GIORNI INFELICI (di S. Scuccimarra, regia M. D’Amico)
È una giornata come le altre per Donna (Sabrina Scuccimarra, anche autrice nello spettacolo diretto da Martino D'Amico). Si alza di buonumore, ergendosi sopra la montagnetta di fogli sparsi su cui riposa, saluta signori e signore, chiede dei rispettivi consorti e dei bambini, scambia convenevoli con la signora della spesa, fantastica sul ragazzo del banco alimentari, si congratula con la signora mamma e congeda il signor papà sempre di fretta. Ogni giorno la stessa tiritera, non una virgola fuori posto. “Né peggio né meglio, nessun cambiamento. Nessun dolore” nel rassicurante e solitario angolo di mondo che si è ritagliata, dove non esistono estremi, se non giorni più o meno infelici, tutti uguali. Fino a quando, nel suo copione perfettamente cadenzato, non incappa la nuova vicina, una donna sulla cinquantina, così simile a lei, eppure libera e sfrontata. Da quel momento, le certezze di Donna cominciano a crollare, e la forzata mediocrità in cui si manteneva vacilla sotto i colpi degli eventi che sfuggono al suo controllo. La protagonista comincia a riservarsi sempre di più spazi in cui esprimere il suo reale scontento, mentre sparpaglia con stizza i copioni impilati intorno a lei. Persino le sue fantasie notturne, che vedono protagonista questo misterioso cowboy immaginario dedito al suo piacere, sembrerebbero provare a deviarla dal normale corso di una vita programmata nel minimo dettaglio. Così, nel cuore della notte, Donna confronta la vicina e, con sua enorme sorpresa, scopre che non è altro che una sua proiezione, quella parte di lei che agogna a una vita svincolata dalle catene di quei copioni che tanto alacremente ha disteso e ammucchiato, fino a venirne inghiottita. E così Donna si distacca dal cumulo di fogli che era diventato la sua prigione e, con solo una camicetta da notte a coprirla, avanza sul proscenio e si espone agli occhi avidi del pubblico, rivendicando la sua libertà. Cento di questi giorni infelici, se per un momento possiamo comprendere il labile confine tra vivere e sopravvivere e immergerci nelle acque turbinanti e imprevedibili di un’esistenza pienamente vissuta. (Letizia Chiarlone)
Visto alla Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova di Sabrina Scuccimarra Produzione Compagnia Lombardi Tiezzi in collaborazione con Associazione Culturale Padiglione Ludwig Regia Martino D’Amico Interprete Sabrina Scuccimarra Musiche Gioacchino Balistreri Luci Alessio Pascale Assistente alla regia Matteo D’Incoronato
INSECTUM IN ROME di (T. Ondrová e S. Gribaudi)
lnsectum in Rome, performance di Tereza Ondrovà e Silvia Gribaudi e vista a Teatri di Vetro, si fonda su un cambio di prospettiva esistenziale, da antropocentrica a entomologica. Se a livello più immediato la domanda di partenza (emersa dal progetto di ricerca della fotografa naturalistica Elisa Zavoli e dalla violinista Sara Michieletto in cui hanno creato immagini e suoni per riavvicinare le persone ai temi ambientali) chiede se “ci si sia mai sentiti un insetto”, le questioni che ne scaturiscono a partire dall’osservazione dei loro modi di comportamento, interazione e evoluzione, si costruiscono a partire da una logica più ampia di ribaltamento. L’ironia stralunata, l’interazione gentile, la frontalità delle azioni spesso agite con un intento dimostrativo e di condivisione che spesso caratterizzano le opere di Gribaudi, intessono tutta la performance fin dall’inizio, come quando le due artiste siedono tra il pubblico o ci invitano a spostare di posto, o a scambiare oggetti, spingendo a un cambiamento anche non desiderato, o quando innescano una serie di azioni fondate sulla continua ripetizione, su atti che possono diventare rituali quotidiani. Il volto dall’espressività contenuta, il corpo disarticolato, il cui movimento diviene staccato musicale che designa un ritmo sonoro, accompagnato dalle altre sonorità naturali, diventano il luogo su cui porre nuove questioni legate all’individuazione di genere, età, taglia, nel momento in cui si incontra qualcosa di sconosciuto e di cui non si sono ancora acquisiti i parametri di riconoscimento e relazione, sia questo un insetto, un’ altra persona o altri esseri viventi. Nei panni di qualcos'altro, nel confronto diretto e nella vicinanza coatta, ci si sperimenta comodità e scomodità finché non si individua una possibilità di mutamento, scontro o di convivenza. L’invito diventa procedere verso nuovi modi di adattamento, anche giocando al “come se”, provando a traslare quelle abilità riconosciute negli insetti e verificandone le possibilità di successo nel tempo e nel luogo che stiamo abitando. (Viviana Raciti)
Visto a Teatro India. Teatri di Vetro. Coreografe e performer Tereza Ondrová e Silvia Gribaudi, disegno luci Katarína Morávek Ďuricová, produzione Temporary Collective / Daniela Řeháková e Associazione Culturale ZEBRA, coproduzione Tanec Praha z.ú./ TANEC PRAHA, PONEC – dance Venue e Operaestate Festival Veneto – CSC di Bassano del Grappa
PINOCCH-IO (di Lucia Guarino)
Uno spazio metafisico accoglie l’esile figura della danzatrice Lucia Guarino. Tutto intorno è bianco, e in questa rarefazione, una lunga asta color rosso acceso viene alzata come fosse una grande spada a fendere questo candore: si tratta invece di un naso, anzi il naso di Pinocch-io, ultimo e intimo lavoro dell’artista. Attorno a questo «figur-io», vivo di potenza e per questo delicato e fragile, si articola una dedica dell’io al sé - essenziale, come è il linguaggio coreografico di Guarino – ma poetica e incisiva che sembra affiorare, dando loro corporeità e concretezza, dai quadri di De Chirico, tanto nei colori usati per gli abiti, che nell’uso e nella collocazione degli oggetti. Un’indagine, che è anche un duello di scherma a cui alludono i costumi, sulla propria natura che parte dalla menzogna - prima di qualsiasi altra azione, la danzatrice indossa simbolicamente il lungo naso - per arrivare alla verità del corpo in un percorso enigmatico, malinconico, a tratti inquietante in cui la burattina biomeccanica si sfida a diventare se stessa. Ancora in definizione, le luci tenui di Gianni Staropoli aiutano a dipingere una dimensione sospesa, compromessa nella sua fissità, in cui Guarino sembra nascere e muoversi come fenomeno, accadimento etereo e fugace. Un essere dai cuori di carta inchiodati al petto, che possono essere presi e sfogliati uno dopo l’altro, lentamente, con decisione; tante stille rossastre appartenenti a un’intera vita. In quel corpo che si fa piccolo piccolo e poi si estende, salta, corre, o semplicemente sta, si manifesta l’essere, la sua nascita, infanzia, adolescenza e adultità, mentre nel qui e ora teatrale si rappresenta "l’esser-ci". Io, tempo e spazio sono le tre unità sceniche attorno alle quali si muove questa coreografia di ricerca, sono vettori di sensibilità attraverso i quali possiamo dire di noi. Oppure mentire. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India, Teatri di Vetro: concetto e movimento Lucia Guarino, luce e spazio Gianni Staropoli, musiche Stefano Pilia, sguardo esterno Emma Tramontana, supporto alla drammaturgia Roberta Nicolai, consulenza costumi Gianluca Sbicca, sostegno alla produzione TSU Teatro Stabile dell’Umbria. Supporto amministrativo NexusFactory, sostegno alla residenza CURA centro umbro residenze artistiche, Masque Teatro, URA, Spazio ZUT speciali ringraziamenti a Elena Rosa, Gianni Staropoli, Marcello Sambati. Foto di Margherita Masé
UNA RELAZIONE PER UN ACCADEMIA (di F. Kafka, regia T. Ragno)
Un microfono di fronte a un leggio e a un alto sgabello dotato di numerosi appigli per piedi e mani. Si attende l’arrivo dell’illustre ospite che esporrà la sua relazione di fronte alla platea. Stretta tra le dita la maniglia della sua ventiquattrore, schiena dritta, compare una scimmia in smoking e scarpe da ginnastica. Diretto e interpretato da Tommaso Ragno, Una relazione per un’Accademia, tratto dall’omonimo racconto di Franz Kafka, mette in scena la storia di Pietro Il Rosso, una scimmia catturata in Africa che, per sopravvivere, è arrivata a imitare gli esseri umani al punto da poter rivendicare, con orgoglio, di avere acquisito la cultura di un europeo medio, accantonando il suo passato di primate e buttandosi nel teatro di varietà. Al di sotto della tuta villosa che ne ricopre il corpo, Ragno si erge sulla sedia e scartabella tra i fogli, cominciando a raccontare. Sotto le luci ravvicinate e puntate su di lui, gocce di sudore si formano copiose sulla fronte della strana creatura, che pare irrequieta: i suoi occhi penetranti scandagliano il pubblico mentre continua a saltellare convulsamente da una sporgenza all’altra, quasi come se il suo lato più animale avesse bisogno di emergere attraverso la narrazione compita e precisa, come i ciuffi di pelo sbucano dalle maniche della camicia. Termina la sua relazione e si inchina, accogliendo gli applausi del pubblico. Ma nel frugare nella sua valigetta, sbuca una banana. Alla vista, il lato più primitivo prende il sopravvento e, innalzando il frutto, sulle note di Also sprach Zarathustra di Strauss, lo sbuccia con lentezza solenne e plateale, prima di prenderne un morso. La natura trionfa sulla civiltà, le pulsioni persistono al di sotto dell’epidermide, come le radici sbucano tra le crepe del cemento, combattendo il grigiore delle metropoli e tendendo verso il sole e l’azzurro sconfinato del cielo. Al di sotto dei bei vestiti, rimaniamo, pur sempre, animali anelanti all’illusione di una libertà primitiva perduta che ci pare di riacquistare, talvolta, nel fantasma di una risata. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse. Di Franz Kafka, diretto da Tommaso Ragno, aiuto regia Maria Castelletto, interpretato da Tommaso Ragno, scenografie Katia Titolo, disegno luci Giuseppe Amatulli, Argot Produzioni in collaborazione con Pierfrancesco Pisani – Isabella Borettini per Infinito Teatro e Argot Produzioni
[…] KZ (di Paola Bianchi)
Già nel titolo è incisa una contrazione, un acronimo dell’orrore: KZ sta per Konzentrationslager, cioè campo di concentramento, quindi “KZ” è un sostantivo “concentrato” di un concentramento. Cavilli linguistici a parte, Paola Bianchi presta con coerenza, progressione e cura, la sua ricerca al progetto Voci dalla storia per cui ha ascoltato le testimonianze delle persone deportate nei campi di sterminio nazisti e le ha fissate, come se dal supporto audio passassero a un supporto fisico, in una partitura di gesti. […] KZ quel segno di punteggiatura nel titolo - che indica in una citazione la scelta di un’omissione di una parte di testo originale - è un tratto distintivo a ribadire che ciò a cui assistiamo è una traccia, una stratificazione di memorie scelte, di tipo narrativo, uditivo, corporeo, ognuna delle quali è stata selezionata. Non c’è memoria senza selezione e per questo la contrazione è sia nel contenuto che nella forma: i movimenti della coreografia sono incidentali, frammentati, ruvidi e netti, introversi e estroversi, concavi verso l’interno, contorti, a fatica, e liberati con coraggio. A questi si alterna il voice over di Bianchi che alla partitura coreografica fa corrispondere una vocale sulla memoria, sulla persistenza di una storia, sull’eternità di un trauma che si fa sentimento osseo, incastonato nel midollo della nostra esistenza. «Ricordare vuol dire dimenticare» dirà più volte e lo farà attraverso un lavoro pregiato e rispettoso dell’orrore e dolore tout court, non solo di quello dell’Olocausto, ma di tutte le violenze e i genocidi della storia, passati e presenti. Simbolo di questo esercizio di archivio, una lampadina che con movimenti circolari scende gradualmente sulla scena restringendo sempre di più la porzione di spazio illuminata; e scendendo ancora gira attorno al corpo della danzatrice, alle sue parole e ai gesti che si fanno impercettibili, fino a quando tutta la sala resta immersa nel buio e resta acceso solo un cerchio di luce, che non dovrebbe spegnersi mai. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India, Teatri di Vetro: coreografia e danza Paola Bianchi, sound design Stefano Murgia, lighting design Paolo Pollo Rodighiero, residenza creativa Teatro Galli di Rimini produzione PinDoc, coproduzione Liberty / Stagione Agorà con il contributo di MIC e Regione Siciliana, realizzato nell’ambito del progetto Voci dalla storia ideato da Liberty e sostenuto da Unione Reno Galliera, Città Metropolitana di Bologna, Comuni di Baricella, Granarolo dell’Emilia, Malalbergo e Minerbio, Parco della Memoria Casone del Partigiano “Alfonsino Saccenti”, con il contributo di Regione Emilia Romagna. Foto di Margherita Masé
ICE_SCREAM (di Giselda Ranieri)
Guardare Giselda Ranieri in scena significa osservare un corpo mente che elabora live un pensiero coreografico: non si tratta di improvvisazione ma di un ragionamento che continua ad articolarsi in partiture e espressioni che sono sempre in allerta, e mai si tranquillizzano nella successione ordinata della partitura. Una costante elaborazione che diviene trasparente, soprattutto quando il suo lavoro, prima in sala prove, poi in fase laboratoriale, entra in contatto con il pubblico. ICE_SCREAM, presentato al Teatro India, è una sintesi aperta, non ancora chiusa in una struttura definitiva, che ha come sottotitolo Molti volti per un progetto sull’umano e in cui si condensa il lavoro della danzatrice, performer e coreografa sul binomio oppositivo riso/pianto. Già elaborato durante Trasmissioni, la fase di ricerca di Teatri di Vetro, nell’esercizio condotto con la consulenza di Fiora Blasi, per quanto riguarda gli strumenti di clownerie, e insieme ad alcune partecipanti; il progetto di Ranieri arriva al suo primo approdo insieme all’interprete Micheal Incarbone presentandosi come un duo non solo di danza, ma anche duo musicale, attoriale, vocale, comico e persino animale. Due esseri viventi rivaleggiano tra loro, prima con movimenti in parallelo, poi con duelli diagonali e vicinissimi al proscenio, utilizzando due microfoni che fungono da amplificatori di suoni già risonanti dall’interno dei corpi: sono creati, propagati, urlati tramite contorsioni, prolungamenti, flessioni che uniscono questi rumori organici, fisici, a una sonorizzazione campionata elettronicamente, a cui si aggiungono riferimenti agli anni Ottanta, dalle tute animalier indossate, a un orecchiabile tormentone, fino all’acme finale col Bolero di Ravel su uno sfondo di cuori pulsanti al neon. Uno spettacolo che è una human beatbox (in riferimento alla tecnica musicale di riproduzione di suoni con la bocca) calamitante, che non si fa mai perdere di vista, che comprende tutto lo spettro dell’emotività: ascese e discese, toni gravi e acuti, fasi di condensazione e scioglimento (come il gelato “ice cream” del titolo che allude anche a io urlo “I scream”) che si manifestano sui volti di Ranieri e Incarbone facendoli diventare sorprendenti maschere tragicomiche. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India, Teatri di Vetro: idea e coreografia di Giselda Ranieri, in scena Michael Incarbone e Giselda Ranieri, progetto sostenuto da Inteatro/Polverigi; Oriente-Occidente; Armunia; CLAPS/Brescia; Komm Tanz-Passo Nord – Compagnia Abbondanza-Bertoni; Qui e Ora Residenza Teatrale, ATCL; Teatro della Tosse. Produzione Gruppo E-Motion con il sostegno di MIC – Regione Abruzzo e Comune dell’Aquila. Foto di Margherita Masé
SONATE BACH (coreografia e regia di Virgilio Sieni)
A Cango ogni performance è unica, forse irripetibile. Per la natura dello spazio, per il dèmone che lo abita, per la memoria dei muri carica di voci. Qui Virgilio Sieni ha ripreso uno dei suoi lavori più belli, Sonate Bach. Di fronte al dolore degli altri (sulle Tre sonate per viola da gamba e pianoforte di J.S. Bach, e in dialogo coll’omonimo libro di Susan Sontag del sottotitolo). È del 2006 ed è scandito da 11 date emblematiche di tragedie del nostro presente, ma ora ritorna a noi trasformatissimo: niente musica eseguita dal vivo, in compenso si è aggiunto un interprete, ed è venuta a mancare la proiezione di un video (di Sofri), a suo tempo importante, oggi qui dispensabile. Le immagini di orrore di un mondo sempre più in fiamme già circondano e assediano abbastanza il nostro quotidiano. Le ragioni di un nuovo e rinnovato immaginario di compassione, di fronte all’orrore e alla morte, alla sopraffazione e all’ingiustizia, devono trovarsi direttamente nella prossimità dei corpi. Una prossimità che allude (e immagino debba condurre) a una comunità di cuori. La disposizione spaziale di Cango consente questo, perfettamente. L’inedito avvio è perturbante: i danzatori entrano camminando sulle ginocchia, come corpi mutilati nel buio che li inghiotte. Sono anatomie in rovina che chiedono, nel gesto, risposte. In scena, sorprende Jari Boldrini (sempre più dinamico e in stato di grazia) perché sa sempre cosa fare e dove e quando, non ha bisogno nemmeno di pensare; Maurizio Giunti è certo più istintivo, ma il suo fare non è meno puntuale e preciso e luminoso; mentre Andrea Palumbo si raccorda perfettamente con un atletismo gestuale capace di continue epifanie, come le linee di Valentina Squarzoni che sovrastano tutto, quasi in ogni istante della sua presenza. Ma è Giulia Moreddu il corpo più sapiente nel presentarsi dolente e inerte e trasfigurato dalla sofferenza (in una lunga, febbrile e sospesa slow motion con Jari che fa tremare i muri), di fronte alla quale siamo tutti costretti, sottomessi, spettatori incapaci d’azione. (Stefano Tomassini)
Visto a Cango. Coreografia e regia Virgilio Sieni, Interpreti Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Giulia Mureddu, Andrea Palumbo, Valentina Squarzoni, Musica J.S. Bach Tre Sonate per viola e pianoforte (BWV 1027, 1028, 1029), Costumi Giulia Pecorari, Giulia Bonaldi, Marysol Maria Gabriel, Luci Andrea Narese, Virgilio Sieni, Direzione tecnica Marco Cassini, Produzione Compagnia Virgilio Sieni, in collaborazione con Festival Chiassodanza, RED Festival Reggio Emilia Danza.
IL NOSTRO MARTELLO È IN MANO A MIA FIGLIA (di B. Watkins, regia M. Glenda)
Due sorelle, una madre, una pecora. Un pickup, un padre defunto, l’intuizione di un cielo enorme sul vuoto pneumatico di una prateria tra le cose e le persone. Il fantasma di una nonna vaga nell’immensa distesa, dove si perse tanti anni prima in una tormenta. Sarah (Federica Carruba Toscano) e Hannah (Arianna Cremona), due sorelle, sognano di lasciare una casa troppo piccola in quella landa troppo grande, di allontanarsi da una madre imperscrutabile e inafferrabile, sempre oltre una spessa coltre di nostalgia. L’angosciante attesa di una catastrofe è la cifra de Il nostro martello è in mano a mia figlia, testo del drammaturgo e sceneggiatore statunitense Brian Watkins: una catastrofe che sembra conseguire all’entropia innescata da un’altra catastrofe, più antica. La storia si ripete, e ripetendosi si sovrascrive, come cancellando le sue onnipresenti tracce, incrementando un senso di oppressione e di impotenza che filtra nei non-dialoghi tra le sorelle, nei tic nervosi e nelle coazioni a ripetere gesti fisici. Prima di morire (o fuggire?), il padre lascia alle tre donne un sontuoso pick up che le sorelle bramano per la fuga, ma anche una pecora, Vicky, bestia troppo stupida per essere addestrata a stare in casa e che continua a sporcare e a urtare cose che non dovrebbe. Eppure la madre ama la bestia inebetita. Il silenzio dell’animale diventa simbolo insopportabile di quel tutto doloroso e muto. Fa venire in mentre la capra di una famosa poesia di Umberto Saba, fa venire in mente ogni capro espiatorio e il male di cui si fa carico. Mentre Hannah e Sarah preparano di malavoglia una cena a sorpresa per il compleanno della mamma, Vicky commette l’errore di entrare in cucina e rovesciare una pentola di sugo proprio mentre le due sorelle vivono l’unico momento di empatia e leggerezza nel dramma. L’imprevisto porta a un’esplosione di violenza contro l’animale, che stravolge il ritmo e il linguaggio della piece, verso un finale pànico, straziante, disturbante. Carruba Toscano e Cremona ci portano dentro un testo raffinato e potente, la cui scelta è felicissima e suscita curiosità verso una scrittura al contempo giovane, ma consapevole di una tradizione americana di paesaggi e caratteri marginali. Vite lontanissime dalla nostra quotidianità urbana, ma proprio per questo specchio di un’area fata di violenza e desiderio, remota ma radicata in ciascun* di noi.
Visto al Teatro Tor Bella Monaca, di Brian Watkins; traduzione Enrico Luttmann; con Federica Carruba Toscano e Arianna Cremona; regia Martina Glenda; scene Sara Palmieri; disegno luci Sebastiano Cautiero; realizzazione costumi Nunzia Russo; produzione La Contrada Teatro Stabile di Trieste
LA PARTE MALEDETTA. CARMELO BENE (regia Clemente Tafuri)
A Genova c’è un bastione silente, ma serio e testardo, della ricerca teatrale, rappresentato dal lavoro di Teatro Akropolis. Il gruppo negli anni ha declinato il proprio campo d’azione non solo negli ambiti creativi, anzi ha dimostrato un amore ostinato per alcune zone della scena contemporanea. Passione concretizzatasi in un festival, in una collana di libri, talvolta nell’organizzazione di importanti convegni, negli ultimi anni in un un progetto cinematografico e ora anche in un archivio digitale dedicato agli studi delle arti performative. Ma è sempre la scena ad essere al centro dello sguardo, con l’intento di scandagliare la creazione artistica più che l’evento spettacolare. Akropolis si muove in questo senso con discrezione, come un visitatore alla ricerca di un mistero, in una stanza buia, in mano solo una piccola torcia con cui illuminare certi dettagli. Nel caso di La parte maledetta, il tentativo è quello di raccontare l’arte con l’arte: quelli di Clemente Tafuri e David Beronio non sono documentari (su Massimiliano Civica, Paola Bianchi, Gianni Staropoli, Carlo Sini e ora Bene), ma lavori che problematizzano il linguaggio teatrale problematizzando quello filmico. Si pensi a uno di quelli più radicali, il film su Civica, dove neanche la voce del regista appariva e le sue parole erano affidate alla narrazione di Bobo Rondelli. Nel caso dell'ultima tappa, vista a Teatri di Vetro, il cuore del linguaggio è nel montaggio, nel filo rosso che lega i frammenti di archivio, il prezioso materiale nel quale Bene parla del teatro come miracolo del non luogo, della propria arte in contrapposizione con il sistema - "mondano" e "dopolavoristico" - dello spettacolo. Non è il Carmelo Bene tritato e riconsegnato in forma di meme nelle sue uscite più divertenti e decontestualizzate, qui Akropolis non teme le tirate più complesse e filosofiche, ma neanche alcune suggestive immagini dal cinema beniano o dalle celebri produzioni televisive dei suoi spettacoli. La parte maledetta in questo caso è il corpo a corpo con la rappresentazione, il suo perenne disfacimento. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India. Teatri di Vetro 2024. Regia Clemente Tafuri con Valentina Beotti, Margherita Fabbri, Daniela Paola Rossi fotografia e montaggio Clemente Tafuri, Luca Donatiello, Alessandro Romi riprese e audio Luca Donatiello, Alessandro Romi
AMLETO (regia di Alessandro Fabrizi)
Frequentare Shakespeare sempre. Anche al freddo di una serata di dicembre, quando non si conosce il regista e poco si sa dell’operazione scenica. Come nel caso di questo allestimento di Amleto portato al Teatro Basilica con la regia di Alessandro Fabrizi e un cast di volenterosi ed efficaci attori e attrici. Uno spettacolo andato in scena all’aperto, prima in forma di studio al festival unplugged del Teatro Ecologico di Stromboli e poi in piazza Sempione la scorsa estate, dunque nuovamente all’aperto. Ecco allora che la versione indoor al Basilica è stata un novità, accolta da un pubblico numerosissimo. Anche perché nelle quasi tre ore di recita si assiste a un lavoro completo sul testo: l’opera esemplare, quella più enigmatica e filosofica di Shakespeare, ma anche una tra le più dinamiche, diventa così davvero il fulcro di un rito laico. Attorno a un Amleto ben recitato noi spettatori non possiamo che divenire comunità temporanea: quando ci sentiamo interrogati dal mistero che attraversa la corte danese, quando seguiamo con poche distrazioni le sue evoluzioni vuol dire che la macchina scenica sta facendo il proprio dovere. Non aspettatevi una regia che illumini il testo in una maniera innovativa o che colpisca per idee indimenticabili, ma è nelle relazioni tra i personaggi, nelle dinamiche spaziali - il bel duello che continua fuori scena dando l’impressione che lo spettacolo conquisti tutto lo spazio teatrale -, nell’idea dell’accompagnamento musicale dal vivo, con una semplice chitarra e voce, la sapienza di questo allestimento. A Fabrizi gioverebbe rivedere alcuni dettagli e idee, come l’uso delle sedie accatastate nella scena dei Becchini e la voce del fantasma del padre, mal distorta alle spalle della platea. E poi c’è l’interpretazione di Alessio Esposito, che vibra di intelligenza, umanità e ironia, il suo Amleto cresce proprio quando comincia a fingersi pazzo, appena si mette la maschera da attore inizia a imprimere una personalissima impronta, tagliente nell’umorismo intelligentissimo, cattivissimo per necessità; eccolo Amleto, antieroe moderno, nostro contemporaneo. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica Uno spettacolo di Alessandro Fabrizi con: Maria Vittoria Argenti, Francesco Buttironi, Giovanni Ciaffoni, Alessio Del Mastro, Alessio Esposito, Alessandro Fabrizi, Laura Mazzi, Salvatore Palombi, Clemente Pernarella Traduzione inedita di Nadia Fusini Musiche originali di Gianluca Misiti e Giovanni Ciaffoni Costumi di Marina Sciarelli Aiuto regia: Silvia Ignoto Assistente costumista: Sofia Cascino
MATHILDE (di V. Olmi, regia A. Aronne)
Un appartamento alieno, con i mobili ricoperti da sottili teli di nylon opachi per impedire alla pittura fresca ancora gocciolante di rovinarli. Un’atmosfera immobile circonda Pierre (Luca Mammoli), rinomato oncologo, che si aggira come uno spettro nello spazio spoglio e freddo. Poi, dalla porta d’ingresso che si socchiude, una calda luce proietta sulla parete antistante il profilo inconfondibile di una donna. L’uomo si immobilizza e fa la sua entrata, inaspettata e inattesa, Mathilde (Eleonora Giovanardi), sua moglie. Dal testo di Véronique Olmi, tradotto da Alessandro Serra, il regista Alessio Aronne, in questa nuova produzione della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, costruisce una storia di rapporti compromessi, sulla base di un forte dilemma morale: Mathilde, nota scrittrice, infatti, è appena uscita di prigione, dopo tre mesi di reclusione, per aver intrattenuto una relazione extraconiugale con un ragazzo quattordicenne. Dilemma che si proietta negli occhi dello stesso pubblico, impossibilitato a calarsi empaticamente nei panni di Mathilde, diviso tra la repulsione e la fascinazione per una protagonista che non sembra provare il minimo rimorso per quanto compiuto e, anzi, ammette di essere propensa a macchiarsi nuovamente della stessa colpa. Tale atteggiamento ambivalente si riflette in Pierre, che condanna le azioni della moglie e vorrebbe separarsi da lei, ma al tempo stesso la esorta a scriverne e si offre di rimanere al suo fianco durante il processo. I teli vengono tolti dal mobilio, gli scatoloni con gli effetti personali della donna pian piano sono smontati, facendo riemergere oggetti forieri di ricordi, e lo spazio abitato dai due personaggi si anima. Il loro stile recitativo, a sua volta, perde i freddi stilemi alienanti dell’inizio per riscaldarsi al tepore di un affetto reciproco che persiste, nonostante gli avvenimenti e i pregiudizi. Mathilde, dunque, è un racconto di condanna e di perdono che mette lo spettatore di fronte a un’altra questione viscerale: fino a che punto siamo disposti a perdonare in nome dell’amore? (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse di Véronique Olmi traduzione Alessandra Serra con Eleonora Giovanardi Luca Mammoli Regia Alessio Aronne Scene Emanuele Conte Disegno luci Matteo Selis musiche Marco Rivolta Costumi Daniela De Blasio Coreografia e movimento scenico Marianna Moccia assistente alla regia Marco Rivolta produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse
ALICE NO (di S. Pauly, regia G. M. Bozzale)
Le chiacchiere delle infermiere fuori dalla porta, nel buio più totale, animano il reparto. Sono discorsi futili, avulsi dal contesto: basteranno tre pizzette a testa per gli ospiti della festa? Alice (Sofia Pauly), ora illuminata dai riflettori, ascolta il battibecco in corso tra le due donne, così assorbite dalla loro discussione da accorgersi a malapena della paziente a cui stanno porgendo la colazione. Le infermiere escono, Alice rimane nuovamente sola, ma per poco: in stanza arriva un’altra ragazza, Nadia, molto più giovane, reduce dello stesso intervento. Ma lo stato d’animo delle ricoverate è diametralmente opposto: tanto Alice si sente leggera e sollevata, quanto Nadia è divorata dai sensi di colpa per aver abortito il figlio che portava in grembo e che desiderava avere. Anche i loro compagni di vita si pongono su due posizioni diverse, con l’indifferenza del partner di Alice da un lato, che si annoia al bar mentre aspetta che la protagonista venga dimessa, e l’urgenza dell’uomo al fianco di Nadia, il quale aveva forzato la mano affinché la ragazza rinunciasse alla gravidanza, forse frutto di una tresca extraconiugale. Sola, appollaiata su uno sgabello, Pauly, con i suoi abiti ampi che ricordano vagamente un camice ospedaliero, è in grado di rendere distinguibile ogni personaggio del suo monologo tramite diverse inflessioni della voce, o di evocarlo con il semplice ausilio di una telefonata. Viene così esplorata la tematica dell’assenza di un desiderio considerato connaturato alla natura femminile, quello di diventare madre. Alice, lasciata libera di compiere una scelta, sente di non volerlo, e solo verso la fine riuscirà ad ammettere a sé stessa la validità della sua posizione, a discapito di cosa potrebbero pensare genitori e dottori. Pauly, evidenziando come le posizioni di Alice e Nadia siano entrambe valide, si addentra con delicatezza dentro un argomento scottante: di fronte all’ingerenza sempre più soffocante dello Stato, viene ribadita la possibilità di poter dire, a gran voce, no. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Garage. Autore: Sofia Pauly Regia: Gianluca Maria Bozzale Con: Sofia Pauly Costumi: Nicoletta Fasani
DON GIOVANNI (regia Arturo Cirillo)
Don Giovanni è una figura che vive ancora preponderante nella cultura popolare, nonostante il vorticoso cambiare dei tempi, tra mondi fragili, perché virtuali, e bulimici, perché pieni e vuoti al tempo stesso di contenuti sempre sostituibili. Radicato come simbolo nell’immaginario collettivo e nell’apparato linguistico, Don Giovanni è da sempre visto come un fuoriclasse, un donnaiolo frizzante, ingordo e dissoluto, un vero e proprio marpione capace di sfruttare le debolezze altrui e vincere il proprio gioco, ma a cui alla fine tocca un amaro conto da pagare. Un conto che paga - seppur con toni meno coloriti, anzi, più mesti e deprimenti dei riferimenti letterari a cui si ispira - anche nell’opera teatrale tragicomica di Arturo Cirillo, che intreccia i racconti di Molière e Lorenzo Da Ponte alle partiture musicali di Mozart. Sullo sfondo classicheggiante di palladiana memoria, con statue, scalinate e ampie terrazze marmoree che incorniciano teatralmente la vicenda, curata nella scenografia essenziale ma “scorrevole” da Dario Gessati, le peripezie di Don Giovanni si affrettano ad accadere: la bramosia per possedere donna Anna, l’assassinio del padre Commendatore che tentò di proteggerne la virtù, la fuga da una sedotta e abbandonata Elvira, il corteggiamento di una incredula contadinella e la gelosia del suo promesso sposo. Una rincorsa da e per la morte, in compagnia di uno Sganarello spassosissimo, interpretato dal bravo Giacomo Vigentini, giudicante ma infine mesto servitore del protagonista, che è sempre Cirillo. Perché poi la morte arriva, giunge quasi di traverso al nostro immorale Don Giovanni, e imprevista nelle modalità del suo silenzioso esito. “Perché in fondo questa è anche la storia – dice Cirillo nelle note di sala – di chi non vuole, o non può, fare a meno di giocare, recitare, sedurre; senza fine, ogni volta da capo, fino a morirne”. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: da Molière, Da Ponte, Mozart, adattamento e regia di Arturo Cirillo, con Arturo Cirillo, e con (in o.a.) Irene Ciani, Rosario Giglio, Francesco Petruzzelli, Giulia Trippetta, Giacomo Vigentini, scene di Dario Gessati, costumi di Gianluca Falaschi, luci di Paolo Manti, musiche di Mario Autore, produzione MARCHE TEATRO, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro / ERT Teatro Nazionale
L’ESPERIMENTO (regia di Monica Nappo)
Vi hanno mai raccontato nell’ora di scienze, a scuola, l’esperimento del rospo? In sostanza, si prende uno di quei batraci e si infila in una pentola ricolma d’acqua, che successivamente viene messa a bollire. La creatura percepisce gradualmente il cambio di temperatura e continua a regolare quella del suo corpo fino a quando il calore diventa insopportabile, ma è talmente esausta dallo sforzo di adattamento che non riesce più a balzare fuori dalla pentola e a salvarsi. Monica Nappo fa dell’esperimento una metafora sagace per parlare di dipendenza affettiva e di come ci si abitui a piccoli soprusi quotidiani invalidanti, che aumentano esponenzialmente per quantità e gravità, pur di mantenere in piedi l’abitudine di una relazione. Nei panni di una counselor in attesa del suo cliente, la protagonista si muove nello spazio angusto del suo ufficio, dove una vetrata colorata separa la zona ospiti dal cucinino alle sue spalle. In un angolo, controllata a intervalli regolari, una pentola su un fornelletto a gas. Il messaggio vocale di un cliente, che le racconta di aver riscritto alla ex moglie, diventa pretesto per parlare del suo, di matrimonio naufragato, e di come il fallimento della relazione abbia minato la sua persona in maniera progressiva, inavvertita: dalle critiche sul modo in cui fa la lavatrice, fino alla preoccupazione ecologica per un mondo destinato a figli che non vuole avere e che pure si è messa nella condizione di dover concepire, sottoponendosi a cicli invasivi di inseminazione artificiale, con l’intenzione di accontentare il marito. La donna, ammantata di una luce rossa, è scossa da convulsioni sempre più forti a mano a mano che ci si addentra nella sua psiche ferita. Il rospo è cotto a puntino.Eppure, la protagonista riesce finalmente a sfuggire al destino di rana bollita e a riappropriarsi del suo benessere, dei suoi successi nel nuovo lavoro, senza dover più “abbassare il volume della gioia” per alimentare l’illusione di essere la stessa persona di cui si era innamorato il marito. Alla faccia degli esperimenti, e dei rospi annessi. (Letizia Chiarlone)
Visto alla Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova Crediti Produzione Fondazione Teatro Due Regia e interpretazione Monica Nappo Scene e costumi Barbara Bessi Assistente alla regia Elena Gigliotti
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