Cordelia - le Recensioni

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HO MOLTO PECCATO: I. PARLO (di Paolo Costantini)

Tre figure femminili (o una sola?) si muovono in uno spazio asettico. Delimitano il perimetro del pavimento bianco con un liquido versato da taniche di plastica. La prima immagine incendiaria mette da subito in stato d’apprensione chi guarda. Lo spettacolo, vincitore della prima edizione del premio di produzione “Silvio D’amico Alla regia” istituito dall’omonima accademia e dal Romaeuropa Festival, è un excursus performativo ispirato alla vita di Santa Caterina da Siena. La sua storia mistica coincide con la volitiva rivendicazione della propria libertà, della propria voce, passando per la negazione del corpo. Il cuore del lavoro è dunque la mortificazione del corpo come percorso di liberazione. La conquista di uno spazio di espressione passa per un’escalation di dolore: vestite di nero dalla vita in giù, Carolina Ellero, Elisabetta Misasi ed Evelina Rosselli si alternano mute in un rituale di azioni progressivamente più violente servendosi di oggetti di uso quotidiano, casalingo. Al centro, fulcro della scena, una struttura di vetro, prisma che riverbera in differenti modalità l’articolato disegno delle luci. Le attrici, ognuna con la propria fisicità peculiare e una medesima, grandissima abnegazione, si alternano nel sacrificio. Sono l’una il riverbero dell’altra, custodi e carnefici reciprocamente, non si aiutano, ma si comprendono, in una serie di azioni continuamente aperte e interrotte, sempre più perturbanti. Nel gioco di liquidi che avvelenano, tubi come cilici, capelli che soffocano, la lunga sequenza muta culmina in un crescendo forsennato, sostenuto dall’incalzare elettrico di una chitarra punk: è solo allora che dai corpi esausti delle interpreti sgorga potente la voce: «Sono nata per parlare». Il finale liberatorio permette la rilettura a ritroso dei segni. Tramite quei corpi “afflitti e macerati”, come scrive Santa Caterina stessa, la regia sembra giocare con l’empatia dello spettatore, più che con la sua elaborazione intellettuale, dispersa nella mole di significanti. (Sabrina Fasanella)

Visto al Mattatoio – La Pelanda – Romaeuropa Festival 2023 Progetto di Paolo Costantini, Carolina Ellero, Elisabetta Misasi, Evelina Rosselli. Regia Paolo Costantini. Con Carolina Ellero, Elisabetta Misasi, Evelina Rosselli. Liberamente tratto da “Il numero 22” di Alessia G. Matrisciano. Spazio scenico Alessandra Solimene. Composizione sonora Dario Felli. Disegno Luci Marco Guarrera.

INFAMOUS OFFSPRING (Ultima Vez/Win Vandekeybus)

Nel nuovo lavoro di Win Vandekeybus per Ultima Vez, Infamous Offspring, visto al Comunale di Ferrara in prima mondiale, sembra di assistere a un Calasso visualizzato o, per restare ai repertorî rinascimentali, un Cartari incorporato e ancóra presente, un reenactment dell’Iconologia del Ripa, se non proprio degli dèi minori del compendio di Boccaccio finalmente restituiti alla vita della loro performance. Il testo, attualizzante ma mai banale, è di Fiona Benson. La mitologia in scena è quella greca, i mezzi sono però assai tecnologici. Ai nove performer si aggiungono due schermi che proiettano i litigi fra Era, dea della fedeltà (l’attrice Lucy Black), e Zeus marito libertino, sessualmente incontinente (l’attore Daniel Copland), al quale soprattutto si deve tale infame progenie. Un altro schermo, questo bianco e nero, proietta gli interventi di Tiresia, interpretato muto (non cieco secondo mitologia) da uno straordinario, imperdibile Israel Galvàn. La trouvaille vale tutte le due ore di spettacolo: visibile solo dal busto, come la Winnie di Les beaux jours, tiene in mano due scarpe i cui tacchi sferrati sugli oggetti circostanti dettano il suono e il tempo del futuro. Tra gli infami che invece si dibattono sulla scena c’è Ares (che combina guai da quando ancóra non camminava), Efesto (lo storpio storto e contorto, qui nel corpo della incredibile contorsionista e pittrice Iona Kewney che produce anche continui disegni in cerca disperata di amore), Venere (che da sempre è considerata una bambola a grandezza naturale), Apollo (bello e nero come l’Arthur Mitchell di Balanchine), Callisto (stuprata da Zeus nelle sembianze della figlia), e Dioniso (un po’ baraccone perché duplice e senza misura), fra altri ancóra. Le passioni vili, le basse gelosie, le feroci avidità, nei movimenti aggressivi e animaleschi degli instancabili e pure ironici performer, sono già proprio quelle di tutti noi, impossibile non ritrovarsi. Un perentorio monito che ricorda da vicino il famoso brano dei The Smiths, Barbarism Begins at Home. (Stefano Tomassini)

Visto in prima mondiale al Teatro Comunale di Ferrara | regia e coreografia Wim Vandekeybus, creato con ed eseguito da Iona Kewney, Maria Zhi Tortosa Soriano, Lotta Sandborgh, Cola Ho Lok Yee, Samuel Planas, Rakesh Sukesh, Paola Taddeo, Adrian Thömmes, Hakim Abdou Mlanao, testo Fiona Benson, musica Warren Ellis/Dirty Three, ILA, costumi Isabelle Lhoas, scenografia Wim Vandekeybus,

W. PROVA DI RESISTENZA (di Beatrice Baruffini)

Quest'anno è giunto alla sua ottava edizione il festival palermitano Teatro Bastardo. Secondo gli intenti delle curatrici Flora Pitrolo e Giulia D'Oro, la manifestazione ha posto l'accento su una questione assolutamente contestuale: il rapporto tra corpo individuale e corpo collettivo, analizzato alla luce della nozione brechtiana di gestus quale punto di relazione visibile tra arte, storia e realtà sociale. Un nodo nevralgico, al quale tornare contro il ripiegamento sull'individuale spesso espresso da forme artistiche autoreferenziali, troppo comodamente distanti da una presa di posizione politica. W (Prova di Resistenza), di e con Beatrice Baruffini, già premio Scenario nel 2013, è una storia di resistenze e Resistenza costruita in scena – letteralmente costruita. La "prova" cui allude il titolo è il metodo usato per testare la solidità dei mattoni forati, sottoponendone i lati a un carico di peso sempre maggiore: W è il racconto di una comunità fatta proprio di mattoni resistenti. Sul palco i laterizi formano dapprima un tappeto compatto; attraverso movimenti precisi, sviluppati in una connessione quasi dialogica con gli oggetti, Baruffini restituisce loro un volto, un nome, addirittura una caratterizzazione. Sono uomini e donne comuni, poveri impasti di terra e polvere; sono anche blocchi neri, verticali come totem nel costituire una squadraccia. Le loro vicende scorrono senza cedimenti in una narrazione precisa, accurata: la voce di Baruffini taglia gli episodi come una lama, senza mai scadere in un'asettica ricostruzione cronachistica. In sprazzi di malinconica poesia, l'osservatore è posto davanti alla rievocazione di quel tempo straordinario in cui storia e Storia coincidono in un solo punto. Parola e gesto della performer animano i mattoni, umanizzandoli sino a renderli veri e propri soggetti di scena – ricordiamo le esperienze di Baruffini con Gyula Molnar. Sui laterizi l'interprete riesce a estendere il dinamismo plastico del proprio agire e crea situazioni addirittura filmiche, in qualche misterioso, miracoloso modo legate a un immaginario neoralista. La resistenza alle squadracce guidate a Parma da Italo Balbo è un'architettura fatta del contributo di "donne e uomini tutti d'un pezzo": ma sono tante e tanti, e il numero è potenza. (Tiziana Bonsignore)

Visto alla Chiesa di San Mattia ai Crociferi, Festival Teatro Bastardo 2023. Crediti: di e con Beatrice Baruffini tecnico Riccardo Reina disegno luci Emiliano Curà montaggio audio/suono Dario Andreoli. Foto di Stefania Mazzara

DA QUI IN POI CI SONO I LEONI (di Paola DI Mitri)

Cinquanta giorni e seimila chilometri dal sud al nord Italia: un attraversamento geografico e generazionale sulle tracce dell’impatto dell’uomo sull’ambiente. Da qui in poi ci sono i leoni è la videoinstallazione documentaria di Paola Di Mitri presentata a Romaeuropa festival: un percorso (documentato da Davide Crudetti) di osservazione del presente, di raccolta di materiali d’archivio e di visione sul futuro. Il visitatore è accolto dalle immagini dell’oggi, dapprima panoramiche, poi sempre più contaminate dallo sfruttamento umano, su grandi schermi corrispondenti alle quattro regioni coinvolte (Puglia, Sardegna, Liguria/Toscana e Piemonte). In un angolo della sala è ricostruito un salotto anni ’60 dove una tv a tubo catodico riproduce filmati privati e d’archivio, testimonianze di quel benessere, quella spensieratezza con la quale oggi facciamo i conti meno di quanto faremo domani. L’ultima parte dell’installazione - che non propone un percorso fisso, ma permette di spostarsi liberamente nello spazio e quindi nel tempo – è la più narrativa: ci si posiziona dando le spalle alle immagini del presente per ascoltare in cuffia i racconti dei cittadini che Di Mitri ha raccolto lungo il percorso. L’incontro con le comunità locali, gruppi eterogenei per età – dai bambini di Taranto vecchia agli adulti piemontesi – è un toccante «esercizio di immaginazione collettivo». Dai luoghi dove l’impatto antropico è più allarmante (la Taranto dell’Ilva, il Sulcis, la Val di Susa), la prospettiva sul futuro è deviata da un presente già fortemente compromesso. Ne nascono scenari inquieti, storie distopiche, messaggi dal futuro: la voce, accompagnata da occhi intensi, testimonia un domani che si fatica a immaginare roseo. Ma anche, a volte, barlumi di speranza, visioni di luce. «Chi non crede nel futuro non ne avrà uno», ammonisce una bambina. Il futuro assomiglia sempre di più ai leoni degli antichi cartografi, ma se esercitiamo lo sguardo sul presente e consegniamo le parole giuste al domani, potremmo ancora sperare di addomesticarli. (Sabrina Fasanella)

Visto al Mattatoio | Romaeuropa Festival. Video installazione documentaria di Paola Di Mitri con la creazione cinematografica di Davide Crudetti. Allestimento dello spazio espositivo Rosita Vallefuoco. Field recordings e spazio sonoro Gaspare Sammartano. Suono Jacopo Ruben Dell’Abate. Fotografia Matteo Calore, Davide Crudetti. Assistente di creazione Francesco Meloni. Collaborazione artistica Lorenzo Letizia. Produzione Cranpi con il contributo di MiC – Ministero della Cultura e di Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “ART~WAVES. Per la creatività, dall’idea alla scena”.

RICCARDO III (regia di Luca Ariano)

Un’impresa d’altri tempi questa di Luca Ariano che ha prodotto e diretto un Riccardo III in scena per due settimane. Lo spettacolo non è stato allestito in un teatro ma negli spazi di una ex cartiera, Citylab 971, edificio riqualificato nel 2019 e situato al civico 971 di via Salaria, a una decina di chilometri dal centro della città. Nonostante la lontananza il Riccardo III, che vede Pietro Faiella nel ruolo del titolo (oltre che ideatore del progetto insieme ad Ariano), tornerà tra novembre e dicembre con altre due serie di repliche. Ariano ha costruito un vero e proprio teatrino di 60 posti: lo spazio scenico è una scatola sopraelevata e vicinissima al pubblico, qui tutto è bianco. Nel chiarore abbacinante di uno spazio asettico e senza oggetti si muovono i personaggi shakespeariani (indossano i costumi di Elisa Leclè che strizzano l’occhio a immaginari conosciuti come Star Wars). La scena è un cubo le cui pareti si aprono e si chiudono modulando spazi e creando diversi livelli di profondità, fino agli ultimi momenti, in cui lo spazio si contrae quasi schiacciando il protagonista. Il regista nelle note evidenzia come questo luogo sia in perenne movimento, al pari della mente di Riccardo. Ed è suggestivo lo sguardo di Faiella, soprattutto nella primissima scena, negli occhi un maligno ironico alla Carmelo Bene. Il cambio decisivo, e di grande maestria, l’attore lo attua dopo aver preso la corona, qui la cattiveria diviene perdita di controllo, la paura attanaglia il nuovo Re che ormai si sente braccato. Intanto nel bianco della scena porte o pareti si tingono di colori saturati e le musiche sottolineano il precipitare della vicenda mutando il candore sonoro delle melodie classiche in un rock sempre più duro per tornare ad ammorbidirsi con My Way nel finale. Oltre a quello del protagonista da evidenziare il lavoro di Liliana Massari nelle vesti della Duchessa e di Roberto Baldassarri nei panni multipli di Hasting, Calrence e Sindaco. Ciò che manca ancora è una precisione maggiore e una profondità generale nella recitazione che sia al livello dello studio sullo spazio scenico. (Andrea Pocosgnich)

Visto a CityLab971 Credit: di W. Shakespeare Progetto di Luca Ariano e Pietro Faiella Regia di Luca Ariano Adattamento e aiuto regia Natalia Magni- Scenografia Alessandra Solimene- Costumi Elisa Leclè- Luci Max Comincini- Assistente alla regia Tessa Perrone- Responsabile di Produzione Romina Delmonte Produzione Officina Teatrale di Massimo Venturiello Personaggi e interpreti: Con: Riccardo III Pietro Faiella, Clarence/Hastings/Sindaco, Roberto Baldassarri, Elisabetta Gilda Deianira Ciao, Margherita/CittadinaIII Romina Delmonte, Catesby/Sicario I/Cittadino I Luca Di Capua, Anna/Cittadina II Lucia Fiocco, Rivers/Stanley Mirko Lorusso, Duchessa Liliana Massari, Buckingham/Sicario II Alessandro Moser

THE BACCHAE (di Elli Papakonstantinou)

Al cuore di The Bacchae di Elli Papakonstantinou, visto a REF negli spazi dell’ex Mattatoio, il mito classico delle baccanti viene rimodulato in chiave contemporanea e le questioni archetipiche (il polo desiderio/rifiuto dell’ignoto, di un divino come forza liberatrice e però distruttiva) diventano il terreno di battaglia su cui innestare discorsi, prassi ed estetiche a noi più vicine. Di questo Dioniso, “molecola che devia e viola”, che ha pelle dorata ma sembra un rifugiato politico, ci sarà sempre qualcuno che ne avrà terrore, che lo definirà “asteroide in grado di distruggere tutto così come era stato pensato”, mentre per qualcun altro sarà oggetto di brama per cui abbandonare tutto. Agave, Tiresia, Penteo e i due servitori, caratterizzati da identità queer (non sempre giustificate drammaturgicamente), sono figure ricche e apatiche, hanno movimenti esagerati eppure sembrano automi come in un mondo ovattato. La scena – digitale e non – è apocalittica: la tavola immacolata presto si sporcherà di rosso, le immagini astratte proiettate sulle tende ricordano le onde di un sismografo (oggetto che poi si vedrà dal vivo nella scena finale, come a indicare l’attuazione di ciò che era prima solo desiderio in potenza), alcune riprese live mostrano, tramite dettagli, l’indicibile del fuori scena. Le voci – inglese e greco sopratitolati, spesso cantate – si fanno portatrici di una parola che non cerca più il dialogo ma è suggestione o proclama o supplica. La ricchezza di segni e temi rimandano sì alla violenza carnale e alla fluidità di genere già insite nel mito ma questo riaggiornamento rischia di perdersi in una confusione scenica. Se nella versione Euripidea l’arrivo del dio nascosto diventava esternazione del potere della natura, estatica, primigenia, multiforme, qui ci troviamo in un mondo in cui questa forza sembra passata e se ne avverte un’ombra meno incisiva, che si diluisce ulteriormente nel lungo finale performativo. (Viviana Raciti)

Visto alla Pelanda, Romaesuropa Festival. Crediti: Concept / Art Direction Elli Papakonstantinou Text: Elli Papakonstantinou, Chloe Tzia Kolyri, Kakia Goudeli Choreography: SINE QUA NON ART – Christophe Béranger & Jonathan Pranlas / Performers: Ariah Lester, Georgios Iatrou, Hara Kotsali, Lito Messini, Vasilis Boutsikos, Aris Papadopoulos. Leggi tutti i crediti

EUCLIDEAN SPACE (di Eden Wiseman)

Lo spazio euclideo è un ambiente della geometria elementare, definito in termini assiomatici, cioè veri per evidenza intrinseca. Sembra dunque delinearsi una sorta di paradosso interno alla poetica di Eden Wisemanm, che sceglie di condurre un’indagine corporale fondata sulla inesausta problematizzazione dell’istanza dell’altro, entro un tale spazio, la cui tridimensionalità e la cui purezza si sostanziano di una tautologia. L’artista palestinese - qui in scena con Alma Maria Simon e Inbar Walter Kalfa -definisce Euclidean space un’installazione performativa, in omaggio a Iannis Xenakis, nuova versione di Xenakis 100, creato nel 2022 in occasione del centenario della nascita del compositore e architetto greco, primo teorico dell’applicazione alla musica delle leggi della probabilità e della logica. È quindi forse da ricercarsi in questo concetto di armonia acustica e plastica, intensa come tensione ma anche come legge, la chiave per avvicinarsi al campo di forze costruito dalle interpreti. Vestite di chiaro e situate su di una scena attraversata in ogni direzione da centinaia di sottilissimi fili di nylon bianco, le tre danzatrici, di continuo, elaborano e disfano le proprie relazioni corporali, quelle reciproche e quelle con l’habitat nel quale si muovono. La consapevolezza della duttilità delle fibre, come della loro resistenza, della malleabilità complessa (plausibile ed “espulsiva” insieme) della materia elastica è acquisita attraverso la messa in gioco del corpo, così come la sentieristica per elaborare il contatto con il corpo altrui, per raggiungerlo, passa attraverso la sperimentazione delle possibilità gesto, nella grazia, nello slancio, ma anche nella brutalità necessaria per fendere una resistenza, o un confine. La qualità della natura umana (come quella delle creazioni umane, come la verità segreta dei materiali) è un processo di decomposizione del nitore apparente, la complessità delle relazioni tiene insieme violenza, desiderio di dissoluzione, quiete, distanza, ritrazione e, nell’impossibilità di governarla, di fissare le sue leggi, si può invece tentare di metterla in scena, in forma di enigma stilizzato e mobile, diagramma sintetico della mutevolezza. (Ilaria Rossini)

Visto a Cantiere Oberdan, Umbria Factory Festival – Crediti: coreografia e installation design di Eden Wiseman; con Alma Maria Simon, Inbar Walter Kalfa & Eden Wiseman; musiche Rebonds B (1987-89) by Iannis Xenakis, Calla album (1999), Low drums and guns Braeker (2021), costumi di Sara Wiseman & GROUND Movement fashion brand; assistenza alla regia di Shai Cohen; consulenza artistica di Shiri Sabach Teicher; produzione LaMaMa Umbria Internasional & ZUT; con il sostegno dell’Ambasciata di Israele a Roma

WALKABOUT/PROMENADE (di Sonia Antinori, Lucia Baldini)

E se un viaggio fosse l’origine di altri viaggi? È una domanda che si pone ogni viaggiatore, spinto alla curiosità per l’andare altrove, diventare parte di un luogo, una cultura, farli propri non per mera appropriazione ma per atto di convivenza tra umani. Questo spirito ha mosso Sonia Antinori attraverso tutti i continenti menzionati nei suoi diari di viaggio, confluiti poi nel progetto performativo Walkabout/Promenade, dispositivo itinerante che vede la collaborazione di Lucia Baldini per le immagini e Arlo Bigazzi per la musica, con la regia di Ruggero Franceschini. Si tratta di un meccanismo performativo che prende ogni volta diversa forma perché si innerva, a partire dai racconti di viaggio in Burkina Faso, Cuba, Messico, Australia, alla geografia urbana e non, che si dispiega nei passi e negli occhi dei partecipanti. Ecco allora che il trasferimento di esperienza riesce con coinvolta appartenenza a penetrare il qui e ora, amplificando una percezione in grado di riprodurre contestualmente un altrove di tempo e spazio. Ogni volta la performance si arricchisce dunque di sviluppi imprevisti che, manifestandosi per esempio attraverso il tempo atmosferico, pongono dei problemi da risolvere: non è questo allora viaggiare? Al Festival Orizzonti di Chiusi, la scorsa estate, era previsto in barca lungo il lago, ma la pioggia ha creato il disagio prima e l’opportunità poi di vivere un’esperienza insolita, misurare i viaggi registrati, in ascolto mediante cuffie wi-fi, a un nuovo improvvisato percorso. E così la penetrazione nell’Africa Nera pone di fronte un museo di antichi reperti, la Cuba dei Castro ricalca le geometrie di una piazza del paese, il Messico appare nell’estensione della campagna toscana, l’Australia traspare nei pertugi della cisterna sotterranea risalente ai Romani. Ogni volta, un’occasione, mentre le immagini di Lucia Baldini forniscono come degli appunti iconografici con cui esaltare il senso del viaggio. A me resta una cartolina, ritrae una mano di pelle d’ambra, la osservo tutti i giorni in casa mia. E mi sembra quasi di stringerla. (Simone Nebbia)

Visto a Orizzonti Festival, Chiusi. Crediti: testo e voce Sonia Antinori; regia Ruggero Franceschini; immagini Lucia Baldini; musiche originali Arlo Bigazzi; una produzione MALTE

HO BISOGNO DI SENTIRE QUALCUNO CHE MI DICA CHE STO BENE (di M.T. Berardelli, Regia G. Vezzani)

Quattro donne, un tavolo, un appuntamento. Ho bisogno di sentire qualcuno che mi dica che sto bene è una battuta che decreta il primo dei molteplici ribaltamenti su cui si fonda lo spettacolo diretto da Giacomo Vezzani. Nata dalle improvvisazioni delle quattro interpreti (Elisa Di Eusanio, Giulia Galiani, Valentina Martino Ghiglia e Marta Nuti, notevoli per energia, varietà e qualità delle interpretazioni), la drammaturgia firmata da Maria Teresa Berardelli si incardina sul meccanismo di un gioco paradossale che scombina i piani di realtà, sdoppiando gli scenari. Le protagoniste si incontrano per una cena, ma più che quattro amiche vediamo quattro solitudini tenute insieme da quello stesso caso che, nell’avvicendarsi dei ripetuti black out drammaturgici, assegnerà ad ognuna di volta in volta una diversa versione di una comunque miserabile condizione. Ognuna è per l’altra solo lo specchio delle proprie debolezze, un pretesto per rafforzare la propria maschera, autoimposta e sorda, oppure per disfarsene sfacciatamente e altrettanto sordamente, senza speranza di redenzione, senza ipotesi di salvezza. Eppure la regia sembra indugiare su alcuni aspetti ironico/grotteschi – su tutti l’autoerotismo di uno dei personaggi, inizialmente posto come tema ma poi sviluppato in chiave esclusivamente comica - disinnescando la portata drammatica della vicenda. Emerge una serie di tematiche importanti – la sessualità, la maternità, la carriera, la menzogna, il potere – ma nessuna raggiunge una vera messa a fuoco, producendo una rappresentazione del femminile abbozzata e caotica per quanto sfaccettata. La sequenza finale – un’escalation pantomimica che culmina inaspettatamente in una coreografia su musica - conferma questa volontà, pur incontrando il favore del pubblico: probabilmente persistono tabù apparentemente obsoleti circa il piacere e l’emancipazione femminili, per cui c’è ancora bisogno di vederli messi in scena seppur da uno sguardo ancora una volta maschile. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Basilica. Drammaturgia Maria Teresa Berardelli. Da un’idea di: Di Eusanio, Galiani, Martino Ghiglia, Nuti. Con: Elisa Di Eusanio, Giulia Galiani, Valentina Martino Ghiglia, Marta Nuti. Regia Giacomo Vezzani. Costumi Marta Genovese. Scena Laura Giannisi. Luci Javier Delle Monache. Musiche e suono Vanja Sturno.

BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO… (Gruppo della Creta)

Secondo capitolo di una trilogia dedicata al Sudamerica, Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso si apre con un prologo del regista Alessandro Di Murro. Staccandosi dalla compagnia già in scena all’ingresso del pubblico, prima di lasciare il palco spiega la genesi dello spettacolo avvisando dell’incertezza della sua riuscita. La riscoperta del poco noto autore argentino-italiano J. R. Wilcock ispira un gioco scenico che ha per cardine un grande divano gonfiabile: Di Murro lo presenta risalendone all’etimologia che lo accomuna tanto alla poesia quanto al confine. Tali premesse restano però in qualche modo inevase: come a dare all’operazione un’aura patinata che verrà poi smentita dal lavoro stesso. C’è nella cifra del Gruppo della Creta, dalla scrittura alla presenza scenica, un’ostentata distanza, un aplomb che indugia sull’equivoco tra una lucida alienazione generazionale e una supponente posa borghese. Già il lungo titolo del lavoro, evocazione de “l’angelo custode” Wilcock, contiene entrambe le letture: il progresso del verso originale diventa successo e la parola solo, che presumibilmente in origine è avverbio, diventa soli, aggettivo. Lo spettacolo si sviluppa in tre momenti. Il primo, col divano rivolto verso il fondo del palco, è un agonistico quanto indolente interrogarsi sulla morte. I quattro attori, mai personaggi (Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Mondo e Laura Pannia) si danno il cambio in un botta e risposta asettico e sempre più frenetico che non lascia spazio all’indugio della confessione. Il secondo momento è un altrettanto alienato gioco sulla scelta: il divano questa volta guarda il pubblico e i posti a sedere su di esso rappresentano il ruolo sociale (ormai obsolete e irraggiungibili eredità dei boomer) messo in palio da una speaker che incoraggia i concorrenti come in un luna park, ostentatamente finto. L’ultimo momento risolve una tensione in verità solo simulata nel più italiano dei modi, con un caffè, dei pasticcini e una chitarra, in un finale alla “volemose bene” ché tanto questo parlarsi addosso non è che un passatempo, un’inutile guerra tra miserabili, lucido e implacabile ritratto di una resa generazionale. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Drammaturgia di Tommaso Cardelli, Alessandro Di Murro e Tommaso Emiliani. Regia di Alessandro Di Murro. Musiche originali di Enea Chisci. con gli attori del Gruppo della Creta. Scene di Paola Castrignanò. Costumi Giulia Barcaroli. Assistente alla regia Ilaria Iuozzo.

UNBEARABLE DARKNESS (Choy Ka Fai)

Mentre gli ultimi spettatori ritardatari prendono posto in una delle sale allestite alla Pelanda, per la sezione Digitalive di Romaeuropa, il video ci porta già tra le colline del Giappone, in un cimitero, c’è una lapide con la scultura di un piede, qui abita il corpo di Tatsumi Hijikata, uno dei maestri fondatori del butō. Cambio di ambientazione, siamo all'entrata di uno dei numerosi festival che in Giappone vengono dedicati al culto dei cari estinti. Qui, pagando, è possibile parlare con una sciamana per mettersi in contatto con la persona deceduta. La drammaturgia prende una piega inaspettata: in una assurda ma implacabile scena in video viene intervistata una medium, la quale, diventando portavoce in prima persona dell’artista defunto, non fa altro che dire quanto sia dispiaciuto, perché avrebbe avuto ancora tanto da fare; potrebbe sembrare una bizzarria demenziale - anche se giocata molto seriamente -, fin quando la sciamana comincia a parlare della danza butō come la danza del buio, “il buio è un inferno”, afferma con la consapevolezza di chi conosce intimamente. Due performer in scena: una con una tuta da motion capture e una con una funzione rituale, la seconda canta e si prende cura del rito buddista, perché quello che avviene in scena è una sorta di seduta spiritica che si avvale delle tecnologie digitali e della coreografia live per evocare il maestro. Sullo schermo appare l’avatar del Tatsumi Hijikata e i suoi testi; ”il punto di partenza non era tentare di stare in piedi, ma riuscire a non starci”; appaiono i titoli delle performance originali, gli anni in cui furono create, ma l’obiettivo lentamente lascia il campo documentaristico per entrare in quello della fantasmagoria: Choy Ka Fai inventa mondi digitali fatti di reticoli, immagini saturate, ironiche danze falliche e paesaggi lisergici. Nonostante Unbearable Darkness sia una creazione precedente a Yishun is Burning, vista lo scorso anno, l’artista singaporiano dimostra anche qui di essere una delle menti più innovative e fervide nel campo delle arti performative integrate nei linguaggi digitali. (Andrea Pocosgnich)

Visto alla Pelanda, Digitalive, Romaeuropa Festival Credit: Concept, Documentary and Direction – Choy Ka Fai Choreographic Presence and Paranormal Performance – Tatsumi Hijikata Dramaturgy – Tang Fu Kuen Crediti completi

ALBUM (Kepler-452)

Nel grande hangar dell’ex Atr di Forlì non c’è una vera e propria scena e non siamo disposti in un cerchio ordinato: una libreria con qualche oggetto, dei vecchi tv catodici, un paio di monitor, un tavolo con una consolle audio. Nicola Borghesi, lì in mezzo, comincia a parlare delle anguille: tutti gli esemplari del mondo nascono nel Mar dei Sargassi per poi tornarci a deporre a loro volta le uova. La drammaturgia di Kepler-452 mostra lo stupefacente cammino dei pesci per parlarci di memoria e di Alzheimer: il collettivo bolognese ha vinto un bando europeo che gli ha permesso di implementare una ricerca sul campo, tra le famiglie, i pazienti, dall’Emila Romagna a Budapest. Cosa vuol dire perdere la memoria, non riconoscere gli altri? Cosa accade nelle famiglie? Il nostro narratore riceve una telefonata, si allontana, una camera lo riprende a distanza, un suggestivo ed efficace campo lungo appare nei monitor, la notizia della diagnosi del padre viene recitata con le scritte, come nel cinema muto. Ancora una volta la compagnia formata da Nicola Borghesi e Enrico Baraldi,  con la collaborazione di Riccardo Tabilio, riesce a tastare il polso dei nostri giorni, a leggere nel presente, dando un nome alle nostre paure, vivisezionandole ma con delicatezza e rispetto. Borghesi prende degli oggetti, vecchie fotografie - “la riconosci questa persona?”, chiede a uno spettatore? -, gli oggetti rappresentano le nostre memorie fin quando li riconosciamo. "Qual è la canzone preferita di tuo padre?", Chiede a un’altra spettatrice. E quando comincia a sentirsi Dance me to the end of love di Leonard Cohen sorridiamo per la capacità di questo teatro di essere ironicamente umano; potrebbe finire qui e invece c’è ancora il tempo per strappare un’immagine all’ultima alluvione in Romagna, viene svuotato un sacco pieno di oggetti impolverati, brandelli di vita salvati dalla discarica. Ciò che rimane dei ricordi. Nella mente come in quel sacco, dopo un’alluvione. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Colpi di Scena 2023 Ex Atr, Forlì. Crediti: a cura di Kepler-452 (Nicola Borghesi e Enrico Baraldi) in scena Nicola Borghesi con la collaborazione di Riccardo Tabilio ideazione tecnica Andrea Bovaia coordinamento Roberta Gabriele Progetto vincitore del bando Daily Bread nell’ambito del progetto europeo Stronger Peripheries: a Southern Coalition in coproduzione con Pergine Festival, Pro Progressione e L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino

COME HO IMPARATO A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA RUSSIA (Teodoro Bonci Del Bene)

Tra gli spettacoli visti nei due giorni che abbiamo dedicato a Colpi di Scena, la vetrina organizzata a Forlì e Bagnacavallo da Accademia Perduta, il più sfuggente e difficile da classificare è sicuramente quello di Teodoro Bonci Del Bene, che però è anche uno tra i più interessanti: Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Russia, titolo che lampeggia di ironia ma anche di inquietudini contemporanee, di ipocrisie sovranazionali e anche di un triste realismo politico. Bonci Del Bene, è solo in scena, pantaloni e giacchetto nero, un berretto senza visiera ad evidenziare uno stile street, ricercato. L’approccio è quello di una stand-up comedy percussiva, dal tono e dal ritmo martellante. Comincia con un elenco di intellettuali e artisti in esilio, un'intera generazione è dovuta fuggire, anche Ivan Vyrypaev - i cui testi sono stati portati in Italia proprio da Bonci Del Bene - ha rinunciato alla cittadinanza russa dal 2022 per vivere in Polonia. Chi rimane se la deve vedere con il regime, come è accaduto alla regista teatrale Jena Berkovich. In uno dei momenti più toccanti l’attore e regista racconta di alcuni messaggi scambiati con gli ex compagni di accademia - Bonci Del Bene sì è diplomato a Mosca, dove ha passato quattro anni dal 2004 -, questi rispondendo alle domande sulla situazione all’indomani della guerra spiegano come il periodo da loro vissuto in accademia (internazionale e che vedeva convivere russi e americani) sia ormai solo un sogno. Seguiranno le foto di quel periodo, la lancinante malinconia della vita di qualcun altro che rivive per un attimo attraverso vecchie foto: ragazzi e ragazze che si divertono, che studiano in sala. Un mondo inghiottito nella deriva autarchica e violenta di una nazione. Questa linea drammaturgica si dipana parallelamente a quella metateatrale relativa alle messinscene di un giovane artista russo che non vuole piegarsi al regime: ci troviamo un’ironia piacevolmente fuori tempo e fuori dagli schemi. Nel lavoro di Bonci Del Bene il dato biografico si apre alla complessità del reale, ci chiede - e merita - ascolto e spazio. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Colpi di Scena 2023 teatro San Luigi, Forlì. Crediti: di e con Teodoro Bonci Del Bene aiuto regia e aiuto drammaturgia Francesca Gabucci costumi Medina Mekhtieva - video Vladimir Bertozzi foto di scena e locandina Federico Pitto

IO CHE AMO SOLO TE (di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli)

C’è qualcosa di originario, una sincerità pungente nella recitazione dei due giovanissimi attori protagonisti della vicenda scritta da Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli. Sono Riccardo D’Alessandro e Andrea Lintozzi ed è a causa loro se gli spettatori e le spettatrici - soprattutto operatori - hanno dovuto asciugarsi qualche lacrima durante la mattina del secondo giorno della rassegna-vetrina Colpi di scena. La compagnia è la romana Bluestocking, qui prodotta da Società per attori e il testo ha il merito di dare corpo teatrale a una di quelle vicende che spesso occupano la cronaca, ma in questi casi l’arte deve saper guardare dietro agli accadimenti, dentro la vita delle persone, tra i loro sguardi. Cosa c’è prima e dopo il suicidio di un adolescente causato dall’omofobia di amici e compagni di classe? Qui si comincia con il ritorno al passato di un uomo ormai nel pieno della maturità, forse di fronte a una lapide: il suo alter ego adolescente apparirà in scena dopo qualche attimo; siamo a casa di un ragazzo, Niccolò, che ha organizzato una festa sfruttando l'assenza dei genitori; andati tutti via rimarrà da solo con il suo migliore amico, Valentino, finiranno a letto insieme, svegliandosi poi colmi di una nuova esperienza e scioccati dai tanti dubbi. Una volta scoperti dagli amici Vale negherà tutto e da amico e amante si trasformerà in una delle belve del gruppo, Nicco viene picchiato e allontanato, mai più partite di calcio insieme e gite al mare. Lintozzi ha un'espressività non comune, è commovente ad esempio una delle ultime scene in cui il ragazzo prima di abbandonarsi al suicidio immagina il ritorno di Vale.  Ma questi tornerà solo molti anni dopo a chiedere scusa di fronte a quella lapide. C’è forse qualche verbosità in eccesso nella scrittura, un impianto registico non sorprendente, con il classico divano come misura dell’interno casalingo, ma Io che amo solo te ha il merito di raccontare una storia piccola, di amicizia fraterna e amore adolescenziale, che diventa lentamente grande e dolorosa tra gli imbarazzi, le battute sceme e gli occhi gonfi di pianto. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Colpi di Scena 2023 teatro San Luigi, Forlì. Crediti: di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli con Riccardo D’Alessandro, Alessandro Di Marco, Andrea Lintozzi scene e costumi Nicola Civinini aiuto regia Guido Del Vento light design Sirio Lupaioli foto Marcella Cistola e Simona Casadei regia Alessandro Di Marco produzione Bluestocking e Società per Attori

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