DEAR LAILA (Basel Zaara)
Lo spettacolo più emozionante nei tre giorni passati a Santarcangelo è forse anche il più piccolo. Non ci sono interpreti, non c’è altro pubblico, lo spettatore, nella propria solitudine, viene fatto entrare in una stanza delle ex carceri di Santarcangelo. Una vecchia scrivania è palcoscenico, non c’è altro tra lo spettatore e la storia di Basel Zaraa, eppure le parole e le immagini investono la nostra percezione con empatia. È stata Laila, la figlia di Zaara (ora residente in Inghilterra) ad innescare l’urgenza dell’opera quando all’età di 5 cinque anni ha cominciato a chiedere al padre da dove venisse e perché non potessero tornare nel luogo di origine. Di fronte a noi un tappeto rosso, a fantasia mediorientale, sulla scrivania delle piante, un’abat-jour, una piccola cornice con una foto di famiglia e un palazzo in miniatura, grigio, con le finestre e i panni appesi, dal quale svettano le antenne della tv. Quel palazzo si trova a Yarmouk, un campo profughi palestinese a Damasco che prima dell’esplosione del conflitto nel 2011 era abitato da 160 mila palestinesi, lì è nato e vissuto Zaara prima di fuggire in Europa a causa degli attacchi israeliani al campo. Il racconto autobiografico - ma sarebbe altrettanto suggestivo ed efficace anche se fosse completamente inventato - si dischiude attraverso la presenza e l’uso degli oggetti: un mazzo di carte colorate con le istruzioni da seguire, cassetti da aprire in cui trovare una lettera scritta a mano e alcune foto in bianco e nero. Entriamo in un’intimità che però da subito mostra anche un valore storico e politico. In un cassetto, un walkman con una voce da ascoltare. La famiglia di Zaara era già dovuta fuggire una volta, nel 1948, l’anno della Nakba: i nonni vivevano in un villaggio rurale vicino ad Haifa quando i gruppi armati israeliani massacrarono, rubarono la terra e bruciarono le case dei villaggi. Il nonno rimase a combattere, la nonna fuggì via. In una scatola troviamo i simboli di quella fuga, una collana e una chiave, rappresentano il testimone passato di generazione in generazione, Laila sarà la prossima a custodirli. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Biblioteca della Scuola Pascucci Santarcangelo Festival. Testi e traduzione Emily Churchill Zaraa suoni Pete Churchill doppiatore Stefano Piemontese su commissione di Good Chance Theatre con il supporto di Arts Council England
LOURDES (di Emilia Verginelli)
Dopo Io non sono nessuno, in cui Emilia Verginelli rifletteva sulla propria esperienza in una casa famiglia, con Lourdes l’artista romana si sofferma sui 10 anni passati da volontaria sui treni che portano i malati nel santuario francese. Anche in questo caso la drammaturgia è veicolata da una prima persona autobiografica, l’esperienza diventa testimonianza: interviste da ascoltare in audio, immagini riprese di una camera live, pubblico sistemato quasi casualmente, con delle sedie che non ”guardano” tutte nella stessa direzione. Siamo nella biblioteca della scuola Pascucci di Santarcangelo e il tentativo è quello di aprire lo spazio all’ascolto, senza nessun intento spettacolare o di rappresentazione. I due performer (oltre a Verginelli Ale Rilletti), leggono o “dicono” parti del testo cercando una freddezza documentaristica che però meriterebbe di essere vivificata con maggiore cura. «La cosa assurda del miracolo è che non lo puoi dire. Se è vero è meglio che te lo tieni per te», le testimonianze appaiono in audio o riportate in voce, senza seguire però una traccia cronologica o narrativa, i materiali drammaturgici vengono distribuiti nel tempo dello spettacolo come piccole occasioni che dovranno poi essere ricucite (o acquisite singolarmente) dallo spettatore. Le divise delle volontarie con le stellette per i gradi, l’odore dei corpi e degli umori, l’ospedale all’arrivo, le persone che si immergono nell’acqua miracolosa, la grotta, la testimonianza del miracolo, i numeri dei miracoli, l’ultimo ufficiale nel 2008. «Non lo so, sono sempre rimasta in disparte», così risponde Verginelli quando qualcuno le chiede se creda o meno. C’è un certo disordine nell’aggregazione dei materiali drammaturgici, nei segni e negli oggetti sparsi nella scena, ma al di là dell'estetica anti rappresentativa (del rifiuto della recitazione, della frontalità teatrale, e della regia), ciò che colpisce è l’incandescenza di questa riflessione ontologica attorno alla fede e alle motivazioni che muovono le azioni legate ad essa. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Biblioteca della Scuola Pascucci Santarcangelo Festival. Di e con Emilia Verginelli e con Ale Rilletti consulenza letteraria Sara De Simone ambiente sonoro Francesca Cuttica disegno luci Camila Chiozza produzione Bluemotion / Angelo Mai
WHITEWASHING (di Rébecca Chaillon)
Nella platea costruita all’interno dell’Itc Molari di Santarcangelo c’è una sola spettatrice afrodiscendente e probabilmente rispetto alla media italiana è già un risultato. Un corpo nero piegato a carponi sul pavimento, è Rébecca Chaillon. In scena un carrello delle pulizie, stracci e prodotti vari: lavare via il bianco dal pavimento bianco e poi dal corpo, spogliandosi dei pochi indumenti. La donna, dalla fisicità abbondante, ha la pelle ricoperta di bianco, ma non con la precisione di un trucco teatrale, qualcosa è andato storto, qualcosa non ha funzionato, rimane ben visibile la pelle. Con lei un’altra performer (Aurora Déon), da subito intenta a lavare il pavimento con un mocio. Dal soffitto penzolano ghiaccioli marroni che lentamente si squaglieranno gocciolando, solo uno è bianco. La donna a carponi, ormai completamente nuda, tenta con foga di lavar via il colore bianco che copre le proprie origini, senza riuscirci. «Esecrabile macchia... cancellati, dico! Una, due... due ore... è tempo di agire», ci tornano in mente le parole di Lady Macbeth nel pieno del delirio. Ma qui la macchia non è una colpa, la purificazione è liberazione dall’oppressione, è messa in discussione del colore dominante e in fin dei conti anche ribaltamento parodistico dell’ormai obsoleta pratica del whitewashing, ovvero gli attori bianchi che interpretano altre etnie. Chaillon si siede, rompendo il tempo lunghissimo del lavaggio; non ci eravamo accorti che anche le pupille erano bianche. Ora Déon applica lunghe extension che arrivano fino al pubblico, Chaillon diventa una dea madre in connessione con il mondo. Ma il misticismo lascia il posto subito al quotidiano, quando le due performer cominciano a leggere una serie di annunci più o meno grotteschi, di uomini bianchi che cercano le loro “perle nere” oppure donne nere in cerca dell’amore bianco. Le pagine delle riviste verranno appese sulle lunghe treccine mentre un suggestivo spoken word si trasformerà in canto. Ultima liberazione: le treccine vengono bruciate. «Non voglio più essere una figlia di questa terra che mi ricopre di fango». (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Itc Molari Santarcangelo Festival. Testo e direzione Rébecca Chaillon e Aurore Déon produzione Compagnie Dans le Ventre con Rébecca Chaillon e Aurore Déon regia e allestimento Suzanne Péchenart
LA VAGA GRAZIA (di Eva Geatti)
Dopo qualche minuto sembra di assistere a una sessione laboratoriale o al lungo riscaldamento di una classe di recitazione e invece siamo in un festival internazionale, al lavatoio di Santarcangelo Festival. Eppure, c’è un'immagine molto bella nei primissimi momenti di questo spettacolo, nelle luci basse che evidenziano i corpi chiusi in una piccola schiera, prima che tutto abbia inizio. Eva Geatti, per La vaga grazia (in scena anche a Short Theatre 2023) è partita da René Daumal e dal suo Monte Analogo, famoso per essere un romanzo che finisce con una virgola. Un racconto sull’alpinismo che termina con una sospensione (causata dalla morte dell’autore), come uno sguardo su un dirupo, sul nulla. Ecco allora che i cinque giovani perfomer in scena potrebbero rimandare, alla lontana, al gruppo degli 8 scalatori protagonisti dell’opera di Daumal. Ma non c’è altro nella performance (tutta fisica) che possa farci intuire le avventure di quegli esploratori; certo, qualcosa nell’eterno movimento dei corpi, negli schemi geometrici, nelle ripetizioni e nello sforzo fisico con cui lo spazio viene riempito può ricordare le lunghe camminate in montagna: «L’ultimo passo dipende dal primo. Non credere di essere arrivato solo perché scorgi la cima. Sorveglia i tuoi piedi, assicura il tuo prossimo passo, ma che questo non ti distragga dal fine più alto. Il primo passo dipende dall’ultimo». In breve lo spettacolo entra in un meccanismo sfiancante di esercizi fisici che si ripetono secondo certi pattern, tra geometrie misteriose e astrattismo. Forse l’ambizione è quella di creare una sorta di scena ipnotica (colpiscono le musiche di Dario Moroldo), ma non si avverte nessuna relazione con la platea, tanto che alcuni spettatori provati dalla noia e dal caldo lasciano la sala prima del tempo. Geatti in questa intervista parla di una «creazione che si autoalimenta» attraverso il lavoro degli interpreti, ma nulla sorprende, non nella qualità del movimento e neanche nelle piccole relazioni che di tanto in tanto si creano tra gli interpreti, i quali si muovono, quasi tutti, in maniera automatica e fredda, a tratti svogliata e in assenza di spinte emotive. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Lavatoio Santarcangelo Festival. Di Eva Geatti con Adriana Bardi, Andrea Beghetto, Carolina Bisioli, Roberto Leandro Pau, Patrick Platolino musiche Dario Moroldo cura e promozione Irene Rossini Vai alla pagina con i crediti completi e il video
LA TEMPESTA (regia di Andrea Lucchetta)
Nato come saggio del corso di recitazione di primo e secondo livello dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, oggi La tempesta di Shakespeare per la regia dell’ex allievo Andrea Lucchetta ha debuttato nell’arena estiva del Globe Theatre, proseguendo l’impegno della direzione del teatro di permettere agli allievi e alle allieve di cimentarsi nel mestiere fuori dal contesto scolastico. Con la supervisione di Arturo Cirillo, Lucchetta sceglie del testo la versione di Eduardo De Filippo, commissionata e pubblicata da Einaudi nel 1984. «Una lingua che ha, dentro e fuori dalla pagina, ancor prima di venire concepita, suoni, melodie, espressioni, movimenti e gesti, ascoltati, compiuti, guardati, o pensati da chi ha orecchie e corpo e occhi veri solo in palcoscenico. Forse è questa la via lungo la quale sembra avverarsi maggiormente la corrispondenza tra l’originale del Bardo e la versione eduardiana, il piano su cui assurge più alta al concetto di traduzione», spiegavamo in un articolo apparso su queste pagine. Della complessità del testo shakesperiano, godiamo nella sua restituzione vernacolare sul palco all’aperto che ricostruisce in parte l’architettura dell’originale elisabettiano, un allestimento desituato che vede in scena tanto il ferro delle americane quanto il legno del loggione. L’organico degli attori e delle attrici è opportunamente diretto con fedeltà al testo restituendone il gioco musicale della lingua napoletana, di cui si rende didattica esecuzione con leggerezza e divertimento ma poca fantasmagoria, che ritroviamo invece nella brillantezza dei costumi. Spiccano i ruoli di Ariele (Anna Bisciari, già vista a Spoleto in Sarto per Signora di Cecchi), Calibano (Vincenzo Grassi) e Prospero (Massimo Odierna). L’investimento produttivo dell’Accademia nel distribuire i propri spettacoli nelle piazze, non solo capitoline, è di valore: l'impegno profuso, l'armonica orchestrazione delle parti che non dimentica mai la relazione con la platea, ereditando la popolarità del teatro elisabettiano e il segno di una giovane regia agli inizi sono accolti con entusiasmo nel verde di Villa Borghese dai romani rimasti in città e/o dai turisti. (Lucia Medri)
Visto alla Globe Arena. Un progetto a cura di Arturo Cirillo; Regia di Andrea Lucchetta; Prodotto da Politeama s.r.l. e Accademia Nazionale d’Arte Drammatica "Silvio d’Amico"; Foto di Manuela Giusto Vai alla pagina completa dei crediti
BACH À LA CARTE (di Marco Augusto Chenevier)
Uno spettacolo come una cena di lusso, le cui portate a base dei corpi dei danzatori sono esposte su un menù consegnato allo spettatore all’ingresso. Il gioco ironico che fonde il linguaggio della cucina stellata a quello della musica barocca e dell’arte coreutica compone un programma di sala a forma di elenco di pietanze. I piatti descritti presentano degli elementi mancanti e da subito è chiara la richiesta che il nuovo spettacolo del coreografo aostano Marco Augusto Chenevier farà al pubblico, nel solco del suo distintivo lavoro sull’ibridazione dei linguaggi e sul sovvertimento dei canoni performativi. Sul palco assieme ai tre danzatori una violoncellista, una musicista elettronica e un tecnico delle luci spiegano il meccanismo di voto tramite il quale lo spettacolo prenderà forma. Si innesca così un gioco assembleare articolato: tramite l’escamotage ludico della scelta (degli interpreti, del ritmo, delle luci), ci si ritrova al centro di un esercizio di democrazia. Ciò che vedremo – partiture coreografiche di pregio – dipenderà dal gusto e dalla curiosità della maggioranza degli spettatori. Ma i momenti di voto, le cui regole si fanno di volta in volta più sofisticate, hanno una durata limitata e un quorum fissato: si vota dunque senza avere il tempo di approfondire le richieste ricevute né di immaginare le conseguenze della propria scelta, sicuramente influenzati dal voto degli altri. Si prende dunque coscienza della precarietà della decisione, nel dubbio latente dell’inutilità della propria partecipazione: le combinazioni coreografiche messe in scena potrebbero essere state decise a priori. La cornice di lusso – dal francese culinario alla musica di Bach alla raffinatezza del contenuto coreutico – rende il tutto ironicamente potente quando si scontra con la foga assembleare, che vive momenti di euforia o di delusione rispetto agli esiti del voto. Al debutto a Kilowatt, lo spettacolo – suscettibile di evoluzioni che lo rendano organicamente più asciutto e ficcante nel suo potenziale – fonde strati di senso in un’unica esperienza estetica e civile. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro della Misericordia – Sansepolcro. Drammaturgia, coreografia, interpretazione Marco Augusto Chenevier. Crediti completi
MASCARADES (di Betty Tchomanga)
Il brusio degli spettatori di Sansepolcro viene interrotto da una voce sempre più presente e nitida, richiamo rituale. Una figura è seduta al centro del palco, su una pedana specchiata. Sirena intrappolata in un corpo di donna o donna intrappolata in un corpo di anfibio, i suoi movimenti sono fulminei e secchi, i suoi occhi inquieti sondano il paesaggio: è Mami Wata che si risveglia, dea voodoo, mother water che scopre sé stessa. Assistiamo al progressivo evolvere del corpo di Betty Tchomanga, danzatrice francese di origine camerunese. Guadagna la posizione eretta attraversando una miriade di fugaci posture, senza conoscere la stasi. L’energia compressa nella minuzia del suo gesto si sprigiona progressivamente con tutta la potenza della ripetizione. Il salto è l’atto rituale, liberatorio: un salto accennato, ma continuo, estenuante che attiva ogni fibra del corpo fino a sciogliere e liberare la capigliatura. È questa a sua volta maschera, travestimento: si muove insieme al corpo ma sembra staccarsi dall’inerzia dello stesso per rispondere a un impulso indipendente che moltiplica le visioni. L’ambiente sonoro di Stéphane Monteiro avvolge e accompagna questa trasfigurazione. La voce appare come pulsione sorgiva e inevitabile, strabordante necessità di dichiarare sé stessa, articolando suoni e stridii casuali che si aggrumano in significati. La madre natura incarnata da Betty Tchomanga è una bestia impaurita e fiera, attraversata da un’elettricità ancestrale e implacabile. Sta parlando all’umanità che la maltratta e la teme, “le sue domande sono vitali, essenziali, capitali (…) il suo pensiero è bestiale, la sua rabbia è ufficiale”, canta come rappando. In un lento e ipnotico avvicinamento, Mami Wata scesa in platea tenta un contatto con lo spettatore, lo rifugge, porge la mano e la ritrae, fino a quando la vibrazione delle sue corde vocali non incatena il pubblico alla sua magnetica presenza. Da questa prossimità la voce si chiude in un sussurro, la figura inquietante diventa docile e pronuncia un’unica preghiera: please, be good. (Sabrina Fasanella)
Visto al Chiostro di San Francesco. Sansepolcro Kilowatt Festival Coreografia e interpretazione Betty Tchomanga. Luci Eduardo Abdala. Suono Stéphane Monteiro. Produzione Association Lola Gatt. Sguardo esterno Emma Tricard, Dalila Khatir. Vocal coach Dalila Khatir. Direttore di produzione Aoza – Marion Cachan.
IL LINGUAGGIO DEGLI OGGETTI (Ateliersi)
A volte l’occasione teatrale può far convergere attorno a un palcoscenico memorie, suggestioni, energie potenti. Il 19 luglio (nella commovente coincidenza della scomparsa del giornalista Andrea Purgatori), è andato in scena a Bologna lo spettacolo di Ateliersi dedicato a Daniele del Giudice, fortemente voluto dall’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica nell’ambito della rassegna dal titolo “Ustica non si dimentica”. Il palcoscenico allestito all’aperto sfrutta come fondale una parete del Museo per la Memoria di Ustica. Ciò implica che la scenografia supposta sia un oggetto reale che, benché nascosto, riverbera della sua tragica immanenza: la carcassa dell’aereo DC9 di Itavia precipitato il 27 giugno del 1980 a causa di un decretato scontro militare internazionale sul quale le autorità non hanno mai fatto luce. Il dispositivo messo in piedi da Ateliersi, che sulla strage ha lavorato in passato più volte, consiste in una evocazione declamatoria della parola di Del Giudice attorno alla vita degli oggetti, alla nostra relazione con essi, alla durata e alla memoria che custodiscono. L’illuminante pensiero dello scrittore è qui proposto in una sorta di ping pong tra Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi ai due lati del proscenio, mentre la scena è occupata da quattro grandi poltrone bianche (quelle di un aereo, o da gamer), quattro grandi pietre e da altrettanti giovani performer. La loro relazione con la parola passa tutta per un lavoro di sguardi accompagnati dalle potenti suggestioni sonore curate da Vincenzo Scorza. L’idea è quella di condurre un percorso esplorativo tramite il gesto, mentre scorrono e si inseguono visioni di un futuro in cui, da fruitori passeggeri degli oggetti che ci sopravvivono, sempre più diventiamo consumatori di prodotti non tangibili e obsolescenti. L’immaginazione è chiamata in causa quale unica custode della carica biologica delle cose, garante di quell’indistinguibilità tra osservatore e oggetto osservato, come l’immagine di quell’aereo nascosto da una parete sottile continua a ricordarci. (Sabrina Fasanella)
Visto al Museo per la Memoria di Ustica di Bologna. Di e con Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi E con Marco Mochi Sismondi, Anna Orsini, Sarah Saïdi e Wali Sidibé. Progetto sonoro Fiorenza Menni e Vincenzo Scorza (elaborazione ed esecuzione musicale)
MATERNITÀ (Fanny & Alexander)
Al Teatro Solvay di Rosignano ha debuttato Maternità, l’ultimo lavoro della compagnia ravennate Fanny & Alexander. Ricalcando il modello della scrittura interrogatoria di Sheila Heti, autrice canadese dell’omonimo romanzo, Chiara Lagani e Luigi de Angelis costruiscono un dispositivo scenico in forma di assemblea pubblica, affidando agli spettatori l’avanzare dell’indagine sul tema più che mai controverso del titolo. Così come la protagonista-autrice del romanzo, Chiara Lagani parla in prima persona direttamente con il pubblico. Il primo aggancio è un esercizio di scetticismo: “Mi chiamo Chiara e sono incinta. Vero o Falso?”. Domanda dopo domanda, cui lo spettatore è chiamato a rispondere attivamente e istintivamente tramite un telecomando, emergono i nodi problematici della tematica: il rapporto di una donna con il proprio corpo; le aspettative personali e sociali su di esso; la vocazione dubbiosa alla maternità; le insidie della scelta e gli inganni della libertà. L’ingaggio dello spettatore, che segue l’esito della “votazione” su uno schermo in tempo reale, sembra volto a suscitare lo stesso tipo di dubbi: da quante e quali cose è condizionata la nostra scelta? Quale prezzo paga il pensiero all’esercizio della libertà? Ma anche: quanto è davvero nostra la scelta che facciamo? Questo (intenso, a tratti ossessivo o apparentemente superfluo) lavoro di scelta e giudizio approda ad una seconda parte in cui il dispositivo ritorna alla sua funzione rappresentativa. Questo spostamento di equilibri, mediato in maniera più esplicita dalla convenzione della luce e del costume, non solleva lo spettatore dal suo ruolo attivo, ma lo trasforma: se da un lato si palesa in maniera più decisa il meccanismo dell’eterodirezione, dall’altra continua ad aleggiare il dubbio che ciò che accade sia stato deciso e scelto a priori, esattamente come accade ad una donna, la cui biologia è orientata e orientante verso un destino che non necessariamente corrisponde alla vocazione genitoriale. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Solvay di Rosignano Marittimo – Inequilibrio Festival 2023 tratto dal racconto di Sheila Heti (traduzione Martina testa, Sellerio editore 2018) Con Chiara Lagani. Drammaturgia, costumi: Chiara Lagani. Regia, luci, progetto sonoro: Luigi de Angelis. Artwork Eleano Shakespeare. Architettura Software multiscelta, cura del suono, supervisione tecnica Vincenzo Scorza. Organizzazione e promozione Maria Donnoli, Marco Molduzzi. Produzione E Producion / Fanny & Alexander. Grazie a Ateliersi, Giovanni Cavalcoli, Silvia Veroli.
THE VITRUVIAN HUMAN (Hungry Sharks)
A fronte di una prosa in genere insufficiente, la danza di Teatri Riflessi ha presentato degli spunti senz'altro più interessanti, più coerenti, più riusciti. The Vitruvian Human, della compagnia austriaca Hungry Sharks, è lo sviluppo coreografico di un'immagine: l'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, considerato tradizionalmente simbolo di assoluta perfezione estetica. La danza di Jennie-Love Navoret, per la coreografia di Valentin Alfery, bene ne accoglie lo spirito formale, presentandosi come misurazione dello spazio aereo e terreno di cui il canone è conforme espressione. Ben piantata sulle gambe divaricate, la fissa verticalità dell'interprete attraversa il basso e l'alto: ma nel tetragono in cui è inscritta, la sua è una tensione serafica, priva di conflitto e slanci. Nelle intenzioni degli artisti, il progetto intende sostituire al canone estetico fisicità non canoniche. Ma, sebbene la danzatrice non sia un uomo bianco, il flusso della coreografia è talmente lineare e continuativo da non lasciare spazio a contestazioni di sorta. Tutto è ridotto a sistema. Tra cerchio e quadrato, i gesti rotatori della parte alta del busto, compreso nella distensione e nella chiusura delle braccia in archi ampi, sembrano ricavare frammenti aurei da una circonferenza. Certo non è la prima volta che la danza accoglie il modulo geometrico quale pattern di origine del discorso coreutico; eppure, la minimale regolarità dell'impianto, non proprio imprevedibile, non smette comunque di ipnotizzare. Il corpo di Navoret è un compasso la cui traccia è data da gesti puliti, iterati nell'accumulo di frammenti geometrici in ordinata e consecutiva successione. L'intera scrittura è una combinazione di oscillazioni intorno all'asse; le singole partiture, omogenee, rimangono tali anche quando si imprime alle membra un delicato sciogliersi ondulatorio, più libero ed euritmico. Il canone insomma non ne viene messo in crisi, e anzi alla fine sembra avere la meglio: ma forse è al suo rispetto che dobbiamo la chiusa compiutezza della performance (Tiziana Bonsignore).
Visto a Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali, Teatro Falcone e Borsellino, Zafferana Etnea (CT), Zafferana Etnea. Crediti: Coreografia di Valentin Alfery, Produzione e Costumi di Dušana Baltić, Musica di Patrick Gutensohn, Interpretazione di Jennie-Love Navoret. Foto di Arnold Pöschl.
VICE’ (regia di Eugenio Patanè)
Una corsa spasmodica verso il baratro della scena madre conclusiva: parliamo di Vice', di Eugenio Patanè, con Luana Toscano ed Elmo Ler, dramma sul quale poco altro è da aggiungere. Si è appena conclusa l'ottava edizione di Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali nella cittadina catanese di Zafferana Etnea, dove abbiamo avuto modo di confrontarci, appunto, con questo accorato corto teatrale. La valorizzazione di tale formato (qui inteso come una performance di circa quindici minuti) risponderebbe alle caratteristiche del contemporaneo: brevità, incisività, varietà di contenuti. A questo "genere", ancora orfano di una distribuzione strutturata, TR8 ha voluto offrire uno spazio sia fisico che di discussione. L'indecisione, forse anche l'incoerenza, delle scelte programmatiche ha fatto sì che il dibattito, animato da una numerosa giuria, si sia concentrato su alcuni temi trasversali, in qualche modo divenuti esemplari di questioni più ampie: lo stato di salute dell'attuale drammaturgia, il confronto con la proposta internazionale, i limiti e i pregi della gestione di un festival nelle realtà più marginali. Sul primo piano, il TR8 ha rilevato una carenza effettiva. Tutti gli spettacoli di prosa, siciliani (ad eccezione dello Zoe di e con Sara Baldassarre, l'unico valido, cui è andato la menzione della Commissione stampa e della Commissione giovani), sono stati ammorbati da indiscutibili carenze narrative e registiche, tra le quali gli interpreti si sono mossi con non poche difficoltà motorie, spaziali o addirittura respiratorie. In Vice', ad esempio, il problematico rapporto tra madre e figlio procede con strazio tra episodi dialogici di misura poco ponderata. Lo sviluppo narrativo avanza a strattoni, nello sforzo di una sintesi irrisolta: sarà stato difficile imbottire questo corto di tutto il pathos che la compagnia forse reputava necessario. Alla platea nazionale si è offerto uno spaccato impietoso della proposta insulare, dove pure è possibile trovare lavori di più significativa e riconosciuta originalità. Locale e provinciale sono due concetti non coincidenti ed è bene considerarli distinti, soprattutto se si opera in un'ottica di "valorizzazione del territorio".
Visto a Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali, Teatro Falcone e Borsellino, Zafferana Etnea (CT), Zafferana Etnea. Crediti: Drammaturgia di Luana Toscano, Regia di Eugenio Patanè, Interpretato da Luana Toscano, Elmo Ler e con la partecipazione di Eugenio Patanè, Prodotto da Gruppo ELE.
EXISTENZ (di Wihad Suleiman)
Quando si pronuncia il termine “esistenza” si intende generalmente un sinonimo di “vita”, ossia la precondizione necessaria dell’essere al mondo. Tuttavia – la realtà è sempre più complessa – sembrerebbe più completo raffinare la definizione attraverso i riferimenti al contesto entro cui essa si manifesta: è la stessa esistenza quella in tempo di pace o in tempo di guerra? Ha la stessa qualità l’esistenza agiata rispetto a quella al limite della sopravvivenza? La drammaturga araba-tedesca Wihad Suleiman porta luce su questa Existenz, in prima mondiale alla Sala Assoli per la regia di Lydia Ziemke, intesa come condizione esistenziale di quattro personaggi (Mohamad Al Rashi, Corinne Jaber, Amal Omran, Alois Reinhardt) immersi in una dimensione spaziale ridotta, un quadrato di terra suddiviso in rettangoli sequenziali, fosse da cui ognuno fa emergere la propria storia; appeso al centro è un enorme orecchio azzurro nella penombra, come se l’udito sostituisse la vista, indagata con una torcia che viola di ognuno l’intimità. La guerra ha ridotto in memoria la loro vicenda, nel passato qualcosa si è incagliato prima di diventare presente: ogni personaggio lamenta ciò che ha perduto, o non accetta di perdere, trascinato via dalla guerra come un grande tsunami. Ostinati suoni di chitarra elettrica rendono cupa l’atmosfera, i monologhi intrecciati – prima tradotti in cuffia assieme a dei suoni ambientali, poi con sovratitoli – cercano una pace che non c’è, un motivo tra le deliranti paure e il tradimento della speranza, finché l’uscita dalle fosse crea un’interazione imprevista, un sostegno, un senso profondo di solidarietà. La scena acquista un’aria post-apocalittica, il testo, ora restituito in una lettura a leggio, entra via via in una dimensione poetica più eterea e meno concreta, frutto di una frammentazione drammaturgica che non aiuta la comprensione unitaria della vicenda; ma, viene da dire, non sono che gli effetti della violenza efferata, il delirio frammentato di chi è costretto a chiamare “esistenza” ciò che, forse, non lo è più. (Simone Nebbia)
Visto al Campania Teatro Festival, Napoli. Crediti: Con Mohamad Al Rashi, Corinne Jaber, Amal Omran E Alois Reinhardt; Regia Lydia Ziemke; Testo Wihad Suleiman; Scene E Costumi Claire Schirck; Co-Creazione Palcoscenico E Costumi Raffaëlle Bloch; Drammaturgia E Traduzione Christopher-Fares Köhler; Sound Design E Direzione Tecnica Nils Lauterbach; Musica Nils Lauterbach & Mohamad Al Rashi
HANSEL E GRETEL (di Michele Losi)
Tutto inizia ai margini del bosco, come spesso accade in una fiaba. Solo che stavolta l’ingresso non è una metafora, ma proprio concretamente bisogna entrarci quando si viene chiamati: “Venite bimbi!”, dice una voce tra gli alberi, mentre una signora in coda ci pensa su e risponde, rivolta forse verso sé stessa: “Tanto tempo che qualcuno non mi chiamava bimba…”. Inizia così, Hansel e Gretel di Michele Losi a Sebastiano Sicurezza, un’esperienza di teatro immersivo e itinerante, appunto, nel bosco di Campsirago per Il Giardino delle Esperidi Festival. Il paesaggio, prima di tutto, notturno del bosco, offre la condizione ideale perché le sfumature della fiaba dei Grimm sviluppino il proprio carattere più oscuro, anche in virtù del fatto che l’ambiente visivo è sostenuto dalla creazione di un ambiente sonoro che, attraverso le cuffie offerte in dotazione ai partecipanti, ne esplicita l’intenzione. Il bosco dunque, habitat per eccellenza della fiaba, è allo stesso tempo luogo effettivo sempre ricco di nuovo spazio d’azione e metafora della paura onirica che raccoglie i diversi tempi dell’essere umano in uno solo, comprimendo passato e futuro in un presente magmatico e sospeso. Il testo è ricco di azioni e oggetti che compaiono e scompaiono velocemente, lasciando che l’apparizione generi fin da subito una percezione già memoriale; ognuno dei momenti che si succedono nella drammaturgia lascia intravedere una particolare delicatezza poetica che accentua la dimensione onirica. Un amuleto, consegnato all’inizio del percorso, segnerà il legame tra la partecipazione e la vera e propria immersione, cui dona un carattere ancora più profondo il profumo delle piante emanato dalle poche gocce di pioggia che entra prepotente nella drammaturgia. Nel bosco la necessità e il desiderio, fin quasi alla brama, si mescolano tra le offerte della strega e il fuoco accogliente per scaldarsi; i sassolini segnano la strada luminosa per uscire, infine, nel sentiero catartico del proprio futuro. “Sarebbe più bello non sapere”, dicono i due bimbi. Ma sapere, in fondo, è già diventare. (Simone Nebbia)
Visto a Il Giardino delle Esperidi Festival, Campsirago. Crediti: da un’idea di Michele Losi, Sebastiano Sicurezza | regia Michele Losi | drammaturgia Sofia Bolognini, Sebastiano Sicurezza | con (in alternanza) Barbara Mattavelli, Benedetta Brambilla, Giulietta De Bernardi, Sebastiano Sicurezza, Stefano Pirovano | suoni Luca Maria Baldini, Diego Dioguardi| supervisione alle azioni e scene Anna Fascendini | costumi Stefania Coretti | produzione Campsirago Residenza | con il sostegno di NEXT – Laboratorio delle idee per la produzione e la programmazione dello spettacolo lombardo – Edizione 2021/2022
DISADIRARE. UN’ALTRA ILIADE (regia di Adriana Follieri)
Se c’è qualcosa da amare nel teatro, la possibilità di osservare l’attore cambiare nel tempo è una di quelle cose. Nella cornice del Campania Teatro Festival, a distanza di un anno, ritornano sul palco i ragazzi dell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola insieme alle studentesse dell’I.I.S.A.M De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti; nella delicata riscrittura dell’Iliade, Adriana Follieri ha in mente di poter mettere in scena una crescita formidabile. E ci riesce. Ci riescono tutti e tutte. Seguendo la legge che vietava la diretta messa in scena di violenze e traumi, dal racconto epico viene completamente estirpato qualunque intento celebrativo della guerra come affermazione di sé. Non esiste alcuna vittoria, bensì la disperazione della possibilità che questa prenda forma nel dolore e nelle disgrazie. Lo spazio (costruito da Pino Beato) non ha alcuna pertinenza fisica, poiché non deve contenere corpi, ma idee. Dei pesanti blocchi vengono disposti per ordinare i movimenti in giri perpetui e marce senza fine; potrebbero essere dei blocchi di marmo in cui fermare gli eroi nell’immagine che a loro apparterrà per sempre, e invece quei giovani corpi li usano per ergersi ed esporsi. In scena non sono concepiti movimenti isolati e solitari, ma sono lunghi andamenti collettivi, complessi proprio in virtù del fatto che vanno compiuti in totale armonia col ritmo delle presenze vicine. L’unico elemento farraginoso, è la persistenza in diegesi delle musiche (originali di Luca Caiazzo) che rallentano eccessivamente l’azione più che accompagnarla. Poteva essere tutto ovvio, tutto tristemente già visto, e invece è stata compiuta un’operazione di ricostruzione del senso delle immagini molto significativo. È doveroso spendere poche parole (saranno sempre poche) su quei ragazzi aiutati una buona volta ad essere padroni di ciò che vedono in sé stessi, a sforzarsi di esperire, come tutti, sempre nuove esistenze: non più ignari caratteristi, macchiette succubi del divertimento altrui, ma attori.
Visto a Teatro Trianon Vivian; Crediti, Con i giovani attori dell’Istituto Penale per minorenni di Airola e le studentesse dell’I.I.S.A.M. De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti e con Gianluigi Signoriello e Paola Maria Cacace; Drammaturgia Adriana Follieri in collaborazione con Fabrizio Nardi; Regia Adriana Follieri; Musiche originali Luca Caiazzo; Disegno luci Davide Scognamiglio; Scene Pino Beato; Foto Sabrina Cirillo; Produzione CCO – Crisi Come Opportunità.
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