Cordelia - le Recensioni

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SEMIDEI (di Pier Lorenzo Pisano)

Il dettaglio di un’anfora del VI secolo a.C : finisce con un’immagine la lettura scenica di un estratto di Semidei (edito da Einaudi nel 2023 assieme ad un altro testo, Per il tuo bene). Pier Lorenzo Pisano la usa come una lamina, che agisce nella memoria visiva dello spettatore per fenderne gradualmente le membra. È un’immagine feroce, di guerra e di dolore, di morte nella morte, di fine. Perché nessuno è più rimasto vivo, sotto il cielo giocondo degli dèi. Né Achille, diventato nella scrittura sagace di Pisano un guerriero frignone che vuole scappare dal proprio destino e dal solo tallone che lo rende mortale. Né Menelao, “identità in sottrazione”, tutto e niente allo stesso tempo, qualificato nelle assenze, “scavato a fondo nei difetti”. Né Ettore, padre stucchevole che sogna solo il momento in cui tutto finirà, il momento in cui finalmente riuscirà a dormire. Popolato dai celebri personaggi del mito omerico, il testo di Pisano ne rilegge con sguardo pungente le disavventure; con uno stile fluido e disincantato lavora alla ricerca di una parola verbo-visiva che si costruisce progressivamente nei diversi quadri e che si dilata nelle luttuose ninnananne, usate come un rituale, stillicidio premonitore del dramma. Lo fa con un’ironia spietata ma ricca di equilibrio, distillandola nei dialoghi, nei cambi discorsivi e nelle immagini che rievoca, sempre legate all’antichità del mito e della tradizione orale. L’immediatezza del linguaggio avvolge le fragilità umane: sono le fragilità di tutti i tempi, i desideri mai avverati, i sentimenti mai espressi. L’autore abita questo spazio della negazione inserendovi la propria immaginazione e ricamando una nuova trama fatta di relazioni famigliari in cui possiamo tornare a riconoscerci. Il testo è stato letto come situazione drammaturgica all’interno dell’edizione 2023 dell’Hystrio Festival, in collaborazione con Einaudi e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Pier Lorenzo Pisano, in collaborazione con Einaudi e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa, lettura scenica a cura di Tindaro Granata, organizzata in partnership con l’Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione

DITTICO DELLA DERIVA (di Niccolò Matcovich)

Segnalato dalla giuria del Premio Hystrio 2023 all’interno della sezione “Situazioni drammaturgiche”, Dittico della deriva è un lavoro minuzioso che si offre allo spettatore con una partitura poetica aperta alle possibili reinterpretazioni. L’architettura drammaturgica si compone di due sguardi ad incastro, quello maschile e quello femminile: sguardi assenti, sguardi dalla presenza ingombrante, sguardi taciuti, sguardi negati. La ritmicità poetica dei versi ne puntella le tracce, cristallizzandosi in immagini di segni indelebili lasciati sui corpi. Cosa resta di quella gita in barca? Un tradimento, una violenza. Resta la ferocia. Occhi di rabbia. Angoscia dilagante. I sussulti della carne. Resta una coppia che sa “solo stare, combattere la noia con invenzioni folli”. Resta un amore che non si riesce a dare, il grido di una verità che fatica ad uscire. Il testo procede bulimico, fagocitando le emozioni per rincorrere senza sosta i non detti, intensificando l’incomunicabilità tra i personaggi e lasciando talvolta dei vuoti in cui è il dolore a naufragare. Niccolò Matcovich si rivela in questo testo uno scrittore consapevole dei mezzi espressivi e linguistici che usa, gioca con la simmetria fonetica e con il montaggio delle immagini creando tuttavia cornici distinte in cui è possibile ritrovare assonanze, rimandi, accostamenti. La vicenda si carica così di un sostrato segnico ricco ma dinamico perché sempre frammentato dall’utilizzo del verso che rimane in attesa d’essere ricostruito. La lettura scenica a cura di Tindaro Granata tenta di darne una possibile interpretazione, utilizzando voci maschili e femminili che assumono e alternano entrambi gli sguardi, insistendo sull’ ingranaggio composto e dilatando la ritmicità poetica in una distesa testuale caratterizzata da più moduli. Concepiti in momenti della vita diversi, i due capitoli O mi ami o ti odio – LUI, O ti amo o mi odi - LEI risultano così sovrapporsi e intrecciarsi in un unico denso respiro. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Niccolò Matcovich, lettura scenica a cura di Tindaro Granata, organizzata in partnership con l’Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione

FELICIA (di Stefania Ventura e Quinzio Quiescenti)

Il Mercurio Festival, curato da Giuseppe Provinzano, è giunto alla sua quinta edizione. Come in passato, le artiste e gli artisti coinvolti sono stati selezionati da quelli presenti l'anno precedente, secondo il meccanismo democratico e partecipato che rappresenta lo specifico del festival. Nel corso della penultima serata abbiamo assistito a Felicia, di Stefania Ventura e Quinzio Quiscenti. Fingendo di avere poco più di sei anni, ci siamo confuse in una folla vociante di piccoli individui e genitori appena storditi. A differenza dei grandi, bambini e bambine sanno esattamente dove si trovano e per quale motivo: è tutta loro la storia che sta per iniziare. Protagonista ne è Felicia, strega colpevole – secondo gli abitanti del bosco – di minare la serenità di chi vive tra alberi e fronde. L'equilibrio dell'habitat è in pericolo, sospeso nel vuoto come la delicata piuma con la quale il Tasso (Stefania Ventura) danza ondeggiando sulla scena, all'inizio del racconto. Fiaba dolce e amara, Felicia è immersa nel buio di un'ombra densa come la notte, così scura da non permettere di conoscere l'altro e riconoscersi in esso. A rischiararla è una duplice speranza: quella che vive nella voce di Ventura, nei suoi occhi spalancati a sondare cosa si celi oltre il pregiudizio; quella che anima le bellissime luci di Gabriele Gugliara, affilate come se filtrassero attraverso chiome di alberi. Fra questi si consuma, inevitabile, l'incontro. Dapprima è lotta, animata da una poeticità rupestre e dura. Tra versi ferini, il tasso-umano e la strega-marionetta (bellissima creatura di Giorgia Goldoni, sembra uscire dall'universo di Miyazaki) costituiscono un'entità inscindibile. Il corpo di Ventura, abitato dal suo personaggio e dalla marionetta, ne esce duplice; duplici diventano gesti e voce, sostenuti da una delicatezza tenera ma decisa. L'epilogo è lieto, ma non troppo. Come nella vita, anche nel bosco l'amicizia è un rischio: perdersi nell'alterità. Con fiducia. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Mercurio Festival, Spazio Franco, Palermo. Crediti: di Stefania Ventura e Quinzio Quiescenti con Stefania Ventura trainer Quinzio Quiescenti compagnia Quintoequilibrio marionetta ibrida Giorgia Goldoni luci Gabriele Gugliara collaborazione alla messa a punto della drammaturgia Simona Gambaro scene Quinzio Quiescenti Produzione Quintoequilibrio e Teatro Evento

CARONTE (Camilla Montesi)

Ritrovo alla Vetrina di Ravenna anche la performance dedicata alla figura di Caronte di Camilla Montesi, con le musiche di Michele Uccheddu, vista a suo tempo al debutto di Santarcangelo, qui ora in uno spazio più ampio e francamente più adatto alle esigenze cinetiche di questa bravissima giovane interprete. Caronte è figura di transizione, di traversata, di guardianía, e nel corpo di Montesi diventa accettazione anche ironica di ciò che in tale congiunzione resta invisibile: l’esperienza di panico e della paura. Certo, sul personaggio grava soprattutto la memoria virgiliana e poi dantesca, ma qui nulla sembra ammiccare al tetro sfondo del viaggio ultraterreno, premessa letale del suo incontro. In scena, due soli oggetti essenziali: una piccola piscina gonfiabile (declassamento della “zattera di color ferrigno”?), e un casco nero da motociclista (utile riparo alle mazzate della vita? rifugio dallo sguardo malevolo dell’altro?). Ma il trapasso e il pericolo qui sono mere didascalie per pensare il confine (Anzaldúa diceva che ogni confine è creato dal residuo emotivo di un limite innaturale). Si tratta di un intenso assolo di danza pensato per impugnare ingiunzioni e imposizioni non richieste: Caronte, forza apparentemente ultimativa, si fa allora guida per una differente conoscenza del corpo e della mente. La sofferenza della perdita, forse; la natura di ogni passaggio, che comporti però dolore. Sorprende infatti il preciso disegno spaziale e la pregevole qualità di movimento di Montesi, che sembrano tenere perfettamente a bada ogni cedimento, ogni minaccia. Così come la gestualità precisa e dinamica combinata allo humor e contaminata da mille evocazioni, in grado di tradursi in visione poetica fondata sullo spazio-ombra di un confine. Resta anche l’aggancio virtuoso, in apertura della presentazione scritta, con una citazione da Sartre: «I diavoli sono gli uomini che guardano e il loro forcone lo sguardo». Esortazione o monito poco importa: occorre farla finita con il giudizio, e Caronte resterà senza lavoro. Stefano Tomassini.

Visto a Ammutinamenti Festival, Ravenna 2023. Credits: coreografia e interpretazione Camilla Montesi, musica Michele Uccheddu, disegno luci Alessia Cimarelli, coproduzione Santarcangelo Festival, con il sostegno di Scenario Pubblico_Compagnia Zappalà Danza.

LINGUA (Chiara Ameglio)

Alla Vetrina della giovane danza organizzata dal Festival Ammutinamenti di Ravenna, ho intercettato una bellissima performance di Chiara Ameglio, dal titolo Lingua, che mantiene (e rivela) molto più di quanto promette. È un lavoro che indaga nuove condizioni per una performance condivisa col pubblico, attraverso una forte prossimità fisica. E insieme mostra tutto il potenziale erotico di un consenso portato al limite, che investe direttamente il rischio dell’esperienza. La danzatrice, in uno spazio bellissimo, il salone di Palazzo Rasponi dalle Teste (Nomen omen), compare alle spalle del pubblico, si intrufola fra di esso e con un pennarello chiede di essere segnata e tracciata sulla superficie del suo corpo, secondo una volontà condivisa ma negoziata lì per lì, sul momento. Questi tracciamenti producono una performance composta di «eco di micromovimenti», che lei raccoglie e amplifica dall’azione di inscrizione sulla sua pelle, in seriali atti performativi che sono appunto “una nuova lingua”. E qui sta il bello: da una parte, il pubblico interviene sul suo corpo (quasi sempre sulla parte di corpo che la danzatrice pone in prossimità dello spettatore/scrittore, per vincerne resistenze e pudori) tracciando esclusivamente linee continue, mostrando un’attenzione al corpo dell’altro prevalentemente di natura spaziale, mai ritmica (nessun puntinare, né picchiettìo o ticchettìo nelle tracce, che avrebbe comunque prodotto la trasmissione di una cadenza, di un battito). Dall’altra, nella muta consegna della propria pelle come spazio di scrittura al pubblico, la parte anatomica più perturbante risulta essere la testa, il volto. Forse perché qui la prossimità con lo sguardo della performer è quella più alta, gli occhi sono il piano più ingiuntivo del vivente, e le condizioni di un consenso oltre il limite sono ora continuamente arginate, quando non bloccate, dal volto della performer, mentre già si prefigura, qui senza sviluppo alcuno, un successivo possibile incontro con l’opacità. Stefano Tomassini.

Visto a Ammutinamenti Festival, Ravenna 2023. Credits: di e con Chiara Ameglio, in collaborazione con Santi Crispo, musiche Keeping Faka, produzione Fattoria Vittadini | Festival Danza In rete. Creazione nata dal progetto Terrestri del Centro di Produzione La Piccionaia di Vicenza

ECHOLALIAS + IL TERZO REICH (Sofia Jernberg, Romeo Castelucci)

Tra il pubblico qualcuno ammette di non essere mai stato in questo luogo, il Teatro Nazionale, l’entrata è proprio all’angolo tra via del Viminale e via De Pretis; è la Roma turistica ma anche la Roma del potere. E d’altronde siamo qui per “una diade sul linguaggio e il suo potere”, così la curatela di Piersandra Di Matteo ha immaginato di ancorare l’installazione di Romeo Castellucci, Terzo Reich alla performance vocale di Sofia Jernberg, Echolalias, the Amnesia of Forgotten Sounds. La ricerca vocale e canora dell’artista svedese (ed etiope di nascita) mette in dialogo e in contrapposizione mondi sonori apparentemente lontani. Sussurri, rumori, fischi e un campionario di effetti con cui viene intessuta una stratificazione sonora terrena, animalesca e fisica in contrapposizione all’edificio vocale dolcemente melodico della tradizione italiana: dal barocco di O leggiadri Occhi Belli (anonimo seicentesco) e di Che si può fare (1664 Barbara Strozzi) a un frammento della Tosca di Puccini; con una parentesi sulla storia dell’Etiopia in cui Jernberg canta Adwa, di Ejigayehu Shibabaw, suggestiva canzone tributo alla storica battaglia. Basterà un buio e una luce che illuminerà una frazione di spina dorsale appoggiata sul palcoscenico per dare il via a Terzo Reich, la prima parola che appare sullo sfondo è come un colpo di pistola, ci sorprende e quasi spaventa. “Cosa”, “osso”, “legge”… i vocaboli inizialmente si percepiscono con una certa facilità, poi bisognerà intraprendere una lotta con la dittatura di questa macchina in grado di mitragliare decine e decine di termini al secondo. Il Terzo Reich di Castellucci è il fiume di parole in cui siamo costretti a vivere, un mare di segni senza discorso. Qualcuno si ribella ed esce, altri non riescono a staccare lo sguardo da questo flusso ipnotico, chi si abbandona e chi cerca di strappare di tanto in tanto il significato ai significanti, ma è sempre più difficile, le forme predominano: i sostantivi (tutti quelli presenti nel vocabolario italiano) si combinano, ora, per lunghezza. Prima della chiusura la macchina rallenta lasciando esplodere lentamente cinque vocaboli in grado di comporre interrogativi di un misticismo a tratti biblico: "concezione", “abisso”, “vittima, “frutto”, “orizzonte”. (Andrea Pocosgnich)

Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: foto Claudia Pajewski, Qui il link ai crediti di entrambi gli spettacoli

HAVE A SAFE TRAVEL (Eli Mathieu-Bustos)

Il finale è una fotografia muta, Eli Mathieu-Bustos guarda verso la platea. Passano interi minuti, lunghissimi e nulla accade se non quello sguardo; qualcuno mi suggerisce sottovoce che non può esserci un buio, una fine, perché questa è la realtà delle cose, del vivere quotidiano. Mathieu-Bustos è un artista giovanissimo - come molte delle scoperte internazionali di Short Theatre quest’anno - nato nel 1998 si è formato tra la Francia e Bruxelles, in questo lavoro inserisce all’interno di una coreografia fisica precisa e tagliente una narrazione tanto semplice quanto potente. Il racconto è un fatto realmente accaduto durante un viaggio in treno dal Belgio alla Svizzera. Un poliziotto entra nel vagone del giovane e comincia a interrogarlo e perquisirlo con con insolito zelo e malcelata pressione. Eli Mathieu-Busto racconta, con pochissimi gesti, soprattutto del volto, mostrando la propria nudità di cui non nasconde i tratti fisici femminili, perché quella nudità evidentemente è l’emblema di un corpo esposto alla violenza verbale e psicologica delle forze dell’ordine, un corpo razzializzato e indifeso. Chi sei? Cosa fai? Sono un danzatore. Il racconto si ferma solo per dare spazio alla partitura fisica, da quanto si legge derivata proprio da un'improvvisazione in grado di trasformare la violenza subita in scrittura fisica: senza musica gli arti tagliano lo spazio con una forza quasi da arti marziali. Basta sfogliare questo report di Fair Trials per rendersi conto della situazione europea circa razzismo e forze dell’ordine. Se in Francia nel 2022 una persona percepita come musulmana, magrebina o nera aveva 20 volte in più la possibilità di essere fermata la perquisizione raccontata dall’artista non stupisce (ma tocca e rattrista lo spettatore attento), racconta un dato reale e inquietante come d’altronde è inquietante l’ironia sinistra contenuta nella frase con cui il poliziotto saluta il viaggiatore, quel “Have a Safe Travel” che dà il titolo alla performance. (Andrea Pocosgnich)

Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: coreografia, drammaturgia, interpretazione, concept Eli Mathieu-Bustos produzione esecutiva Anaku lighting design Maureen Béguin sound design Loucka Fiagan con il supporto di Wipcoop/ Mestizo Arts Platform, Kvs, La Bellone, Be My Guest – International Network for emerging practices, Kaaitheater, La Balsamine, Desingel, Atelier 210, Anaku, Buda for the feminist futures festival, Belluard Bollwerk festival, Short Theatre festival. Foto Claudia Pajewski

IN A CORNER THE SKY SURRENDERS… (di Robyn Orlin, con Nadia Beugré)

C’è da riflettere su ciò che dicono alcuni sguardi che con attenzione considerano la scena di oggi, soprattutto quella proposta da luoghi come Short Theatre, Santarcangelo o Centrale Fies: stiamo forse assistendo a una lenta mutazione dell’accezione del termine “performativo”. Se oggi l'evoluzione narrativa sembra procedere per emersioni e spostamenti di densità, vedere un lavoro come In a Corner the Sky Surrenders della sudafricana Robyn Orlin ci ricorda che prima c’è stato un tempo in cui la drammaturgia del corpo aveva ancora il compito di svelarsi suddividendo il discorso delle immagini in blocchi semantici ben definiti. Con l’aggiunta di un secondo titolo – Unplugging Archival Journeys (for Nadia) – il solo che nel 1994 aveva consacrato la “danza arrabbiata” di Orlin si rianima nel 2022 per la coreografa e performer ivoriana Nadia Beugré. Ella contribuisce a rideclinare, aggiornandola al presente post-pandemico, quella lacerante meditazione sullo sradicamento e sulla solitudine. L’intera performance è agita usando come struttura modulare un grande scatolone da imballaggio che – squadernato, ricomposto ed eretto, quadro dopo quadro, su tutti e sei i lati – definisce ora uno spazio claustrofobico, ora un respiro di cielo, ora un palco per squallidi spettacoli di un effimero varietà. In un divertito dialogo con due altre figure, dietro a rispettive consolle ai lati del palco, e con una spettatrice invitata a eseguire un intimo massaggio, la performance è illuminata solo da una piccola ribalta di luci a led. La danza conduce un costante e divertito riesame critico delle posture, come nel tentativo di governare lo sguardo altrui mentre il discorso sulle «strategie di adattamento» sfocia in un rito propiziatorio alla libertà personale, consegnato come simbolico carico a un trenino elettrico incastrato in un binario circolare. Il corpo di Nadia Beugré è esplosivo, acuto nell’espressività e profondamente sensuale, dissacrante e irresistibile la sua danza che, mescolando tratti popolari ad accenti estremamente contemporanei, critica e demolisce ogni approccio esotista e coloniale. (Sergio Lo Gatto)

Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits:Un progetto di Robyn Orlin, creato nel 1994 e rianimato nel 2022 performer Nadia Beugrécostumi Birgit Neppl ricostruzione del set Annie Tolleter direzione tecnica Beatriz Kaysel Velasco e Cruz musica e sound Cedrik Fermont

MINING STORIES (di Silke Huysmans e Hannes Dereere)

La diffusione mediatica di un fatto di cronaca ha un impatto rilevante sull’opinione pubblica, determina la presa d’atto della comunità cui si riferisce (secondo gli effetti: locale, nazionale, umana) attraverso la discussione del fatto in sé e, contestualmente, le testimonianze ad avvalorarne importanza e veridicità. Se se ne tracciasse un grafico, si vedrebbe al momento della notizia il picco più alto, con un contraltare in basso nello spazio del prima, quando cioè un fatto può essere prevedibile, e del dopo, quando c’è da valutare più lucidamente gli effetti. Proprio in questo settore si situa il lavoro Mining Stories di Silke Huysmans e Hannes Dereere, presentato in apertura di Short Theatre 2023, primo capitolo (2016) di una trilogia sullo sfruttamento del sottosuolo. Storie dell’estrazione o, all'opposto, Estrarre storie, la traduzione. Ma il risultato non muta. Infatti il lavoro si compone di una raccolta di storie che riguardano una storia originaria: il crollo di una diga in Brasile, a pochi passi dalla casa natale di Huysmans, il 5 novembre 2015. La dimensione autobiografica, che non emerge nei racconti, sarà tuttavia determinante per leggere, dopo, la qualità delle testimonianze. Huysmans è sola in scena, in alto alle sue spalle una serie di schermi in fila, recanti ognuno il nome di chi parlerà in quel riquadro; di fronte a lei una pedaliera che azionerà le voci, prima di singole opinioni, poi via via in una intersezione di frammenti che su una base musicale compongono, come un rap, un racconto collettivo, una partitura di voci mescolate. La voce, appunto, della comunità. C’è chi dopo la tragedia e i molti morti non vuole più l’estrazione nella regione di Minas Gerais, c’è chi in contrario ricorda che senza di essa la regione muore, perché rappresenta il 90% del PIL regionale. In un tempo di dibattito ambientale, con questo lavoro sul rapporto tra catastrofe e capitalismo Huysmans e Dereere riflettono sull’esercizio di memoria e sull’identità, individuale o globale, focalizzando la loro indagine sull’impatto universale del rapporto tra causa ed effetto: si scrive diga, si legga mondo. (Simone Nebbia)

Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: Creato da Silke Huysmans, Hannes Dereere performance Silke Huysmans consulenza drammaturgica Dries Douibi supporto tecnico Christoph Donse scenografia Frédéric Aelterman, Luc Cools

BOLERO DE BIENVENIDA (di Lorena Stadelmann)

Rosse sono le stoffe, i vestiti e le maschere che compongono un piccolo fondale, rossa è la maglietta T-shirt sopra il pantaloncino azzurro, come rosso è un drappo con il quale è segnata la scacchiera sul pavimento, Lorena Stadelmann ha chiuso gli appuntamenti performativi della prima serata di Short Theatre 2023 alla Pelanda lasciando il testimone al duo di dj italo-peruviani, La Diferencia, che avrebbero chiuso, in questo modo, un piccolo percorso sull’America Latina, cominciato con il Brasile raccontato da Silke Huysmans e Hannes Dereere. Stadelmann si prende quella striscia di spazio di fronte alla scena, è il suo luogo, stretta tra le due colonne che sostengono i soffitti dell’ex mattatoio, in questa sorta di proscenio post industriale comincia una performance in cui vengono convocati canti, accenni di danza, arti visive. Ma il primo atto è quello di una voce, che però non ha nulla a che vedere con la performance canora dedicata all’intrattenimento, Bolero de Bienvenida viene, a ragione, presentato come il rito di una performer sciamana. Il centro è la ricerca vocale che l’artista ventottenne svizzero-guatemalteca sta intraprendendo, nel 2021 era uscito il primo album, Síndrome Premenstrual, del suo progetto musicale Baby Volcano (con cui andrà in scena alla Pelanda il 9 settembre). In Bolero de Bienvenida la voce però viaggia su canali di sperimentalismo puro: sorretta da un talento cristallino Stadelmann vocalizza suoni piccolissimi che lentamente si trasformano diventando sessioni ritmiche quasi da rap. L’eclettismo performativo di questa giovane e carismatica artista è evidente anche nell’approccio scenografico; è autrice dei costumi, dei filati e delle maschere (che compaiono anche in alcuni dei video musicali). E poi quel reticolato proiettato sulle pareti che quasi trasforma lo spazio in una caverna aliena mentre quella voce, composta da mille voci, rumori e risuonatori che rimbalzano dai muscoli agli sguardi ipnotici, diventa una nenia soffiata in piccoli megafoni. (Andrea Pocosgnich)

Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: regia, performance, allestimenti, costumi, sound design Lorena Stadelmann aka Baby Volcano lighting design Justine Bouillet sound engineering Stéphane Murugan drammaturgia Adina Secretan accompagnamento artistico L’Abri-Genève

A PESO MORTO (di Carlo Massari)

Un tempo, nelle grandi città, c’erano le periferie, zone lontane dal centro che vivevano con esso uno strano rapporto di rispetto e dispetto, perché ognuna aveva un centro tutto suo – la piazza con la chiesa, con il bar, l’edicola – in cui avvertire la propria identità, la propria appartenenza di comunità. Ma poi, con l’avvento delle Aree Metropolitane imposte da una metamorfosi ministeriale, tutto è cambiato: le periferie inglobate nella città hanno perso un centro; e così gli abitanti hanno perso il proprio riferimento per riconoscersi. A questa figura guarda Carlo Massari che porta a Perito – piccolo paese in cui Cilentart Fest realizza forse il suo maggiore sforzo di creazione di nuovi pubblici – A peso morto, coreografia che non è unicamente danza, ma che si carica di una manifesta rappresentazione dell’uomo contemporaneo. Primo passo di un trittico che comprende Lei e L’Altro, questo Lui incarna tutto il caos dispersivo che ha raggirato l’uomo periferico; il corpo di Massari, pur giovane, tradito da un segno anagrafico solo identitario si mostra sulla scena in maschera da anziano, gravita verso il basso (appunto, a peso morto) come un residuo, ciò che di troppo cade e va eliminato. Si invecchia presto, sembra dire, in questa periferia senza speranza. La danza muove inizialmente ritmi vorticosi e leggeri di balera, ma pian piano un rumore sempre più invadente ne copre la melodia e schiaccia a terra il corpo che, nel tentativo di rialzarsi, solo rimane appeso a quelle gambe traballanti, finché non perde addirittura l’indumento che le copre, ultimo atto esibito della dignità. La musica non c’è più, sommersa, sovrastata dal rumore; l’umano è dunque disorientato e cerca di trasformarsi come un serpente cambia la muta, ma ormai il centro è dislocato e con esso si spostano i confini del corpo in un altrove che lo depersonalizza, come vivesse una sorta di emigrazione al contrario, una “demigrazione” continua in cui non è l’essere umano a spostarsi, raggiungere un altro luogo, ma è il luogo stesso che si trasforma e migra attorno. (Simone Nebbia)

Visto a Perito (SA), Cilentart Fest. Credits: Creazione originale ed interpretazione Carlo Massari; Maschere Lee Ellis; Produzione C&C; In co-produzione con Margine Operativo

VAGUE (di Piergiorgio Milano)

Siamo nella spiaggetta della marina di Agropoli, in una delle numerose location in cui Cilentart, il festival diretto da Vittorio Stasi e Alfredo Balsamo, prende posto abitando luoghi suggestivi in relazione con la natura e le antiche architetture dei borghi cilentani. Prima dell’arrivo degli artisti di Vague c’è una sorta di trasformazione antropologica: mentre il tramonto si prende la scena, i bagnanti lasciano il posto alle spettatrici e agli spettatori; di fronte al luogo delimitato si forma una platea di teli e abiti casual. Come accade sempre in questi casi le platee dunque saranno almeno due, quella di chi ha scelto lo spettacolo premurandosi di scoprirlo nel programma del festival e quella di chi è lì per portare a termine la propria giornata di mare. Dei secondi è spesso interessante ammirare l’effetto inatteso della performance, la sorpresa negli occhi, i commenti divertiti. Qualcuno non curante dello spazio scenico lo attraverserà con passo anziano - e inevitabilmente teatrale - diventando suo malgrado fulcro momentaneo dell’opera artistica. Ma prima quello spazio era stato luogo di incontro di tre corpi (Lucia Brusadin, Andrea Cerrato, Piergiorgio Milano). Sembrano scavarsi la fossa, in realtà preparano le radici: i loro busti emergeranno dalla sabbia danzando, con le braccia al vento, sulla musica di violino live di Raffaele Rebaudengo; sembrano esseri vegetali, forse alghe. Eppure, dopo qualche minuto, l’acqua alle loro spalle rappresenterà l’attrattiva più potente, i tre, vestiti di tute dai colori cangianti in base all’illuminazione naturale, lasceranno le proprie radici per immergersi nel mare: esercizi quasi da nuoto sincronizzato e poi il colpo di teatro. Due dei performer spariscono alla nostra vista per interi e lunghissimi minuti, mentre Brusadin folleggia, con acrobazie circensi, su un trespolo a pelo d’acqua. La suspance per la difficoltà degli esercizi ma anche l’illusionismo di cui si ammantano fanno di questo lavoro un prezioso esempio di circo acquatico. Chi vorrà potrà leggerci una metafora: l’essere umano per rinascere dovrà prima perdersi nella natura. (Andrea Pocosgnich)

Visto ad Agropoli, Spiaggia della Marina, Cilentart Fest. Direzione e coreografia Piergiorgio Milano performer Lucia Brusadin, Andrea Cerrato, Piergiorgio Milano musica dal vivo Raffaele Rebaudengo costumi Jennifer Defays, Emanuele Borello, Carine Grimonpont produzione Marta Gallo – Gelsomina

TRACCE (di Marco Baliani)

Ad Omignano, nel programma di Cilentart Fest, in un cortile che si fa radura ai piedi di Palazzo Gorga, abbiamo avuto la fortuna di ascoltare e vedere un maestro, Marco Baliani. Di fronte a noi solo un palchetto, al centro del quale una sedia: Baliani seduto per più di un'ora a tessere parole, a "nominare il mondo", partendo dal concetto di stupore. Un piccolo spettacolo in cui biografia, storie, fiabe e riflessioni si intrecciano con una sapienza alimentata da decenni di mestiere. Ecco, quella parola: “maestro”, ingombrante, ma in grado di mostrare il radicamento dell'arte nelle fibre dei muscoli, nelle dita che ogni tanto si muovono con fibrillazione, nella naturalezza della postura e nell'energia che scorre nel corpo. Una vita a raccontare, fino a quando il corpo diventa esso stesso racconto. Che il corpo sia centrale anche nell’arte del racconto orale Baliani lo intuisce presto: durante le vacanze in famiglia sul lago maggiore, qui la nonna raccontava storie tremende, di paura e sgomento. Racconti in cui trovavano spazio cruenti particolari, come corpi smembrati che scendevano da un camino, lo stesso che la nonna aveva in casa, come d’altronde la cucina che veniva raccontata nella storia era quella in cui i bambini ascoltavano. Baliani sottolinea questa straordinaria capacità di far entrare la realtà nel racconto come di una tecnica di cui si nutrirà anche il proprio mestiere. Ma eravamo al corpo: quando nella storia si parla di una mano che appare nel camino ecco che la nonna con una mano impugna l’altra agitandola come fosse amputata, basta la penombra a fare il resto e a incutere paura. Quella donna, consapevole del proprio talento di narratrice, istintivamente aveva compreso il valore del corpo nel racconto – lo aveva capito prima di Dario Fo, scherza Baliani. Non c’è un testo scritto in questa prova, l’attore lavora senza rete, soffermandosi su preziose digressioni, per ritrovare poi i passi e le tracce di un canovaccio con il quale risalire il sentiero. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Palazzo Gorgone, Omignano, Cilentart Fest. Dall’omonimo saggio di Ernst Bloch di e con Marco Baliani organizzazione e promozione Ilenia Carrone produzione Casa degli Alfieri

BMOTION (Aurelio di Virgilio, Leila Ka, Olga Dukhovnaya, Collettivo Cinetico)

Si rassegnino i più superstiziosi e perplessi, al festival BMotion Danza 2023 di Bassano del Grappa si danza da fermi: contro la dittatura del futuro, i disciplinamenti del presente, le ideologie oppressive, e le erezioni mancate (e non è un refuso). È una condizione di resistenza tutta del presente, già acquisita dalla scena contemporanea. E la programmazione dei primi giorni di questo festival ne è una più vera conferma. A partire da Jeplane del giovanissimo Aurelio di Virgilio che, in una ristretta ecologia dello spazio, con frenetiche sbracciate costruisce architetture immaginarie. Leila Ka invece in To cut loose dà vita a un assolo tutto incarcerato sui piedi, ma liberato nel potere dell’energia delle braccia e del torso. L’ucraina Olga Dukhovnaya in Swan Lake Solo pone un interrogativo politico sull’uso del passato, rifacendo in un chiuso assolo Swan Lake come un modo di elaborare il lutto. Fino al Manifesto Cannibale di Collettivo Cinetico che è un vero e proprio atto d’amore per Francesca Pennini che, qui in scena, si rende fantasma sotto un lenzuolo perché del lavoro non ha potuto seguire e vedere la composizione. Ogni tanto però con la magia di un flash interrompe la scena, la guarda e commenta sorpresa ‘come per la prima volta’ il lavoro, condotto in autonomia da questi disgraziati, quasi sempre nudi, e che di sorprese gliene hanno approntate molte. È infatti una continua rivelazione di giochi con la musica di Shubert, dal ciclo Winterreise (D.911), a tratti anche dal vivo grazie al bravissimo Davide Finotti, ma anche di atti invisibili (se non proprio di erezioni mancate). Scorretto ora spoilerare. Unico vero imperdonabile errore (macché, così tanto per dire...): al termine della prima parte si annuncia la fine della danza e l’inizio di manifesto cannibale, che è un atto di immobilità improvvisa a chi resiste per ultimo. (Per la cronaca ha vinto Angelo, io ho tifato Teodora.) Ma la danza a me pare invece inizî proprio da qui. È del resto un noto adagio eliotiano: «al punto fermo, là è la danza». (Stefano Tomassini)

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