubblico su tutti i lati del perimetro (ma tutto il festival ha registrato presenze massime e manifestazioni continue di apprezzamento), la consegna del pubblico è immediata perché tutto qui è complice, nulla sembra essere capace di resistere all’evento che accade. (Stefano Tomassini)
Visto al FIC Fest 2023, Scenario Pubblico. Crediti Compagnia Zappalà Danza e Ensemble dell’Orchestra del Teatro Massimo Bellini; ideazione, regia e coreografia Roberto Zappalà
SE CI FOSSE LUCE (di Francesca Garolla)
Buio. Il suono dei passi. Dal baule Anahì Traversi estrae un videoproiettore e lo posa su un lungo tavolo centrale. Lo spettacolo prende avvio dall’immagine, le diapositive scure si susseguono con le note scritte dalla regista Francesca Garolla e introducono lo spettatore in una zona instabile, di penombra visiva ma anche segnica, di cui è difficile scorgere i confini. Marco Grisa ne costruisce gli ambienti con essenziale precisione, per restituirci un nucleo percettivo denso, dal sapore freddo e metallico. Lo spazio che si crea è un non-luogo di discussione e revisione, usato da Garolla per analizzare «Quando la colpa entra nella libertà e la pietà entra nella colpa» e dove mettere l’essere umano sotto giudizio nel tentativo di comprendere ancor prima che condannare. Riprendendo nel titolo le parole di Aldo Moro, Se ci fosse luce, rappresenta il terzo capitolo di una trilogia drammaturgica che affronta il tema della libertà di scelta e le sue implicazioni tra responsabilità personali e collettive. L’indizio è il suono proveniente da un mangiacassette che riproduce l’ultima telefonata avvenuta il 9 maggio 1978 tra il brigatista Valerio Morucci e Francesco Tritto. Quattro personaggi poi entrano in scena e raccolgono ciò che di quella registrazione è traccia mnemonica, ossessivamente ripetuta dai gesti materici che generano un’eco alle serrate conversazioni. Le voci di due donne, figlie anonime delle vittime, e di due uomini, padri colpevoli, ricostruiscono i frammenti di quegli avvenimenti, concentrandosi, nell’intento di Garolla, sulle complesse psicologie, sulle implicazioni morali, sociali, politiche. Sulle sfere umane. La drammaturga dimostra così una interessante capacità di rilettura di un fatto storico già ampiamente conosciuto e l’indagine della sua scrittura genera intrecci, riferimenti e collegamenti tra vicende, in un connubio disorientante davvero ben riuscito tra realtà e finzione, attraverso le modulazioni sofisticate di una ricerca sintattica in perenne tensione. Tensione che nelle scelte registiche - rigorose ma troppo contenute - andrebbe maggiormente maturata e dilatata, per aprirsi alla percezione di un pubblico che il peso di quella Storia nascosta ancora oggi non l’ha del tutto compreso né elaborato. (Andrea Gardenghi)
Visto al LAC di Lugano. Crediti: testo e regia Francesca Garolla, con Giovanni Crippa, Angela Dematté, Paolo Lorimer, Anahì Traversi, scene Davide Signorini, costumi Margherita Platé, disegno luci Luigi Biondi, suono Emanuele Pontecorvo
MERIDIANI (di C. Galiero, regia C. Sorrentino)
C’è un sole immobile in alto sulla scena semivuota, resta lì per il giorno e per la notte, forse diventa luna ma poco importa, protegge e rende luce a ciò che sta di sotto, se ne frega del tempo che passa perché semplicemente lui è il tempo, che gli esseri umani, lì sotto, sono costretti a misurare. Per capire. Per vivere. Perché chi non ha più tempo, chi non lo misura più, allora vuol dire che non ha più un metro, non ha più vita. Ci sono due orfani, Reii lui (Giuseppe Brunetti) e Gigo lei (Chiarastella Sorrentino), cresciuti insieme e ora, per questo, inseparabili; per lavoro celebrano le feste dei bambini che non sono stati mai, con la chitarra e certe canzoncine, ma una volta l’anno se ne vanno all’Isola dei Morti, dove per l’occasione i morti, magari i genitori, tornano a parlare con i vivi. Proprio lì, sulla sponda tra l’isola e il mare attorno, Dinamo (Loris De Luna) sta per lanciarsi in mare e diventarne parte. Ma Gigo (anagramma di oggi) lo vede, non sa nulla di lui ma una forza più grande la innamora, lo stesso accade al giovane, un po’ diverso è per Reii (ieri) che non accetta questa unione. Ma Dinamo (domani) ha vita breve, il suo gesto era motivato da una morte imminente. Ma che importa se con i morti si può continuare a parlare? Sono come i Meridiani, titolo dello spettacolo scritto da Carlo Galiero e diretto dalla stessa Sorrentino, che partono da un punto della Terra, fanno un giro immenso e lì si ritrovano all’origine. Scrittura intelligente quella di Galiero, dosata da un’idea sorprendentemente tenace e non banale alla regia, con attori generosi e solidi e la notevole cura estetica definita dalle luci che giocano con la complementarità dei colori. La riflessione su amore e morte, altrove definita da intenti tragici e compiacimento lacrimoso, vive qui una tappa in cui si mescolano poeticamente leggerezza e profondità, reale e surreale. Il sole, che per splendere deve consumarsi, resta acceso: solo da morti, sembra far intendere, si è eterni. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Vittoria Crediti: di Carlo Galiero; regia di Chiarastella Sorrentino; con Giuseppe Brunetti, Loris De Luna e Chiarastella Sorrentino; musiche originali Giuseppe Brunetti; scene Rosita Vallefuoco; costumi Rachele Nuzzo; disegno luci Sebastiano Cutiero; progetto sonoro Filippo Conti
DOPO LA BORA (di F. Miranda Rossi, regia F. Dordei)
C’è la storia dei manicomi, dei pazienti e la loro fragilità, ma poi c’è la storia poco indagata di chi ne vive l’effetto, i familiari che scontano il punto di crisi tra coscienza e martirio. La loro condizione produce storie attraverso cui passa il vento, le sconvolge o solo le accarezza, le può lasciare intatte o confonderle, fino a spostarle altrove dove saranno parte di altri racconti. C’è una data, dietro Dopo la bora di Francesca Miranda Rossi che Federica Dordei porta in scena: il 13 maggio 1978, giorno in cui la Legge Basaglia chiuse tutti i manicomi. Ma, sembra chiedersi il testo, cosa invece apre? Quale conseguenza è frutto di una causa in apparenza così nobile? Le storie dal vento raccolgono detriti, spore che vi germogliano dentro i ricordi, il passato, e i desideri, cioè il futuro. I germogli sono tre personaggi che raccontano in dialetto triestino (tre gli attori: Nicholas Andreoli, Giulia Chiaramonte, Isabella Delle Monache), sui quali emerge la presenza assente del Dottor F, un telefono rosso appeso in alto che squilla senza risposta, la voce da fuori che determina il dentro. È Franco Basaglia, direttore del manicomio di Trieste dal 1971, medico e pensatore che ha rivoluzionato la concezione di malattia psichica in rapporto all’istituzione. Ma c’è chi vi ha scoperto una libertà ignota, per cui si sente inadeguato, i dubbi di chi ha con fatica ricostruito la “vita senza” e non sa come immaginare una nuova “vita con”. Il testo si interroga sul mondo fuori dal manicomio, Dordei al debutto da regista si concede qualche ovvia ingenuità che una maggiore severità potrà certo equilibrare, ma la necessità del lavoro è inquadrare ciò che sfugge alle cronache, determinato dai grandi fatti e a cui la storia deve medesima cura. “Entrare fuori, uscire dentro”, l’espressione è di un ex paziente del manicomio a Roma, ora nome del progetto museo Laboratorio della Mente che ne inquadra gli sviluppi. Forse è il momento che tutti, anche chi non si occupa di malattie, capiscano e accettino cosa sia il fuori e cosa il dentro. (Simone Nebbia)
Visto a Fortezza Est Crediti: di Francesca Miranda Rossi; regia Federica Dordei; con Nicholas Andreoli, Giulia Chiaramonte, Isabella Delle Monache; realizzazione scene Cristina Magliocchetti
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