Cordelia - le Recensioni

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LA MANO SINISTRA (di Industria Indipendente)

Secondo l’inveterata tradizione, canonizzata nel Vangelo di Marco (XXV, 32) il Figlio di Dio siede alla destra del Padre. Lì, pare, la realtà si offre particolarmente nitida allo sguardo, tanto da poter sentenziare “E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra” e ancora “[…] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. A sinistra, dunque, le fiamme della dannazione, fragore di corpi e anime liquefatte, lo scarto magmatico di una pulsione ordinatrice che, appunto, discrimina, segrega. Immaginiamo un paesaggio dove ogni cosa, liquefatta com’è, potrebbe sconfinare anche in altro. Industria Indipendente, aka Erika Z. Galli e Martina Ruggeri, riparte dalla progettazione di un paesaggio eccentrico, disegnato con La mano sinistra, quella del demonio, così come lontano da ogni centro era quel locus remoto di Klub Taiga, un po’ club, un po’ distesa boreale. Ci troviamo in sala come a sbirciare nella penombra alla fine di una festa, quando alcun* si ostinano a bisbigliare e ondeggiare fuori orario, mentre i più hanno svuotato lo spazio. In quell’atmosfera da balera anni ’70, densamente kitsch e misteriosa, un impasto di luci e suoni domina il linguaggio, distorce la vocalità, ubriaca il movimento. Quella de La mano sinistra non è una scrittura sopra le righe, né tra le righe, piuttosto è una pagina squassata, un palinsesto murale underground dove ogni autorialità è complice nello squattare l’architettura scenica. Come epifanie intermittenti si stratificano la coreografia trasognata di Annamaria Ajmone, la scrittura ipnotica di Galli e Ruggeri, il sound immersivo e straniante di Ruggeri, Iva Stanisic e Steve Pepe, le architetture luminose sempre impeccabili di Luca Brinchi, la presenza magnetica di Silvia Calderoni, ringmistress immaginifica e suadente. Echeggiando parole e metodi di Klub Taiga, La mano sinistra non ne costituisce però un secondo capitolo, così come non si danno indice e sinossi nei sogni, piuttosto un B side, che ricopre la stessa superficie del lato A, è fatto della stessa materia, ma emana un suono diverso. (Andrea Zangari)

Visto al Teatro India. Testi e regia Industria Indipendente (Erika Z. Galli, Martina Ruggeri); arrangiamenti musicali Steve Pepe, Iva Stanisic, Martina Ruggeri; luci e video Luca Brinchi, Erika Z. Galli; con Annamaria Ajmone, Silvia Calderoni, Martina Ruggeri, Iva Stanisic

L’ESTINZIONE DELLA RAZZA UMANA (di Emanuele Aldrovandi)

In un tempo pressoché indefinito e dalle tonalità neutre, ma così simile al nostro, un’epidemia virale che trasforma gli esseri umani in tacchini costringe l’umanità all’isolamento domestico. Salvo emergenze eccezionali e mansioni quotidiane necessarie, a nessuno è consentito uscire dal proprio confine abitativo, nemmeno per un po’ di jogging. È questo l’ingranaggio che aziona la macchina scenica e drammaturgica del lavoro di Emanuele Aldovrandi: il cortile interno di un palazzo, rievocato negli ambienti metallici di Francesco Fassone al pari di una cella, è il luogo di scontro tra le posizioni morali di un colorito vicinato. L’opposizione tra coppie, Mario e Andrea, Giulia e Anna, è lo strumento di innesto tra i dialoghi, che pongono la questione sul rispetto delle norme, sul bene pubblico, sulla fine del mondo, sulla speranza nel futuro. Le conversazioni tra i condomini si sviluppano così attraverso una verbosità schietta e concitata, tramite incastri di domande-risposte e si susseguono nell’evocare riflessioni, immagini, parole di un lessico che rivela soprattutto il suo sostrato traumatico (contagio, positivi, restrizioni). La scrittura apparentemente semplice di Aldovrandi, ma in fondo di una complessità rara e precisamente calibrata, chiede però allo spettatore di prendere parte a questo dibattito, perché testimone “neutro” delle argomentazioni trattate. E lo spettatore - che siamo noi in sala, noi che quelle fratture di moralità e pensiero le conosciamo bene, noi che quel periodo di isolamento l’abbiamo vissuto sulla pelle - finisce per immedesimarsi, cambiare punto di vista, facendo vacillare la propria presa di posizione, comprendendo la problematicità delle riflessioni di ognuno. È chiara, qui, l’intenzione dell’autore e regista di raccogliere le diverse visioni e di «spingerle alle loro più estreme conseguenze, non de-costruendole col tipico approccio post-moderno, ma piuttosto iper-estendendole, fino al punto di rottura, o al paradosso». E nel paradosso, abitando nuovi confini, queste visioni respirano e sopravvivono, anche alla inevitabile trasformazione collettiva di uomini in tacchini. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: testo e regia Emanuele Aldrovandi, con Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi, con la partecipazione vocale di Elio De Capitani

L’UNIVERSO NELLA TESTA (di D.Ninarello, C.Donà, S.Lanza)

«Dentro a una vertigine che danza» vorticano nelle onde vocali le parole di Universo della cantautrice Cristina Donà nell’Arena del Teatro India. Sul palco bianco, vestita di nero con due punti di luce al lato degli occhi, è una visione che ci incanta e canta di altri spazi, di orbite planetarie, di protoni che si incontrano, amorevolmente. Tra il pubblico di Fuori Programma Festival, alcuni intonano sommessamente i testi delle sue poesie, dark metropolitano da sempre un po’ stellare, che ora dialoga con la danza del coreografo Daniele Ninarello e la ricerca sonora della voce, chitarra e live electronics di Saverio Lanza, già produttore e collaboratore di Donà. L’Universo nella testa è una galassia creativa inedita, una triade nata per caso nel progetto Perpendicolare, durante una residenza che gli artisti stavano svolgendo singolarmente a Fabbrica Europa. Ma torniamo all’inizio, quando i corpi dei tre performer “sono caduti” a terra o seduti, e di spalle alla platea, Ninarello ci invita a sentire proprio la nostra materia, la nostra fisicità. Con un verso di Siamo vivi, poco dopo Donà, capelli al vento e occhi socchiusi, chiederà «Da quanto non ascolti il tuo silenzio?». E anche se alcuni di noi vorrebbero alzare la voce sull’incedere affannato di Triathlon, quell’energia da concerto, dopo sollecitata dalla cantante, si traspone, mimeticamente, nell’osservazione della danza di Ninarello che, muovendosi intorno alle due figure musicali, delinea una coreografia di raccordo impostata sui moduli che contraddistinguono la sua cifra di geometrie flessuose: corse, salti, braccia agitate come fendenti, pugni, smorfie anche, rotazioni, le quali si intersecano ai glitch sonori e campionamenti. «È così chiaro se ci pensi, noi che siamo niente, divinamente nell’eterno» dice il brano L’infinito nella testa, e nell'elegante forma di questo ensemble, tutto viaggia nella connessione di infinitesimali frammenti di voce, suono, gesto condivisi, imitati, che si aprono alla vastità dell’emozione, del ricordo, e scende la luce sul solstizio d’estate. (Lucia Medri)

Visto a Fuori Programma Festival Crediti: Voce e chitarra: Cristina Donà; Coreografia e interpretazione: Daniele Ninarello; Piano, chitarra, elettronica: Saverio Lanza; Produzione: Fondazione Fabbrica Europa, Associazione CodedUomo, Foto di Giuseppe Follacchio

MOLTO DOLORE PER NULLA (di Luisa Borini)

Ha un abito rosso, semplice, che le cade giù sul corpo; sembra un abito per un appuntamento senza troppe aspettative, o per mille appuntamenti diversi e tutti uguali, in cui essere bella, avere l’ansia, portare pene e disordini e incontrarsi con qualcuno che possa, chi lo sa, fonderli insieme. L’attesa di un appuntamento, sembra questa l’immagine entro cui inizia il Molto dolore per nulla di Luisa Borini: lei sola in scena, circondata di led e di tutti quanti gli uomini che ha incontrato e che presenta in una lista, seguendo un ordine da stand up comedy, attraverso una recitazione frontale, divertita, che fa partecipare la platea al proprio disagio, corredando la propria narrazione sulla “lista di fidanzati” con estratti di canzoni celebri che ricalcano uno stereotipo amoroso. Eppure, tra le mani ha un microfono con il filo. Ed è allora che tutto cambia. Il racconto brillante pian piano le si stringe attorno con il filo del microfono, è ciò che le dà la parola ma allo stesso tempo è l’elemento che la incatena: l’incontro con il fratello del suo coinquilino di Bologna, un ragazzo incredibilmente bello, interessante, avventuroso, premuroso, ma che via via si trasforma in un mostro che le toglie dignità e libertà di essere sé stessa, che la convince di essere una nullità, annienta le sue necessità accecato da una gelosia soverchiante. La leggerezza della prima parte, dunque, non è che una deviazione illusoria rispetto all’obiettivo finale: l’amore può trasformarsi nel suo opposto e raramente ci si accorge mentre accade, o forse sì, ma per vergogna si nega. Borini, al primo testo e prima regia, interpreta una storia semplice, diretta, capace di una linearità strutturale, che di certo è alla ricerca di una approvazione e ciò mitiga un necessario conflitto scenico, ma pur timidamente appare una riflessione che sembra il punto nodale: tra essere e sentirsi sbagliata c’è anche la scoperta sorprendente del proprio ruolo in una storia in cui si è vittima ma in cui, allo stesso tempo, è tanto difficile accettare la propria responsabilità. (Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di e con Luisa Borini

Speciale Inteatro Festival 2023

Da decenni Villa Nappi è il cuore della ricerca performativa marchigiana: spazio residenziale e apertura internazionale con lo storico festival Inteatro. Alle spalle c’è il tric, Marche Teatro, diretto da Velia Papa che nella rassegna estiva vede la possibilità di sperimentare i nuovi linguaggi anche attraverso le visioni e le poetiche di giovani artisti. Quest’anno ad esempio Inteatro ha aperto un bando dedicato ad opere site specific che incontrassero il tema della salvaguardia ambientale. Lo spazio pubblico all'aperto si è così popolato di immagini, corpi, scritture coreografiche in cerca di una relazione con il parco che circonda la villa ottocentesca. E poi il Teatro della luna, spazio scenico atipico per nascita e conformazione: la struttura ricorda quella di un palazzetto dello sport (con l’ultima ristrutturazione hanno sistemato dei pannelli fonoassorbenti che scendono dal soffitto come una sorta di installazione permanente) e fu costruito nel 1982 con la collaborazione del Teatro Valdoca, all’epoca giovane compagnia.

ULTRA (di Nicola Galli)

Di Nicola Galli avevamo scritto parlando di quello spettacolo prezioso che era Il mondo altrove. Nel panorama della giovane danza contemporanea italiana (o del teatro fisico) Galli si contraddistingue per una ricerca improntata anche alla creazione artigianale (per il lavoro precedente si pensi alle maschere e agli oggetti, oltre che allo spazio scenico) che in questo nuovo Ultra si manifesta in un paesaggio total black. Una sorta di ghiaia nera ricopre il palcoscenico del Teatro della Luna, per lunghissimi minuti l’unica azione è rappresentata dall’accendersi e spegnersi di alcune luci emananti da alcuni parallelepipedi bianchi, piccoli totem lucidi. Poi lentamente quelli che sembravano due dossi di un paesaggio montuoso in miniatura cominciano a muoversi: sono umani? Lo sono ancora? Sentiamo respiri affannati, come se provenissero da uno scafandro sott'acqua. Sono i due abitanti di un mondo nuovo e senza speranza, strisciano, combinano le proprie figure diventando altro; prima di raggiungere una posizione eretta possono sembrare due vermi. In questo caso Galli (in scena insieme a Massimo Monticelli) non utilizza la maschera ma non rinuncia a negare l’esposizione dei volti al pubblico. I due si muovono, lentamente, ripetendo gesti e posizioni, dentro a dei costumi neri che sembrano spesse tute aliene, con un copricapo da cui discendono lunghe treccine nere. Nonostante una certa fatica nella parte centrale, il lavoro d’altronde non concede snodi narrativi e la coreografia non sempre sorprende o suggestiona, vi è una una forza visiva e installativa notevole. Ultra interroga lo spettatore proprio attraverso l’assenza di parole e segni con cui spiegare e fare chiarezza. La visione di Galli - al di là del pessimismo - è spietata e misteriosa. L’artista emiliano è il creatore di un teatro di enigmi e in questo caso non ci sentiamo spettatori di fronte a una distopia fantascientifica: quel magma nero è il nostro futuro, quegli esseri ultra-umani che si muovono come vermi sotto terra siamo noi, se continueremo a non prenderci cura di ciò che ci circonda. (Andrea Pocosgnich

Teatro della luna, Inteatro Festival 2023. Concept, regia e coreografia Nicola Galli danza e creazione Nicola Galli, Massimo Monticelli allestimento e luci Margherita Dotta, Nicola Galli dramaturg Giulia Melandri

WORK.TXT (di Nathan Ellis)

Era da un po’ che non si vedevano spettacoli di teatro partecipativo, vera e propria moda per qualche stagione fino a 4,5 anni fa. Allestita nella versione italiana per la prima volta da Marche Teatro, l’idea del regista britannico Nathan Ellis parte da un presupposto simile a quello visto nella Conferenza degli assenti di Rimini Protokoll, non ci sono attori, gli spettatori devono dare voce alla drammaturgia. Le istruzioni, come fossero delle didascalie, appaiono sul fondale: i livelli di interazione sono due, uno più semplice e immediato, il pubblico dai propri posti deve leggere le battute che appaiono, oppure uno più rischioso nel quale viene chiesto a dei volontari di salire sul palco e leggere al microfono o ripetere quello che ascoltano grazie a delle cuffie. Ora, è chiaro che la croce e delizia del teatro partecipativo, lo abbiamo scritto altre volte, è in quella variabile umanissima rappresentata da chi vi partecipa. Uno degli spettatori darà il nome al protagonista, nella nostra serata si chiamava Filippo, la vicenda prende le mosse da un gesto di opposizione passiva di Filippo, il quale durante una giornata lavorativa, nel proprio ufficio, a un certo punto si sdraia in terra rimanendo in quella posizione per sempre. C’è qualcosa di Calvino e del suo Barone, ma soprattutto nel gesto c’è un rimando alla questione lavorativa che è tornata al centro del dibattito internazionale con la pandemia. Il testo è infatti la qualità migliore di uno spettacolo che risulta però teatralmente troppo esposto alla capacità del pubblico di organizzarsi. Al debutto ad esempio la voglia di partecipare era tale da risultare scomposta, con sovrapposizioni e rallentamenti; in questi casi il rischio “Corrida” è dietro l’angolo. Peccato, perché la drammaturgia nel finale ha mostrato ancora una volta qualità poetiche e ironiche, con il racconto di un tempo infinito trascorso dopo l’azione di Filippo, un tempo in cui viene scandito - sempre con la tecnica della didascalia proiettata sullo schermo - il passaggio di migliaia e milioni di anni; Filippo non si sarà mai rialzato e intanto l’universo avrà fatto a meno degli esseri umani.

Cortile di Villa Nappi, Inteatro Festival 2023. Scritto e diretto da Nathan Ellis prodotto da Eve Allin produttore originale Emily DavisPer la versione italiana produzione Marche Teatro Crediti e cast completi

Io. Tu. Io e te. Tu ed io. Noi. Loro. Noi e loro (Alessandra e Roberta Indolfi)

Dopo aver visto la breve performance ripensata per uno spazio all’aperto di Villa Nappi si rimane abbastanza sbalorditi nel sapere che Alessandra e Roberta Indolfi hanno non più di 22 anni. Sono gemelle, vengono da Monopoli e ogni tanto rischiano di rispondere insieme, hanno le idee chiare e probabilmente andranno all’estero per approfondire la loro formazione cominciata, per la danza, con il triennio della Paolo Grassi. Avevano già presentato questa performance a Dominio Pubblico, il festival romano dedicato agli under 25; a Polverigi hanno potuto condividere il programma con artisti più esperti, confrontandosi con visioni, attitudini e poetiche differenti. Di fronte a “Io. Tu. Io e te. Tu ed io. Noi. Loro. Noi e loro. il pubblico è attento e suggestionato, da un’atmosfera tesa e inquietante nella quale i due corpi identici si incontrano entrando e uscendo dalle aperture laterali per creare il più classico degli effetti illusionistici, poi il gioco sul doppio rimane, ma si affina. Lo spazio attorno diventa scenico nel momento in cui le due performer cominciano a utilizzarlo: una in bilico supina su una ringhiera, l’altra a corpo morto su un cancello. In shorts e top monospalla bianchi, un viso che non tradisce emozione se non quel filo di perturbante inquietudine negli occhi. Si alza un  po’ di polvere, si sente il rumore della ghiaia che scricchiola sotto ai piccoli e veloci piedi delle gemelle, si scambiano di posizione, una delle due fa una smorfia, mostra i denti prima di dare il là a una veloce partitura coreografica.Nel finale la relazione tra i corpi, a tratti simbiotica, a tratti complementare, esploderà in una tensione quasi violenta e le due stringendo con forza l’una i pantaloncini dell’altra, cominceranno a spostarsi verso l’uscita della villa. Noi in lontananza vedremo una danza che diventerà una lotta inquadrata in un campo lungo cinematografico; verrebbe voglia di seguirle, ma l’immagine si staglia, grazie alla lontananza, con efficace pervasività su un paio quasi surreale.

Cortile di Villa Nappi, Inteatro Festival 2023. coreografe ed interpreti Alessandra e Roberta Indolfi musica Undular – Caterina Barbieri drammaturgo Diego Pleuteri

I GRECI, GENTE SERIA! COME I DANZATORI (Quotidiana.com)

Quattro minuti di silenzio, le braccia immobili e tese in avanti: “stavo pensando”, dice infine Roberto Scappin, sussurrando. Un’immobilità energica che racconta la fatica del pensiero senza prenderla sul serio: è la sintesi estrema dell’ultimo lavoro dei Quotidiana.com, che debutta a Primavera dei Teatri dopo aver vinto il Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche “Dante Cappelletti” 2022. La cifra del duo romagnolo è sempre riconoscibile: arguta abilità di un dire flemmatico che trasfigura la densità del pensiero in leggerezza devastante. Qui il corpo, impegnato in una coreografia esistenziale a velocità 0.20x, gareggia con la parola; mentre questa rimbalza tra Scappin e Paola Vannoni, consueta altalena ironica e amara, i corpi si allineano in una danza sincrona, dapprima accennata, poi sempre più rigorosa. La mente pensa e il corpo danza, o succede il contrario? Non ci si raccapezza. Allora serve rifarsi ai Greci, gente seria, come recita l’adagio del filosofo virale. Non trascurare più il rapporto tra vita intellettuale e dimensione corporea, porvi rimedio, significa scoprire che anche le fibre muscolari sono capaci di astrazione e possono ottenere ciò che la parola non può raggiungere. La mente però non perde il suo piedistallo: tramite la parola, abracadabra che crea, può agire sul corpo (“se uno mi dice cretino vado in vasodilatazione”). Il doppiofondo di questo teatro sta tutto nei contrasti che ne sono l’ossatura: la perizia mascherata da gesto goffo, l’ironia celata dietro i volti neutri e un po’ contriti dei due, la voluta fiacchezza della loro presenza in stridente contrasto con il moto continuo dei corpi. Persino il contesto teatrale e la dimensione scenica sono smascherati, dichiarati strumenti utili a una (non) rassegnata curiosità per l’umano. E allora mettiamoci il fumo in chiusura, un pezzo dei Placebo a tutto volume e inventiamoci una fine amara e potente, ché fortunatamente, come i Greci, sappiamo di esser mortali. (Sabrina Fasanella),

Visto al Teatro Sybaris, Primavera dei Teatri – Prima Nazionale ideazione, drammaturgia e messa in opera di Roberto Scappin e Paola Vannoni coproduzione quotidianacom, Tuttoteatro.com, Kronoteatro con il sostegno di Regione Emilia Romagna Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche “Dante Cappelletti” 2022

FELICISSIMA JURNATA (Putéca Celidònia)

Fumo denso e ambrato e uno stridere di strada accompagnano il pubblico del Teatro Sybaris verso una sagoma imponente in penombra. Un’immagine suggestiva chiama da subito in causa lo spettatore, accecandolo con un fascio di luce calda che dall’alto e dal fondo disegna una figura umana. Antonella Morea appare in cima all’altissima struttura conica (vulcano, vestito), dalla quale troneggia e nella quale è incastrata. È la Winnie di Giorni Felici, ma siamo a Napoli, nei vicoli della Sanità dove nasce e vive la giovanissima compagnia Putéca Celidònia, animata da artisti e maestranze under 30. Frutto di un lavoro di anni nei bassi del quartiere, questa esplicita riscrittura (presentata in prima nazionale al Festival Primavera dei Teatri) sovrappone la grazia raggelante di Beckett con la risoluta concretezza partenopea, mondo che ruba luce alla penombra, dove la felicità non è un obbligo borghese, ma un canto tra le macerie. Come lava palpitante, una colata di parole sgorga dalla gola ruvida e calda di Morea, nel cui vestito/prigione si nasconde Lello (Dario Rea), un Willie/Calibano docile, incastrato nell’arredamento irrazionale tipico del basso napoletano. Le voci raccolte nei vicoli e cucite insieme da Emanuele D’Errico sullo scheletro beckettiano a tratti irrompono reali, registrazioni di racconti quotidiani, quasi un omaggio o un monito di realtà. Ma è la poesia che le eleva ad archetipo, impastando lingua e colore, in un articolato collaborare di suono, luce e voce. Così l’orizzonte desolante di Giorni Felici diventa tenerezza e dignità, cambiando di segno l’assunto beckettiano: forse è felicità anche la solitudine che non si piange addosso, il calore dei dolori conosciuti, la confidenza con il dubbio e il suo sapore amaro. Non più plurimi e generici momenti di gioia posticcia, ma il superlativo di un solo momento apicale, dove fine e inizio coincidono in un’unica Felicissima Jurnata. (Sabrina Fasanella)

Visto al teatro Sybaris, Primavera dei Teatri. Drammaturgia e regia Emanuele D’Errico. Con Antonella Morea e Dario Rea e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità. Scene Rosita Vallefuoco. Musiche originali Tommy Grieco. Suono Hubert Westkemper. Luci Desideria Angeloni. Costumi Rosario Martone. Aiuto regia Clara Bocchino. Produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia. In collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022. Con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania

CITTÀ SOLA (Lacasadargilla)

Scrive in prima persona Olivia Laing, facendo dell’incontro tra autobiografia e saggistica la sua cifra: l’aneddoto personale si fa pretesto per un’indagine profonda e ampia di luoghi e soprattutto persone. Città sola, il suo primo lavoro pubblicato in Italia, rientra in questa definizione di saggio intimo. Lacasadargilla ne coglie spunti e temi per farne materia di lavoro teatrale. L’esperienza di solitudine e la suggestione proveniente dallo spazio urbano di New York porta l’autrice a interrogare e farsi amici i fantasmi di grandi artisti e grandi solitari come Wharol, Hopper, David Wojnarowicz, Klaus Nomi. Emerge la conferma di come l’arte sia cura, ascolto, presenza, medicina o veleno, in ogni caso eredità. Il carattere compilativo del testo non lo rende immediatamente traducibile in drammaturgia: non a caso il primo approccio della compagnia lacasadargilla al bestseller è un progetto sonoro, un podcast che ricalcava sulla metropoli milanese l’idea dell’attraversamento urbano, proponendo allo spettatore l’ascolto in cuffia delle parole di Laing (la stessa formula, rimodulata sul parco di Tor Fiscale, verrà proposta durante il festival Attraversamenti Multipli 2023). A Primavera dei Teatri ha debuttato la versione scenica di questo lavoro modulare. Nel trasporlo dal solo suono alla messa in scena, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni ne affidano la mediazione al corpo vagante della regista. Insieme lettrice della Laing e Laing stessa, Natoli dispiega i sette capitoli di questo percorso circondata dalle immagini mutevoli di una scenografia proiettata e sostenuta da un denso ambiente sonoro. Il percorso tra immagini e biografie si articola dando ampio spazio alla parola scritta, la cui presenza è enfatizzata dal corposo interagire di Natoli con libri e dispositivi di lettura. Il risultato è una sorta di conferenza spettacolo sull’arte contemporanea che dice più che tradurre in segno teatrale la solitudine che racconta. (Sabrina Fasanella)

Visto al Capannone Autostazione di Castrovillari per Primavera dei Teatri. Di Olivia Laing. Traduzione Francesca Mastruzzo. Riduzione e drammaturgia Fabrizio Sinisi. Regia Alessandro Ferroni e Lisa Ferlazzo Natoli. Con Lisa Ferlazzo Natoli. Voci registrate Emiliano Masala, Tania Garribba. Ambienti visivi/spazio scenico Maddalena Parise. Paesaggi sonori Alessandro Ferroni. Luci/direzione tecnica Omar Scala. Costumi Anna Missagllia. Sound design Pasquale Citera. Aiuto regia Matteo Finamore. Coordinamento artistico Alice Palazzi. Una produzione lacasadargilla, Angelo Mai, Bluemotion, Teatro Vascello La Fabbrica dell’Attore. In coproduzione con Theatron Produzioni. In collaborazione con Piccolo Teatro Milano. In network con Margine Operativo/Attraversamenti Multipli

NAPOLEONE. LA MORTE DI DIO (di Davide Sacco)

Destinato per nome ai fasti del potere, Napoleone II fu imperatore solo per due giorni prima di vedere il cugino, Luigi III, portargli via il titolo. Se ne andò, a causa della tisi, ventunenne, nel 1832; era dunque già morto quando nel 1840 tornarono in patria le spoglie del padre. La morte di Dio di Davide Sacco insomma non può essere uno spettacolo storico, e dunque dalla storia prende solo ispirazione per mettere in scena un figlio frustrato che piange il padre. Vorrebbe essere invenzione metaforica e poetica, ma il ricordo del giovane corre sul filo del sentimentalismo. In scena una lunga panca, della terra, due comprimari relegati a servi di scena, una (Simona Boo) canta di tanto in tanto e l’altro (Amedeo Carlo Capitanelli) gestisce delle azioni fisiche per movimentare quello che difatti è un monologo con l’interpretazione pulita ma abbastanza monotona di Lino Guanciale. Sul fondale un telo e una grande scacchiera di fari caldi che poi verranno puntati sul pubblico. Il testo prende le mosse da Victor Hugo che in un libricino, I funerali di Napoleone, raccontava con abilità e dettagli documentaristici la celebrazione delle esequie in quel 15 dicembre 1840 e difatti i momenti drammaturgicamente più riusciti sono quelli in cui si fanno spazio le immagini e i racconti della storica giornata. Ma si ha difficoltà a comprendere l’idea di teatro che dovrebbe emergere da questo allestimento: Guanciale, con una maglia scura abbottonata da un lato, usa la prima persona, si strugge nel ricordo di questo padre rimanendo chiuso in un approccio finzionale poco credibile e non giustificato dagli elementi drammaturgici. Se questo personaggio non è il figlio di Napoleone, chi è? Da dove parla e in quale relazione è con la platea? Non basta la voce rotonda e affabile di Guanciale. Il pubblico del Campania Teatro Festival applaude, qualcuno alza i telefoni per fotografare il protagonista ai saluti, a loro sì, basta il proprio idolo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Politeama, Campania Teatro Festival. drammaturgia e regia Davide Sacco con Lino Guanciale scene Luigi Sacco luci Andrea Pistoia aiuto regia Claudia Grassi organizzazione Ilaria Ceci, Luigi Cosimelli comunicazione Raffaella Martellotti, Emiliano Luciani ufficio stampa Carla Fabi, Roberta Savona produzione LVF

L’APERTO (di Lucia Guarino)

Tra la flora disordinata e selvatica di Villa Mercede, di fronte la Biblioteca Tullio De Mauro, un corpo esile e illuminato dalla luce a neon del lampione incede lentamente; agli angoli, alti alberi fungono da quinte. Nel buio, con la testa china, la danzatrice e performer Lucia Guarino, in questo suo L’aperto perlustra l’ambiente procedendo a piccoli, minimali e graduali passi, a ricordare la poetica della Nexus Factory di Simona Bertozzi della quale Guarino è artista associata. Prendendo le misure e circoscrivendo lo spazio attorno a sé, tiene in mano quella che, a primo acchito, risulta essere un’asta/bastone, funzionale proprio a quell’operazione di avanscoperta. De Il versante animale di Jean-Christophe Bailly, testo da cui l’autrice trae ispirazione, rintracciamo l’attitudine al non addomesticamento, alla coabitazione di un habitat attraverso l’imprevedibilità della relazione tra le specie. L’asta allora diventa un pannello steso e poggiato dalla danzatrice al centro della “scena”, come un visore, la cui rifrangenza metallica segna un’ulteriore simbiosi coi metalli nativi che si trovano in natura. La musica, è una dimensione sonora che affina percettivamente i sensi della vista e dell’udito, non è invadente ma contigua al movimento e allo stare del pubblico astante, seduto a terra e sulle panchine. Il corpo umano, dopo la quasi immobilità iniziale, si espande in una gestualità fluida e direzionale a tracciare diagonali, costruita su una frontalità variabile, che si allarga tra le piante, i cespugli, gli alberi, respirando del respiro dell’ambiente circostante. (Lucia Medri)

Visto alla Festa della Danza. Crediti: di e con Lucia Guarino

SIMPATIA N.6 CONCERTO PER CAMPANILE E CORPO (di F. Lilli e V. Sansone)

Con la testa all’insù verso il campanile, un gruppo di persone attende in silenzio, nonostante si senta in lontananza quell’ansia del traffico, dei clacson, di frenate e ripartenze. Una zona di decompressione, in cui ascoltare lo sfrecciare delle rondini, le risate dei gabbiani, il vociare da tavolino da bar e partecipare a Simpatia n.6 Concerto per campanile e corpo di Filippo Lilli (sound artist e musicista) e Valentina Sansone (performer), programmato durante la prima edizione della Festa della Danza nel piazzale antistante la Chiesa di San Giorgio in Velabro, nel rione Ripa. Dopo aver scongiurato l’eventualità del diluvio, Lilli e Sansone salgono sulla torre del campanile romanico dando inizio a questo diletto gioioso, relazione vibrante e sinestetica tra musica, corpi (della performer e dell’architettura), spazio, persone e, anche, sacralità. Come fosse un rito medioevale, l’inizio di una giostra, Sansone scioglie dei lunghi nastri che accarezzano la torre seguendo il rintocco della campana sostenuto da Lilli, la cui partitura fissata si concede però delle "improvvisazioni ambientali". La danza, aerea, dei nastri in alto dialoga con quella di Sansone articolata in basso, alla base del campanile, in corrispondenza dell’arco degli Argentari, i cui bassorilievi fungono da ulteriore scenografia. Il costume (di Vittorio Gargiuolo) è un’imbracatura leggera di nastri che riprendono il colore di quelli sciolti dalla torre, e legati da anelli a suddividere il corpo in una serie di parti, alle estremità delle quali i merletti ricordano delle gorgiere, che prima di diventare dei colletti per l’abbigliamento facevano appunto parte delle armature. Il dindondare si incarna nella coreografia, che ne dà rappresentazione tangibile e vivente, liberata e entusiasmante nell’espressione del volto di Sansone, un’estasi coinvolgente, semplice e evocativa che termina, e ascende, svanendo nella rarefazione di fumogeni colorati. (Lucia Medri)

Visto alla Festa della Danza. Crediti: di e con Filippo Lilli e Valentina Sansone, costume Vittorio Gargiuolo

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