Cordelia - le Recensioni

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LA SCATOLA DEI BISCOTTI (di M. de Giovanni, Regia A. Renzi)

Dio, o chi per lui, ce ne scansi e liberi dai detentori del “potere” culturale di questo Paese (e di Napoli soprattutto!). Difficilmente si può trattenere la frustrazione dopo aver subito la grottesca intromissione dell’ingombro immaginativo qualunquista e piccolo borghese da RAI 1, col suo portato ideologico pericolosamente banale in cui Maurizio De Giovanni, che è uno degli esponenti più in voga di questo ingombro immaginativo, alimenta la sua penna. La scatola di biscotti rielabora alcuni elementi della tradizione eduardiana, o comunque se ne lascia suggestionare da quelli, senza però toccarne le estreme profondità. Marina Confalone è una agente dello spettacolo che torna a casa, in un paese meridionale, per il funerale della madre (Chiara Baffi) che non vede da svariati decenni; da sola in casa (un delizioso salotto realizzato da Lino Fiorito, tanto caro e chiaro nella memoria di moltissimi), si lascia andare a una lunga conversazione con sé stessa e con i fantasmi del suo passato. Da qui, uno stereotipo dopo l’altro utile solo a solleticare la gola del pubblico. I personaggi sono delle sagomette a una dimensione e non hanno troppo che coinvolga o stupisca; in questa dinamica, che non è assolutamente ingenua per quanto manca di spessore e correttezza, i personaggi femminili sono le vittime ideali: la donna ricca, frigida e infelice ma che riscopre la gioia negli affetti della famiglia; la mamma meridionale che nasce vive muore per i figli; la bella ragazza, un po’ semplice e stupidina, ma di ottimi sentimenti (tant’è che con quello «stacco di coscia» mica è uno stereotipo lei: vuole una famiglia e si fa una bella numerosissima famiglia, di cui lei, giovane ancora, è madre, nonna e bisnonna!). Gli uomini non fanno una fine migliore: lo stronzo e il dolcissimo amore di gioventù (Andrea Cioffi che è un ottimo e stimabile professionista, come attore e autore, merita visibilità molto più adatte alla sua persona). Nessuno si salva, nemmeno il povero pesce rosso chiuso in quella minuscola palla. (Valentina V. Mancini)

Visto a Teatro San Ferdinando; Crediti: Di Maurizio de Giovanni; Regia Andrea Renzi; Con Marina Confalone, Chiara Baffi, Andrea Cioffi, Silvia D’Anastasio; E con le voci registrate di Tony Laudadio e Andrea Renzi; Scene Lino Fiorito; Disegno luci Carmine Pierri; Video e foto di scena Serena Petricelli; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale

ABRACADABRA INCANTESIMI DI MARIO MIELI STUDIO #3 (di Irene Serini)

Nella sala teatrale dell’Angelo Mai ci ritroviamo in cerchio, una serie di sedie disposte attorno a un figura grafica, esoterica, sul pavimento: linee, punte di una stella, quadrati tutto inscritto nella forma circolare.  Troppo facile trovare la quadra del cerchio, la protagonista dirà: «da un certo punto di vista, è molto più interessante far circolare il quadro.» Sono venuto qui per uno spettacolo su Mario Mieli, attivista, filosofo, protagonista della storia della comunità LGBTQ+, invece mi trovo di fronte a un’opera difficile da incasellare, per nulla facile da raccontare, ma soprattutto mi trovo a conoscere, un’artista unica con un approccio originalissimo alla scena. Irene Serini comincia in mezzo al pubblico, occupando una delle sedie vuote, dà il buonasera ad ogni spettatrice e spettatore. Parla di uno spettacolo su Mario Mieli, di uno studio facente parte di un più ampio progetto, corre attorno allo spazio, poi esce di scena e ricomincia. C’è qualcosa di inafferrabile in questa sua capacità di camminare costantemente sulle nuvole, di seminare piccoli indizi (come il richiamo alla Traviata Norma), di aprire parentesi metateatrali che apparentemente non c’entrano nulla ma che invece rimandano a qualcosa di preciso. Il/la medium di questa seduta spiritica (la parola abracadabra è nel titolo di ognuno dei 5 studi) è un clown fuori tempo, un buffone sornione e problematico: pantaloni, camicia e cravatta scuri, capelli corti tirati indietro con il gel. All’occorrenza vestirà anche una mantella con cappuccio con la quale girerà in cerchio nella penombra, un cenno, anche ironico, alla relazione di Mieli con la massoneria. Ecco l’esoterismo nel disegno sul pavimento, riferimento alle ricerche degli ultimi anni, prima che l’attivista trentunenne si tolse la vita. Serini dissemina spunti e contraddizioni, più che uno spettacolo autobiografico il suo è un atto d’amore e di alchimie teatrali. Nel finale l’attrice inverte lo spazio, inverte la norma appunto, sedendosi sugli spalti dell’Angelo Mai in un commiato delicato e commovente: «Prova anche tu, insieme a me, a non battere le mani e a vedere cosa succede». (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Angelo Mai. ABRACADABRA – incantesimi di Mario Mieli [#studio3] quando inizia lo spettacolo? di e con Irene Serini luci e suono Caterina Simonelli organizzazione e produzione Maurizio Guagnetti con il sostegno della compagnia IF Prana

ANNA KARENINA (regia di Luca De Fusco)

Forse solo in bianco e nero può andare in scena oggi un adattamento teatrale del romanzo di Lev Tolstoj. È la scelta di Luca De Fusco: un velatino chiude il boccascena inghiottendo la luce disegnata per tagli e colori drammatici. Su questa parete invisibile si staglieranno immagini video che andranno a interagire con la scena - un’imponente stazione ferroviaria di vetro, legno e ferro. L’adattamento drammaturgico di Gianni Garrera e di De Fusco restituisce con esattezza i nodi narrativi, pur con la scelta non sempre felice di affidare al personaggio il racconto in terza persona dei propri stati d’animo: la tecnica dell’a parte a tratti diventa auto descrizione che crea ridondanza tra la parola detta e quella evocata. La recitazione affettata asseconda l’originale spaccato storico e sociale, ma tale coerenza non aiuta nel tentativo di per sé difficile di rendere giustizia a chi dà il titolo all’opera. Galatea Ranzi ha l’aria aristocratica e la voce flautata, ma certi manierismi, la studiata sfrontatezza e la volubilità frivola, rendono difficile entrare in empatia con una donna vittima di se stessa, la cui lotta interiore per la libertà diventa tortura e autodistruzione, fino alla morte, punizione da lei stessa augurata. Gli uomini che ha intorno le fanno da padre: amanti, fratelli o mariti, sono in ogni caso esseri dotati di maggiore razionalità pur nella debolezza (emblematica è la prima apparizione di Karenin, sospeso in prima, illuminato da un taglio di luce calda, quasi un dio punitore che schiaccia Anna nel luogo in cui poco prima aveva accanto Vronskij). Si è spinti a ragionare sull’opportunità di mettere in scena la vicenda di questa donna (e delle altre, che non ne escono meglio) con una coerenza che sottolinea le spigolature dell’opera: Tolstoj stesso continua a scrivere altre cinquanta pagine dopo la morte della sua protagonista, offrendo redenzione ai suoi sopravvissuti, punendola con l’oblio. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Quirino Di L. Tolstoj. Regia di Luca de Fusco. Con Galatea Ranzi, Con Debora Bernardi, Francesco Biscione, Giovanna Mangiù, Giacinto Palmarini, Stefano Santospago, Paolo Serra, Mersila Sokoli, Irene Tetto. Adattamento Gianni Garrera e Luca De Fusco. scene e costumi Marta Crisolini Malatesta. luci Gigi Saccomandi. Musiche Ran Bagno. Coreografie Alessandra Panzavolta. Proiezioni Alessandro Papa. Aiuto regia Lucia Rocco.

CERTO IO RESISTERÒ (Margine Operativo)

C’è un uomo solo in scena, Stefano Scialanga: giacca, stivali, maglione e pantaloni dai toni scuri, non c’è colore che risalti, lui potrebbe essere chiunque di noi. E poi una sedia, un secchio rosso, e un microfono. Null’altro. Più che un corpo, una voce, data alle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci lette, studiate, raccolte e selezionate nei loro passaggi più molteplici da Pako Graziani, che insieme a Alessandra Ferraro firmano quest’ultimo lavoro di Margine Operativo. Le parti di testo recitate da Scialanga fanno emergere la complessità dell’uomo Gramsci, lontano dalla sua compagna, del figlio, che spiega alla madre la strenua convinzione delle sue idee inscalfibili anche dalla pena carceraria considerata dall’intellettuale un dovere di rispetto per restare fedeli ai propri ideali, del politico, eternamente insostituibile per la civile contemporaneità delle sue parole. Tra tutte quelle raccolte nel montaggio drammaturgico di Graziani, a rimanere impresse sono quelle relative alla condizione del naufrago, metonimia di un naufragio più grande, che è collettivo e quindi sociale. Certo io resisterò è un lavoro essenziale privo di retorica e pedanteria, deciso nella scelta dei testi, che si conclude simbolicamente citando la requisitoria del Pubblico Ministero che condannò Gramsci: «per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare», delittuoso intento che fallisce ogni qualvolta si condividono, leggono, consegnano, recitano, spiegano, regalano le parole di queste lettere. Che sia sul palco di Fortezza Est, al Festival della Resistenza e della Memoria al Quadraro - in cui questo spettacolo è stato presentato ad aprile di quest’anno - o in qualsiasi altro luogo, teatro, scuola, casa, presidio, bisogna sempre far fallire questa condanna al silenzio. Soprattutto in giorni di mistificazione e populismo in cui si zittisce e incrimina chi ribadisce la vittoria dell’Italia antifascista che grazie al sacrificio di molti e molte ha fatto fallire chi voleva impedire ai cervelli di funzionare. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est di Margine Operativo, liberamente tratto da “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, ideazione di Pako Graziani e Alessandra Ferraro, regia e drammaturgia di Pako Graziani con Stefano Scialanga, sound designer Dario Salvagnini, light designer Marco Guarrera, produzione Margine Operativo, in collaborazione con Q44 – Festival della Resistenza e della Memoria, Garage Zero. Foto di Carolina Farina

IL CAVALIERE INESISTENTE (regia di Tommaso Capodanno)

Piante, arbusti, fogliame che spuntano da zolle grigie, più avanzati, dei blocchi, parallelepipedi e cubi, il fondale è incorniciato da un frontespizio chiaro, quasi bianco e piatto; quattro attrici in nero e un’armatura bianca vuota. Il Cavaliere inesistente di Tommaso Capodanno, sold-out, per due settimane nella sala b del Teatro India è un bell’esercizio di gioco tra scena e letteratura, un’orchestrazione di possibilità attorali attorno alla narrazione scenica del capolavoro di Italo Calvino. Il giovane regista campano torna a produrre al Teatro di Roma dopo l’esperienza shakespeariana al Teatro Torlonia, qui i mezzi produttivi però sono ufficiali (nella precedente occasione lo spettacolo era la fine di un percorso formativo); anche in questo caso per la drammaturgia collabora con Matilde D’Accardi che firma l’adattamento dal romanzo. Questo spettacolo è composto sostanzialmente da due idee: una suggestiva, originale e compiuta, rappresentata dal personaggio di Agilulfo, il cavaliere dalla corazza bianca e vuota - al seguito dell'esercito di Carlo Magno - in scena si muove grazie al lavoro di Evelina Rosselli che lo fa muovere dall’interno conferendogli anche voce, insomma uno stratagemma da teatro di figura che può portare a interessanti risvolti metaforici e teatrali; l’altra idea invece è più facile e meno folgorante, e riguarda la distribuzione della narrazione su quattro attrici (oltre a Rosselli, Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Giulia Sucapane), interpreti tuttofare che prestano voce e corpo ai tanti personaggi della favola. Tale modalità non lascia spazio ad altre idee registiche facendo sì che lo spettacolo nella sua ora e mezza non esca fuori da un meccanismo un po’ scolastico perdendo l’occasione di inventare altri percorsi. La traduzione teatrale rappresentata soprattutto dalla parola e dai corpi rimane comunque piacevole grazie all’approccio ironico e comico legato alla situazione, ai cambi di registro, alle mutazioni delle cadenze dialettali o alle piccole farciture metateatrali. L’operazione ha avuto infatti grande presa sul pubblico (anche grazie al talento delle quattro interpreti), come è stato confermato dal passaparola con cui si sono riempite le repliche. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro India. Di Italo Calvino adattamento Matilde D’Accardi regia Tommaso Capodanno con Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane, scene Alessandra Solimene immagine di Tommaso Capodanno foto di scena Claudia Pajewski

ƏVƏ (riflessǝ in Andrea Adriatico)

evǝ, titolo originale God’s New Frock, di Jo Clifford «riflessǝ in Andrea Adriatico» per la traduzione di Stefano Casi, è andato in scena all’ Off/Off Theatre in una sala gremita, attenta al testo e grata negli applausi. Sei tubi di plexiglass, con all’interno delle persone indossanti delle tuniche talari, sono ordinati, come delle provette, in fila sul palcoscenico: un’immagine medica di primo acchito e quasi claustrofobica per chi soffre gli spazi ristretti. Con fare didattico, pur mantenendo il tono militante di chi rivendica un sopruso, si alternano le spiegazioni di Eva Robin’s, Rose Freeman, Patrizia Bernardi, Anas Arqawi, Met Decay e Saverio Peschechera, ovvero coloro che danno voce a chi «né signora né signore, né uomo né donna» si oppone alla storia, a come è stata finora raccontata dalla Genesi in poi. Persone innanzitutto che raccontano del loro essere nel mezzo e per questa ragione considerate oggetti di studio, casi umani e clinici, che contravvengono alla Natura. Natura le cui leggi sono state lette, interpretate e trascritte dalla religione e tramite di essa gli essere umani sono stati divisi in uomini e donne, gli uni che si impongono sulle altre, tenendo fuori coloro che non si riconoscono nel binarismo professato e non corrispondente alla verità plurale, scelta, costruita e autodeterminata da moltissimə. Evǝ si inserisce nella produzione di Teatri di Vita come un ulteriore esempio di attivismo culturale e sociale, richiamando l’attenzione sulle biografie di corpi differenti che si stagliano rispetto alla scrittura, uniformata, della Storia, ufficiale e insegnata. Tuttavia resta una perplessità: che quest’ultima drammaturgia pur scagliandosi contro la narrazione imperante, ceda - forse per i toni usati - anch’essa a una forma evangelica e didascalica assomigliando al bersaglio, pur nell’opposizione di intenti, piuttosto che colpendolo. Non potremmo definitivamente emanciparci dal potere spirituale del verbo di Dio e colpire invece quello temporale delle norme promulgate dagli uomini? (Lucia Medri)

Visto a Off/Off Theatre di Jo Clifford, traduzione di Stefano Casi, con Eva Robin’s, Rose Freeman, Patrizia Bernardi e Anas Arqawi, Met Decay, Saverio Peschechera. Una produzione Teatri di Vita, con il sostegno di Comune di Bologna, Regione Emilia-Romagna, Ministero della Cultura

AMISTADE (di RezzaMastrella)

A Roma, dicembre è il mese di RezzaMastrella, con loro si chiude l’anno e lo si inizia al Teatro Vascello. Oltre allo storico Fotofinish - dal 19 al 31 dicembre e che, come detto da Rezza, sarà una delle ultime riproposizioni perché «il fisico non regge più», e un rinnovato Hybris - dal 3 al 14 gennaio, candidato ai Premi Ubu come spettacolo dell’anno 2023 – in questi giorni c’è Amistade, una contaminazione di Flavia Mastrella, Antonio Rezza sfuggita dalle labbra di Dori Ghezzi. Dopo averlo rappresentato in Cina e in Lituania (non esistono frontiere nazionali per il duo) questa sovversione teatro musicale arriva al debutto nazionale e riempie la sala, e pure il marciapiede, di via Carini. Una coppia seduta accanto si interroga sulle origini “mi sembra siano della Ciociaria, ah no di Nettuno, però su Internet dice che lui è nato a Novara”. RezzaMastrella sono di famiglia ma non si sa mai cosa hanno in serbo, per cui quel patto tra palco e platea viene continuamente rinegoziato: inizi con la risata e alla fine puoi sentirti uno «stronzo», isolato, davanti a centinaia di persone. «Cos’è l’orizzonte se non il più grande fratto dell’umanità?» l’habitat visivo e testuale di Fratto X è, ancora dopo anni, la reductio ad absurdum del linguaggio della compagnia che in questa occasione si unisce alla lingua di Fabrizio De André, le cui immagini dei concerti e i ritratti - grazie alla collaborazione con la Fondazione Fabrizio De André - sono proiettati in video mapping sui veli di Mastrella. In voice over ascoltiamo le dichiarazioni dell’autore sulla musica e l’arte attoriale, sull’individualismo fascista e la guerra delle armi, sulle minoranze e maggioranze di pensiero. E il gesto politico di RezzaMastrella, e del corpo e voce di Ivan Bellavista, sta proprio nella capacità di lavorare sull’assenza, di scagliarsi contro la celebrazione sterile e propagandistica del cantautore e riuscire così a smitizzare De André, a toglierlo da quel pulpito borghese sul quale non avrebbe mai voluto stare e a portarlo in mezzo alla gente, senza svilirne la parola ma, anzi, donandola oggi nella sua umiltà più grandiosa. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Vascello. di Flavia Mastrella e Antonio Rezza, con Antonio Rezza, Ivan Bellavista e con la presenza straordinaria di Fabrizio De Andrè. Una contaminazione di Flavia Mastrella, Antonio Rezza sfuggita dalle labbra di Dori Ghezzi. Foto Andrea Mignogna.

GENTLY DOWN THE STREAM (di Martin Sherman, regia Piero Maccarinelli)

Chi segue Trend - la storica rassegna diretta da Rodolfo Di Giammarco che, vale la pena ricordarlo ogni volta, rischia di chiudere se le istituzioni continueranno a non comprendere la sua importanza -  sa che può accadere di trovarsi di fronte a interpreti che abbiano bisogno di leggere il copione in scena. Qui è permesso, proprio perché il copione inedito è la questione centrale della serata e si potrebbe dire che si va a Trend per ascoltare ogni volta un nuovo testo. È capitato con Gently Down The Stream di Martin Sherman: in scena c’erano sì due copioni ma anche due attori superbi, Massimo De Francovich eFrancesco Bonomo (e nella parte finale un ottimo e naturalissimo Pietro Giannini), la regia è di Piero Maccarinelli. I personaggi rappresentano tre generazioni di uomini gay, dalla più vecchia alla più giovane. Beau e Rufus si conoscono all'inizio degli anni 2000, tramite uno dei primi siti di incontri, seguiamo la loro storia segnata dalle difficoltà date dalla differenza di età: Beau racconta gli anni che seguirono la Seconda Guerra Mondiale in cui dopo il libertinaggio concesso ai commilitoni le maglie si stringevano attorno a ciò che era considerato fuori dalla norma. È un pianista dunque può sciorinare incontri eccellenti e una vita tra locali notturni e grandi voci da accompagnare; ma può ricordare anche gli anni più bui, gli Ottanta, in cui la comunità omosessuale veniva falcidiata dall’Aids. Beau sa già che il compagno vorrà vedere qualcun altro più giovane, anzi sarà lui a consigliarglielo. Rufus andrà a vivere con un giovane “artista della performance" ma i tre rimarranno uniti e i due più giovani manterranno affetto e cura nei confronti dell'anziano musicista. Sherman ha un tocco delicato nel mostrarci la strada possibile, quella comunitaria e della solidarietà oltre le relazioni. Beau non vuole saperne di matrimoni, è la sua esperienza ad averlo reso cinico (perché tutto finisce, dirà) eppure quando terrà in braccio il bambino figlio degli altri due capirà che può esserci un’alternativa. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Belli. Di Martin Sherman 
regia Piero Maccarinelli con Massimo De Francovich Francesco Bonomo Pietro Giannini traduzione Natalia di Giammarco produzione Teatro Belli / Trilly Produzioni

TALOS (Arkadi Zaides)

Nel prezioso focus dedicato ad Arkadi Zaides dalla rassegna Orbita organizzata da Spellbound Centro Nazionale di Produzione della Danza, il Teatro Palladium di Roma ha ospitato la performance Talos, incentrata sulla questione della violenta rivendicazione, attraverso la sorveglianza tecnologica, della legittimità dei confini. E a partire da un progetto di ricerca finanziato dall’UE (tra il 2008 e il 2013) nel campo dell’applicazione della sicurezza, ossia un sistema avanzato di robotica per la protezione dei confini terrestri europei che prende il nome da un personaggio della mitologia greca, il gigante di bronzo Talo, guardiano di Creta. In un rimando polivisivo, fra schermi e schemi e immagini, quello che Zaides mostra in scena in una presentazione al limite del burocratico, è l’ossessione del controllo, la ricaduta sugli spostamenti in prossimità dei confini, e l’affezione in termini performativi di chi per necessità è costretto ad attraversarli. Tanta apoteosi tecnologica della sorveglianza e della restrizione degli spazî di confine ha finito per incagliarsi nella rigidità del suo preteso disciplinamento, a fronte di ciò che per sua natura può essere invece poroso ed elastico. In scena, infatti, la narrazione kafkiana e fredda ma pignola dello stesso Zaides a un certo punto si inceppa, cade in un loop verbale che mette fuori controllo lo zelante presentatore, e l’artificialità di una intelligenza contraria al vivente qui esposta. Con esso, viene così fatta saltare tutta la natura arbitraria della sua pretesa sovranità. La serata si è completata con un dettagliato incontro con il coreografo e la natura documentale della sua ricerca coreografica, curato da Piersandra Di Matteo/Short Theatre e con gli interventi di Andrea Costa/Baobab Experience e Lorenzo Pezzani/Liminal-Università di Bologna, durante il quale meglio si è precisata la strategia compositiva di Zaides come un assemblaggio di teoria, scrittura del corpo e ricerca sul campo capace di ripensare la natura e il potere e la violenza del documento. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Palladium. Di: Arkadi Zaides In collaborazione con: Claire Buisson, Nienke Scholts, Jonas Rutgeers, Youness Anzane, Effi & Amir (Effi Weiss & Amir Borenstein), Gabriel Braga, Culture Crew, Amit Epstein, Dyane Neiman, Thalie Lurault, Etienne Exbrayat, Simge Gücük

CHI RESTA (di Matilde Vigna, Anna Zanetti)

C'è un'aura delicata, un calore familiare in questo nuovo spettacolo ideato e diretto da Matilde Vigna e Anna Zanetti. Ci sono un figlia, la stessa Vigna, che non riesce a rialzarsi - emotivamente e dunque fisicamente - e una madre che se ne sta lì in piedi, con il suo tailleur azzurro e la borsetta sempre presente. Ci vuole qualche minuto per comprendere che la donna è morta e quella che vediamo dunque è una sorta di fantasma o una proiezione mentale incarnata nella straordinaria presenza scenica di Daniela Piperno. Nel buon teatro il realismo è sempre magico, ecco allora che in questo cerchio bianco il tempo diventa rarefatto ed è più un tempo dei sentimenti che una costante. Dopo un lutto ci sono questioni della vita da risolvere, funerali e bollette da pagare, discorsi da pensare o da improvvisare davanti a familiari e conoscenti. Il padre era già morto e dunque quella madre era stata tutto e forse talvolta anche amica, perdendola la protagonista di questo piccolo spaccato di vita può permettersi per qualche tempo di tornare bambina, con quell'incapacità di alzarsi dal letto che qui diventa postura rannicchiata, fetale, nonostante il completo giallo canarino da adulti. «Quando si smette di essere figli? È una questione di tempo? O forse è una questione di distanza, di prospettiva».  Eccoci, quarantenni con partita iva alle prese con un lutto mai preparato, con i sensi di colpa che si incarnano nell'immagine di una madre pronta a spronarci, a controllarci e ad ammonirci anche da morta. Matilde è tutta il suo lavoro e ora sarà ancora più sola, ma si rialzerà. Al funerale se ne andrà via prima e dovrà poi sentirsi dire (da un fantasma o dalla propria coscienza) quanto quella scelta sia stata inopportuna. C'è anche il tempo per un litigio tra le due donne prima che la giovane riesca a lasciare andare la madre, prima che, in una scena poetica e commovente, da un baule esca fuori un costume da astronauta; la luna non può attendere. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro delle Moline. Ideazione e regia Matilde Vigna, Anna Zanetti con Daniela Piperno, Matilde Vigna video Federico Meneghini progetto sonoro Alessio Foglia musiche originali spallarossa luci Umberto Camponeschi dramaturg Greta Cappelletti consulenza, scene e costumi Lucia Menegazzo

STUPOROSA (di Francesco Marilungo)

Stuporosa - nella Treccani, termine che indica una condizione di smarrimento dei sensi e dell’intelletto – è, nel lavoro coreografico di Francesco Marilungo presentato al Danae Festival, lo stato inconfessabile di elaborazione del lutto. Il giovane regista vi ci passa attraverso con delicatezza e acume di sguardo, scavando all’interno dei codici di una liturgia collettiva, per estrarne le formule di pathos condivise, le mani nei capelli, l’abbandono estatico, la reiterazione dei gesti, la posizione genuflessa, gli sguardi svuotati di senso e riempiti della processualità di un atto. Nella sala teatrale il rito è già iniziato ancora prima di entrare: vestite di un nero luttuoso nei costumi elaborati e fatiscenti di Lessico Famigliare, Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini e Vera Di Lecce sono cinque figure femminili che ricamano un tappeto di bisbigli, eco lontano di un canto popolare ancestrale raccolto dal (sempre precisissimo) disegno luci di Gianni Staropoli. A disseminarle come macchie di colore su di un parterre bianco è il richiamo al rituale (nei riferimenti letterari a Ernesto de Martino), ora individuale, ora collettivo: la performance, composta da diversi momenti liturgici, che vanno dalla purificazione, al compianto, alla vestizione in un rimando all’iconografia cristiana ma anche alla tradizione popolare, si costruisce così di tensioni e abbandoni, di movimenti e stasi, di gesti fluidi e meccanici, sfuggendo continuamente alla fissità del dolore e popolandosi di suoni e immagini, memorie di un patrimonio negato ed ora finalmente condiviso. Il lamento perpetuo, enfatizzato dalla profondità vocale di Vera di Lecce e dai riverberi acustici della musica elettronica, viene in quest’ottica privato, nella tensione antropologica e sociale di Marilungo, di quella cupa drammaticità, per essere distillato a poco a poco in una coreografia organica di corpi che pongono al centro della propria gestualità un sincero ideale di cura e raccoglimento.

Visto al Teatro Out Off di Milano. Crediti: regia e coreografia Francesco Marilungo, con Alice Raffaelli, Barbara Novati, Roberta Racis, Francesca Linnea Ugolini, Vera Di Lecce, musica e vocal coaching Vera Di Lecce, spazio e luci Gianni Staropoli, costumi Lessico Familiare.

NECROPOLIS (Arkadi Zaides)

C'è un silenzio colmo di pensieri nel grande spazio del Teatro Rossellini: l'ultima richiesta della voce off annulla qualsiasi rimasuglio possibile di spettacolarità, non si può applaudire, non si può tirare il sipario. Siamo congelati, fino a quando la voce di Valentina Marini (direttrice di Orbita che ha organizzato il progetto dell'artista Bielorusso) si fa spazio passando la parola all'incontro con gli artisti. In Necropolis il teatro documentario di Arkadi Zaides è letteralmente un viaggio nella città dei morti. Per essere ammessi in questa città bisogna morire. Spettatori e spettatrici assistono nella comodità del virtuale, perdendo così la responsabilità del corpo ma acquisendo quella dell’ascolto collettivo. In scena solo un tavolo, qui si siedono Zaides ed Emma Gioia, gestiscono computer e mixer: come sempre la tecnologia assume un senso politico per Zaides nel momento in cui diventa strumento di comprensione, raccolta dati e azione sul mondo. Il lavoro dell’artista si aggancia a quello portato avanti da UNITED for Intercultural Action fin dal 1993: la rete, alla quale partecipano più di 500 Ong in tutta Europa, registra le morti delle persone migranti avvenute nel tentativo di raggiungere il nostro continente. La performance di conseguenza si nutre dell'operato di volontari che a partire dai dati United si recano sulle tombe registrando un breve video del percorso nei cimiteri o nei luoghi in cui hanno trovato (o non trovato) sepoltura i corpi. Assistiamo su un grande schermo, partendo dalla geolocalizzazione satellitare, a questi piccoli viaggi dentro cimiteri sconosciuti, verso tombe di migranti che spesso non hanno neanche una lapide e un nome. Nel finale viene ricostituito, su un tavolo autoptico, un corpo fatto di resti, pezzi di carne marcia, che tenterà di rianimarsi in video. Alcuni distolgono lo sguardo: rimaniamo bloccati e inermi - i corpi esistono e le leggi delle nazioni hanno contribuito alle morti -, come quando sullo schermo appaiono i cimiteri siciliani dove si affastellano i segni delle vittime delle stragi del mediterraneo, non riusciamo a contarle. (Andrea Pocosgnich)

Visto allo Spazio Rossellini. Di: Arkadi Zaides Drammaturgia, testi e voce: Igor Dobricic Assistente alla ricerca: Emma Gioia Con: Arkadi Zaides, Emma Gioia Sculture: Moran Senderovich Animazione: Jean Hubert Light Design: Jan Mergaert Sound design: Asli Kobaner

DIARIO DI LINA (di Teatrodilina)

Non ho mai avuto un cane, quindi non sarà lui ad accogliermi quando arriverò in Paradiso, lo faranno i miei due gatti, se lo vorranno. Accoglienza nell’aldilà immaginata da Anna (Bellato) Francesco (Colella) e Leonardo (Maddalena) nell’aldiqua di Diario di Lina, un momento di riordino del tempo, degli anni passati e di quelli che verranno, in cui la compagnia Teatrodilina, tramite l’espediente meta teatrale delle prove, rappresenta l’impossibilità di impegnarsi nel fare la memoria del prossimo spettacolo lasciando spazio invece a discorsi sul tip-tap, su cani “robots” e acqua da bere per idratarsi. Sulle gradinate della platea del Teatro Argot Studio, con il pubblico che occupa quello che di solito è il palcoscenico, si muovono i due attori e l’attrice; sembra lo facciano sulle stanghette, righe, di un pentagramma immaginario in cui la musica e i suoni di vita si inseriscono nelle parole. Parole come “solitudine”, “paura”, “fame”, “sogno”, “amore” che esprimono l’inafferrabilità delle emozioni che seguono un lutto, in questo caso quello di Lina, la cagnetta simbolo della compagnia. La perdita, quel buio dell’oblio di una presenza quotidiana che non c’è più rende brillante, visibilissimo, il presente che scorre: la nascita di una bambina, portata in grembo da Anna, Mario che non si fa più sentire, il teatro che esiste sì ma che fatica ad essere, perché avrebbe bisogno di maggiore continuità, sicurezza, prospettiva, costruzione… Temi espressi alla rinfusa, senza un ordine preciso, è vero, ma perché sciolti in una drammaturgia sull’esperienza del lasciare andare, quando cerchiamo di verbalizzare, caoticamente, tutti quegli indici di cambiamento che stanno già avvenendo dentro e fuori di noi mentre l’inerzia della precarietà vorrebbe fermarli, avvolgerli e riavvolgerli. L’applauso per l’ultima replica testimonia tutta l’accoglienza per una compagnia le cui storie arrivano dentro i nostri vuoti e li colmano: non solo per il pubblico più affezionato ma anche per quello nuovo e giovane, che si ferma a parlare entusiasta a fine spettacolo. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Argot Studio: con Anna Bellato, Francesco Colella, Leonardo Maddalena, suono Giuseppe D’Amato, luci Martin E. Palma, organizzazione Regina Piperno, scritto e diretto da Francesco Lagi, una produzione Teatrodilina in collaborazione con DOG

FRAGILE SHOW (Biancofango)

Il costume è lo stesso di quattordici anni fa, è «riuscito a entrarci» mi dice, sorridendo, Francesca Macrì prima di accompagnarmi nel retro palco del Teatro Basilica, dove sono allestiti i camerini. Andrea Trapani ha appena finito di togliersi via il sudore come dopo un esercizio fisico totalizzante. Fragile Show d'altronde è questo, andrebbero calcolate le calorie bruciate nell’ora di follia in cui il corpo e la mente sono connesse al massimo del potenziale recitativo, con un obiettivo, trasformare la presenza scenica in musica. Trapani mi spiega che la difficoltà maggiore è stata proprio quella di ricercare l'energia, la spinta di tanti anni fa quando non solo il corpo era diverso ma anche l'approccio d’attore, di giovane interprete. Biancofango ha riallestito uno dei suoi gioielli della Trilogia dell'inettitudine, opera per un solo attore e plurime voci e presenze, nata in un'altra Roma, quella della scena indipendente e delle sale teatrali nei centri occupati. Il lavoro ancora emoziona e colpisce, Macrì ha rivisto la drammaturgia e lo spazio scenico precisandolo in una circonferenza bianca, invece della vecchia panchina c'è il sedile del pianista. Folgorante, anche oggi, l’idea di fondo: prendere Il soccombente di Thomas Bernhardt e calarlo in una realtà italiana di personaggi schizzati, caricature abominevoli senza empatia, tra Firenze e Milano. Al centro lui, un musicista, rimasto nascosto dietro l’ombra troppo grande del canadese Glenn Gould e quella voglia di rivalsa che sfocia in una bizzarra festa in cui invitare vecchi amici e compagni di scuola per umiliare e umiliarsi. Il resto lo fa Trapani con una sorprendente cavalcata dentro e fuori i personaggi, in una polifonia interpretativa unica per qualità energetiche, ironia e musicalità. La mano destra è quella che non sta mai ferma, tiene il tempo su una tastiera immaginaria; è una delle cose che più mi colpì in una replica che vidi nel 2015, al Teatro Orologio, l'ho ritrovata qui come segno tangibile di un'artigianato in cui lo strumento e la creazione sono la stessa cosa, il corpo umano. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Basilica. Con debiti e gratitudine a Il soccombente di T. Bernhard drammaturgia e regia Francesca Macrì e Andrea Trapani con Andrea Trapani costumi di scena Isabella Faggiano disegno luci Mirco Maria Coletti

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