CIRCUS DON CHISCIOTTE (Di R. Cappuccio, regia A. Latella)
Guardiamo dall’alto dei palchetti la platea del Mercadante svuotata dalle abituali poltrone: nello spazio una serie di sedute diverse tra loro, semplici sedie, comode poltrone in pelle, pezzi di arredamento vintage o di design, su queste sedute verranno accompagnati una ventina di uomini e donne, più o meno anziani; di fronte a loro comodini, o tavolini per fare da appoggio a vecchi televisori a tubo catodico. Sul palco, dalla graticcia, pende un tabellone in cui di tanto in tanto scorrono lettere e numeri, e sul quale si formeranno parole chiave. Questa scena, firmata da Giuseppe Stellato, suggestiva nella nebbia che si alzerà e nelle luci di Simone De Angelis dobbiamo guardarla per due ore sporgendo la testa dalle nostre balaustre perché gran parte dello spettacolo avviene nello spazio della platea. Ma la stanchezza non è solo fisica, come dirà un’amica dopo lo spettacolo: “è un corpo a corpo tra il testo di Ruggero Cappuccio e la regia di Antonio Latella e a rimetterci è lo spettatore”. Il teatro può essere una fatica per chi guarda? Certo, ma non uno sfiancamento (penso alle emozioni dei lunghi spettacoli latelliani). Il regista di fronte alla drammaturgia di Cappuccio - barocca, poetica, debordante per immagini e lingua, eccessiva - ha risposto con la carta del gioco attorale da un parte - sono splendidi Dalisi e Cacciola, soprattutto il secondo dimostra un talento cristallino nei cambi, nelle esplosioni, nella gestione del dialetto napoletano. Dall’altra ha edificato ulteriori stratificazioni di senso: le silenti presenze degli ospiti dell’ospizio in platea (generazione di poveri cristi assuefatti davanti alla tv), i colori che inondano la scena durante lunghe pause, gli spifferi di fumo dai televisori e nell’ultima scena dal corpo di Salvo - il nome dato dall'autore a Sancho Panza in questa riscrittura del celebre romanzo di Miguel de Cervantes (già messa in scena da Cappuccio nel 2017, che in quel caso era anche attore e regista). Forse con maggiore semplicità, anche nella drammaturgia, avremmo apprezzato di più il gioco delle maschere di questi due demenziali cavalieri, l’utopia di rincorrere il mondo; e la fatica nostra si sarebbe specchiata in quella degli attori. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Mercadante, Campania Teatro Fetsival. DI RUGGERO CAPPUCCIO REGIA ANTONIO LATELLA CON MARCO CACCIOLA E MICHELANGELO DALISI SCENE GIUSEPPE STELLATO COSTUMI GRAZIELLA PEPE MUSICHE FRANCO VISIOLI SOUND DESIGN FRANCO VISIOLI E DARIO FELLI LUCI SIMONE DE ANGELIS ASSISTENTE AL PROGETTO ARTISTICO BRUNELLA GIOLIVO
Il GIARDINO DEI CILIEGI (regia di Roberto Bacci)
Alla sua terza esperienza di regia con il Giardino dei ciliegi, Roberto Bacci incontra gli allievi dell’accademia del Teatro della Toscana. L’esito è un lungo tableau vivant allestito su un lago di petali bianchi. Una fisarmonica, allegra e malinconica insieme, raccoglie e guida gli spettatori del Teatro della Pergola verso il Saloncino Paolo Poli, per poi scandire tutta la vicenda. I personaggi riempiono il palcoscenico omogeneamente, in un gioco di primi piani alternati, mentre il fruscio della carta accompagna ogni loro passo. L’adattamento drammaturgico di Stefano Geraci condensa il testo in un atto unico intermezzato a più riprese da canti della tradizione russa, ucraina e georgiana. Il cast risalta per freschezza ed energia; non c’è differenza anagrafica tra i ruoli e questa omogeneità produce l’effetto di traslocare nel presente i nodi checoviani, pur così strettamente legati alla Russia di inizio secolo. Così questo vaudeville si consuma leggero sulle gambe di un gruppo variegato di trentenni che si congeda da un mondo in rovina, quello contemporaneo. Generazione di mezzo, che ha ereditato il concetto di possibilità, ma è cresciuta vedendolo assottigliarsi, inventando sopravvivenze e illusioni di felicità. Il goffo incedere di Epichodov che perde ripetutamente fiori dal suo bouquet finché a cadergli inavvertitamente è una pistola, nero presagio sul letto bianchissimo della scena; la vaghezza di Ljuba, anestetizzata dal dolore e rossa di passione; la concretezza di Lopachin che ha sposato il sistema; le speranze di Trofimov e l’austera operosità di Varja: sono tutti possibili ritratti, senza forzature attualizzanti, di una generazione che oggi vede le certezze del mondo sgretolarsi, un sistema economico che mostra sempre più i suoi limiti, una crisi climatica incombente e la guerra così anacronistica e sempre più vicina. Non a caso Firs chiude lo spettacolo pronunciando le battute finali in lingua originale: quel non aver vissuto risuona di nuova amarezza su labbra giovani. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro della Pergola. Di Anton Čechov con Maddalena Amorini, Davide Arena, Maria Casamonti, Davide Diamanti, Ghennadi Gidari, Annalisa Limardi, Alberto Macherelli Bianchini, Claudia Ludovica Marino, Luca Pedron, Marco Santi, Nadia Saragoni, Sebastiano Spada, Emanuele Taddei. Regia e scene Roberto Bacci. Adattamento drammaturgico Stefano Geraci. Costumi Elena Bianchini.
CENERENTOLA (Zaches Teatro)
La Cenerentola di Zaches Teatro è una fiaba materica che sfrutta un ampio spettro di linguaggi teatrali e restituisce un’esperienza di suggestioni. Dalla luce alle voci e all’ambiente sonoro, ogni elemento concorre con precisione alla parabola della protagonista, al suo viaggio dalla cenere alla luce. Tra le più antiche fiabe dell’umanità, Cenerentola è una storia di libertà e di autodeterminazione, i cui contorni oscuri sono ricalcati dalla regia di Luana Gramegna quasi a suggerire di farceli amici, di non temere di esplorarli: conoscerli è necessario. Così l’inquietudine diventa leggerezza, l’oscurità affascina, col fumo e la cenere si può giocare. Questo teatro guarda le nuove generazioni negli occhi e non dall’alto, appellandosi a quel senso di meraviglia che viene da un’esperienza avvolgente e completa, pulita, organica. Un tetto diventa un camino per poi farsi palazzo, fulcro della scena dall’inizio alla fine. Tre corvi, tre spiriti animati da Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco ed Enrica Zampetti commentano, raccontano, aiutano la protagonista che ha le fattezze misteriose e innocenti del pupazzo. Lo spettacolo è una carillon dark in cui ogni elemento, in costante movimento, si trasforma con generosità, accompagnando la protagonista verso quello scrigno di luce potente e liberatorio: finalmente in carne ed ossa, un sorriso arioso e un vestito rosa, Cenerentola corre libera lontana dalla cenere, dal passato, da quel principe azzurro che è solo una silhouette in controluce. Il suo pupazzo inerte rimane sulla scena, immerso nel fumo, simulacro del viaggio, come la pelle del serpente. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Fonderia Leopolda di Follonica. Con Gianluca Gabriele, Amalia Ruocco, Enrica Zampetti. Regia, drammaturgia, coreografia Luana Gramegna. Scene, luci, costumi, maschere e pupazzi Francesco Givone. Progetto sonoro e musiche originali Stefano Ciardi. Produzione Zaches Teatro con il sostegno del MIC, Regione Toscana, Teatro Fonderia Leopolda di Follonica e Giallo Mare Minimal Teatro. In collaborazione con Fondazione Teatro Metastasio, Fondazione Toscana Spettacolo onlus, Centro di Produzione della Danza Virgilio Sieni.
TOM À LA FERME (di M. M. Buchard, Regia di G. Bucci)
Tante complesse tematiche convergono nella pièce canadese Tom à La Ferme, con la menzogna come comune denominatore. Persino il titolo è una bugia fuorviante, come dichiara l’autore Michel Marc Bouchard. Il testo pluripremiato (Xavier Dolan ne fece un film nel 2015) è densissimo, carico di sfaccettature al limite con l’eccesso: non si limita a denunciare pregiudizi non ancora superati verso l’omosessualità, ma le insidie esistenziali della stessa, l’esperienza della morte che scardina certezze, la disarmante violenza delle verità postume, l’imprevisto e pericoloso assottigliarsi del confine tra attrazione e repulsione. La messa in scena firmata da Giuseppe Bucci è dunque giustamente essenziale: nel dipanare la mole di spunti tragici ne esalta i tratti ironici, a volte indugiandovi. Una parete luminosa di fondo presenta i personaggi dapprima in controluce: sagome che entrano in scena per svelarsi lentamente nell’intimità dei propri lati oscuri. Tom (Salvatore Langella) è un brillante ragazzo di città che si trova calato in un contesto estraneo con la violenza di un evento tragico: la morte del suo compagno Guillaume. Langella stesso compie un percorso attoriale che asseconda il viaggio di formazione del personaggio, inspessendosi gradualmente in intensità e adesione. Al polo opposto Francis (Lorenzo Balducci), l’incarnazione della paura che si fa violenza, della fragilità vestita di muscoli e rancore. La sua prova è statica, conformemente a quanto richiesto dal ruolo, che pure avrebbe potuto meritare maggiore tridimensionalità. Tra i due Agathe, madre in lutto, ingenuamente bigotta ma capace di perdono e comprensione materna, resa con notevole efficacia, misura e profondità da Marina Remi. La messa in scena di Bucci è funzionale e sentita, pur se l’avvicendarsi non sempre fluido delle scene, il cui ritmo è frammentato da ripetuti cambi a vista, rischia di togliere forza al climax finale. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Belli. di Michel Marc Bouchard. Con Salvatore Langella, Lorenzo Balducci, Marina Remi, Maria Lomurno. Musiche Pericle Odierna. Regia, luci e spazio scenico Giuseppe Bucci
In-Box 2023. Segnali positivi dal teatro emergente
Di rassegne, festival e concorsi dedicati al teatro emergente ce ne sono diversi, per la maggior parte sono dedicati alla creazione, come supporto produttivo di nuove opere. Il tallone d’Achille del sistema teatrale, lo abbiamo scritto più volte, è però nella distribuzione. Le nuove opere rischiano di rimanere nuove, e questo spesso vale anche per produzioni non indipendenti ma sostenute da importanti teatri pubblici o privati. Ecco allora che una vetrina come quella di In-Box, ideata quasi quindici anni fa, rappresenta un’occasione vera per incidere proprio sulle programmazioni dei teatri. Anche perché nell’edizione di quest’anno i soggetti partner (senza contare quelli dedicati al teatro ragazzi) sono diventati 55 e rappresentano un reticolo eterogeneo e variegato (festival, circuiti, teatri e centri di produzioni), distribuiti in tutta Italia, ma con una netta maggioranza nel Nord. I partner coordinati da Straligut Teatro (Fabrizio Trisciani, Francesco Perrone) si ritrovano a Siena per la prova “dal vivo” sugli spettacoli scelti tra centinaia attraverso una seleziona collettiva in video. L’edizione 2023 segna alcune importanti evidenze: la qualità generale dei progetti finalisti, mediamente alta, e alcune interessanti novità dal punto di vista delle proposte estetiche e dei contenuti. Tra gli spettacoli a cui abbiamo potuto assistere ne raccontiamo alcuni di seguito.
SID – FIN QUI TUTTO BENE (Cubo Teatro)
Sid ha convinto 19 soggetti, 19 è infatti anche il numero di repliche vinte dal collettivo torinese che si è preso il rischio di proporre un prodotto in cui ibridare la forma teatrale e quella concertistica. Sid è il nome del giovane protagonista, un ragazzo di origine Nord Africana, sul palco del settecentesco Teatro dei Rinnovati - quasi fosse un alieno sbarcato da un mondo lontano - Alberto Boubakar Malanchino (nato a Cernusco sul Naviglio, padre italiano e madre del Burkina Faso) stringe il microfono e indossa una tuta bianca; per un’ora sarà il protagonista di un racconto su musica dal vivo, quella suonata dalla tromba di Ivan Bert e dalla batteria elettronica di Max Magaldi (vera e propria postazione musicale polivalente), in una scena vuota e nera come un antro scuro che sembra poter inghiottire tutti. Cambi di tono e di registro, bruschi passaggi verso il rap o una certa scansione recitativa che rimanda a una modalità simile a quella utilizzata dai Massimo Volume. Malanchino, - tra i pochissimi attori professionisti afrodiscendenti che ci è capitato di incontrare nella scena teatrale - è una forza sorprendente. Lo spettacolo scritto e diretto da Girolamo Lucania ha l’impatto del concerto rock. La storia procede per salti, tra le parole appare un omicidio, perché qui nessuno è innocente. Malanchino vomita fiumi di parole, l’immaginario è quello di un fumetto underground con un giovane antieroe: «Spesso sto chiuso in camera. Leggo. Leggo sempre. Di giorno, di notte. Guardo film. Se hai un cervello come il mio, non puoi che fare così. [...] Vestito di bianco Adidas, Lacoste, Fila, etc. Per il resto, si fanno cazzate. Trovi sempre qualcuno con cui fare cazzate. In generale, ci si annoia da morire.» Non manca uno psicologo da trollare, una scuola dalla quale fuggire, le periferie di una grande città e il razzismo quotidiano. Sid attraversa mondi, sembra invincibile, sembra un passo avanti agli altri, ma qualcosa gli sfugge, per non perdersi non basta leggere e ascoltare Mozart, Vivaldi, Stravinskij.
Visto al Teatro dei Rinnovati per In-box dal Vivo 2023. Crediti: Regia: Girolamo Lucania Drammaturgia: Girolamo Lucania Attori: con Alberto Boubakar Malanchino Sound design e colonna sonora live di Ivan Bert e Max Magaldi
STILL ALIVE (di Caterina Marino)
C’è una figura nascosta da un piumone, cammina, raggiunge un microfono: «è così che dovrebbe cominciare uno spettacolo sulla depressione? Chiedo perché non l’ho mai fatto.» La voce di Caterina Marino è piccola e gentile, ma non nasconde la coloritura suggestiva. D’altronde, come si fa uno spettacolo sulla depressione? La depressione di chi, poi? L’abbrivio di questo lavoro visto al Teatro dei Rozzi come primo finalista di In-box dal Vivo 2023 (dopo un passaggio anche ai debutti del Premio Scenario 2021) rischia di far pensare allo spettacolo a tema, generica idea teatrale su un tema importantissimo. Ma qui c’è il corpo di Caterino Marino, piegato su se stesso, seduto, nascosto, immobile in terra. C’è la scrittura, quella di parola (che in alcune occasioni subito riporta a Lucia Calamaro) e quella scenica che spiazzano e riescono a tornare sul particolare, di quella vita che sta di fronte a noi e a un certo punto ci chiede se abbiamo qualcosa da darle da mangiare - qualcuno risponde offrendo una di quelle bustine di frutta secca. Siamo allo stato zero della rappresentazione, certo nulla di nuovo, senza spettacolarizzazione e senza quarta parete, ma con una capacità di porre in relazione una verità intima con il pubblico. E poi c’è un movimento, dall’intimità di questo personaggio minuto all’esterno di un mondo che cambia e si autodistrugge. E allora si capisce che questa opera è qualcosa di più di uno spettacolo sulla depressione: è anche un piccolo manifesto generazionale. «credo di avere 83,84 anni, ma per l’anagrafe 30, posso ancora partecipare ai bandi». C’è qualcosa di felicemente improduttivo in questo lavoro, una stasi che va oltre il semplice gioco del teatro nel teatro. Colpisce la gentilezza, il modo con il quale l’altra figura silente (Lorenzo Bruno) si prende cura della protagonista. E nonostante l’aggregazione eterogenea dei materiali, e una sintassi né levigata né in cerca di effetti speciali, emerge lentamente un’inquietudine che tutti abbiamo conosciuto. Poi la stasi a un certo punto si rompe e la fragilità di questa giovane donna deve scontrarsi con le richieste di una madre, con le richieste del mondo. E non rimane che gridare, gridare forte. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro dei Rozzi per In-Box dal vivo 2023. Crediti: Regia: Caterina Marino; Drammaturgia: Caterina Marino ; Attori: Caterina Marino e Lorenzo Bruno
TOPI. A VENT’ANNI DAL G8 di GENOVA (Usine Baug)
Anche di Topi dei giovani Usin Baug abbiamo uno sguardo dal debutto, all’interno della rassegna del Premio Scenario di Napoli, nel '21. Sul palco del Teatro dei Rozzi c’è un interno casalingo spoglio, con un tavolo e, qualche sedia, l’abitante di questo interno è in attesa di visite, qualche amico per una cena a casa. Lentamente cominciano a manifestarsi dei suoni, sono squittii di topi. D’ora in poi l’uomo dovrà combattere con le piccole creature, che avranno la meglio fino allo sterminio finale. L’immagine del roditore è un’evidente metafora, più che esplicita, per indicare i manifestanti del G8 di Genova 2001. C’è infatti un altro racconto parallelo di cui sono protagonisti Claudia Russo e Stefano Rocco, un racconto che dalla platea scende poi verso il pubblico e lo attraversa per rompere la lontananza data dalla grande sala: i fatti vengono messi in fila con precisione e passione, drammaturgia e recitazione riescono però a mantenere un tono documentaristico e mai empatico; i fatti sono quelli di via Tolemaide, di Piazza Alimonda, della Diaz e di Bolzaneto, insomma quella geografia della violenza in cui l’abuso delle forze dell’ordine ha determinato “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea” (Amnesty International). Inoltre questo racconto arriva per bocca di un gruppo di trentenni che durante quelle giornate erano fin troppo piccoli per farsi un’idea e comprendere; c’è dunque un importante tentativo di trasmissione della memoria verso le nuove generazioni. Poco invece viene aggiunto per chi ha già consapevolezza e conoscenza di quelle giornate (se non una suggestione emotiva pur necessaria). Peccato invece per lo svolgimento teatrale del plot casalingo: a fronte dell’immediatezza della metafora, purtroppo anche le azioni sul palco risultano troppo semplici per coinvolgere un pubblico smaliziato; nel finale qualcosa fortunatamente cambia, in una sorta di esplosione che lascia incrociare i due piani, il fumo chimico con il quale l’uomo cerca di stanare i topi è il fumo delle strade di Genova. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro dei Rozzi per In-Box dal Vivo 2023. Crediti: Regia: Usine Baug Drammaturgia: Usine Baug Attori: Claudia Russo, Ermanno Sandro Pingitore, Stefano Rocco
R+G (di Stefano Cordella, Tommaso Termariello)
Riscritture shakespeariane? Il genio dello scrittorle di Stratford-upon-Avon può accogliere tutte. Quella vista sul palco dei Rinnovati è una riduzione e reinvenzione per due attori e una band musicale (come per Sid dunque un’evidente ibridazione con il concerto rock), firmata da Tommaso Fermariello (alla scrittura) e Stefano Cordella (alla regia). Dietro l’operazione ci sono anche le forze produttive di un teatro pubblico, lo Stabile del Veneto e dell’annessa accademia, dalla quale provengono i due interpreti, Caterina Benevoli, Duccio Zanone: ventenni o poco più, sono portavoce ma anche protagonisti del racconto. Cordella e Fermariello scelgono una via netta, un racconto in terza persona, i due giovani incarnano gli amanti shakespeariani ma se ne discostano, non solo per la modalità epica, ma anche per una riscrittura volta ad ambientare la tragedia nel nostro tempo (non si può non pensare a Shake, il teen drama, su raiplay ispirato a Otello). La scrittura di Fermariello evita con destrezza l’adattamento banale della trama e dei caratteri mescolando e inventando, così da prendere lo spettatore in contropiede. Insomma i presupposti per un lavoro interessante ci sono, forse manca ancora un graffio teatrale: tutto è racconto e la presenza dei due interpreti in scena non è supportata da azioni fisiche che abbiano un valore drammaturgico e scenico, non bastano le canzoni dal vivo, l’allestimento sconta comunque una freddezza, una certa lontananza, soprattutto nella prima parte. Lo spettacolo comincia a diventare coinvolgente quando la scrittura emerge nonostante la staticità scenica e tramite i nuovi snodi narrativi. Nella riscrittura di Fermariello, ad esempio, i due giovani si troveranno a fronteggiare il padre di lei che troverà della droga nascosta in camera, come nelle più classiche tragedie dei bassifondi moderni. Muore un padre dunque, non Tebaldo, e poi stacco di montaggio: siamo in teatro, il tempo di uno spettacolo con la scuola per poi salire sul tetto di un luogo abbandonato. Il suicidio è una scelta, tra fuga e pentimento. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro dei Rinnovati per In-Box dal Vivo 2023. Crediti: liberamente ispirato a Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Regia: Stefano Cordella Drammaturgia: Tommaso Fermariello Attori: Attori: Caterina Benevoli, Duccio Zanone Musicista: Gianluca Agostini
FAG/STAG. AMICI DI GENERE (di Gabriele Colferai)
Ha vinto il FringeMI nell’edizione dell’anno scorso conquistandosi un posto nella programmazione del Teatro Elfo Puccini (rassegna Nuove Storie), partner del festival. In realtà Fag/Stag. Amici di genere, prodotto da Dogma Theatre Company, è un lavoro tutt’altro che italiano, tutt’altro che milanese come il festival che l’ha lanciato. Le sue origini affondano in territori più remoti e desertici, come quelli degli orizzonti australiani: Jeffrey Jay Fowler & Chris Isaacs sono gli autori che ne firmano la drammaturgia lasciando tuttavia ampio margine alla rivisitazione e all’appropriazione da parte di chi la interpreta. Lo sanno bene Gabriele Colferai (anche regista dell’opera) e Angelo Di Figlia che in quel testo ci sguazzano, pasticciano, giocano e si divertono mescolando teatro e stand up comedy e offrendo una nuova geografia identitaria – dai sapori tipicamente milanesi - ai luoghi che lo popolano. Qui Ludo e Giammy sono due amici single (da fag stag, etimologicamente maschio senza compagna) che si ritrovano ad essere invitati al matrimonio di una ex in comune. Sulla soglia dei trenta vivono spaesati, quasi inconsapevoli della loro stasi esistenziale, bloccati dalla paura di diventare grandi e trovando il massimo godimento nelle nottate passate a sfidarsi alla play e a “matchare” su Tinder/Grindr. Allora durante il rituale del rimorchio si fanno da spalla, ammiccano e bisticciano come accade nelle amicizie di una vita. Eppure, nulla riesce a togliergli di dosso quella sensazione di vuoto e inconcludenza. Con un linguaggio immediato e nudo, diretto e scarnificato, Colferai e Di Figlia ci accompagnano in un viaggio che fin troppo conosciamo, ma lo fanno con dolce amarezza, con lo scherno di un riso e una consapevolezza che piace e si compiace della città che racconta. Non rimane che prendere parte a quel salto finale, nelle braccia dell’altro, prendere la rincorsa e buttarsi di nuovo nel flusso della vita. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Jeffrey Jay Fowler & Chris Isaacs, regia di Gabriele Colferai, con Gabriele Colferai e Angelo Di Figlia, produzione Dogma Theatre Company, spettacolo vincitore del FringeMI 2022
THE PRIVILEGED (di Jamal Harewood)
Jamal Harewood, a performance artist that makes theatre from the perspective of a black man. È lui stesso a presentarsi così in questo video sulle cinque lezioni che ha imparato dalla sua performance The Privileged, “from my Polar Bear Teacher, Cuddles”. Cuddles - Coccolino - è l’orso polare incarnato dal performer inglese con un costume da peluche gigante e che il pubblico trova addormentato al centro della scena costruita da un rettangolo di sedie sulle quali sedersi. Ben presto si scopre che l’unica possibilità di azione drammaturgica - svegliare l’orso - è imposta proprio al pubblico; aprendo una decina di buste numerate, disposte su alcune delle sedie, gli spettatori sono chiamati a confrontarsi con la provocazione del perfomer che spinge all’estremo il patto di finzione tra artista e spettatore, fino ad annientarlo. Con un dispositivo costruito apposta per guidare nell’incontro con l’orso polare, Harewood indaga gli effetti di razzializzazione, razzismo e identità nella comunità. Il risultato è un esperimento collettivo che scava nel singolo e allo stesso tempo mette in dubbio le regole del gruppo. Ogni replica è diversa dall’altra, perché ogni nuovo pubblico costituisce una nuova comunità, con le sue regole da impostare. Esperimento, processo, costruzione di uno spazio e di un ambiente nel quale chiedersi: fin dove posso, fin dove possiamo? La provocazione di Harewood è talmente potente e ben incarnata che nell’invito alla finzione ci ritroviamo ancora più reali e nudi. Un’esperienza talmente intensa che ha poi bisogno di un momento di rielaborazione collettiva; l’artista lascia uno spazio al pubblico, un luogo altro da quello della performance, senza nessun conduttore, dove poter condividere riflessioni, sfogarsi, giustificarsi o anche solo ascoltare. The Privileged termina così, senza fine e senza applausi. Ognuno di noi è abbandonato a fare i conti con se stesso. The Priviliged wouldn’t exist without you. (Luca Lòtano e Valeria Tacchi - Redazione Multi.lingue ad Up To You 2023)
Visto a UP TO YOU Spettacolo dal vivo Festival 2023 - Qui e Ora Residenza Teatrale, progetto Praticare Alleanze in collaborazione con Festival Orlando, Daste. Crediti: di e con Jamal Harewood | A questo link (www.lerem.eu) puoi leggere l’intervista che la REdazione Multi.lingue/Come Together del Festival UpToYou ha fatto a Jamal Harewood dopo aver preso parte alla performance.
ONDE (di Simona Bertozzi)
Visto in anteprima a Bologna, poco prima dell’imminente debutto al Festival Danza Estate di Bergamo (8 giugno), il nuovo lavoro di Simona Bertozzi, Onde ispirato all’omonimo antiromanzo di Virginia Woolf (The Waves, 1931), sembra già fra quelli imperdibili di quest’estate. A partire dai performer (Arianna Brugiolo, Rafael Candela, Valentina Foschi), giovanissimi e perfettamente centrati e imbrigliati fra loro in un flusso che è forza e insieme fragilità, sempre singolari eppure plurali. (La creazione, la trasmissione e la consegna del gesto, quando avvengono senza ricatto di pratiche opache e impotenti, disseminano speranza.) Dal soundmaker, anch’egli in scena, Luca Perciballi, ‘ribaltato’ già di suo il giusto, in consistente sintonia con il progetto compositivo e la presenza dei corpi che lo precedono, capace quindi di esistere in solitudine o di balzare a gamba tesa (a voce spiegata...) perché «tutto è velocità e trionfo». E poi alla composizione coreografica, davvero articolata, complessa, propositiva pure bizzarra. Vi sono temi di movimenti ricorrenti, come la sospensione, la spirale, l’ondulare naturalmente, l’oscillare, il tremolare intenso e vibratile, il vacillare fluttuante, l’asincrono e poi il sincrono ma secondo una precisa drammaturgia della dissolvenza (perché, come in The Waves: «Niente dura. Un momento non conduce ad un altro»). Una partitura che senz’altro consuona in profondità con l’operazione di Woolf, che scandaglia e districa nel ritmo (della scrittura) i nodi i grovigli e gli intrecci del desiderio. Ma qui vi è molto di più: questa vita che balza nella forza dell’istante, rinuncia alla forma per stare «in acque agitate», per interporre coi corpi all’espansione dello spazio omogeneo la ricchezza espressivo-situazionale dello spazio vissuto. Con buona pace di Nadia Fusini, studiosa e (ottima) traduttrice di Woolf, The Waves non è un’esperienza di scrittura ‘sul tempo’ ma sulla sua affettiva spazializzazione. E qui, il pensiero coreografico di Simona Bertozzi, fra mille allargamenti e distensioni e contrasti, dà proprio il suo meglio. (Stefano Tomassini)
Visto in anteprima a Ateliersi; Progetto e coreografia Simona Bertozzi; Danza Arianna Brugiolo, Rafael Candela, Valentina Foschi; Musica originale eseguita dal vivo Luca Perciballi; Disegno luci Rocio Espana Rodriguez; Costumi Vicini d’Istanti; Organizzazione Roberto Berti.
IL TRIONFO DEL TEMPO E DEL DISINGANNO (coreografia di Saburo Teshigawara)
Tutto comincia, per il Barocco, con il disinganno. Fu come la rottura di una diga: «y solamente | lo fugitivo permace y dura» («solamente | il fuggevole ormai permane e dura»: così il Quevedo del nostro Bodini). Mentre molti discorsi sul moderno sono all’origine della Barok Renaissance: le iperboli di Gaudì come le visioni dei Ballets Russes dialogano tutte in flagranza con la musica barocca (di quella romantica non se ne poteva quasi più...). Per questo, l’occasione di riascoltare dal vivo il primo oratorio di Georg Friedrich Händel, composto ventiduenne a Roma nel 1707, su commissione illustre del mecenate e cardinale Benedetto Pamphilj che scrisse pure il libretto, equivale a riaprire una finestra. Teatrale ed estetica. Il Trionfo del Tempo e del Disinganno visto e ascoltato al Teatro Malibran in un nuovo allestimento affidato alle mille abilità sceniche del danzatore e coreografo Saburo Teshigawara, e alla sapiente, efficacissima, direzione musicale di Andrea Marcon, combina perfettamente gusto e sincretismo. Questa ipotesi scenica di una performance allegorica a quattro voci e altrettanti danzatori (a bassa densità di azione e quasi tutta risolta in un intenso bianco e nero), funziona qui benissimo. In una cura formale estremamente sobria ma efficace, come un moralista classico alla Montaigne e Pascal, Teshigawara predispone alcuni elementi cubici che incorniciano, comprendono o escludono i protagonisti, li costringono anche a un difficile (ma non impossibile) equilibrio, oppure li contengono come in uno spazio sicuro della presenza e della voce. Anche i costumi, perfetti, rendono dell’allegoria che incorporano l’essenza della loro possibilità di stare in scena. Fra le voci, il soprano Silvia Frigato (la protagonista Bellezza) è stata molto apprezzata soprattutto nel maggior impegno della seconda parte. Vi è stato anche lo spazio per un mirabile e rivelatore assolo di Teshigawara, su una musica di transizione tra gli atti, fluente e scattoso, con lo sguardo riflessivo su ciò che di Bellezza resta nel Tempo del Disinganno: è conversione di realtà. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Malibran di Venezia per VeneziaMusica e dintorni, interpreti Silvia Frigato, Giuseppina Bridelli, Valeria Girardello, Krystian Adam; danzatori Saburo Teshigawara, Rihoko Sato, Alexandre Ryabko, Javier Ara Sauco; maestro concertatore e direttore Andrea Marcon; regia, scene, costumi, light design e coreografia Saburo Teshigawara.
MARÍA (di Hangar Teatri)
Nel buio fa la sua apparizione un uomo claudicante con cappello e faccia sfregiata, bruciata; porta delle sedie sulle spalle e le posa con un tonfo alla sinistra del palco. Di nuovo buio. Manichini seduti uno accanto all’altro, due sedie vuote davanti occupate da una ragazza (Elena Delithanassis) e da un’altra donna, che si rivelerà una sadica infermiera (Ilaria Santostefano). Sono venuta solo per telefonare è uno dei Dodici racconti raminghi di Gabriel García Márquez che la regista triestina Delithanassis riceve in regalo da un’amica quando nel 2014 parte per la Colombia, e che decide di adattare nel lavoro María. Restituendo quell’indeterminatezza degli scritti di Márquez, la drammaturgia si connota sin da subito per apparizioni, lampi che illuminano scene autonome tra loro, le quali spazialmente sono collocate a destra o sinistra del palco e illuminate tramite sagomatori. La storia di María, ex ballerina, moglie e assistente del Mago Saturno è ambientata a Barcellona e “fotografata” teatralmente nell’ineluttabilità del suo accadere: dopo essere rimasta in panne, la ragazza accetta il passaggio su un autobus, il cui autista promettendole di farle chiamare il suo compagno, la conduce invece in un ospedale psichiatrico nel quale subirà abusi e trattamenti sanitari violenti. Il cast, alle attrici citate si aggiunge Marco Palazzoni nel ruolo del marito, sceglie un’interpretazione quasi clownesca, incantata, efficace più nella gestualità del mimo che nella parola. Rimangono registicamente in sospeso alcuni passaggi, primo fra tutti il legame tra l’uomo dell’inizio, quasi un narratore, con i protagonisti; oppure la voce femminile del finale che subentra per spiegare e concludere la vicenda. Nei silenzi, quanto nell’espressività corporea, questo immaginario evanescente, una finzione reale e un realismo finzionale, che unisce il linguaggio poetico del circo a quello del teatro di figura, denuncia con soavità ma vividezza politica lo spaccato sociale della repressione franquista. (Lucia Medri).
Visto al Festival Inventaria, Teatro Basilica. Crediti: adattamento e regia di Elena Delithanassis con Marco Palazzoni, Elena Delithanassis, Ilaria Santostefano; voci di Fulvio Falzarano, Tullia Alborghetti, Valentina Milan, Sergio Pancaldi; foto di Luca Innocente; produzione Hangar Teatri
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