ECHOLALIAS + IL TERZO REICH (Sofia Jernberg, Romeo Castelucci)
Tra il pubblico qualcuno ammette di non essere mai stato in questo luogo, il Teatro Nazionale, l’entrata è proprio all’angolo tra via del Viminale e via De Pretis; è la Roma turistica ma anche la Roma del potere. E d’altronde siamo qui per “una diade sul linguaggio e il suo potere”, così la curatela di Piersandra Di Matteo ha immaginato di ancorare l’installazione di Romeo Castellucci, Terzo Reich alla performance vocale di Sofia Jernberg, Echolalias, the Amnesia of Forgotten Sounds. La ricerca vocale e canora dell’artista svedese (ed etiope di nascita) mette in dialogo e in contrapposizione mondi sonori apparentemente lontani. Sussurri, rumori, fischi e un campionario di effetti con cui viene intessuta una stratificazione sonora terrena, animalesca e fisica in contrapposizione all’edificio vocale dolcemente melodico della tradizione italiana: dal barocco di O leggiadri Occhi Belli (anonimo seicentesco) e di Che si può fare (1664 Barbara Strozzi) a un frammento della Tosca di Puccini; con una parentesi sulla storia dell’Etiopia in cui Jernberg canta Adwa, di Ejigayehu Shibabaw, suggestiva canzone tributo alla storica battaglia. Basterà un buio e una luce che illuminerà una frazione di spina dorsale appoggiata sul palcoscenico per dare il via a Terzo Reich, la prima parola che appare sullo sfondo è come un colpo di pistola, ci sorprende e quasi spaventa. “Cosa”, “osso”, “legge”… i vocaboli inizialmente si percepiscono con una certa facilità, poi bisognerà intraprendere una lotta con la dittatura di questa macchina in grado di mitragliare decine e decine di termini al secondo. Il Terzo Reich di Castellucci è il fiume di parole in cui siamo costretti a vivere, un mare di segni senza discorso. Qualcuno si ribella ed esce, altri non riescono a staccare lo sguardo da questo flusso ipnotico, chi si abbandona e chi cerca di strappare di tanto in tanto il significato ai significanti, ma è sempre più difficile, le forme predominano: i sostantivi (tutti quelli presenti nel vocabolario italiano) si combinano, ora, per lunghezza. Prima della chiusura la macchina rallenta lasciando esplodere lentamente cinque vocaboli in grado di comporre interrogativi di un misticismo a tratti biblico: "concezione", “abisso”, “vittima, “frutto”, “orizzonte”. (Andrea Pocosgnich)
Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: foto Claudia Pajewski, Qui il link ai crediti di entrambi gli spettacoli
HAVE A SAFE TRAVEL (Eli Mathieu-Bustos)
Il finale è una fotografia muta, Eli Mathieu-Bustos guarda verso la platea. Passano interi minuti, lunghissimi e nulla accade se non quello sguardo; qualcuno mi suggerisce sottovoce che non può esserci un buio, una fine, perché questa è la realtà delle cose, del vivere quotidiano. Mathieu-Bustos è un artista giovanissimo - come molte delle scoperte internazionali di Short Theatre quest’anno - nato nel 1998 si è formato tra la Francia e Bruxelles, in questo lavoro inserisce all’interno di una coreografia fisica precisa e tagliente una narrazione tanto semplice quanto potente. Il racconto è un fatto realmente accaduto durante un viaggio in treno dal Belgio alla Svizzera. Un poliziotto entra nel vagone del giovane e comincia a interrogarlo e perquisirlo con con insolito zelo e malcelata pressione. Eli Mathieu-Busto racconta, con pochissimi gesti, soprattutto del volto, mostrando la propria nudità di cui non nasconde i tratti fisici femminili, perché quella nudità evidentemente è l’emblema di un corpo esposto alla violenza verbale e psicologica delle forze dell’ordine, un corpo razzializzato e indifeso. Chi sei? Cosa fai? Sono un danzatore. Il racconto si ferma solo per dare spazio alla partitura fisica, da quanto si legge derivata proprio da un'improvvisazione in grado di trasformare la violenza subita in scrittura fisica: senza musica gli arti tagliano lo spazio con una forza quasi da arti marziali. Basta sfogliare questo report di Fair Trials per rendersi conto della situazione europea circa razzismo e forze dell’ordine. Se in Francia nel 2022 una persona percepita come musulmana, magrebina o nera aveva 20 volte in più la possibilità di essere fermata la perquisizione raccontata dall’artista non stupisce (ma tocca e rattrista lo spettatore attento), racconta un dato reale e inquietante come d’altronde è inquietante l’ironia sinistra contenuta nella frase con cui il poliziotto saluta il viaggiatore, quel “Have a Safe Travel” che dà il titolo alla performance. (Andrea Pocosgnich)
Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: coreografia, drammaturgia, interpretazione, concept Eli Mathieu-Bustos produzione esecutiva Anaku lighting design Maureen Béguin sound design Loucka Fiagan con il supporto di Wipcoop/ Mestizo Arts Platform, Kvs, La Bellone, Be My Guest – International Network for emerging practices, Kaaitheater, La Balsamine, Desingel, Atelier 210, Anaku, Buda for the feminist futures festival, Belluard Bollwerk festival, Short Theatre festival. Foto Claudia Pajewski
IN A CORNER THE SKY SURRENDERS… (di Robyn Orlin, con Nadia Beugré)
C’è da riflettere su ciò che dicono alcuni sguardi che con attenzione considerano la scena di oggi, soprattutto quella proposta da luoghi come Short Theatre, Santarcangelo o Centrale Fies: stiamo forse assistendo a una lenta mutazione dell’accezione del termine “performativo”. Se oggi l'evoluzione narrativa sembra procedere per emersioni e spostamenti di densità, vedere un lavoro come In a Corner the Sky Surrenders della sudafricana Robyn Orlin ci ricorda che prima c’è stato un tempo in cui la drammaturgia del corpo aveva ancora il compito di svelarsi suddividendo il discorso delle immagini in blocchi semantici ben definiti. Con l’aggiunta di un secondo titolo – Unplugging Archival Journeys (for Nadia) – il solo che nel 1994 aveva consacrato la “danza arrabbiata” di Orlin si rianima nel 2022 per la coreografa e performer ivoriana Nadia Beugré. Ella contribuisce a rideclinare, aggiornandola al presente post-pandemico, quella lacerante meditazione sullo sradicamento e sulla solitudine. L’intera performance è agita usando come struttura modulare un grande scatolone da imballaggio che – squadernato, ricomposto ed eretto, quadro dopo quadro, su tutti e sei i lati – definisce ora uno spazio claustrofobico, ora un respiro di cielo, ora un palco per squallidi spettacoli di un effimero varietà. In un divertito dialogo con due altre figure, dietro a rispettive consolle ai lati del palco, e con una spettatrice invitata a eseguire un intimo massaggio, la performance è illuminata solo da una piccola ribalta di luci a led. La danza conduce un costante e divertito riesame critico delle posture, come nel tentativo di governare lo sguardo altrui mentre il discorso sulle «strategie di adattamento» sfocia in un rito propiziatorio alla libertà personale, consegnato come simbolico carico a un trenino elettrico incastrato in un binario circolare. Il corpo di Nadia Beugré è esplosivo, acuto nell’espressività e profondamente sensuale, dissacrante e irresistibile la sua danza che, mescolando tratti popolari ad accenti estremamente contemporanei, critica e demolisce ogni approccio esotista e coloniale. (Sergio Lo Gatto)
Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits:Un progetto di Robyn Orlin, creato nel 1994 e rianimato nel 2022 performer Nadia Beugrécostumi Birgit Neppl ricostruzione del set Annie Tolleter direzione tecnica Beatriz Kaysel Velasco e Cruz musica e sound Cedrik Fermont
MINING STORIES (di Silke Huysmans e Hannes Dereere)
La diffusione mediatica di un fatto di cronaca ha un impatto rilevante sull’opinione pubblica, determina la presa d’atto della comunità cui si riferisce (secondo gli effetti: locale, nazionale, umana) attraverso la discussione del fatto in sé e, contestualmente, le testimonianze ad avvalorarne importanza e veridicità. Se se ne tracciasse un grafico, si vedrebbe al momento della notizia il picco più alto, con un contraltare in basso nello spazio del prima, quando cioè un fatto può essere prevedibile, e del dopo, quando c’è da valutare più lucidamente gli effetti. Proprio in questo settore si situa il lavoro Mining Stories di Silke Huysmans e Hannes Dereere, presentato in apertura di Short Theatre 2023, primo capitolo (2016) di una trilogia sullo sfruttamento del sottosuolo. Storie dell’estrazione o, all'opposto, Estrarre storie, la traduzione. Ma il risultato non muta. Infatti il lavoro si compone di una raccolta di storie che riguardano una storia originaria: il crollo di una diga in Brasile, a pochi passi dalla casa natale di Huysmans, il 5 novembre 2015. La dimensione autobiografica, che non emerge nei racconti, sarà tuttavia determinante per leggere, dopo, la qualità delle testimonianze. Huysmans è sola in scena, in alto alle sue spalle una serie di schermi in fila, recanti ognuno il nome di chi parlerà in quel riquadro; di fronte a lei una pedaliera che azionerà le voci, prima di singole opinioni, poi via via in una intersezione di frammenti che su una base musicale compongono, come un rap, un racconto collettivo, una partitura di voci mescolate. La voce, appunto, della comunità. C’è chi dopo la tragedia e i molti morti non vuole più l’estrazione nella regione di Minas Gerais, c’è chi in contrario ricorda che senza di essa la regione muore, perché rappresenta il 90% del PIL regionale. In un tempo di dibattito ambientale, con questo lavoro sul rapporto tra catastrofe e capitalismo Huysmans e Dereere riflettono sull’esercizio di memoria e sull’identità, individuale o globale, focalizzando la loro indagine sull’impatto universale del rapporto tra causa ed effetto: si scrive diga, si legga mondo. (Simone Nebbia)
Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: Creato da Silke Huysmans, Hannes Dereere performance Silke Huysmans consulenza drammaturgica Dries Douibi supporto tecnico Christoph Donse scenografia Frédéric Aelterman, Luc Cools
BOLERO DE BIENVENIDA (di Lorena Stadelmann)
Rosse sono le stoffe, i vestiti e le maschere che compongono un piccolo fondale, rossa è la maglietta T-shirt sopra il pantaloncino azzurro, come rosso è un drappo con il quale è segnata la scacchiera sul pavimento, Lorena Stadelmann ha chiuso gli appuntamenti performativi della prima serata di Short Theatre 2023 alla Pelanda lasciando il testimone al duo di dj italo-peruviani, La Diferencia, che avrebbero chiuso, in questo modo, un piccolo percorso sull’America Latina, cominciato con il Brasile raccontato da Silke Huysmans e Hannes Dereere.
Stadelmann si prende quella striscia di spazio di fronte alla scena, è il suo luogo, stretta tra le due colonne che sostengono i soffitti dell’ex mattatoio, in questa sorta di proscenio post industriale comincia una performance in cui vengono convocati canti, accenni di danza, arti visive. Ma il primo atto è quello di una voce, che però non ha nulla a che vedere con la performance canora dedicata all’intrattenimento, Bolero de Bienvenida viene, a ragione, presentato come il rito di una performer sciamana. Il centro è la ricerca vocale che l’artista ventottenne svizzero-guatemalteca sta intraprendendo, nel 2021 era uscito il primo album, Síndrome Premenstrual, del suo progetto musicale Baby Volcano (con cui andrà in scena alla Pelanda il 9 settembre). In Bolero de Bienvenida la voce però viaggia su canali di sperimentalismo puro: sorretta da un talento cristallino Stadelmann vocalizza suoni piccolissimi che lentamente si trasformano diventando sessioni ritmiche quasi da rap. L’eclettismo performativo di questa giovane e carismatica artista è evidente anche nell’approccio scenografico; è autrice dei costumi, dei filati e delle maschere (che compaiono anche in alcuni dei video musicali). E poi quel reticolato proiettato sulle pareti che quasi trasforma lo spazio in una caverna aliena mentre quella voce, composta da mille voci, rumori e risuonatori che rimbalzano dai muscoli agli sguardi ipnotici, diventa una nenia soffiata in piccoli megafoni. (Andrea Pocosgnich)
Visto a La Pelanda, Short theatre 2023. Credits: regia, performance, allestimenti, costumi, sound design Lorena Stadelmann aka Baby Volcano lighting design Justine Bouillet sound engineering Stéphane Murugan drammaturgia Adina Secretan accompagnamento artistico L’Abri-Genève
A PESO MORTO (di Carlo Massari)
Un tempo, nelle grandi città, c’erano le periferie, zone lontane dal centro che vivevano con esso uno strano rapporto di rispetto e dispetto, perché ognuna aveva un centro tutto suo – la piazza con la chiesa, con il bar, l’edicola – in cui avvertire la propria identità, la propria appartenenza di comunità. Ma poi, con l’avvento delle Aree Metropolitane imposte da una metamorfosi ministeriale, tutto è cambiato: le periferie inglobate nella città hanno perso un centro; e così gli abitanti hanno perso il proprio riferimento per riconoscersi. A questa figura guarda Carlo Massari che porta a Perito – piccolo paese in cui Cilentart Fest realizza forse il suo maggiore sforzo di creazione di nuovi pubblici – A peso morto, coreografia che non è unicamente danza, ma che si carica di una manifesta rappresentazione dell’uomo contemporaneo. Primo passo di un trittico che comprende Lei e L’Altro, questo Lui incarna tutto il caos dispersivo che ha raggirato l’uomo periferico; il corpo di Massari, pur giovane, tradito da un segno anagrafico solo identitario si mostra sulla scena in maschera da anziano, gravita verso il basso (appunto, a peso morto) come un residuo, ciò che di troppo cade e va eliminato. Si invecchia presto, sembra dire, in questa periferia senza speranza. La danza muove inizialmente ritmi vorticosi e leggeri di balera, ma pian piano un rumore sempre più invadente ne copre la melodia e schiaccia a terra il corpo che, nel tentativo di rialzarsi, solo rimane appeso a quelle gambe traballanti, finché non perde addirittura l’indumento che le copre, ultimo atto esibito della dignità. La musica non c’è più, sommersa, sovrastata dal rumore; l’umano è dunque disorientato e cerca di trasformarsi come un serpente cambia la muta, ma ormai il centro è dislocato e con esso si spostano i confini del corpo in un altrove che lo depersonalizza, come vivesse una sorta di emigrazione al contrario, una “demigrazione” continua in cui non è l’essere umano a spostarsi, raggiungere un altro luogo, ma è il luogo stesso che si trasforma e migra attorno. (Simone Nebbia)
Visto a Perito (SA), Cilentart Fest. Credits: Creazione originale ed interpretazione Carlo Massari; Maschere Lee Ellis; Produzione C&C; In co-produzione con Margine Operativo
VAGUE (di Piergiorgio Milano)
Siamo nella spiaggetta della marina di Agropoli, in una delle numerose location in cui Cilentart, il festival diretto da Vittorio Stasi e Alfredo Balsamo, prende posto abitando luoghi suggestivi in relazione con la natura e le antiche architetture dei borghi cilentani. Prima dell’arrivo degli artisti di Vague c’è una sorta di trasformazione antropologica: mentre il tramonto si prende la scena, i bagnanti lasciano il posto alle spettatrici e agli spettatori; di fronte al luogo delimitato si forma una platea di teli e abiti casual. Come accade sempre in questi casi le platee dunque saranno almeno due, quella di chi ha scelto lo spettacolo premurandosi di scoprirlo nel programma del festival e quella di chi è lì per portare a termine la propria giornata di mare. Dei secondi è spesso interessante ammirare l’effetto inatteso della performance, la sorpresa negli occhi, i commenti divertiti. Qualcuno non curante dello spazio scenico lo attraverserà con passo anziano - e inevitabilmente teatrale - diventando suo malgrado fulcro momentaneo dell’opera artistica. Ma prima quello spazio era stato luogo di incontro di tre corpi (Lucia Brusadin, Andrea Cerrato, Piergiorgio Milano). Sembrano scavarsi la fossa, in realtà preparano le radici: i loro busti emergeranno dalla sabbia danzando, con le braccia al vento, sulla musica di violino live di Raffaele Rebaudengo; sembrano esseri vegetali, forse alghe. Eppure, dopo qualche minuto, l’acqua alle loro spalle rappresenterà l’attrattiva più potente, i tre, vestiti di tute dai colori cangianti in base all’illuminazione naturale, lasceranno le proprie radici per immergersi nel mare: esercizi quasi da nuoto sincronizzato e poi il colpo di teatro. Due dei performer spariscono alla nostra vista per interi e lunghissimi minuti, mentre Brusadin folleggia, con acrobazie circensi, su un trespolo a pelo d’acqua. La suspance per la difficoltà degli esercizi ma anche l’illusionismo di cui si ammantano fanno di questo lavoro un prezioso esempio di circo acquatico. Chi vorrà potrà leggerci una metafora: l’essere umano per rinascere dovrà prima perdersi nella natura. (Andrea Pocosgnich)
Visto ad Agropoli, Spiaggia della Marina, Cilentart Fest. Direzione e coreografia Piergiorgio Milano performer Lucia Brusadin, Andrea Cerrato, Piergiorgio Milano musica dal vivo Raffaele Rebaudengo costumi Jennifer Defays, Emanuele Borello, Carine Grimonpont produzione Marta Gallo – Gelsomina
TRACCE (di Marco Baliani)
Ad Omignano, nel programma di Cilentart Fest, in un cortile che si fa radura ai piedi di Palazzo Gorga, abbiamo avuto la fortuna di ascoltare e vedere un maestro, Marco Baliani. Di fronte a noi solo un palchetto, al centro del quale una sedia: Baliani seduto per più di un'ora a tessere parole, a "nominare il mondo", partendo dal concetto di stupore. Un piccolo spettacolo in cui biografia, storie, fiabe e riflessioni si intrecciano con una sapienza alimentata da decenni di mestiere. Ecco, quella parola: “maestro”, ingombrante, ma in grado di mostrare il radicamento dell'arte nelle fibre dei muscoli, nelle dita che ogni tanto si muovono con fibrillazione, nella naturalezza della postura e nell'energia che scorre nel corpo. Una vita a raccontare, fino a quando il corpo diventa esso stesso racconto. Che il corpo sia centrale anche nell’arte del racconto orale Baliani lo intuisce presto: durante le vacanze in famiglia sul lago maggiore, qui la nonna raccontava storie tremende, di paura e sgomento. Racconti in cui trovavano spazio cruenti particolari, come corpi smembrati che scendevano da un camino, lo stesso che la nonna aveva in casa, come d’altronde la cucina che veniva raccontata nella storia era quella in cui i bambini ascoltavano. Baliani sottolinea questa straordinaria capacità di far entrare la realtà nel racconto come di una tecnica di cui si nutrirà anche il proprio mestiere. Ma eravamo al corpo: quando nella storia si parla di una mano che appare nel camino ecco che la nonna con una mano impugna l’altra agitandola come fosse amputata, basta la penombra a fare il resto e a incutere paura. Quella donna, consapevole del proprio talento di narratrice, istintivamente aveva compreso il valore del corpo nel racconto – lo aveva capito prima di Dario Fo, scherza Baliani. Non c’è un testo scritto in questa prova, l’attore lavora senza rete, soffermandosi su preziose digressioni, per ritrovare poi i passi e le tracce di un canovaccio con il quale risalire il sentiero. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Palazzo Gorgone, Omignano, Cilentart Fest. Dall’omonimo saggio di Ernst Bloch di e con Marco Baliani organizzazione e promozione Ilenia Carrone produzione Casa degli Alfieri
BMOTION (Aurelio di Virgilio, Leila Ka, Olga Dukhovnaya, Collettivo Cinetico)
Si rassegnino i più superstiziosi e perplessi, al festival BMotion Danza 2023 di Bassano del Grappa si danza da fermi: contro la dittatura del futuro, i disciplinamenti del presente, le ideologie oppressive, e le erezioni mancate (e non è un refuso). È una condizione di resistenza tutta del presente, già acquisita dalla scena contemporanea. E la programmazione dei primi giorni di questo festival ne è una più vera conferma. A partire da Jeplane del giovanissimo Aurelio di Virgilio che, in una ristretta ecologia dello spazio, con frenetiche sbracciate costruisce architetture immaginarie. Leila Ka invece in To cut loose dà vita a un assolo tutto incarcerato sui piedi, ma liberato nel potere dell’energia delle braccia e del torso. L’ucraina Olga Dukhovnaya in Swan Lake Solo pone un interrogativo politico sull’uso del passato, rifacendo in un chiuso assolo Swan Lake come un modo di elaborare il lutto. Fino al Manifesto Cannibale di Collettivo Cinetico che è un vero e proprio atto d’amore per Francesca Pennini che, qui in scena, si rende fantasma sotto un lenzuolo perché del lavoro non ha potuto seguire e vedere la composizione. Ogni tanto però con la magia di un flash interrompe la scena, la guarda e commenta sorpresa ‘come per la prima volta’ il lavoro, condotto in autonomia da questi disgraziati, quasi sempre nudi, e che di sorprese gliene hanno approntate molte. È infatti una continua rivelazione di giochi con la musica di Shubert, dal ciclo Winterreise (D.911), a tratti anche dal vivo grazie al bravissimo Davide Finotti, ma anche di atti invisibili (se non proprio di erezioni mancate). Scorretto ora spoilerare. Unico vero imperdonabile errore (macché, così tanto per dire...): al termine della prima parte si annuncia la fine della danza e l’inizio di manifesto cannibale, che è un atto di immobilità improvvisa a chi resiste per ultimo. (Per la cronaca ha vinto Angelo, io ho tifato Teodora.) Ma la danza a me pare invece inizî proprio da qui. È del resto un noto adagio eliotiano: «al punto fermo, là è la danza». (Stefano Tomassini)
DEAR LAILA (Basel Zaara)
Lo spettacolo più emozionante nei tre giorni passati a Santarcangelo è forse anche il più piccolo. Non ci sono interpreti, non c’è altro pubblico, lo spettatore, nella propria solitudine, viene fatto entrare in una stanza delle ex carceri di Santarcangelo. Una vecchia scrivania è palcoscenico, non c’è altro tra lo spettatore e la storia di Basel Zaraa, eppure le parole e le immagini investono la nostra percezione con empatia. È stata Laila, la figlia di Zaara (ora residente in Inghilterra) ad innescare l’urgenza dell’opera quando all’età di 5 cinque anni ha cominciato a chiedere al padre da dove venisse e perché non potessero tornare nel luogo di origine. Di fronte a noi un tappeto rosso, a fantasia mediorientale, sulla scrivania delle piante, un’abat-jour, una piccola cornice con una foto di famiglia e un palazzo in miniatura, grigio, con le finestre e i panni appesi, dal quale svettano le antenne della tv. Quel palazzo si trova a Yarmouk, un campo profughi palestinese a Damasco che prima dell’esplosione del conflitto nel 2011 era abitato da 160 mila palestinesi, lì è nato e vissuto Zaara prima di fuggire in Europa a causa degli attacchi israeliani al campo. Il racconto autobiografico - ma sarebbe altrettanto suggestivo ed efficace anche se fosse completamente inventato - si dischiude attraverso la presenza e l’uso degli oggetti: un mazzo di carte colorate con le istruzioni da seguire, cassetti da aprire in cui trovare una lettera scritta a mano e alcune foto in bianco e nero. Entriamo in un’intimità che però da subito mostra anche un valore storico e politico. In un cassetto, un walkman con una voce da ascoltare. La famiglia di Zaara era già dovuta fuggire una volta, nel 1948, l’anno della Nakba: i nonni vivevano in un villaggio rurale vicino ad Haifa quando i gruppi armati israeliani massacrarono, rubarono la terra e bruciarono le case dei villaggi. Il nonno rimase a combattere, la nonna fuggì via. In una scatola troviamo i simboli di quella fuga, una collana e una chiave, rappresentano il testimone passato di generazione in generazione, Laila sarà la prossima a custodirli. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Biblioteca della Scuola Pascucci Santarcangelo Festival. Testi e traduzione Emily Churchill Zaraa suoni Pete Churchill doppiatore Stefano Piemontese su commissione di Good Chance Theatre con il supporto di Arts Council England
LOURDES (di Emilia Verginelli)
Dopo Io non sono nessuno, in cui Emilia Verginelli rifletteva sulla propria esperienza in una casa famiglia, con Lourdes l’artista romana si sofferma sui 10 anni passati da volontaria sui treni che portano i malati nel santuario francese. Anche in questo caso la drammaturgia è veicolata da una prima persona autobiografica, l’esperienza diventa testimonianza: interviste da ascoltare in audio, immagini riprese di una camera live, pubblico sistemato quasi casualmente, con delle sedie che non ”guardano” tutte nella stessa direzione. Siamo nella biblioteca della scuola Pascucci di Santarcangelo e il tentativo è quello di aprire lo spazio all’ascolto, senza nessun intento spettacolare o di rappresentazione. I due performer (oltre a Verginelli Ale Rilletti), leggono o “dicono” parti del testo cercando una freddezza documentaristica che però meriterebbe di essere vivificata con maggiore cura. «La cosa assurda del miracolo è che non lo puoi dire. Se è vero è meglio che te lo tieni per te», le testimonianze appaiono in audio o riportate in voce, senza seguire però una traccia cronologica o narrativa, i materiali drammaturgici vengono distribuiti nel tempo dello spettacolo come piccole occasioni che dovranno poi essere ricucite (o acquisite singolarmente) dallo spettatore. Le divise delle volontarie con le stellette per i gradi, l’odore dei corpi e degli umori, l’ospedale all’arrivo, le persone che si immergono nell’acqua miracolosa, la grotta, la testimonianza del miracolo, i numeri dei miracoli, l’ultimo ufficiale nel 2008. «Non lo so, sono sempre rimasta in disparte», così risponde Verginelli quando qualcuno le chiede se creda o meno. C’è un certo disordine nell’aggregazione dei materiali drammaturgici, nei segni e negli oggetti sparsi nella scena, ma al di là dell'estetica anti rappresentativa (del rifiuto della recitazione, della frontalità teatrale, e della regia), ciò che colpisce è l’incandescenza di questa riflessione ontologica attorno alla fede e alle motivazioni che muovono le azioni legate ad essa. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Biblioteca della Scuola Pascucci Santarcangelo Festival. Di e con Emilia Verginelli e con Ale Rilletti consulenza letteraria Sara De Simone ambiente sonoro Francesca Cuttica disegno luci Camila Chiozza produzione Bluemotion / Angelo Mai
WHITEWASHING (di Rébecca Chaillon)
Nella platea costruita all’interno dell’Itc Molari di Santarcangelo c’è una sola spettatrice afrodiscendente e probabilmente rispetto alla media italiana è già un risultato. Un corpo nero piegato a carponi sul pavimento, è Rébecca Chaillon. In scena un carrello delle pulizie, stracci e prodotti vari: lavare via il bianco dal pavimento bianco e poi dal corpo, spogliandosi dei pochi indumenti. La donna, dalla fisicità abbondante, ha la pelle ricoperta di bianco, ma non con la precisione di un trucco teatrale, qualcosa è andato storto, qualcosa non ha funzionato, rimane ben visibile la pelle. Con lei un’altra performer (Aurora Déon), da subito intenta a lavare il pavimento con un mocio. Dal soffitto penzolano ghiaccioli marroni che lentamente si squaglieranno gocciolando, solo uno è bianco. La donna a carponi, ormai completamente nuda, tenta con foga di lavar via il colore bianco che copre le proprie origini, senza riuscirci. «Esecrabile macchia... cancellati, dico! Una, due... due ore... è tempo di agire», ci tornano in mente le parole di Lady Macbeth nel pieno del delirio. Ma qui la macchia non è una colpa, la purificazione è liberazione dall’oppressione, è messa in discussione del colore dominante e in fin dei conti anche ribaltamento parodistico dell’ormai obsoleta pratica del whitewashing, ovvero gli attori bianchi che interpretano altre etnie. Chaillon si siede, rompendo il tempo lunghissimo del lavaggio; non ci eravamo accorti che anche le pupille erano bianche. Ora Déon applica lunghe extension che arrivano fino al pubblico, Chaillon diventa una dea madre in connessione con il mondo. Ma il misticismo lascia il posto subito al quotidiano, quando le due performer cominciano a leggere una serie di annunci più o meno grotteschi, di uomini bianchi che cercano le loro “perle nere” oppure donne nere in cerca dell’amore bianco. Le pagine delle riviste verranno appese sulle lunghe treccine mentre un suggestivo spoken word si trasformerà in canto. Ultima liberazione: le treccine vengono bruciate. «Non voglio più essere una figlia di questa terra che mi ricopre di fango». (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Itc Molari Santarcangelo Festival. Testo e direzione Rébecca Chaillon e Aurore Déon produzione Compagnie Dans le Ventre con Rébecca Chaillon e Aurore Déon regia e allestimento Suzanne Péchenart
LA VAGA GRAZIA (di Eva Geatti)
Dopo qualche minuto sembra di assistere a una sessione laboratoriale o al lungo riscaldamento di una classe di recitazione e invece siamo in un festival internazionale, al lavatoio di Santarcangelo Festival. Eppure, c’è un'immagine molto bella nei primissimi momenti di questo spettacolo, nelle luci basse che evidenziano i corpi chiusi in una piccola schiera, prima che tutto abbia inizio. Eva Geatti, per La vaga grazia (in scena anche a Short Theatre 2023) è partita da René Daumal e dal suo Monte Analogo, famoso per essere un romanzo che finisce con una virgola. Un racconto sull’alpinismo che termina con una sospensione (causata dalla morte dell’autore), come uno sguardo su un dirupo, sul nulla. Ecco allora che i cinque giovani perfomer in scena potrebbero rimandare, alla lontana, al gruppo degli 8 scalatori protagonisti dell’opera di Daumal. Ma non c’è altro nella performance (tutta fisica) che possa farci intuire le avventure di quegli esploratori; certo, qualcosa nell’eterno movimento dei corpi, negli schemi geometrici, nelle ripetizioni e nello sforzo fisico con cui lo spazio viene riempito può ricordare le lunghe camminate in montagna: «L’ultimo passo dipende dal primo. Non credere di essere arrivato solo perché scorgi la cima. Sorveglia i tuoi piedi, assicura il tuo prossimo passo, ma che questo non ti distragga dal fine più alto. Il primo passo dipende dall’ultimo». In breve lo spettacolo entra in un meccanismo sfiancante di esercizi fisici che si ripetono secondo certi pattern, tra geometrie misteriose e astrattismo. Forse l’ambizione è quella di creare una sorta di scena ipnotica (colpiscono le musiche di Dario Moroldo), ma non si avverte nessuna relazione con la platea, tanto che alcuni spettatori provati dalla noia e dal caldo lasciano la sala prima del tempo. Geatti in questa intervista parla di una «creazione che si autoalimenta» attraverso il lavoro degli interpreti, ma nulla sorprende, non nella qualità del movimento e neanche nelle piccole relazioni che di tanto in tanto si creano tra gli interpreti, i quali si muovono, quasi tutti, in maniera automatica e fredda, a tratti svogliata e in assenza di spinte emotive. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Lavatoio Santarcangelo Festival. Di Eva Geatti con Adriana Bardi, Andrea Beghetto, Carolina Bisioli, Roberto Leandro Pau, Patrick Platolino musiche Dario Moroldo cura e promozione Irene Rossini Vai alla pagina con i crediti completi e il video
LA TEMPESTA (regia di Andrea Lucchetta)
Nato come saggio del corso di recitazione di primo e secondo livello dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, oggi La tempesta di Shakespeare per la regia dell’ex allievo Andrea Lucchetta ha debuttato nell’arena estiva del Globe Theatre, proseguendo l’impegno della direzione del teatro di permettere agli allievi e alle allieve di cimentarsi nel mestiere fuori dal contesto scolastico. Con la supervisione di Arturo Cirillo, Lucchetta sceglie del testo la versione di Eduardo De Filippo, commissionata e pubblicata da Einaudi nel 1984. «Una lingua che ha, dentro e fuori dalla pagina, ancor prima di venire concepita, suoni, melodie, espressioni, movimenti e gesti, ascoltati, compiuti, guardati, o pensati da chi ha orecchie e corpo e occhi veri solo in palcoscenico. Forse è questa la via lungo la quale sembra avverarsi maggiormente la corrispondenza tra l’originale del Bardo e la versione eduardiana, il piano su cui assurge più alta al concetto di traduzione», spiegavamo in un articolo apparso su queste pagine. Della complessità del testo shakesperiano, godiamo nella sua restituzione vernacolare sul palco all’aperto che ricostruisce in parte l’architettura dell’originale elisabettiano, un allestimento desituato che vede in scena tanto il ferro delle americane quanto il legno del loggione. L’organico degli attori e delle attrici è opportunamente diretto con fedeltà al testo restituendone il gioco musicale della lingua napoletana, di cui si rende didattica esecuzione con leggerezza e divertimento ma poca fantasmagoria, che ritroviamo invece nella brillantezza dei costumi. Spiccano i ruoli di Ariele (Anna Bisciari, già vista a Spoleto in Sarto per Signora di Cecchi), Calibano (Vincenzo Grassi) e Prospero (Massimo Odierna). L’investimento produttivo dell’Accademia nel distribuire i propri spettacoli nelle piazze, non solo capitoline, è di valore: l'impegno profuso, l'armonica orchestrazione delle parti che non dimentica mai la relazione con la platea, ereditando la popolarità del teatro elisabettiano e il segno di una giovane regia agli inizi sono accolti con entusiasmo nel verde di Villa Borghese dai romani rimasti in città e/o dai turisti. (Lucia Medri)
Visto alla Globe Arena. Un progetto a cura di Arturo Cirillo; Regia di Andrea Lucchetta; Prodotto da Politeama s.r.l. e Accademia Nazionale d’Arte Drammatica "Silvio d’Amico"; Foto di Manuela Giusto Vai alla pagina completa dei crediti
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