THE BACCHAE (di Elli Papakonstantinou)
Al cuore di The Bacchae di Elli Papakonstantinou, visto a REF negli spazi dell’ex Mattatoio, il mito classico delle baccanti viene rimodulato in chiave contemporanea e le questioni archetipiche (il polo desiderio/rifiuto dell’ignoto, di un divino come forza liberatrice e però distruttiva) diventano il terreno di battaglia su cui innestare discorsi, prassi ed estetiche a noi più vicine. Di questo Dioniso, “molecola che devia e viola”, che ha pelle dorata ma sembra un rifugiato politico, ci sarà sempre qualcuno che ne avrà terrore, che lo definirà “asteroide in grado di distruggere tutto così come era stato pensato”, mentre per qualcun altro sarà oggetto di brama per cui abbandonare tutto. Agave, Tiresia, Penteo e i due servitori, caratterizzati da identità queer (non sempre giustificate drammaturgicamente), sono figure ricche e apatiche, hanno movimenti esagerati eppure sembrano automi come in un mondo ovattato. La scena – digitale e non – è apocalittica: la tavola immacolata presto si sporcherà di rosso, le immagini astratte proiettate sulle tende ricordano le onde di un sismografo (oggetto che poi si vedrà dal vivo nella scena finale, come a indicare l’attuazione di ciò che era prima solo desiderio in potenza), alcune riprese live mostrano, tramite dettagli, l’indicibile del fuori scena. Le voci – inglese e greco sopratitolati, spesso cantate – si fanno portatrici di una parola che non cerca più il dialogo ma è suggestione o proclama o supplica. La ricchezza di segni e temi rimandano sì alla violenza carnale e alla fluidità di genere già insite nel mito ma questo riaggiornamento rischia di perdersi in una confusione scenica. Se nella versione Euripidea l’arrivo del dio nascosto diventava esternazione del potere della natura, estatica, primigenia, multiforme, qui ci troviamo in un mondo in cui questa forza sembra passata e se ne avverte un’ombra meno incisiva, che si diluisce ulteriormente nel lungo finale performativo. (Viviana Raciti)
Visto alla Pelanda, Romaesuropa Festival. Crediti: Concept / Art Direction Elli Papakonstantinou Text: Elli Papakonstantinou, Chloe Tzia Kolyri, Kakia Goudeli Choreography: SINE QUA NON ART – Christophe Béranger & Jonathan Pranlas / Performers: Ariah Lester, Georgios Iatrou, Hara Kotsali, Lito Messini, Vasilis Boutsikos, Aris Papadopoulos. Leggi tutti i crediti
EUCLIDEAN SPACE (di Eden Wiseman)
Lo spazio euclideo è un ambiente della geometria elementare, definito in termini assiomatici, cioè veri per evidenza intrinseca. Sembra dunque delinearsi una sorta di paradosso interno alla poetica di Eden Wisemanm, che sceglie di condurre un’indagine corporale fondata sulla inesausta problematizzazione dell’istanza dell’altro, entro un tale spazio, la cui tridimensionalità e la cui purezza si sostanziano di una tautologia. L’artista palestinese - qui in scena con Alma Maria Simon e Inbar Walter Kalfa -definisce Euclidean space un’installazione performativa, in omaggio a Iannis Xenakis, nuova versione di Xenakis 100, creato nel 2022 in occasione del centenario della nascita del compositore e architetto greco, primo teorico dell’applicazione alla musica delle leggi della probabilità e della logica. È quindi forse da ricercarsi in questo concetto di armonia acustica e plastica, intensa come tensione ma anche come legge, la chiave per avvicinarsi al campo di forze costruito dalle interpreti. Vestite di chiaro e situate su di una scena attraversata in ogni direzione da centinaia di sottilissimi fili di nylon bianco, le tre danzatrici, di continuo, elaborano e disfano le proprie relazioni corporali, quelle reciproche e quelle con l’habitat nel quale si muovono. La consapevolezza della duttilità delle fibre, come della loro resistenza, della malleabilità complessa (plausibile ed “espulsiva” insieme) della materia elastica è acquisita attraverso la messa in gioco del corpo, così come la sentieristica per elaborare il contatto con il corpo altrui, per raggiungerlo, passa attraverso la sperimentazione delle possibilità gesto, nella grazia, nello slancio, ma anche nella brutalità necessaria per fendere una resistenza, o un confine. La qualità della natura umana (come quella delle creazioni umane, come la verità segreta dei materiali) è un processo di decomposizione del nitore apparente, la complessità delle relazioni tiene insieme violenza, desiderio di dissoluzione, quiete, distanza, ritrazione e, nell’impossibilità di governarla, di fissare le sue leggi, si può invece tentare di metterla in scena, in forma di enigma stilizzato e mobile, diagramma sintetico della mutevolezza. (Ilaria Rossini)
Visto a Cantiere Oberdan, Umbria Factory Festival – Crediti: coreografia e installation design di Eden Wiseman; con Alma Maria Simon, Inbar Walter Kalfa & Eden Wiseman; musiche Rebonds B (1987-89) by Iannis Xenakis, Calla album (1999), Low drums and guns Braeker (2021), costumi di Sara Wiseman & GROUND Movement fashion brand; assistenza alla regia di Shai Cohen; consulenza artistica di Shiri Sabach Teicher; produzione LaMaMa Umbria Internasional & ZUT; con il sostegno dell’Ambasciata di Israele a Roma
WALKABOUT/PROMENADE (di Sonia Antinori, Lucia Baldini)
E se un viaggio fosse l’origine di altri viaggi? È una domanda che si pone ogni viaggiatore, spinto alla curiosità per l’andare altrove, diventare parte di un luogo, una cultura, farli propri non per mera appropriazione ma per atto di convivenza tra umani. Questo spirito ha mosso Sonia Antinori attraverso tutti i continenti menzionati nei suoi diari di viaggio, confluiti poi nel progetto performativo Walkabout/Promenade, dispositivo itinerante che vede la collaborazione di Lucia Baldini per le immagini e Arlo Bigazzi per la musica, con la regia di Ruggero Franceschini. Si tratta di un meccanismo performativo che prende ogni volta diversa forma perché si innerva, a partire dai racconti di viaggio in Burkina Faso, Cuba, Messico, Australia, alla geografia urbana e non, che si dispiega nei passi e negli occhi dei partecipanti. Ecco allora che il trasferimento di esperienza riesce con coinvolta appartenenza a penetrare il qui e ora, amplificando una percezione in grado di riprodurre contestualmente un altrove di tempo e spazio. Ogni volta la performance si arricchisce dunque di sviluppi imprevisti che, manifestandosi per esempio attraverso il tempo atmosferico, pongono dei problemi da risolvere: non è questo allora viaggiare? Al Festival Orizzonti di Chiusi, la scorsa estate, era previsto in barca lungo il lago, ma la pioggia ha creato il disagio prima e l’opportunità poi di vivere un’esperienza insolita, misurare i viaggi registrati, in ascolto mediante cuffie wi-fi, a un nuovo improvvisato percorso. E così la penetrazione nell’Africa Nera pone di fronte un museo di antichi reperti, la Cuba dei Castro ricalca le geometrie di una piazza del paese, il Messico appare nell’estensione della campagna toscana, l’Australia traspare nei pertugi della cisterna sotterranea risalente ai Romani. Ogni volta, un’occasione, mentre le immagini di Lucia Baldini forniscono come degli appunti iconografici con cui esaltare il senso del viaggio. A me resta una cartolina, ritrae una mano di pelle d’ambra, la osservo tutti i giorni in casa mia. E mi sembra quasi di stringerla. (Simone Nebbia)
Visto a Orizzonti Festival, Chiusi. Crediti: testo e voce Sonia Antinori; regia Ruggero Franceschini; immagini Lucia Baldini; musiche originali Arlo Bigazzi; una produzione MALTE
HO BISOGNO DI SENTIRE QUALCUNO CHE MI DICA CHE STO BENE (di M.T. Berardelli, Regia G. Vezzani)
Quattro donne, un tavolo, un appuntamento. Ho bisogno di sentire qualcuno che mi dica che sto bene è una battuta che decreta il primo dei molteplici ribaltamenti su cui si fonda lo spettacolo diretto da Giacomo Vezzani. Nata dalle improvvisazioni delle quattro interpreti (Elisa Di Eusanio, Giulia Galiani, Valentina Martino Ghiglia e Marta Nuti, notevoli per energia, varietà e qualità delle interpretazioni), la drammaturgia firmata da Maria Teresa Berardelli si incardina sul meccanismo di un gioco paradossale che scombina i piani di realtà, sdoppiando gli scenari. Le protagoniste si incontrano per una cena, ma più che quattro amiche vediamo quattro solitudini tenute insieme da quello stesso caso che, nell’avvicendarsi dei ripetuti black out drammaturgici, assegnerà ad ognuna di volta in volta una diversa versione di una comunque miserabile condizione. Ognuna è per l’altra solo lo specchio delle proprie debolezze, un pretesto per rafforzare la propria maschera, autoimposta e sorda, oppure per disfarsene sfacciatamente e altrettanto sordamente, senza speranza di redenzione, senza ipotesi di salvezza. Eppure la regia sembra indugiare su alcuni aspetti ironico/grotteschi – su tutti l’autoerotismo di uno dei personaggi, inizialmente posto come tema ma poi sviluppato in chiave esclusivamente comica - disinnescando la portata drammatica della vicenda. Emerge una serie di tematiche importanti – la sessualità, la maternità, la carriera, la menzogna, il potere – ma nessuna raggiunge una vera messa a fuoco, producendo una rappresentazione del femminile abbozzata e caotica per quanto sfaccettata. La sequenza finale – un’escalation pantomimica che culmina inaspettatamente in una coreografia su musica - conferma questa volontà, pur incontrando il favore del pubblico: probabilmente persistono tabù apparentemente obsoleti circa il piacere e l’emancipazione femminili, per cui c’è ancora bisogno di vederli messi in scena seppur da uno sguardo ancora una volta maschile. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Basilica. Drammaturgia Maria Teresa Berardelli. Da un’idea di: Di Eusanio, Galiani, Martino Ghiglia, Nuti. Con: Elisa Di Eusanio, Giulia Galiani, Valentina Martino Ghiglia, Marta Nuti. Regia Giacomo Vezzani. Costumi Marta Genovese. Scena Laura Giannisi. Luci Javier Delle Monache. Musiche e suono Vanja Sturno.
BEATI VOI CHE PENSATE AL SUCCESSO… (Gruppo della Creta)
Secondo capitolo di una trilogia dedicata al Sudamerica, Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso si apre con un prologo del regista Alessandro Di Murro. Staccandosi dalla compagnia già in scena all’ingresso del pubblico, prima di lasciare il palco spiega la genesi dello spettacolo avvisando dell’incertezza della sua riuscita. La riscoperta del poco noto autore argentino-italiano J. R. Wilcock ispira un gioco scenico che ha per cardine un grande divano gonfiabile: Di Murro lo presenta risalendone all’etimologia che lo accomuna tanto alla poesia quanto al confine. Tali premesse restano però in qualche modo inevase: come a dare all’operazione un’aura patinata che verrà poi smentita dal lavoro stesso. C’è nella cifra del Gruppo della Creta, dalla scrittura alla presenza scenica, un’ostentata distanza, un aplomb che indugia sull’equivoco tra una lucida alienazione generazionale e una supponente posa borghese. Già il lungo titolo del lavoro, evocazione de “l’angelo custode” Wilcock, contiene entrambe le letture: il progresso del verso originale diventa successo e la parola solo, che presumibilmente in origine è avverbio, diventa soli, aggettivo. Lo spettacolo si sviluppa in tre momenti. Il primo, col divano rivolto verso il fondo del palco, è un agonistico quanto indolente interrogarsi sulla morte. I quattro attori, mai personaggi (Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Amedeo Mondo e Laura Pannia) si danno il cambio in un botta e risposta asettico e sempre più frenetico che non lascia spazio all’indugio della confessione. Il secondo momento è un altrettanto alienato gioco sulla scelta: il divano questa volta guarda il pubblico e i posti a sedere su di esso rappresentano il ruolo sociale (ormai obsolete e irraggiungibili eredità dei boomer) messo in palio da una speaker che incoraggia i concorrenti come in un luna park, ostentatamente finto. L’ultimo momento risolve una tensione in verità solo simulata nel più italiano dei modi, con un caffè, dei pasticcini e una chitarra, in un finale alla “volemose bene” ché tanto questo parlarsi addosso non è che un passatempo, un’inutile guerra tra miserabili, lucido e implacabile ritratto di una resa generazionale. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Drammaturgia di Tommaso Cardelli, Alessandro Di Murro e Tommaso Emiliani. Regia di Alessandro Di Murro. Musiche originali di Enea Chisci. con gli attori del Gruppo della Creta. Scene di Paola Castrignanò. Costumi Giulia Barcaroli. Assistente alla regia Ilaria Iuozzo.
UNBEARABLE DARKNESS (Choy Ka Fai)
Mentre gli ultimi spettatori ritardatari prendono posto in una delle sale allestite alla Pelanda, per la sezione Digitalive di Romaeuropa, il video ci porta già tra le colline del Giappone, in un cimitero, c’è una lapide con la scultura di un piede, qui abita il corpo di Tatsumi Hijikata, uno dei maestri fondatori del butō. Cambio di ambientazione, siamo all'entrata di uno dei numerosi festival che in Giappone vengono dedicati al culto dei cari estinti. Qui, pagando, è possibile parlare con una sciamana per mettersi in contatto con la persona deceduta. La drammaturgia prende una piega inaspettata: in una assurda ma implacabile scena in video viene intervistata una medium, la quale, diventando portavoce in prima persona dell’artista defunto, non fa altro che dire quanto sia dispiaciuto, perché avrebbe avuto ancora tanto da fare; potrebbe sembrare una bizzarria demenziale - anche se giocata molto seriamente -, fin quando la sciamana comincia a parlare della danza butō come la danza del buio, “il buio è un inferno”, afferma con la consapevolezza di chi conosce intimamente. Due performer in scena: una con una tuta da motion capture e una con una funzione rituale, la seconda canta e si prende cura del rito buddista, perché quello che avviene in scena è una sorta di seduta spiritica che si avvale delle tecnologie digitali e della coreografia live per evocare il maestro. Sullo schermo appare l’avatar del Tatsumi Hijikata e i suoi testi; ”il punto di partenza non era tentare di stare in piedi, ma riuscire a non starci”; appaiono i titoli delle performance originali, gli anni in cui furono create, ma l’obiettivo lentamente lascia il campo documentaristico per entrare in quello della fantasmagoria: Choy Ka Fai inventa mondi digitali fatti di reticoli, immagini saturate, ironiche danze falliche e paesaggi lisergici. Nonostante Unbearable Darkness sia una creazione precedente a Yishun is Burning, vista lo scorso anno, l’artista singaporiano dimostra anche qui di essere una delle menti più innovative e fervide nel campo delle arti performative integrate nei linguaggi digitali. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Pelanda, Digitalive, Romaeuropa Festival Credit: Concept, Documentary and Direction – Choy Ka Fai Choreographic Presence and Paranormal Performance – Tatsumi Hijikata Dramaturgy – Tang Fu Kuen Crediti completi
ALBUM (Kepler-452)
Nel grande hangar dell’ex Atr di Forlì non c’è una vera e propria scena e non siamo disposti in un cerchio ordinato: una libreria con qualche oggetto, dei vecchi tv catodici, un paio di monitor, un tavolo con una consolle audio. Nicola Borghesi, lì in mezzo, comincia a parlare delle anguille: tutti gli esemplari del mondo nascono nel Mar dei Sargassi per poi tornarci a deporre a loro volta le uova. La drammaturgia di Kepler-452 mostra lo stupefacente cammino dei pesci per parlarci di memoria e di Alzheimer: il collettivo bolognese ha vinto un bando europeo che gli ha permesso di implementare una ricerca sul campo, tra le famiglie, i pazienti, dall’Emila Romagna a Budapest. Cosa vuol dire perdere la memoria, non riconoscere gli altri? Cosa accade nelle famiglie? Il nostro narratore riceve una telefonata, si allontana, una camera lo riprende a distanza, un suggestivo ed efficace campo lungo appare nei monitor, la notizia della diagnosi del padre viene recitata con le scritte, come nel cinema muto. Ancora una volta la compagnia formata da Nicola Borghesi e Enrico Baraldi, con la collaborazione di Riccardo Tabilio, riesce a tastare il polso dei nostri giorni, a leggere nel presente, dando un nome alle nostre paure, vivisezionandole ma con delicatezza e rispetto. Borghesi prende degli oggetti, vecchie fotografie - “la riconosci questa persona?”, chiede a uno spettatore? -, gli oggetti rappresentano le nostre memorie fin quando li riconosciamo. "Qual è la canzone preferita di tuo padre?", Chiede a un’altra spettatrice. E quando comincia a sentirsi Dance me to the end of love di Leonard Cohen sorridiamo per la capacità di questo teatro di essere ironicamente umano; potrebbe finire qui e invece c’è ancora il tempo per strappare un’immagine all’ultima alluvione in Romagna, viene svuotato un sacco pieno di oggetti impolverati, brandelli di vita salvati dalla discarica. Ciò che rimane dei ricordi. Nella mente come in quel sacco, dopo un’alluvione. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Colpi di Scena 2023 Ex Atr, Forlì. Crediti: a cura di Kepler-452 (Nicola Borghesi e Enrico Baraldi) in scena Nicola Borghesi con la collaborazione di Riccardo Tabilio ideazione tecnica Andrea Bovaia coordinamento Roberta Gabriele Progetto vincitore del bando Daily Bread nell’ambito del progetto europeo Stronger Peripheries: a Southern Coalition in coproduzione con Pergine Festival, Pro Progressione e L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
COME HO IMPARATO A NON PREOCCUPARMI E AD AMARE LA RUSSIA (Teodoro Bonci Del Bene)
Tra gli spettacoli visti nei due giorni che abbiamo dedicato a Colpi di Scena, la vetrina organizzata a Forlì e Bagnacavallo da Accademia Perduta, il più sfuggente e difficile da classificare è sicuramente quello di Teodoro Bonci Del Bene, che però è anche uno tra i più interessanti: Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Russia, titolo che lampeggia di ironia ma anche di inquietudini contemporanee, di ipocrisie sovranazionali e anche di un triste realismo politico. Bonci Del Bene, è solo in scena, pantaloni e giacchetto nero, un berretto senza visiera ad evidenziare uno stile street, ricercato. L’approccio è quello di una stand-up comedy percussiva, dal tono e dal ritmo martellante. Comincia con un elenco di intellettuali e artisti in esilio, un'intera generazione è dovuta fuggire, anche Ivan Vyrypaev - i cui testi sono stati portati in Italia proprio da Bonci Del Bene - ha rinunciato alla cittadinanza russa dal 2022 per vivere in Polonia. Chi rimane se la deve vedere con il regime, come è accaduto alla regista teatrale Jena Berkovich. In uno dei momenti più toccanti l’attore e regista racconta di alcuni messaggi scambiati con gli ex compagni di accademia - Bonci Del Bene sì è diplomato a Mosca, dove ha passato quattro anni dal 2004 -, questi rispondendo alle domande sulla situazione all’indomani della guerra spiegano come il periodo da loro vissuto in accademia (internazionale e che vedeva convivere russi e americani) sia ormai solo un sogno. Seguiranno le foto di quel periodo, la lancinante malinconia della vita di qualcun altro che rivive per un attimo attraverso vecchie foto: ragazzi e ragazze che si divertono, che studiano in sala. Un mondo inghiottito nella deriva autarchica e violenta di una nazione. Questa linea drammaturgica si dipana parallelamente a quella metateatrale relativa alle messinscene di un giovane artista russo che non vuole piegarsi al regime: ci troviamo un’ironia piacevolmente fuori tempo e fuori dagli schemi. Nel lavoro di Bonci Del Bene il dato biografico si apre alla complessità del reale, ci chiede - e merita - ascolto e spazio. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Colpi di Scena 2023 teatro San Luigi, Forlì. Crediti: di e con Teodoro Bonci Del Bene aiuto regia e aiuto drammaturgia Francesca Gabucci costumi Medina Mekhtieva - video Vladimir Bertozzi foto di scena e locandina Federico Pitto
IO CHE AMO SOLO TE (di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli)
C’è qualcosa di originario, una sincerità pungente nella recitazione dei due giovanissimi attori protagonisti della vicenda scritta da Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli. Sono Riccardo D’Alessandro e Andrea Lintozzi ed è a causa loro se gli spettatori e le spettatrici - soprattutto operatori - hanno dovuto asciugarsi qualche lacrima durante la mattina del secondo giorno della rassegna-vetrina Colpi di scena. La compagnia è la romana Bluestocking, qui prodotta da Società per attori e il testo ha il merito di dare corpo teatrale a una di quelle vicende che spesso occupano la cronaca, ma in questi casi l’arte deve saper guardare dietro agli accadimenti, dentro la vita delle persone, tra i loro sguardi. Cosa c’è prima e dopo il suicidio di un adolescente causato dall’omofobia di amici e compagni di classe? Qui si comincia con il ritorno al passato di un uomo ormai nel pieno della maturità, forse di fronte a una lapide: il suo alter ego adolescente apparirà in scena dopo qualche attimo; siamo a casa di un ragazzo, Niccolò, che ha organizzato una festa sfruttando l'assenza dei genitori; andati tutti via rimarrà da solo con il suo migliore amico, Valentino, finiranno a letto insieme, svegliandosi poi colmi di una nuova esperienza e scioccati dai tanti dubbi. Una volta scoperti dagli amici Vale negherà tutto e da amico e amante si trasformerà in una delle belve del gruppo, Nicco viene picchiato e allontanato, mai più partite di calcio insieme e gite al mare. Lintozzi ha un'espressività non comune, è commovente ad esempio una delle ultime scene in cui il ragazzo prima di abbandonarsi al suicidio immagina il ritorno di Vale. Ma questi tornerà solo molti anni dopo a chiedere scusa di fronte a quella lapide. C’è forse qualche verbosità in eccesso nella scrittura, un impianto registico non sorprendente, con il classico divano come misura dell’interno casalingo, ma Io che amo solo te ha il merito di raccontare una storia piccola, di amicizia fraterna e amore adolescenziale, che diventa lentamente grande e dolorosa tra gli imbarazzi, le battute sceme e gli occhi gonfi di pianto. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Colpi di Scena 2023 teatro San Luigi, Forlì. Crediti: di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli con Riccardo D’Alessandro, Alessandro Di Marco, Andrea Lintozzi scene e costumi Nicola Civinini aiuto regia Guido Del Vento light design Sirio Lupaioli foto Marcella Cistola e Simona Casadei regia Alessandro Di Marco produzione Bluestocking e Società per Attori
SEMIDEI (di Pier Lorenzo Pisano)
Il dettaglio di un’anfora del VI secolo a.C : finisce con un’immagine la lettura scenica di un estratto di Semidei (edito da Einaudi nel 2023 assieme ad un altro testo, Per il tuo bene). Pier Lorenzo Pisano la usa come una lamina, che agisce nella memoria visiva dello spettatore per fenderne gradualmente le membra. È un’immagine feroce, di guerra e di dolore, di morte nella morte, di fine. Perché nessuno è più rimasto vivo, sotto il cielo giocondo degli dèi. Né Achille, diventato nella scrittura sagace di Pisano un guerriero frignone che vuole scappare dal proprio destino e dal solo tallone che lo rende mortale. Né Menelao, “identità in sottrazione”, tutto e niente allo stesso tempo, qualificato nelle assenze, “scavato a fondo nei difetti”. Né Ettore, padre stucchevole che sogna solo il momento in cui tutto finirà, il momento in cui finalmente riuscirà a dormire. Popolato dai celebri personaggi del mito omerico, il testo di Pisano ne rilegge con sguardo pungente le disavventure; con uno stile fluido e disincantato lavora alla ricerca di una parola verbo-visiva che si costruisce progressivamente nei diversi quadri e che si dilata nelle luttuose ninnananne, usate come un rituale, stillicidio premonitore del dramma. Lo fa con un’ironia spietata ma ricca di equilibrio, distillandola nei dialoghi, nei cambi discorsivi e nelle immagini che rievoca, sempre legate all’antichità del mito e della tradizione orale. L’immediatezza del linguaggio avvolge le fragilità umane: sono le fragilità di tutti i tempi, i desideri mai avverati, i sentimenti mai espressi. L’autore abita questo spazio della negazione inserendovi la propria immaginazione e ricamando una nuova trama fatta di relazioni famigliari in cui possiamo tornare a riconoscerci. Il testo è stato letto come situazione drammaturgica all’interno dell’edizione 2023 dell’Hystrio Festival, in collaborazione con Einaudi e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Pier Lorenzo Pisano, in collaborazione con Einaudi e Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa, lettura scenica a cura di Tindaro Granata, organizzata in partnership con l’Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione
DITTICO DELLA DERIVA (di Niccolò Matcovich)
Segnalato dalla giuria del Premio Hystrio 2023 all’interno della sezione “Situazioni drammaturgiche”, Dittico della deriva è un lavoro minuzioso che si offre allo spettatore con una partitura poetica aperta alle possibili reinterpretazioni. L’architettura drammaturgica si compone di due sguardi ad incastro, quello maschile e quello femminile: sguardi assenti, sguardi dalla presenza ingombrante, sguardi taciuti, sguardi negati. La ritmicità poetica dei versi ne puntella le tracce, cristallizzandosi in immagini di segni indelebili lasciati sui corpi. Cosa resta di quella gita in barca? Un tradimento, una violenza. Resta la ferocia. Occhi di rabbia. Angoscia dilagante. I sussulti della carne. Resta una coppia che sa “solo stare, combattere la noia con invenzioni folli”. Resta un amore che non si riesce a dare, il grido di una verità che fatica ad uscire. Il testo procede bulimico, fagocitando le emozioni per rincorrere senza sosta i non detti, intensificando l’incomunicabilità tra i personaggi e lasciando talvolta dei vuoti in cui è il dolore a naufragare. Niccolò Matcovich si rivela in questo testo uno scrittore consapevole dei mezzi espressivi e linguistici che usa, gioca con la simmetria fonetica e con il montaggio delle immagini creando tuttavia cornici distinte in cui è possibile ritrovare assonanze, rimandi, accostamenti. La vicenda si carica così di un sostrato segnico ricco ma dinamico perché sempre frammentato dall’utilizzo del verso che rimane in attesa d’essere ricostruito. La lettura scenica a cura di Tindaro Granata tenta di darne una possibile interpretazione, utilizzando voci maschili e femminili che assumono e alternano entrambi gli sguardi, insistendo sull’ ingranaggio composto e dilatando la ritmicità poetica in una distesa testuale caratterizzata da più moduli. Concepiti in momenti della vita diversi, i due capitoli O mi ami o ti odio – LUI, O ti amo o mi odi - LEI risultano così sovrapporsi e intrecciarsi in un unico denso respiro. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Niccolò Matcovich, lettura scenica a cura di Tindaro Granata, organizzata in partnership con l’Associazione Situazione Drammatica/Progetto Il copione
FELICIA (di Stefania Ventura e Quinzio Quiescenti)
Il Mercurio Festival, curato da Giuseppe Provinzano, è giunto alla sua quinta edizione. Come in passato, le artiste e gli artisti coinvolti sono stati selezionati da quelli presenti l'anno precedente, secondo il meccanismo democratico e partecipato che rappresenta lo specifico del festival. Nel corso della penultima serata abbiamo assistito a Felicia, di Stefania Ventura e Quinzio Quiscenti. Fingendo di avere poco più di sei anni, ci siamo confuse in una folla vociante di piccoli individui e genitori appena storditi. A differenza dei grandi, bambini e bambine sanno esattamente dove si trovano e per quale motivo: è tutta loro la storia che sta per iniziare. Protagonista ne è Felicia, strega colpevole – secondo gli abitanti del bosco – di minare la serenità di chi vive tra alberi e fronde. L'equilibrio dell'habitat è in pericolo, sospeso nel vuoto come la delicata piuma con la quale il Tasso (Stefania Ventura) danza ondeggiando sulla scena, all'inizio del racconto. Fiaba dolce e amara, Felicia è immersa nel buio di un'ombra densa come la notte, così scura da non permettere di conoscere l'altro e riconoscersi in esso. A rischiararla è una duplice speranza: quella che vive nella voce di Ventura, nei suoi occhi spalancati a sondare cosa si celi oltre il pregiudizio; quella che anima le bellissime luci di Gabriele Gugliara, affilate come se filtrassero attraverso chiome di alberi. Fra questi si consuma, inevitabile, l'incontro. Dapprima è lotta, animata da una poeticità rupestre e dura. Tra versi ferini, il tasso-umano e la strega-marionetta (bellissima creatura di Giorgia Goldoni, sembra uscire dall'universo di Miyazaki) costituiscono un'entità inscindibile. Il corpo di Ventura, abitato dal suo personaggio e dalla marionetta, ne esce duplice; duplici diventano gesti e voce, sostenuti da una delicatezza tenera ma decisa. L'epilogo è lieto, ma non troppo. Come nella vita, anche nel bosco l'amicizia è un rischio: perdersi nell'alterità. Con fiducia. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Mercurio Festival, Spazio Franco, Palermo. Crediti: di Stefania Ventura e Quinzio Quiescenti con Stefania Ventura trainer Quinzio Quiescenti compagnia Quintoequilibrio marionetta ibrida Giorgia Goldoni luci Gabriele Gugliara collaborazione alla messa a punto della drammaturgia Simona Gambaro scene Quinzio Quiescenti Produzione Quintoequilibrio e Teatro Evento
CARONTE (Camilla Montesi)
Ritrovo alla Vetrina di Ravenna anche la performance dedicata alla figura di Caronte di Camilla Montesi, con le musiche di Michele Uccheddu, vista a suo tempo al debutto di Santarcangelo, qui ora in uno spazio più ampio e francamente più adatto alle esigenze cinetiche di questa bravissima giovane interprete. Caronte è figura di transizione, di traversata, di guardianía, e nel corpo di Montesi diventa accettazione anche ironica di ciò che in tale congiunzione resta invisibile: l’esperienza di panico e della paura. Certo, sul personaggio grava soprattutto la memoria virgiliana e poi dantesca, ma qui nulla sembra ammiccare al tetro sfondo del viaggio ultraterreno, premessa letale del suo incontro. In scena, due soli oggetti essenziali: una piccola piscina gonfiabile (declassamento della “zattera di color ferrigno”?), e un casco nero da motociclista (utile riparo alle mazzate della vita? rifugio dallo sguardo malevolo dell’altro?). Ma il trapasso e il pericolo qui sono mere didascalie per pensare il confine (Anzaldúa diceva che ogni confine è creato dal residuo emotivo di un limite innaturale). Si tratta di un intenso assolo di danza pensato per impugnare ingiunzioni e imposizioni non richieste: Caronte, forza apparentemente ultimativa, si fa allora guida per una differente conoscenza del corpo e della mente. La sofferenza della perdita, forse; la natura di ogni passaggio, che comporti però dolore. Sorprende infatti il preciso disegno spaziale e la pregevole qualità di movimento di Montesi, che sembrano tenere perfettamente a bada ogni cedimento, ogni minaccia. Così come la gestualità precisa e dinamica combinata allo humor e contaminata da mille evocazioni, in grado di tradursi in visione poetica fondata sullo spazio-ombra di un confine. Resta anche l’aggancio virtuoso, in apertura della presentazione scritta, con una citazione da Sartre: «I diavoli sono gli uomini che guardano e il loro forcone lo sguardo». Esortazione o monito poco importa: occorre farla finita con il giudizio, e Caronte resterà senza lavoro. Stefano Tomassini.
Visto a Ammutinamenti Festival, Ravenna 2023. Credits: coreografia e interpretazione Camilla Montesi, musica Michele Uccheddu, disegno luci Alessia Cimarelli, coproduzione Santarcangelo Festival, con il sostegno di Scenario Pubblico_Compagnia Zappalà Danza.
LINGUA (Chiara Ameglio)
Alla Vetrina della giovane danza organizzata dal Festival Ammutinamenti di Ravenna, ho intercettato una bellissima performance di Chiara Ameglio, dal titolo Lingua, che mantiene (e rivela) molto più di quanto promette. È un lavoro che indaga nuove condizioni per una performance condivisa col pubblico, attraverso una forte prossimità fisica. E insieme mostra tutto il potenziale erotico di un consenso portato al limite, che investe direttamente il rischio dell’esperienza. La danzatrice, in uno spazio bellissimo, il salone di Palazzo Rasponi dalle Teste (Nomen omen), compare alle spalle del pubblico, si intrufola fra di esso e con un pennarello chiede di essere segnata e tracciata sulla superficie del suo corpo, secondo una volontà condivisa ma negoziata lì per lì, sul momento. Questi tracciamenti producono una performance composta di «eco di micromovimenti», che lei raccoglie e amplifica dall’azione di inscrizione sulla sua pelle, in seriali atti performativi che sono appunto “una nuova lingua”. E qui sta il bello: da una parte, il pubblico interviene sul suo corpo (quasi sempre sulla parte di corpo che la danzatrice pone in prossimità dello spettatore/scrittore, per vincerne resistenze e pudori) tracciando esclusivamente linee continue, mostrando un’attenzione al corpo dell’altro prevalentemente di natura spaziale, mai ritmica (nessun puntinare, né picchiettìo o ticchettìo nelle tracce, che avrebbe comunque prodotto la trasmissione di una cadenza, di un battito). Dall’altra, nella muta consegna della propria pelle come spazio di scrittura al pubblico, la parte anatomica più perturbante risulta essere la testa, il volto. Forse perché qui la prossimità con lo sguardo della performer è quella più alta, gli occhi sono il piano più ingiuntivo del vivente, e le condizioni di un consenso oltre il limite sono ora continuamente arginate, quando non bloccate, dal volto della performer, mentre già si prefigura, qui senza sviluppo alcuno, un successivo possibile incontro con l’opacità. Stefano Tomassini.
Visto a Ammutinamenti Festival, Ravenna 2023. Credits: di e con Chiara Ameglio, in collaborazione con Santi Crispo, musiche Keeping Faka, produzione Fattoria Vittadini | Festival Danza In rete. Creazione nata dal progetto Terrestri del Centro di Produzione La Piccionaia di Vicenza
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