Cordelia - le Recensioni

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BACH À LA CARTE (di Marco Augusto Chenevier)

Uno spettacolo come una cena di lusso, le cui portate a base dei corpi dei danzatori sono esposte su un menù consegnato allo spettatore all’ingresso. Il gioco ironico che fonde il linguaggio della cucina stellata a quello della musica barocca e dell’arte coreutica compone un programma di sala a forma di elenco di pietanze. I piatti descritti presentano degli elementi mancanti e da subito è chiara la richiesta che il nuovo spettacolo del coreografo aostano Marco Augusto Chenevier farà al pubblico, nel solco del suo distintivo lavoro sull’ibridazione dei linguaggi e sul sovvertimento dei canoni performativi. Sul palco assieme ai tre danzatori una violoncellista, una musicista elettronica e un tecnico delle luci spiegano il meccanismo di voto tramite il quale lo spettacolo prenderà forma. Si innesca così un gioco assembleare articolato: tramite l’escamotage ludico della scelta (degli interpreti, del ritmo, delle luci), ci si ritrova al centro di un esercizio di democrazia. Ciò che vedremo – partiture coreografiche di pregio – dipenderà dal gusto e dalla curiosità della maggioranza degli spettatori. Ma i momenti di voto, le cui regole si fanno di volta in volta più sofisticate, hanno una durata limitata e un quorum fissato: si vota dunque senza avere il tempo di approfondire le richieste ricevute né di immaginare le conseguenze della propria scelta, sicuramente influenzati dal voto degli altri. Si prende dunque coscienza della precarietà della decisione, nel dubbio latente dell’inutilità della propria partecipazione: le combinazioni coreografiche messe in scena potrebbero essere state decise a priori. La cornice di lusso – dal francese culinario alla musica di Bach alla raffinatezza del contenuto coreutico – rende il tutto ironicamente potente quando si scontra con la foga assembleare, che vive momenti di euforia o di delusione rispetto agli esiti del voto. Al debutto a Kilowatt, lo spettacolo – suscettibile di evoluzioni che lo rendano organicamente più asciutto e ficcante nel suo potenziale – fonde strati di senso in un’unica esperienza estetica e civile. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro della Misericordia – Sansepolcro. Drammaturgia, coreografia, interpretazione Marco Augusto Chenevier. Crediti completi

MASCARADES (di Betty Tchomanga)

Il brusio degli spettatori di Sansepolcro viene interrotto da una voce sempre più presente e nitida, richiamo rituale. Una figura è seduta al centro del palco, su una pedana specchiata. Sirena intrappolata in un corpo di donna o donna intrappolata in un corpo di anfibio, i suoi movimenti sono fulminei e secchi, i suoi occhi inquieti sondano il paesaggio: è Mami Wata che si risveglia, dea voodoo, mother water che scopre sé stessa. Assistiamo al progressivo evolvere del corpo di Betty Tchomanga, danzatrice francese di origine camerunese. Guadagna la posizione eretta attraversando una miriade di fugaci posture, senza conoscere la stasi. L’energia compressa nella minuzia del suo gesto si sprigiona progressivamente con tutta la potenza della ripetizione. Il salto è l’atto rituale, liberatorio: un salto accennato, ma continuo, estenuante che attiva ogni fibra del corpo fino a sciogliere e liberare la capigliatura. È questa a sua volta maschera, travestimento: si muove insieme al corpo ma sembra staccarsi dall’inerzia dello stesso per rispondere a un impulso indipendente che moltiplica le visioni. L’ambiente sonoro di Stéphane Monteiro avvolge e accompagna questa trasfigurazione. La voce appare come pulsione sorgiva e inevitabile, strabordante necessità di dichiarare sé stessa, articolando suoni e stridii casuali che si aggrumano in significati. La madre natura incarnata da Betty Tchomanga è una bestia impaurita e fiera, attraversata da un’elettricità ancestrale e implacabile. Sta parlando all’umanità che la maltratta e la teme, “le sue domande sono vitali, essenziali, capitali (…) il suo pensiero è bestiale, la sua rabbia è ufficiale”, canta come rappando. In un lento e ipnotico avvicinamento, Mami Wata scesa in platea tenta un contatto con lo spettatore, lo rifugge, porge la mano e la ritrae, fino a quando la vibrazione delle sue corde vocali non incatena il pubblico alla sua magnetica presenza. Da questa prossimità la voce si chiude in un sussurro, la figura inquietante diventa docile e pronuncia un’unica preghiera: please, be good. (Sabrina Fasanella)

Visto al Chiostro di San Francesco. Sansepolcro Kilowatt Festival  Coreografia e interpretazione Betty Tchomanga. Luci Eduardo Abdala. Suono Stéphane Monteiro. Produzione Association Lola Gatt. Sguardo esterno Emma Tricard, Dalila Khatir. Vocal coach Dalila Khatir. Direttore di produzione Aoza – Marion Cachan.

IL LINGUAGGIO DEGLI OGGETTI (Ateliersi)

A volte l’occasione teatrale può far convergere attorno a un palcoscenico memorie, suggestioni, energie potenti. Il 19 luglio (nella commovente coincidenza della scomparsa del giornalista Andrea Purgatori), è andato in scena a Bologna lo spettacolo di Ateliersi dedicato a Daniele del Giudice, fortemente voluto dall’Associazione Parenti delle Vittime della strage di Ustica nell’ambito della rassegna dal titolo “Ustica non si dimentica”. Il palcoscenico allestito all’aperto sfrutta come fondale una parete del Museo per la Memoria di Ustica. Ciò implica che la scenografia supposta sia un oggetto reale che, benché nascosto, riverbera della sua tragica immanenza: la carcassa dell’aereo DC9 di Itavia precipitato il 27 giugno del 1980 a causa di un decretato scontro militare internazionale sul quale le autorità non hanno mai fatto luce. Il dispositivo messo in piedi da Ateliersi, che sulla strage ha lavorato in passato più volte, consiste in una evocazione declamatoria della parola di Del Giudice attorno alla vita degli oggetti, alla nostra relazione con essi, alla durata e alla memoria che custodiscono. L’illuminante pensiero dello scrittore è qui proposto in una sorta di ping pong tra Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi ai due lati del proscenio, mentre la scena è occupata da quattro grandi poltrone bianche (quelle di un aereo, o da gamer), quattro grandi pietre e da altrettanti giovani performer. La loro relazione con la parola passa tutta per un lavoro di sguardi accompagnati dalle potenti suggestioni sonore curate da Vincenzo Scorza. L’idea è quella di condurre un percorso esplorativo tramite il gesto, mentre scorrono e si inseguono visioni di un futuro in cui, da fruitori passeggeri degli oggetti che ci sopravvivono, sempre più diventiamo consumatori di prodotti non tangibili e obsolescenti. L’immaginazione è chiamata in causa quale unica custode della carica biologica delle cose, garante di quell’indistinguibilità tra osservatore e oggetto osservato, come l’immagine di quell’aereo nascosto da una parete sottile continua a ricordarci. (Sabrina Fasanella)

Visto al Museo per la Memoria di Ustica di Bologna. Di e con Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi E con Marco Mochi Sismondi, Anna Orsini, Sarah Saïdi e Wali Sidibé. Progetto sonoro Fiorenza Menni e Vincenzo Scorza (elaborazione ed esecuzione musicale)

MATERNITÀ (Fanny & Alexander)

Al Teatro Solvay di Rosignano ha debuttato Maternità, l’ultimo lavoro della compagnia ravennate Fanny & Alexander. Ricalcando il modello della scrittura interrogatoria di Sheila Heti, autrice canadese dell’omonimo romanzo, Chiara Lagani e Luigi de Angelis costruiscono un dispositivo scenico in forma di assemblea pubblica, affidando agli spettatori l’avanzare dell’indagine sul tema più che mai controverso del titolo. Così come la protagonista-autrice del romanzo, Chiara Lagani parla in prima persona direttamente con il pubblico. Il primo aggancio è un esercizio di scetticismo: “Mi chiamo Chiara e sono incinta. Vero o Falso?”. Domanda dopo domanda, cui lo spettatore è chiamato a rispondere attivamente e istintivamente tramite un telecomando, emergono i nodi problematici della tematica: il rapporto di una donna con il proprio corpo; le aspettative personali e sociali su di esso; la vocazione dubbiosa alla maternità; le insidie della scelta e gli inganni della libertà. L’ingaggio dello spettatore, che segue l’esito della “votazione” su uno schermo in tempo reale, sembra volto a suscitare lo stesso tipo di dubbi: da quante e quali cose è condizionata la nostra scelta? Quale prezzo paga il pensiero all’esercizio della libertà? Ma anche: quanto è davvero nostra la scelta che facciamo? Questo (intenso, a tratti ossessivo o apparentemente superfluo) lavoro di scelta e giudizio approda ad una seconda parte in cui il dispositivo ritorna alla sua funzione rappresentativa. Questo spostamento di equilibri, mediato in maniera più esplicita dalla convenzione della luce e del costume, non solleva lo spettatore dal suo ruolo attivo, ma lo trasforma: se da un lato si palesa in maniera più decisa il meccanismo dell’eterodirezione, dall’altra continua ad aleggiare il dubbio che ciò che accade sia stato deciso e scelto a priori, esattamente come accade ad una donna, la cui biologia è orientata e orientante verso un destino che non necessariamente corrisponde alla vocazione genitoriale. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Solvay di Rosignano Marittimo – Inequilibrio Festival 2023 tratto dal racconto di Sheila Heti (traduzione Martina testa, Sellerio editore 2018) Con Chiara Lagani. Drammaturgia, costumi: Chiara Lagani. Regia, luci, progetto sonoro: Luigi de Angelis. Artwork Eleano Shakespeare. Architettura Software multiscelta, cura del suono, supervisione tecnica Vincenzo Scorza. Organizzazione e promozione Maria Donnoli, Marco Molduzzi. Produzione E Producion / Fanny & Alexander. Grazie a Ateliersi, Giovanni Cavalcoli, Silvia Veroli.

THE VITRUVIAN HUMAN (Hungry Sharks)

A fronte di una prosa in genere insufficiente, la danza di Teatri Riflessi ha presentato degli spunti senz'altro più interessanti, più coerenti, più riusciti. The Vitruvian Human, della compagnia austriaca Hungry Sharks, è lo sviluppo coreografico di un'immagine: l'uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, considerato tradizionalmente simbolo di assoluta perfezione estetica. La danza di Jennie-Love Navoret, per la coreografia di Valentin Alfery, bene ne accoglie lo spirito formale, presentandosi come misurazione dello spazio aereo e terreno di cui il canone è conforme espressione. Ben piantata sulle gambe divaricate, la fissa verticalità dell'interprete attraversa il basso e l'alto: ma nel tetragono in cui è inscritta, la sua è una tensione serafica, priva di conflitto e slanci. Nelle intenzioni degli artisti, il progetto intende sostituire al canone estetico fisicità non canoniche. Ma, sebbene la danzatrice non sia un uomo bianco, il flusso della coreografia è talmente lineare e continuativo da non lasciare spazio a contestazioni di sorta. Tutto è ridotto a sistema. Tra cerchio e quadrato, i gesti rotatori della parte alta del busto, compreso nella distensione e nella chiusura delle braccia in archi ampi, sembrano ricavare frammenti aurei da una circonferenza. Certo non è la prima volta che la danza accoglie il modulo geometrico quale pattern di origine del discorso coreutico; eppure, la minimale regolarità dell'impianto, non proprio imprevedibile, non smette comunque di ipnotizzare. Il corpo di Navoret è un compasso la cui traccia è data da gesti puliti, iterati nell'accumulo di frammenti geometrici in ordinata e consecutiva successione. L'intera scrittura è una combinazione di oscillazioni intorno all'asse; le singole partiture, omogenee, rimangono tali anche quando si imprime alle membra un delicato sciogliersi ondulatorio, più libero ed euritmico. Il canone insomma non ne viene messo in crisi, e anzi alla fine sembra avere la meglio: ma forse è al suo rispetto che dobbiamo la chiusa compiutezza della performance (Tiziana Bonsignore).

Visto a Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali, Teatro Falcone e Borsellino, Zafferana Etnea (CT), Zafferana Etnea. Crediti: Coreografia di Valentin Alfery, Produzione e Costumi di Dušana Baltić, Musica di Patrick Gutensohn, Interpretazione di Jennie-Love Navoret. Foto di Arnold Pöschl.

VICE’ (regia di Eugenio Patanè)

Una corsa spasmodica verso il baratro della scena madre conclusiva: parliamo di Vice', di Eugenio Patanè, con Luana Toscano ed Elmo Ler, dramma sul quale poco altro è da aggiungere. Si è appena conclusa l'ottava edizione di Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali nella cittadina catanese di Zafferana Etnea, dove abbiamo avuto modo di confrontarci, appunto, con questo accorato corto teatrale. La valorizzazione di tale formato (qui inteso come una performance di circa quindici minuti) risponderebbe alle caratteristiche del contemporaneo: brevità, incisività, varietà di contenuti. A questo "genere", ancora orfano di una distribuzione strutturata, TR8 ha voluto offrire uno spazio sia fisico che di discussione. L'indecisione, forse anche l'incoerenza, delle scelte programmatiche ha fatto sì che il dibattito, animato da una numerosa giuria, si sia concentrato su alcuni temi trasversali, in qualche modo divenuti esemplari di questioni più ampie: lo stato di salute dell'attuale drammaturgia, il confronto con la proposta internazionale, i limiti e i pregi della gestione di un festival nelle realtà più marginali. Sul primo piano, il TR8 ha rilevato una carenza effettiva. Tutti gli spettacoli di prosa, siciliani (ad eccezione dello Zoe di e con Sara Baldassarre, l'unico valido, cui è andato la menzione della Commissione stampa e della Commissione giovani), sono stati ammorbati da indiscutibili carenze narrative e registiche, tra le quali gli interpreti si sono mossi con non poche difficoltà motorie, spaziali o addirittura respiratorie. In Vice', ad esempio, il problematico rapporto tra madre e figlio procede con strazio tra episodi dialogici di misura poco ponderata. Lo sviluppo narrativo avanza a strattoni, nello sforzo di una sintesi irrisolta: sarà stato difficile imbottire questo corto di tutto il pathos che la compagnia forse reputava necessario. Alla platea nazionale si è offerto uno spaccato impietoso della proposta insulare, dove pure è possibile trovare lavori di più significativa e riconosciuta originalità. Locale e provinciale sono due concetti non coincidenti ed è bene considerarli distinti, soprattutto se si opera in un'ottica di "valorizzazione del territorio".

Visto a Teatri Riflessi. Festival internazionale di corti teatrali, Teatro Falcone e Borsellino, Zafferana Etnea (CT), Zafferana Etnea. Crediti: Drammaturgia di Luana Toscano, Regia di Eugenio Patanè, Interpretato da Luana Toscano, Elmo Ler e con la partecipazione di Eugenio Patanè, Prodotto da Gruppo ELE.

EXISTENZ (di Wihad Suleiman)

Quando si pronuncia il termine “esistenza” si intende generalmente un sinonimo di “vita”, ossia la precondizione necessaria dell’essere al mondo. Tuttavia – la realtà è sempre più complessa – sembrerebbe più completo raffinare la definizione attraverso i riferimenti al contesto entro cui essa si manifesta: è la stessa esistenza quella in tempo di pace o in tempo di guerra? Ha la stessa qualità l’esistenza agiata rispetto a quella al limite della sopravvivenza? La drammaturga araba-tedesca Wihad Suleiman porta luce su questa Existenz, in prima mondiale alla Sala Assoli per la regia di Lydia Ziemke, intesa come condizione esistenziale di quattro personaggi (Mohamad Al Rashi, Corinne Jaber, Amal Omran, Alois Reinhardt) immersi in una dimensione spaziale ridotta, un quadrato di terra suddiviso in rettangoli sequenziali, fosse da cui ognuno fa emergere la propria storia; appeso al centro è un enorme orecchio azzurro nella penombra, come se l’udito sostituisse la vista, indagata con una torcia che viola di ognuno l’intimità. La guerra ha ridotto in memoria la loro vicenda, nel passato qualcosa si è incagliato prima di diventare presente: ogni personaggio lamenta ciò che ha perduto, o non accetta di perdere, trascinato via dalla guerra come un grande tsunami. Ostinati suoni di chitarra elettrica rendono cupa l’atmosfera, i monologhi intrecciati – prima tradotti in cuffia assieme a dei suoni ambientali, poi con sovratitoli – cercano una pace che non c’è, un motivo tra le deliranti paure e il tradimento della speranza, finché l’uscita dalle fosse crea un’interazione imprevista, un sostegno, un senso profondo di solidarietà. La scena acquista un’aria post-apocalittica, il testo, ora restituito in una lettura a leggio, entra via via in una dimensione poetica più eterea e meno concreta, frutto di una frammentazione drammaturgica che non aiuta la comprensione unitaria della vicenda; ma, viene da dire, non sono che gli effetti della violenza efferata, il delirio frammentato di chi è costretto a chiamare “esistenza” ciò che, forse, non lo è più. (Simone Nebbia)

Visto al Campania Teatro Festival, Napoli. Crediti: Con Mohamad Al Rashi, Corinne Jaber, Amal Omran E Alois Reinhardt; Regia Lydia Ziemke; Testo Wihad Suleiman; Scene E Costumi Claire Schirck; Co-Creazione Palcoscenico E Costumi Raffaëlle Bloch; Drammaturgia E Traduzione Christopher-Fares Köhler; Sound Design E Direzione Tecnica Nils Lauterbach; Musica Nils Lauterbach & Mohamad Al Rashi

HANSEL E GRETEL (di Michele Losi)

Tutto inizia ai margini del bosco, come spesso accade in una fiaba. Solo che stavolta l’ingresso non è una metafora, ma proprio concretamente bisogna entrarci quando si viene chiamati: “Venite bimbi!”, dice una voce tra gli alberi, mentre una signora in coda ci pensa su e risponde, rivolta forse verso sé stessa: “Tanto tempo che qualcuno non mi chiamava bimba…”. Inizia così, Hansel e Gretel di Michele Losi a Sebastiano Sicurezza, un’esperienza di teatro immersivo e itinerante, appunto, nel bosco di Campsirago per Il Giardino delle Esperidi Festival. Il paesaggio, prima di tutto, notturno del bosco, offre la condizione ideale perché le sfumature della fiaba dei Grimm sviluppino il proprio carattere più oscuro, anche in virtù del fatto che l’ambiente visivo è sostenuto dalla creazione di un ambiente sonoro che, attraverso le cuffie offerte in dotazione ai partecipanti, ne esplicita l’intenzione. Il bosco dunque, habitat per eccellenza della fiaba, è allo stesso tempo luogo effettivo sempre ricco di nuovo spazio d’azione e metafora della paura onirica che raccoglie i diversi tempi dell’essere umano in uno solo, comprimendo passato e futuro in un presente magmatico e sospeso. Il testo è ricco di azioni e oggetti che compaiono e scompaiono velocemente, lasciando che l’apparizione generi fin da subito una percezione già memoriale; ognuno dei momenti che si succedono nella drammaturgia lascia intravedere una particolare delicatezza poetica che accentua la dimensione onirica. Un amuleto, consegnato all’inizio del percorso, segnerà il legame tra la partecipazione e la vera e propria immersione, cui dona un carattere ancora più profondo il profumo delle piante emanato dalle poche gocce di pioggia che entra prepotente nella drammaturgia. Nel bosco la necessità e il desiderio, fin quasi alla brama, si mescolano tra le offerte della strega e il fuoco accogliente per scaldarsi; i sassolini segnano la strada luminosa per uscire, infine, nel sentiero catartico del proprio futuro. “Sarebbe più bello non sapere”, dicono i due bimbi. Ma sapere, in fondo, è già diventare. (Simone Nebbia)

Visto a Il Giardino delle Esperidi Festival, Campsirago. Crediti: da un’idea di Michele Losi, Sebastiano Sicurezza | regia Michele Losi | drammaturgia Sofia Bolognini, Sebastiano Sicurezza | con (in alternanza) Barbara Mattavelli, Benedetta Brambilla, Giulietta De Bernardi, Sebastiano Sicurezza, Stefano Pirovano | suoni Luca Maria Baldini, Diego Dioguardi| supervisione alle azioni e scene Anna Fascendini | costumi Stefania Coretti | produzione Campsirago Residenza | con il sostegno di NEXT – Laboratorio delle idee per la produzione e la programmazione dello spettacolo lombardo – Edizione 2021/2022

DISADIRARE. UN’ALTRA ILIADE (regia di Adriana Follieri)

Se c’è qualcosa da amare nel teatro, la possibilità di osservare l’attore cambiare nel tempo è una di quelle cose. Nella cornice del Campania Teatro Festival, a distanza di un anno, ritornano sul palco i ragazzi dell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola insieme alle studentesse dell’I.I.S.A.M De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti; nella delicata riscrittura dell’Iliade, Adriana Follieri ha in mente di poter mettere in scena una crescita formidabile. E ci riesce. Ci riescono tutti e tutte. Seguendo la legge che vietava la diretta messa in scena di violenze e traumi, dal racconto epico viene completamente estirpato qualunque intento celebrativo della guerra come affermazione di sé. Non esiste alcuna vittoria, bensì la disperazione della possibilità che questa prenda forma nel dolore e nelle disgrazie. Lo spazio (costruito da Pino Beato) non ha alcuna pertinenza fisica, poiché non deve contenere corpi, ma idee. Dei pesanti blocchi vengono disposti per ordinare i movimenti in giri perpetui e marce senza fine; potrebbero essere dei blocchi di marmo in cui fermare gli eroi nell’immagine che a loro apparterrà per sempre, e invece quei giovani corpi li usano per ergersi ed esporsi. In scena non sono concepiti movimenti isolati e solitari, ma sono lunghi andamenti collettivi, complessi proprio in virtù del fatto che vanno compiuti in totale armonia col ritmo delle presenze vicine. L’unico elemento farraginoso, è la persistenza in diegesi delle musiche (originali di Luca Caiazzo) che rallentano eccessivamente l’azione più che accompagnarla. Poteva essere tutto ovvio, tutto tristemente già visto, e invece è stata compiuta un’operazione di ricostruzione del senso delle immagini molto significativo. È doveroso spendere poche parole (saranno sempre poche) su quei ragazzi aiutati una buona volta ad essere padroni di ciò che vedono in sé stessi, a sforzarsi di esperire, come tutti, sempre nuove esistenze: non più ignari caratteristi, macchiette succubi del divertimento altrui, ma attori.

Visto a Teatro Trianon Vivian; Crediti, Con i giovani attori dell’Istituto Penale per minorenni di Airola e le studentesse dell’I.I.S.A.M. De’ Liguori di Sant’Agata de’ Goti e con Gianluigi Signoriello e Paola Maria Cacace; Drammaturgia Adriana Follieri in collaborazione con Fabrizio Nardi; Regia Adriana Follieri; Musiche originali Luca Caiazzo; Disegno luci Davide Scognamiglio; Scene Pino Beato; Foto Sabrina Cirillo; Produzione CCO – Crisi Come Opportunità.

BASTARDO. CHI HA PAURA DELL’UOMO NERO (di Carlo Massari)

Carlo Massari, performer e fondatore della compagnia C&C, riporta ancora una volta al centro Corpo e Cultura nell’ultima creazione presentata ad Attraversamenti Multipli. E se FARSI CORPO, il laboratorio che ha condotto all’interno del festival abita ed entra in dialogo con la natura urbana del Parco di Torre del Fiscale (qui, l’articolo della RE.M che ne racconta l’esito performativo), Bastardo entra in dialogo col presente più prossimo del quale lo spettatore è parte integrante. Il format si auto propone/impone di aspettare un tempo molto breve prima della performance così da costringersi a dialogare con il qui e ora: rispondere all’idolatria post mortem di Silvio Berlusconi, due settimane dopo la sua morte, ad esempio. Se l’arte dal vivo contemporanea continua ad avere meccanismi di produzione e distributivi che impongono - nei migliori dei casi - una visione in differita della creazione degli artisti sul reale, l’idea produttiva di Bastardo è basata invece su una costruzione di materiale semi/improvvisato legato strettamente a tematiche sensibili della contemporaneità. Capita allora, il 29 giugno 2023, di assistere al corpo di Carlo Massari piegato dalle barzellette sulla propria morte di Silvio Berlusconi; di consumare il “menomale che Silvio c’è” sulle note della Passacaglia della vita, perché “bisogna morire”; di esasperare il “presidente noi siamo con te” in una coazione a ripetere durata decenni; di vedere alcuni spettatori alzarsi; di interrogarsi sul cadavere caldo della decenza; di chiedersi se politicamente scorretto sia la sigla di Forza Italia per la coreografia o l’esaltazione alla quale abbiamo assistito, fino all’elogio funebre in ginocchio. Carlo Massari si fa Bastardo per parlarci di noi in un’intuizione riuscitissima che fa scivolare la ricerca puramente fisica in quella politica, muovendo verso il presente qualunque muscolo possa essere usato. Coreografia e cronaca, partitura fisica e critica sul presente non erano mai stati così vicini. (Luca Lòtanowww.lerem.eu)

Visto a Attraversamenti Multipli. Crediti: Carlo Massari / C&C Company Produzione: C&C company, Coproduzione: Margine Operativo

RELIC (di Euripides Laskaridis)

Straordinario e travolgente, il greco Euripides Laskaridis ha presentato, allo Studio 3 del CN D di Pantin, il suo famoso assolo Relic (2015). Una figura trasfigurata nell’anatomia da gommapiuma e larghe protesi, interamente fasciata di collant, abita la scena non come l’utopia di un corpo futuro, ma come reliquia, relitto, retaggio, se non addirittura cimelio, di qualcosa che sopravvive e resiste dal passato: «A thing left behind, be it memory, object, language or being». Questa cosa ‘lasciata indietro’, che come la morte livella ogni gerarchia di valori fra parole, cose ed esseri viventi, torna neo-zombie in un processo trasformativo di resistenza al tempo della cancellazione e dell’indifferenza. E sembra non dover rispondere a nessuno, talmente alto è il mimetismo con il circostante, la presa sulla forza del passato. È un lavoro generato come risposta alla crisi greca di quegli anni, e mette alla prova i confini di ogni norma contro le ideologie rassicuranti sulle sorti progressive del futuro. L’atmosfera domestica di una casa (con tanto di pianta salottiera e wc neoclassico) qui viene letteralmente fatta saltare. Con i mezzi del cabaret e del vaudeville, in una fisicità sfrontata piena anche di humor nonmeno che di (finti) pudori, tutti da primo piano, come una sacerdotessa acrobata, una fattucchiera arcaica o una pitonessa da speculative fiction. Tutto è ribaltato, e riscattato, financo il tempo della vita. La performance di Laskaridis è piena di bizzarrie e anche di chincaglierie, di trovate in sequenza a disposizione di un immaginario domestico, da ‘teatro fatto in casa’, pure selvaggio, artificiale, per accumulo. Alla fine, l’impressione è che non manchi proprio niente. Quel che resta è già tutto quel che serve per destabilizzare dogmi e norme. Come nella retrotopia descritta da Bauman, andare a ritroso con il passato può trasformarsi in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. (Stefano Tomassini)

Visto al CN D (Pantin/Parigi). Director, choreographer, set designer and performer, Euripides Laskaridis; Artistic collaboration, Tatiana Bre; Dramaturgy consultant, Alexandros Mistriotis; Costumes, Angelos Mentis; Sound design, Kostas Michopoulos; Sound installation & live operation, Kostas Michopoulos, Giorgos Chanos, Nikos Kollias, Kostis Pavlopoulos.

JÉRÔME BEL (di Jérôme Bel)

È incredibile che siano passati quasi trent’anni. Faccio fatica a tenerne il conto (oggi, poi, che tutto ci ha segnato...). Jérôme Bel di Jérôme Bel, che è del 1995, è riapparso intatto, in tutta la sua forza (e retorica) nel programma del camping estivo del CN D di Pantin a Parigi. Il seminale lavoro di Bel, qui anche con due degli straordinari interpreti originari (Frédéric Seguette e Claire Haeni), risente della lettura di Le Degré zéro de l’écriture, e ammicca evidente al Barthes di Roland Barthes. Cinque corpi nudi fanno a pezzi le strutture verbali e i significanti che sorreggono il dispositivo teatrale, con l’uso soltanto di una lampada (con un effetto perenne di grotta platonica), la voce che solo canticchia (brani, credo, della Passione di Matteo) e la scrittura che designa (i nomi) e trasporta (i significati attraverso i significanti) anche per cancellazione (così della scritta JOHANN SEBASTIAN BACH non resta leggibile che ABBA, e sùbito parte Dancing Queen). La richiesta di una scena senza gerarchie estetiche e coercizioni culturali, la ricerca inesausta di un neutro possibile (ma che resta simbolico) capace di giustizia, è sapientemente inseguito (e assorbito) non senza l’uso di forti metafore e inevitabili allegorie. Tuttavia ciò che maggiormente, alla fine, sorprende in questa evidenza tutta ragionamento sul come e sul cosa dei meccanismi della performance, riconosciuti e smontati ed esposti, è che non crea nostalgia alcuna. L’ultimo interprete compare in scena di tutto punto vestito, per partecipare al meccanismo che lo celebra, giusto il tempo per gli altri performer di uscire di scena, e lasciarlo solo, per gli applausi finali. Dopo trent’anni, tutto accade di nuovo ma nel tempo allenato della memoria, senza l’oblio necessario al sentimento della nostalgia. Come per quei saggi critici, fondamentali e formativi, che una volta bene assimilati e resi operativi, alla rilettura risultano poi freddi e frenanti, incapaci di deriva. (Stefano Tomassini)

Visto a Les Laboratoires d’Aubervilliers (Pantin). Crediti: di Jérôme Bel, con Éric Affergan, Yaïr Barelli, Michèle Bargues, Claire Haenni, Frédéric Seguette.

DOVE HANNO TREMATO LE PLACCHE (di Valerie Tameu)

Valerie Tameu, autrice e performer italo camerunense, spiega il processo di Dove hanno tremato le placche, mentre si asciuga il sudore, riprende fiato, in dialogo con la studiosa e ricercatrice Ilenia Caleo che, rispettosa del tempo di “ritorno alla realtà” a fine performance, inizia a impostare l’esaustivo talk tenutosi tra i "resti" splendenti di questa prima apertura del lavoro; prodotta da Spazio Griot e ospitata al Mattatoio La Pelanda, dove martedì si è conclusa la rassegna Rifrazioni curata da Johanne Affricot. «Quando ho iniziato a disseminare le foto di famiglia per casa, mi sono resa conto che avevo già riempito tre stanze». L’indeterminatezza fluttuante propria alla natura della performance è qui “vestita”, letteralmente, dalla concretezza delle azioni e dalla tangibilità degli oggetti: l’archivio di blackness sulla storia della migrazione della famiglia di Tameu viene incorporato, prima indossandolo – la performer si aggira sui pattini ricoperta di strati di vestiti trovati negli armadi – e poi spogliandosene, per iniziare un gioco di memory con quelle stesse foto posate sul tavolo, poi sul corpo, viso, capelli. «La componente visiva dell’archivio non bastava, dovevo poterla maneggiare, perciò l’inserimento del sonoro è stato determinante per creare una narrazione del materiale». Tra i suoni, sia gli estratti documentari dell’omicidio di Jerry Essan Masslo (1989), che diede rilevanza mediatica alla violenza razzista e allo sfruttamento imposto dal caporalato nel Sud Italia, che quelli delle lotte operaie alla Fiat Mirafiori. Riprendendo il titolo, le placche tremano: la geografia delle stratificazioni di memoria, come quella terrestre, muovendosi giustappone archivi personali e collettivi in un’opera di costruzione e decostruzione compiuta dalla performer che, con il tocco deciso ma delicato di una racchetta da tennis, attiverà un effetto domino in grado di disintegrare il monumento/monolite rifrangente al centro della scena. (Lucia Medri)

Visto a Rifrazioni Spazio Griot Crediti: di e con Valerie Tameu, frutto della residenza artistica di SPAZIO GRIOT in collaborazione con Fondazione Polo del '900, Foto di Andrea Pizzalis

IO ERO IL MILANESE (di Mauro Pescio)

Accade raramente, ma accade quando la purezza e la genuinità di un racconto oltrepassano gli strumenti necessari a diffonderlo. Perché Mauro Pescio, autore del podcast Io ero il milanese, appena premiato come documentario dell’anno e che vanta oltre due milioni di ascolti, avrebbe potuto godersi questi frutti e invece ha scelto ora di adattarne una versione teatrale, non per spremere la materia finché si può, ma perché questa storia ha bisogno di presenza, ascolto dedicato, vicino. Insomma, di teatro. È una storia di criminalità che il protagonista, incontrato la prima volta nel carcere di Padova, racconta liberamente: il podcast è reso in frammenti, Pescio lo dirige dal palco e, aiutato da alcuni disegni proiettati sul fondale, commenta, determina, approfondisce quanto la viva voce off di Lorenzo S., questo il nome, può esprimere della propria vita. Si genera presto una partecipazione nel pubblico, offerta dalla forma dialogica, che permette di essere, sentirsi, dichiararsi presenti mentre gli avvenimenti si stringono attorno al protagonista. Io ero il milanese, il verbo è declinato all’imperfetto. Questa è infatti una storia da dopo, raccolta in un tempo in cui Lorenzo, che assunse il titolo onorifico criminale de Il Milanese, ha già compiuto i passi necessari all’emancipazione da una vita rimasta alle spalle; e con essa la reclusione, le conseguenze nefaste che le scelte – o non scelte – hanno determinato. In precedenza il senso di avventura, l’ebrezza, l’adrenalina del gesto criminale lo hanno nutrito, tanto da fargli accumulare una lunga punitiva condanna, finché grazie al lavoro, l’amore, la solidarietà, così come proprio la fiducia nel racconto, tutto è cambiato. Ma questa non è una storia morale, nel definire gli eventi della vicenda l’intenzione di Pescio è ben lontana dal giudizio su uno stile di vita, quella del protagonista più che una redenzione è l’effetto di una crescita interiore che, nata dall’odio per sé stesso, per sé stesso ha scoperto l’amore.(Simone Nebbia)

Visto a Narni Città Teatro 2023. Crediti: di Mauro Pescio e Lorenzo S; con Mauro Pescio; grafiche di Lorenzo Terranera; produzione Raiplysound

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Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...