Cordelia - le Recensioni

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GENDER BENDER (Daniele Ninarello, Oona Doherty)

A Gender Bender, un’intera comunità bolognese legata al progetto europeo Performing Gender – Dancing In Your Shoes si è messa al servizio di Daniele Ninarello, per una creazione condivisa dal titolo Crowded Bodies. «Un live-collage» (è la felice espressione che la definisce) di persone di diverse età ed esperienza di danza, per un gioco sottile di ascolto e condivisione capace di preservare le identità di ognuno, mentre si genera una comunità. L’arrivo cadenzato in scena e il lungo avvio fatto anche di stasi piene di presenza e intese fra i corpi nel massimo candore, è scandito da parole tratte da The Philosophies of Asia di Alan Watts (2016). Ma è naturalmente la progressiva occupazione dello spazio e dell’azione in un liberatorio catwalking a proscenio a contagiare gli sguardi di tutti. In chiusura, il festival ha ospitato Hope Hunt and the Ascension Into Lazarus di Oona Doherty, un assolo nel corpo della straordinaria danzatrice francese Sati Veyrunes, letteralmente caduta dal bagagliaio di una macchina che romba fuori dal TPO. Va così in scena, prima tra gli astanti all’esterno poi (dopo aver gridato loro di entrare, appoggiata all’auto e a pugni alzati) nello spazio interno della performance, una figura aggressiva e destinata continuamente a barcollare e cadere e inciampare, in mezzo agli stereotipi della maschilità più tossica e misogina «della classe operaia irlandese». Ed è davvero una performance straordinaria, fatta di voce e di corpo, capace di rivelare nella disperata violenza appresa (e subita) nei gesti condivisi, nella rabbia senza causa, nei tic nervosi, nel sudore della fronte sempre aggrottata, nelle posture storte e acide, nelle paure dissimulate e nella spavalderia più esplosiva e fastidiosa, una vita che chiede alla fine solo amore. Il titolo infatti dice tutto: si tratta di una caccia alla speranza nel ritorno di Lazzaro. Alla fine, infatti, resta a terra un corpo completamente vestito di bianco che espone in un capitolato candore tutta la sua radicale vulnerabilità. (Stefano Tomassini)

GENDER BENDER (Lara Barsacq, Gaya de Medeiros, Michele Ifigenia)

Lo storico festival bolognese Gender Bender da due decenni intercetta immaginarî culturali e performativi legati al corpo e al genere, oggi con un’intensa programmazione interdisciplinare e post-identitaria. Nel folto programma di quest’anno anche molta danza, tra cui ho visto IDA don’t cry me love di Lara Barsacq. È un lavoro ispirato alla biografia artistica di Ida Rubinstein e all’universo estetico dei Ballets Russes. Il passato qui è evocato come una memoria (anche d’inciampo: Djagilev è detto maître-de-ballet... roba da sassate), da utilizzare per ritrovare storie considerate perdute, e per simpatia generarne di nuove. Se quindi le storie personali delle interpreti, che si sovrappongono perché stimolate da quelle di Rubinstein, sono i momenti più interessanti (e autonomi), ciò che non funziona invece è proprio l’uso sommario della complessità del passato, e soprattutto della danza (di quella prima modernità), banale e piena di luoghi comuni visivi anche inverificabili. Invece, in Atlas da boca realizzato da Gaya de Medeiros insieme al danzatore Ary Zara, le proprie identità di performer transgender vengono esplorate nello spazio simbolico della bocca, affinché un intero nuovo atlante (di parole, di gesti, di situazioni) si componga e sovverta il presente anche nella nudità di un nuovo linguaggio: «i momenti in cui la bocca si irrigidisce, lasciando uscire le parole in un ruggito». E neanche i sottotitoli proiettati alle spalle dei performer riescono a catturare queste parole che si rincorrono, in perenne transizione. Infine, in Cuma di Michele Ifigenia, assolo interpretato da un’intensa e bravissima Federica D’Aversa, la sibilla cumana viene messa a nudo anche da una possessione mantica trasfigurante e irrazionale e dilaniante, e assediata da una musica elettronica che non dà tregua, alla fine virata in una apparizione video (forse corpo di un nuovo Chaos?), come un doppio di tutto-punto-vestito, forse portatore di un’assai ambigua speranza, o di un decoroso disincanto. (Stefano Tomassini)

BLIND RUNNER (di Amir Reza Koohestani)

Un uomo e una donna corrono, su di un palco vuoto. È una prova di resistenza del corpo o del pensiero? Un esercizio di fuga o di libertà? Ogni settimana si ritrovano, nella sala visite del carcere, ogni settimana lei (rinchiusa per aver esercitato il diritto alla libertà di parola) attende che il marito ritorni per condividere quella quotidianità condivisa sospesa. Cosa dirsi in quella mezz’ora di visita? I dialoghi della coppia si fanno via via sempre più freddi, incapaci di colmare una distanza insormontabile – le sbarre della prigione sono invisibili ma tangibili nelle posizioni parallele e distaccate assunte dai due attori sul palco – aumentata dall’utilizzo del linguaggio video, che proietta le immagini di quegli stessi dialoghi su uno schermo di fondo e ne estrae dei primi piani in cui emergono sguardi vuoti, di un dolore logoro, spento. Amir Reza Koohestani lavora su questa distanza fisica, mentale, simbolica inserendosi nelle sue fessure, con un intervento minimale volto a scavare l’eccesso, il sensazionale (che sembra emergere solo alla fine), le cromaticità e costruendo con l’aiuto di Éric Soyer una scenografia asettica non solo nelle tonalità visive ma soprattutto nei toni linguistici. È la parola a farsi agente di separazione, il moto del corpo la segue con una meccanicità spaventosa ma pur sempre alla ricerca di qualcosa: è qui che Koohestani inserisce lo sviluppo di un’altra storia, in cui la corsa acquista un senso che vuole oltrepassare le condizioni di prigionia e assumere le tracce delle identità migranti. La donna in carcere spingerà quindi il marito a scendere nel campo di una lotta che le è stata negata, assieme ad un’altra donna, resa cieca in seguito ad una manifestazione, che può ora correre per fuggire, per seguire un ideale di libertà, riscrivendo la propria storia, «a true story - an actual - an actual hi-story - a factual - fact story».

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: testi, regia: Amir Reza Koohestani drammaturgia: Samaneh Ahmadian assistente alla direzione: Dariush Faezi luci, scenografia: Éric Soyer video: Yasi Moradi, Benjamin Krieg musica: Phillip Hohenwarter, Matthias Peyker costumi: Negar Nobakht Foghani performer: Ainaz Azarhoush, Mohammad Reza Hosseinzadeh

SPORT (di Salvo Lombardo)

«Ojos and bouche brûlés / So sweet la nuit on body sold» è uno dei versi sincretici di hiver di Iosonouncane, fatti di lingue giustapposte, in cui, con densità semantica, potrebbe essere sintetizzato Sport di Salvo Lombardo, ultima traccia della trilogia L’esemplare capovolto che, dopo Gran Ballo Excelsior (1881) e Amor (1886), stavolta desitua coreograficamente Sport ballo in otto quadri del coreografo Manzotti che debuttò alla Scala nel 1897. Sul tatami bianco al centro della sala B del Teatro India, con ai lati il pubblico, avanti e indietro, con lo sguardo fisso e implacabile, si srotolano le capriole di Chiara Ameglio, Jaskaran Anand, Daria Greco, Fabritia D’Intino; il gesto è prestante ma isolato, lo sguardo è dritto, in parallelo, come le righe delle tute indossate. La luce al neon è radiante, sembra che le gelatine apposte davanti ai fari par siano rigate, a graduare lo spettro luminoso in diverse intensità. Le Reebok bianche affondano dolcemente, il suono dei corpi e dei passi sul tappeto è ovattato, confortevole. Abbandonando i “binari” solipsistici della partitura iniziale, i corpi si trovano inclusi ma anche contrapposti gli uni agli altri, prima attraverso carezze conoscitive poi con il prendere le misure, prevaricandosi: le mani si stringono ai polsi, le gambe si tendono, le teste si avvicinano. Il contrasto serioso scivola nella risata complice, l’annientamento cede al piacere della caduta, che passa dalla morbidezza al tonfo; la musica sale e i colpi dei corpi si trasformano in frastuono di bombe. Tregua: la guerra si scioglie fiacca nella pace delle note del concerto per pianoforte e orchestra n. 23 di Mozart. La levità di Greco e D’Intino, la fermezza di Ameglio e l’imprevedibilità di Anand sono dei vettori espressivi delle corporeità non imbrigliate nella performance agonistica ma animate nella loro diversità che prevale sul codice. È ineffabile: l’umanità riscrive la storia non più attraverso la prestanza, fisica, dei corpi ma tramite la loro presenza, emotiva (Lucia Medri).

Visto al Teatro India: di Salvo Lombardo con Chiara Ameglio, Jaskaran Anand, Daria Greco, Fabritia D’Intino, disegno luci, spazio e direzione tecnica Maria Elena Fusacchia e Alessio Troya disegno del suono Fabrizio Alviti styling Ettore Lombardi consulenza teorica Alessandro Tollari foto di Carolina Farina produzione Chiasma coproduzione FESTIVAL MILANoLTRE, Fattoria Vittadini

AILEY II (William Forsythe, Francesca Harper, Robert Battle, Alvin Ailey)

È stata una felice inaugurazione quella della nuova stagione di danza al Teatro Comunale di Vicenza con l’Aley II (i giovani della compagnia Alvin Ailey American Dance Theatre Company). E per di più con un programma di quattro titoli estremamente differenti fra loro. Una serata per tutti i palati, sembrerebbe. Ma è stata anche una serata in cui i dodici interpreti che vengono dalla scuola della compagnia, hanno confermato (dimostrato ai meno esperti) una duttilità e una versatilità piena di futuro. Il primo brano, estratto da un lavoro del 1989 di William Forsythe, Enemy in the figure, è intatto nella sua forza, ancóra capace di emozioni: è una gioia che un repertorio neoclassico abbastanza recente ma così difficile sopravviva in corpi così allenati ed eterogenei. Il secondo pezzo, Freedom Series (2021), di Francesca Harper (che è la nuova direttrice della scuola: ha rilevato un’eredità materna importante, quella di Denise Jefferson), è costruito in forte continuità col segno forsythiano (per il quale Harper è stata mirabile interprete a Francoforte) ma con inserti di azioni più teatrali che creano un rallentamento, una frenata di quella forza (astratta) da cui proviene, cercando una via nuova. Il terzo brano, The Hunt, di Robert Battle, creato nel 2001 su musica abbastanza fastidiosa di Les Tambours du Bronx, è un continuo sbracciare energetico misto a uno svolazzo di (brutte) lunghe sottane in sei corpi maschili e in cerca del «lato predatore della natura umana e il brivido primitivo della caccia». Trascurabile. Il finale, come da tradizione, è il capolavoro di Alvin Ailey, Revelations (1960!). Che dire? qui mille discorsi convergono: sulla capacità di un singolo brano coreografico nel rivendicare la forza di un’intera comunità; la visibilità di una complessa carriera creativa; la resistenza di una idea tanto semplice quanto imperitura: la speranza si genera dal dolore. Sono spiritual, canti religiosi, gospel e blues che ormai conosciamo a memoria, e ora li abbiamo anche ricantati nei corpi pieni di promesse di questa giovane compagnia. (Stefano Tomassini)

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UN CURIOSO ACCIDENTE (regia di Gabriele Lavia)

Il teatro sa essere uno spazio protetto e caldo, impermeabile e sicuro. Come un cappotto, avvolge e conforta nonostante fuori ci sia la tempesta e l’involucro presenti evidenti segni di usura, di disfacimento. Gabriele Lavia preme su queste suggestioni nell’allestimento di un Goldoni poco rappresentato, Un Curioso Accidente: una scena diroccata occupa interamente il palco del teatro Argentina con un sontuoso ma sbilenco sipario rosso che dal fondo raggiunge la platea rivestendo il pavimento, occultando un fondale nero su cui a caratteri incerti campeggia il titolo del lavoro, come un gigantesco, frettoloso appunto scritto a mano. Davanti al sipario qualche fila di poltrone, bauli, due pianoforti, un camerino a vista sul lato del proscenio, con tanto di specchio circondato da lampadine. Lavia racconta dal proscenio che mai in tanti anni di carriera ne ha visto uno che avesse tutte le lampadine funzionanti. È entrato in scena in costume neutro insieme a tutta la compagnia, pronta a prestarsi a un dichiarato gioco teatrale con l’aiuto di semplici elementi di costume, un’altalena, pochi oggetti. Tutto l’impianto registico, dal semplice disegno luci all’assenza completa di effetti musicali (le musiche sono eseguite e cantate dal vivo dagli attori) vuole concentrare le energie tra palco e platea e rinnovare – esplicitandolo - un patto con lo spettatore. E Lavia lo spettatore lo mette sul palco, al centro della scena, come a fargli sapere che di questo disfacimento, di questo teatro in rovina fa parte anche lui. Ma, salendo e scendendo dal palcoscenico, gli dice anche: sei qui, siamo qui, vicini il più possibile, a raccontarci la storia di un equivoco brillante, una storia vera inventata, simile a tante altre eppure unica, ma fondamentalmente siamo qui a tenerci compagnia e farci calore, avvolti da quel cappotto vintage che è il teatro, lungo fino ai piedi, fatto con sapienza, di materiale resistente, pieno d’amore antico. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Argentina – Teatro di Roma di Carlo Goldoni. regia Gabriele Lavia. con Gabriele Lavia, Federica Di Martino, Simone Toni, Giorgia Salari, Andrea Nicolini, Lorenzo Terenzi, Beatrice Ceccherini, Lorenzo Volpe, Leonardo Nicolini. Scene Alessandro Camera. Costumi Andrea Viotti. Musiche Andrea Nicolini. Luci Giuseppe Filipponio. Suono Riccardo Benassi.

MURICEDDU (di Margherita Ortolani)

Lo Spazio Franco di Palermo ha appena inaugurato la sua nuova stagione con la prima di un ciclo di anteprime inedite. Scena Nostra, la rassegna prodotta da Babel in collaborazione con Rete Latitudini e con il sostegno di Regione Siciliana e Ministero della Cultura, viene anticipata quest'anno da tre diversi appuntamenti, tra cui un futuro omaggio a Franco Scaldati. Abbiamo intanto partecipato al primo atto della programmazione, ovvero un ritorno alla scena di Margherita Ortolani come interprete e regista di Muriceddu. Forse, chissà, l’età delle parole è finita per sempre. "Muriceddu" è un piccolo muro, una delimitazione minima da cui osservare, seduti, l'agitarsi della vita altrettanto minima che anima il quartiere. In un vociare indistinto, che cade sulla scena a inizio spettacolo come pioggia, Ortolani compone una marionetta: un'alterità lignea, spezzata come una vecchia stampella. Un processo di assemblaggio, ma forse anche una vestizione funebre; la presenza che ne risulta è più l'ostinata rappresentazione di un'assenza, della misteriosa interlocutrice di un dialogo forse impossibile. Non ti vedo, non ti sento. Eppure, nella verità della scena, è concesso parlarsi. Una parola spezzata, sospesa nel vuoto oscuro in cui si consuma, rievoca luoghi ormai collocati in una topografia dell'anima. Bozzetti impressionistici di personaggi accennati, tratteggiati con una poeticità cruda, prendono forma nella dolcezza allucinata e spigolosa dell'interprete; ne attraversano la voce – ora cristallina, ora profonda di toni gravi, rochi, taglienti – ne attraversano la gabbia ossea del corpo. Tra spigolature si intravede il fatto: la morte di un uomo, le sue scarpe, custodite come feticci. Ma il racconto si disintegra, si frattura attraverso l'esperienza delle donne che svolgendolo lo distruggono, e anzi ne sono distrutte. Nell'assenza fissa della marionetta, è Ortolani a ridursi a fantoccio, e così le donne che la abitano. La loro vita corrisponde a un sonno luttuoso, scandito soltanto dal ticchettio di un tempo irredimibile e di un'infanzia ormai inutile. Tutto avviene in una luce (di Dario Muratore, anche aiuto regista) dove «si vede poco, ma si vede tutto», così delicata e soffusa da diffondere più ombra che chiarore. La morte è anzitutto morte di sé nella morte degli altri. Ma, fortunatamente, è possibile sostenersi, insieme. (Tiziana Bonsignore)

Visto allo Spazio Franco. Crediti: testo e regia: Margherita Ortolani, con: Margherita Ortolani, aiuto regia: Dario Muratore, doppio in figura/marionetta senza fili: Tania Giordano

MOIRA, CASA, FAMIGLIA E SPIRITI (di Ottavia Bianchi)

Molto spesso si definisce il passaggio tra vita e morte come una specie di soglia, un limite da valicare per raggiungere un’ipotesi di aldilà; ma forse, a ben vedere, somiglia più ad un confine, un varco ambivalente che cioè tenga in equilibrio una duplice direzione – da e per, la vita e la morte. Sembra questa un po’ la riflessione che ha guidato Ottavia Bianchi nella scrittura di Moira, casa, famiglia e spiriti, che con la regia di Giorgio Latini ha debuttato al Teatro Manzoni. Moira è una donna, interpretata dalla stessa Bianchi, che ha lo strano dono di vedere e dialogare con i morti, o meglio, coloro che sono defunti nella casa in cui abita, tra i quali, ultimo in ordine di tempo, il proprio padre. Un dono, certo, ma allo stesso tempo una condanna – lei stessa crede – a perpetuare una solitudine esistenziale perché in essa possa mantenere il segreto di questa fantasmatica convivenza. C’è una giovane timorata un po’ svampita (Patrizia Ciabatta), una sferzante prostituta (Giulia Santilli), un timido soldato balbuziente (lo stesso Latini), infine Alfredo (Andrea Lolli), padre di Moira, che cerca di recuperare il tempo trascorso senza di lei, pensando ce ne fosse chissà quanto. Proprio la sua presenza convince Moira a chiudersi in un guscio che la ripari da nuove conoscenze, da ciò che cambierebbe il suo equilibrio, fatto di lavoro e visite della vicina strampalata (Beatrice Gattai). Ma una casa in affitto non è per sempre, c’è uno sfratto alla porta; eppure se lo sfratto ha il delicato impaccio di un ufficiale affascinato (Sebastiano Colla), forse le cose possono cambiare. Nel tono di commedia, che sfrutta con sicurezza gli effetti popolari della parlata romanesca e la verve di attori ben diretti, Bianchi compone uno spettacolo vivace e non privo di profondità, richiama e attualizza i Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli (1961), rinnovandone un certo spirito canzonatorio e insieme nostalgico nei confronti della vita e dei vivi, così presi dalla paura della morte da non badare a quanto, della vita stessa, si fanno sfuggire via. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Manzoni. Crediti: di e con Ottavia Bianchi; e con Patrizia Ciabatta, Sebastiano Colla, Beatrice Gattai, Giorgio Latini, Andrea Lolli, Giulia Santilli; Regia di Giorgio Latini; Aiuto regia Martina Paiano; Scenografia Cecilia Sensi; Costumi Lucia Mariani; Foto e Grafica Marco Bellucci; Una produzione Centro Teatrale Artigiano

LA VIDA ES SUEÑO (regia di Declan Donnellan)

C’è una fila di porte chiuse lungo una parete che taglia in orizzontale la scena, si aprono seguendo un’alternanza disordinata e mostrando proiezioni, personaggi di cui non si comprende a fondo la natura, se facciano parte della realtà o del sogno. Così comincia La vida es sueño di Pedro Calderòn de la Barca, in apertura di stagione al Teatro Nazionale di Genova con la regia di Declan Donnellan e l’interpretazione degli attori della Compañía Nacional de Teatro Clásico di Madrid. Eppure, viene da domandarsi, la realtà e il sogno sono poi così distanti? C’è in questa messa in scena, allestita grazie alla solida visione di Nick Ormerod, l’intenzione di recuperare dal mondo classico gli elementi che sappiano esplicitare l’assolutezza del testo barocco, come volerne far emergere tutta la risonanza contemporanea fin dalla vicenda. La storia infatti, quella di Sigismondo e Rosaura, sarebbe di per sé ferma al tempo storico dell’autore, eppure l’esilio del principe allontanato in una cattività conservatrice dal padre, per paura di una predizione al futuro, l’avviluppamento poi del destino che rincorre e allo stesso tempo determina la vita dei protagonisti, sono tutti elementi che scavano nelle opere classiche con evidenza nel mondo attuale. Esibendo dunque il reale di una vicenda esemplare, in Calderòn Donnellan vede la possibilità di mettere in luce la distinzione tra morte e non esistenza, esplorando in quest’ultima l’effettiva contrapposizione alla vita, allora sì trascorsa come fosse un sogno lucido che manifesti il nostro esistere. Ma il sogno di Calderòn, privo della profondità con cui la psicoanalisi ha motivato l’uomo del Novecento, rischia di non essere all’altezza del contemporaneo, finendo talvolta per chiudersi tra i lazzi di una rappresentazione giocosa, ricca di una magnifica qualità attoriale ma limitata a un’età fin troppo antica. “Anche nei sogni è bene fare ciò che è giusto”, dice Clotaldo in conclusione. Anche nei sogni, privi della sequenza e della durata, il tempo assoluto invece non può essere ignorato. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Gustavo Modena. Crediti: di Pedro Calderón de la Barca; adattamento Declan Donnellan, Nick Ormerod; regia Declan Donnelan; interpreti: Ernesto Arias, Prince Ezeanyim, Rebeca Matellán (Rosaura), Manuel Moya, Alfredo Nova, Goizalde Núñez, Antonio Prieto, Ángel Ruiz, Irene Serrano (Estrella); scene e costumi Nick Ormerod; musica e suono Fernando Epelde; luci Ganecha Gil

LA FEROCIA (VicoQuartoMazzini)

La ferocia, quella capacità di distruggere il mondo che abbiamo attorno, la natura e i nostri cari, per mantenere il potere e la ricchezza: la famiglia Salvemini e il suo patriarca sono la rappresentazione delle metastasi del nostro Paese. È spietata la vicenda scritta da Nicola Lagioia e altrettanto spietato l’allestimento teatrale di VicoQuartoMazzini. Gabriele Paolocà e Michele Altamura chiudono parte della storia dietro una grande vetrata, la scenografia di Daniele Spanò lascia percepire un’opulenza minimalista: nell'interno un grande tavolo e delle piante, poi c’è lo spazio fuori, non vediamo altro ma possiamo immaginare un grande cortile, forse un prato all’inglese e una piscina. Sulla destra il piccolo studio in cui il narratore/giornalista interpretato da Gaetano Colella registra un podcast sulla vicenda facendo così da filo conduttore. In questi spazi si decidono i destini della famiglia, dei terreni su cui edificare milioni di euro di cemento avvelenato, qui si dissotterrano cadaveri dando del tu ai morti. L’adattamento di Linda Dalisi ricama con grandissimo mestiere le linee narrative per conferir loro sostanza scenica e una fruibilità evidente, due soprattutto: quella più visibile riguarda la figlia del grande costruttore, la cui vita è raccontata in sua assenza dagli uomini di potere a cui si concedeva; l’altro tracciato è relativo al ritorno del fratello Michele, lo interpreta Paolocà entrando dopo mezzo spettacolo, non c'è eroismo nelle sue azioni ma una sincera ricerca della verità. Il lavoro lascia trasparire una certa distanza e talvolta freddezza date dall'utilizzo dei microfoni, dal tipo di amplificazione utilizzata e dall'impostazione generale (comunque coerente). Gli attori, nonostante la poca mobilità, costretta dall'inquadratura scenica iper realistica, sono rigorosi nella cura dei personaggi e compongono un cast di talento. Urge qui aprire una parentesi produttiva: Il centro di produzione Scarti - di certo anche grazie al nome di richiamo dello scrittore - ha messo in fila importanti partner (come poche altre volte è accaduto ad artisti under 40) segnando così la possibilità di un passaggio di maturazione del duo di artisti (VicoQuartoMazzini). Il ricambio generazionale deve essere perseguito e i trenta quarantenni sono pronti per gestire operazioni con budget finalmente decorosi, e rivolgersi così a un pubblico più ampio. (Andrea Pocosgnich)

- Leggi il cast completo e i crediti di produzione - Leggi l'intervista a VicoQuartoMazzini

FERDINANDO (di Annibale Ruccello, regia di Arturo Cirillo)

Nonostante la scena restituisca la dimensione ottundente del fallimento - quello del Regno delle Due Sicilie fa da fondale storico alla vicenda – i protagonisti sono tutt’altro che immobili e con vigore attoriale e sapienza interpretativa accendono coi loro umori le luci del lampadario precipitato a terra, smuovono le coltri, fanno oscillare il drappo damascato che chiude lo spazio di un teatro da camera che, come nel miglior dramma borghese, è pronto a saltare in aria. Ferdinando, ultimo lavoro di Arturo Cirillo sul testo di Annibale Ruccello, dopo il debutto ad Ancona è arrivato questa settimana al Teatro Parioli ed è subito accolto dal pubblico con complicità: risate dalle prime battute e applausi a scena aperta. Con empatia, ci avviciniamo al rancore sopito e alla disillusione di Donna Clotilde (Sabrina Scuccimarra), baronessa decaduta che schifa il re sabaudo e l’impersonalità della lingua italiana; a Donna Gesualda (Anna Rita Vitolo), Gesualdina, cugina “ingiallita” per la sua, apparente, condizione di nubile domestica che si rincuora con le “confessioni” di Don Catello (Arturo Cirillo), Catellino, uomo di chiesa ma amante del sacrilegio. Nell’opera di Ruccello, nei suoi adattamenti più ficcanti, e la produzione di Cirillo lo dimostra, il sottotesto, tanto drammaturgico quanto registico, è determinante al significato del testo stesso: l’impulso che cova e appassiona gli animi, i tic ripetuti dei personaggi, la prossemica, il ritmo ascendente e discendente della musicalità delle battute, alcuni termini calcati rispetto ad altri. E la camminata incisiva che Ferdinando (Riccardo Ciccarelli) compie da un lato all’altro del palco nella prima scena, in silenzio, quasi a prendere le misure, non può che far presagire quanto questo giovane, aitante, nipote della baronessa rimasto ora orfano e bisognoso d’affetto colmerà le solitudini dei tre riempiendone, e svuotandone poi, le esistenze. L’uomo deve essere consapevole di peccare, altrimenti diventa una bestia, dirà Don Catellino. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Parioli: con Sabrina Scuccimarra, Anna Rita Vitolo, Arturo Cirillo, Riccardo Ciccarelli, Dario Gessati, Gianluca Falaschi, Francesco De Melis, Paolo Manti, produzione Marche Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

TOMORROW’S PARTIES (Forced Entertainment)

Di certe indagini della realtà o dell’umano, a cui diverse ricerche artistiche hanno nel tempo prestato attenzione, alcune opere hanno reso un risultato talmente preciso da somigliare a una scoperta scientifica che non è più possibile ignorare: quella precisione di ragionamento trovata da uno diviene postulato per i discorsi degli altri. È significante come il contemporaneo, in modo più o meno consapevole, rilegga quel frammento di Tre Sorelle di Čechov dove ci si domanda che cosa resterà di noi nella memoria di chi ci succederà: la nostra capacità di raccogliere e proteggere campioni dell’attuale umanità chiede con urgenza una verifica. Nel mondo odierno, pervaso e presidiato dalla registrazione/archiviazione/condivisione di frammenti di realtà e dalla smania di rappresentare il presente, l’arte che dovrebbe organizzare una e sublimare l’altra interroga seriamente l’efficacia e la precisione di questi sforzi. Lo fa anche Forced Entertainment con Tomorrow’s Parties, la cui versione italiana (tradotta da Roberto Castello per ALDES) ha debuttato a Romaeuropa Festival con la regia di Tim Etchells, fondatore del premiato ensemble britannico. Una luminaria da desolata sagra di paese incornicia Marco Cavalcoli e Caterina Simonelli (un cast alternativo vede Roberto Rustioni e Simona Generali): in piedi su un podio di pallet, semplicemente immaginano i futuri episodi della nostra specie. La congiunzione disgiuntiva (bell’ossimoro) “o” è la parola chiave per cullarci in un salmodiare di ipotesi che, in un registro quieto (o rassegnato?), ci raffigura come bersagli o destinatari di cura per gli alieni, come servi o complici delle macchine, o divinità decadute, o inventori di nuovi ecosistemi sostenibili, o naufraghi alla ricerca di un nuovo pianeta e un nuovo senso. Lo si legga come distopico o consolatorio, anche in questo futuro immaginato “le storie di ieri” smetteranno di essere leggibili e significanti e diventeranno dunque incomprensibili e futili. Il tutto con la terribile, ma profondamente umana e teatrale, essenzialità del dialogo. (Sergio Lo Gatto)

Visto al Mattatoio per Ref 23 - interpreti Marco Cavalcoli o Roberto Rustioni con Simona Generali o Caterina Simonelli ura della versione italiana Robin Arthur traduzione Roberto Castello scenografia Richard Lowdon realizzazione scenografia Teatro del Giglio disegno luci Francis Stevenson responsabile tecnico Leonardo Badalssi

WIDE BEYOND (di Nathan Ellis, regia Lucilla Lupaioli)

Qualche anno fa, quando la manifestazione viveva di sana e robusta costituzione, erano addirittura più di uno i paesi messi sotto la lente d’ingrandimento, ne ricordo una versione dedicata anche alla Germania ad esempio, ma TREND nuove frontiere della scena britannica rischia di essere all'ultima stagione e sarebbe davvero un peccato; la storia è purtroppo la solita, mancanza di finanziamenti strutturali e bocciature nei bandi comunali e regionali. Una perdita nel panorama teatrale romano e nazionale perché ponte diretto di collegamento con il mondo sempre vivace della scrittura teatrale british. Quest’anno la XXII edizione, come sempre ospitata al Teatro Belli e curata da Rodolfo Di Giammarco, per la prima volta senza il compianto Antonio Salines,  è cominciata sotto il segno del giovane Nathan Ellis e del suo Wide Beyond messo in scena da Bluestocking. Un soggiorno con un tavolo, un divano economico color pesca, appendiabiti e poco altro, su una parete di fondo una sorta di finestra rappresentata da una fotografia opportunamente illuminata. Alessandro di Marco veste i panni di uno scrittore di successo di mezza età trasferitosi in California, quando il sipario si apre lo ritroviamo sulla soglia, sta per scappare dalla casa della madre, ma incontra la sorella. Quello di Ellis è un testo tutto teatrale, nel senso che tutto accade nel fitto dialogo tra i due fratelli: lei, umanissima Martina Montini, accudisce la madre malata da anni e ora si sta anche separando dal compagno al quale ha concesso la custodia dei figli; lui è tornato dalla California con la sua vita di successo di scrittore e docente, ma qui deve scontrarsi con la durezza della sorella. I particolari della relazione tra i due emergono lentamente, mentre una zuppa cerca di scaldare affetti rimasti troppo tempo lontani; arriverà il vino a sciogliere definitivamente il dialogo e a far affiorare segreti indicibili. Ellis ci pone di fronte a un dolore supremo: l’amore di una figlia per la madre e la possibilità che questo si trasformi in violenza a causa della depressione e dell’abbandono. E poi quel fratello che fugge, incapace di farsi carico del dolore, lasciando così la sorella, con le proprie lacrime, sola, di fronte alla soglia, tra le foglie di un autunno freddo e piovoso. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Belli, Trend: di Nathan Ellis regia Lucilla Lupaioli con Alessandro Di Marco e Martina Montini luci e fonica Sirio Lupaioli scene e costumi Nicola Civinini traduzione Natalia di Giammarco produzione Bluestocking

“M” (di Marie Chouinard)

In M di Marie Chouinard, presentato a ottobre al Festival MilanOltre nelle sale del Teatro Elfo Puccini, il respiro si cala da una dimensione strettamente naturale/vitale ad una artisticamente genitrice: è il respiro a informare il corpo, a disegnare nell’aria un riverbero ritmico incarnato dai dodici performer sul palco. Di quel respiro – sospirato, acuto, sospeso strozzato, tanto singolo quanto collettivo – ne viene estratta la traccia sonora, ora ripetuta ora amplificata nelle partiture vocali pensate da Chouinard, con l’accompagnamento delle musiche di Louis Dufort. Le coreografie partono proprio da quel suono, registrato accuratamente da Vincent Blain: da una scenografia lattiginosa che sembra fuggire i confini e gli orizzonti, si muovono inizialmente quattro performer, figure nitide e dai colori sgargianti sullo sfondo neutro del suono materico della pioggia. Il microfono posto in una posizione avanzata verso il pubblico ne diviene direttrice degli assoli, i quattro artisti vi si avvicinano per compiere quella partitura vocale di vibrazioni-sospirate, dando principio al virtuosismo dei corpi. In risposta, il palco si abita di altri performer, tutti legati da una connessione ritmica e un filo invisibile ne cuce la carica dei gesti, che alternano fluidità a momenti più meccanici, potenziati da un efficacissimo gioco di colori e di luci. Il light design, sempre di Marie Chouinard, manifesta un’attenzione precisa della regista e coreografa che dirige lo spettacolo con uno sguardo plurimo e dinamico, perché si muove dalla danza alla performance, dall’arte ad una concezione architettonica dello spazio, in un intreccio stratificato che crea un’esplosione di immagini ed echi acustici. Il risultato è una commistione di linguaggi davvero interessante, modulati attraverso un gioco artistico e uno slancio vitale destinato a ripetersi ancora nella mente dello spettatore. (Andrea Gardenghi)

Visto a MilanOltre, Teatro Elfo Puccini, Milano. Crediti: coreografie e partitura vocale Marie Chouinard, con la partecipazione degli interpreti Carol Prieur, Valeria Galluccio, Motrya Kozbur, Paige Culley, Clémentine Schindler, Luigi Luna, Jossua Collin Dufour, Adrian W.S. Batt, Celeste Robbins, Michael Baboolal, Rose Gagnol e Scott McCabe, musiche Louis Dufort, luci, set design, costumi e parrucche Marie Chouinard, trucco Jacques-Lee Pelletier.

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