FROM ENGLAND WITH LOVE (Hofesh Shechter)
Un po’ delude il nuovo lavoro di Hofesh Shechter per la sua compagnia giovane, Shechter II: From England with love, visto al Teatro Comunale di Vicenza. Sia perché la composizione non trova una più vera linea di realizzazione e sviluppo dell’idea (l’Inghilterra contemporanea vista da un gruppo di studenti in divisa stile boarding shool); e sia perché questo consueto dispiego super tecnologico di luci, sempre aggressive ed esposte, in questo lavoro finiscono per essere parecchio improduttive. Né ombre, né pieghe, nessuna intimità tantomeno profondità emergono in questa sorta di assalto (più o meno) continuo che produce (e consuma) molta tensione. Non oltre però l’effetto vetrina. L’ode programmata a un paese che non solo lo ha accolto ma anche ne ha sostenuto la fortuna, si impenna soltanto nel finale, in cui il gruppo di otto interpreti sembra perdere il centro che li aggrega, si disperde lentamente e spaurito nello spazio, senza mèta, senza scopo, senza unità, finalmente esita in un inattivo contrappunto. Ed è questa oggi senz’altro la cartolina più intimamente fedele delle aporie e delle difficoltà sociali di quest’isola. Il movimento di Shechter, pur in un ristrettissimo trito-e-ritrito vocabolario, è sempre fascinoso, sempre demandato alla percezione ritmica della scena bombardata alternativamente da partiture concertanti anglosassoni (Edward Elgar, Tomas Talis, Henry Purcell e William H. Monk) e tirate rock del coreografo/musicista stesso. Nulla di nuovo, nulla di sorprendente: tutto però è un po’ meno necessario, per nulla inventivo, tutto visto-e-rivisto; una immaginazione, in tanto dispiego di kilowatt, ridotta quasi al lumicino. La semplicità ostentata e sorretta soltanto dagli ottimi performer può essere invece il punto di partenza per una più franca riflessione su quello che la danza può dire e fare per superare le retoriche delle personali autobiografie. Il mondo è in fiamme, non servono cartoline, tantomeno lettere d’addio. (Stefano Tomassini)
Visto al teatro Comunale di Vicenza choreography and music Hofesh Shechter light design Tom Visser costume design Hofesh Shechter additional music composizioni ingkesi di Edward Elgar, Tomas Talis, Henry Purcell & William H. Monk production Hofesh Shechter Company co-commissioned Château Rouge, scène conventionnée – Annemasse, Espace 1789, scène conventionnée danse - Saint-Ouen, Scène nationale de Bourg-en-Bresse, Düsseldorf Festival!, Escales Danse with the support of Théâtre de la Ville Paris, Fondazione I Teatri Reggio Emilia and a production residency at DanceEast, Ipswich
IGRA (Kor’sia)
«Non esistono poesie finite, solo poesie abbandonate». Paul Valery annota così, a proposito della natura della poesia, e del limite. A questo assunto si ispira il pensiero coreografico di Mattia Russo e Antonio De Rosa: sulla scena si compone un’idea di passato come entità avviluppante, che orienta le forme e la nozione di bellezza. Igra, in russo, significa «gioco» e rinvia a Jeux di Nijinskji, un balletto in un solo atto, su un poème dansé di Debussy, che avrebbe dovuto essere «un’apologia plastica dell’uomo del 1913». L’azione – la ricerca di una pallina da tennis perduta in un parco – si svolge in un’atmosfera crepuscolare che, alla comparsa di due fanciulle, sfuma nel jeux amoureux. Russo e De Rosa elaborano e moltiplicano l’onirismo in una sequenza di quadri, ne riprendono il tratto stilizzato e ginnico, immergendolo in un ambiente soffuso, scandito dalle geometrie del campo da tennis (sedute in plastica, rete che taglia il palco), in un paesaggio sonoro che, alla sinfonia, coniuga una psichedelia leggera, pochi bassi e rintocchi, suoni d’ambiente che sono già “archivio” (le celebri urla di Maria Sharapova, applausi, il suono elastico dei rimbalzi) e da un costante cinguettio lontano. C’è una qualità opalescente, nella visione (velata da una membrana in proscenio) e nel suono, alla quale si oppone il prodigio nitido dei corpi, la perfezione atletica e struggente del movimento, portato ai propri vertici, di precisione tecnica o di estaticità tribale. È proprio alla superficie estatica e muta, al mistero dell’apollineo (più profondo e sapienziale di quello del dionisiaco) che, infine, la partitura rinviene. Il lirismo di Eros appare senza dirompere, cristallizzato in un perimetro, esaminabile attraverso il lessico della zoologia: una voce fuori campo riconduce le gestualità degli interpreti – fluidissime, combinatorie – al sexual behaviour delle scimmie bonobo. La «nobile semplicità e quieta grandezza» neoclassica sorveglia il confine, totemica, in forma di scultura marmorea. L’enigma eterno, comune a ogni epoca, è quello dell’imitazione come trascendenza. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi, Crediti: direzione Mattia Russo e Antonio De Rosa; coreografia Mattia Russo e Antonio De Rosa in collaborazione con gli interpreti; interpretazione Edoardo Brovardi, Benoît Couchot, Angela Demattè, Antonio de Rosa, Helena Olmedo Duynslaeger, Giulia Russo e Alberto Terribile; ambiente sonoro Da Rocha; assistenti alla drammaturgia e consulenza artistica Agnès López-Río e Gaia Clotilde Chernetich
DAMMI UN ATTIMO (di Mariasilvia Greco e Francesco Aiello)
Francesco (Francesco Aiello) e Silvia (Mariasilvia Greco) sono una coppia di trentenni alle prese con le scelte e i cambiamenti che si suppone debbano arrivare alla loro età: il lavoro fisso, quando il lavoro c’è, e un figlio. Lui un figlio lo vorrebbe anche subito, visto che ha firmato il contratto a tempo determinato, e pure lei, un giorno, forse, chissà. Entrambi accolgono le fughe giornaliere di Maria (Elvira Scorza), sorella di Francesco, che esce di casa per allontanarsi dal marito distante e dal figlio non troppo desiderato. Silvia scopre di avere un ritardo e capisce di non volere un bambino. Forse non è nemmeno in grado di crescerne uno. Per quanto i tre abbiano una relazione vivace, che li porta a continue discussioni, in realtà conducono esistenze solitarie, ognuno com’è nei propri problemi. Si isolano accovacciati in scatole di plastica, lontani dalla ribalta che li espone nelle giustificazioni per ogni decisione presa o nei pensieri difficili da comunicare. Al centro della scena è sospeso un fornetto dentro cui è stato messo a cuocere del pane: al termine del tempo necessario alla completa cottura, ogni conflitto dovrà essere sciolto. Ogni personaggio ha una e una sola specifica funzione, e anche l’accenno a una storia personale ha un valore solo in quanto funzionale all’andamento della narrazione, per cui la relazione con l’altro non può essere altro che nel conflitto, che deve necessariamente portare a una conclusione pacifica. Forse è proprio questa troppo netta linearità a precludere complessità al lavoro, che si ritrova così a uno stato di bozza a metà strada tra un dramma borghese e una commedia romantica. A questo stato di scrittura, ne risente la scelta di soluzioni che dimostrano poca inventiva e incisività, e ne risente anche la resa attoriale che risulta spesso sopra le righe, per quanto non manchino felicissimi guizzi di abilità come quelli di Mariasilvia Greco. Che sia arrivato il tempo di inventarsi qualcosa di nuovo per raccontare i trentenni? (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Elicantropo, Crediti: Drammaturgia e regia Mariasilvia Greco e Francesco Aiello; Con Francesco Aiello, Mariasilvia Greco, Elvira Scorza; Produzione Teatro Rossosimona/Teatro del Carro MigraMenti Spac Badolato CZ/ ScenaVerticale-Residenze artistiche nei territori
GO FIGURE (di Sharon Fridman)
Shmuel Dvir Cohen attraversa lentamente lo spazio, da sinistra a destra, la scena del teatro Palladium è nera e vuota, ma densa di fumo e delle musiche originali di Noem Helfer. Le luci, poste anche sullo sfondo in un set dal potente effetto, disegnano i corpi, fanno sì che quello di Cohen si stagli nella nebbia. È un viaggio epico il suo, a cavallo di un monopattino elettrico con un un sedile, di quelli per persone con mobilità ridotta. Ma bastano pochi secondi per capire che l’obiettivo del performer è quello di spostare ad ogni metro il confine della difficoltà: il piccolo mezzo di trasporto continua indefesso a muoversi, disegnando un cerchio in scena mentre Cohen si impegna in lente posizioni acrobatiche. Un cambio di luci e di atmosfera mostrerà, al termine di questo prologo in assolo, il corpo del secondo performer, Tomer Navot, anche questo dentro una tutina blu, accasciato sul pavimento: forse ha appena ritrovato il proprio doppio. Ora il primo può scendere dal monopattino e inforcare le due stampelle agganciate dietro al sedile, anche qui c’è qualcosa di epico e cavalleresco. È poesia e forza fisica, equilibrio e leggerezza, potenza e precisione, quella studiata da Sharon Fridman per i corpi dei due artisti, è una relazione coreografata senza che emerga un piano di subalternità di uno rispetto all’altro. In uno dei momenti più suggestivi Navot si posa sulle spalle di Cohen, apre le braccia ed è come se spiccasse il volo. Ma anche nelle posizioni più complesse, tra Contact e abilità quasi circensi, la ricerca tende a un poetico punto di commozione in cui la realtà si sospende. È stato il corpo non conforme di Shmuel a ispirare il lavoro del quarantenne coreografo israeliano: «[...] mi ha proposto nuove forme e nuovi modi di creare architettura da un corpo che funziona in modo diverso dal mio. In questa creazione il mio obiettivo era creare bellezza mediante logiche a me sconosciute, cercando in un altro corpo un’opportunità per un nuovo linguaggio». (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Palladium, nella stagione di danza Orbita Crediti: Direzione e coreografia Sharon Fridman Assistente alla direzione e Production Manager Tamar Mayzlish Con Shmuel Dvir Cohen, Tomer Navot Musiche originali Noem Helfer Light Design Yaron Abulafia e Sharon Fridman Costumi Miki Avni Management Lola Ortiz de Lanzagorta (New Dance Management) Durata 50'
MIRLITONS (di Aymeric Hainaux, François Chaignaud)
“Un concerto, una battaglia, un rituale”. Così si legge nelle note di sala quando ci si reca a vedere lo spettacolo Mirlitons nato dalla sinergia di due forti personalità artistiche come il musicista beatboxer Aymeric Hainaux e del ballerino – maestro del crossdressing – François Chaignaud. Un incontro dettato da una condivisione di ricerca poetica, nel tentativo di “trovare un corpo nel suono e nel movimento”. E di questo si tratta. Al centro della sala una pedana quadrata è il fulcro spaziale e visivo: Chaignaud vi gira attorno e ne modula le marginalità, in una sorta di moto di trascinamento, per instaurare una relazione con il musicista. Relazione che è al tempo stesso motore di attivazione degli spazi e principio di quel riverbero sonoro che vuole abitare i corpi per scivolarvi sopra, penetrarvi in un sussulto e uscire via, nell’ansimo di un respiro, nel calpestio dei tacchi sbattuti a ritmo per terra. Qui, la partitura coreografica di Chaignaud è intensa, viscerale, e affonda nelle sonorità organiche di Hainaux, giocate sui respiri di una vocalità convulsa ma controllata. E l’energia vitale che ne scaturisce si fa inizialmente calamita, per il suo potere magnetico, per la sinergia dei corpi che si intrecciano e collidono all’interno di un rituale condiviso; poi si fa gioco e, nel gioco, trova il suo apice massimo, lasciando gli artisti agire quella zona liminale tra provocazione e trance, tra spiritualità e consunzione. Il disegno luci di Marinette Buchy ne asseconda via via le fasi, per creare un eco brumoso alla potenza acustica di Hainaux, performata anche dai tintinnii delle vesti, e lasciata sospesa nell’aria come unica, residuale particella pulviscolare. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: idea e interpretazione: Aymeric Hainaux, François Chaignaud collaborazione artistica: Sarah Chaumette design dei costumi: Sari Brunel light conception: Marinette Buchy responsabile tecnico: Marinette Buchy, Anthony Merlaud operatori suono: Jean-Louis Waflart, Patrick Faubert produzione: Mandorle productions (Garance Roggero, Jeanne Lefèvre, Emma Forster) distribuzione internazionale: APROPIC (Line Rousseau, Marion Gauvent)
GRANDI NUMERI (di e con Lorenzo Maragoni)
All’indomani dell’approvazione dell’AI Act da parte del Parlamento Europeo e della volontà della Presidente Meloni di investire più di un miliardo e mezzo sull’Intelligenza Artificiale, lo spettacolo, o meglio, il progetto, che è anche un libro, di Lorenzo Maragoni dal titolo Grandi numeri si incunea perfettamente nell’attualità. A Carrozzerie Not, il debutto romano sembra quasi una festa, tra chi si ritrova, chi si conosce, e tra chi già conosce Maragoni per cui la platea sembra addirittura una curva da tifo. L’autore, attore, poeta e laureato in statistica lo sa e con questa fiducia ci gioca. Il primo gesto è proprio quello di offrire dei Cookies, ben accetti da chi, alle 21 di sera, è a teatro senza aver cenato prima. Con la scaltrezza furbesca e accattivante della slam poetry, il pubblico partecipa, risponde alle domande, si fa quindi conoscere e si concede, trattando con l’attore uno scambio di informazioni e ricordi; davvero epifanica la carrellata delle Top Hits anni Novanta Duemila dalle Destiny’s Child ai Green Day. La consapevolezza rende questa trattativa palese e non subdola ma l’acutezza che soggiace a questo entertainment fa emergere l’annosa questione della profilazione dei gusti e delle abitudini che delineano i contorni della collettività composta da diverse singolarità. Grandi Numeri si focalizza sul valore di questi dati, quotidianamente ceduti in cambio di servizi gratuiti nell’etere, che sono rappresentazione della realtà nella quale viviamo, una realtà certo parziale perché comunque determinata da logiche di potere e sovranità economico finanziaria, per cui la sensibilità delle analisi dipende, soprattutto, dalle domande, da chi e da come sono poste e a chi per reperire determinate informazioni. Come viviamo? Come amiamo e come ci lasciamo? Quindi, chi siamo? Un motivetto allegro, quanto perturbante, suonato da Maragoni con l’ukulele ci ammonisce: se internet ci conosce meglio di noi, che fine fa allora quel margine di aleatorietà dell’esistente?(Lucia Medri)
Visto a Carrozzerie Not: musiche originali e sound design Giovanni Frisona, assistente alla drammaturgia e alla regia Lucia Raffaella Mariani, luci Massimo Galardini, coordinamento tecnico dell’allestimento Marco Serafino Cecchi, assistente all’allestimento Giulia Giardi, organizzatore di compagnia Daniele Filosi, cura della produzione Francesca Bettalli e Camilla Borraccino, ufficio stampa Cristina Roncucci, comunicazione Francesco Marini, foto e videodocumentazione Davide Santinello, produzione Teatro Metastasio di Prato/TrentoSpettacoli, con il sostegno di Fondazione Caritro/Provincia Autonoma di Trento
P COME PENELOPE (di e con Paola Fresa)
Penelope ha paura dell’acqua, ma il costume lo indossa lo stesso e prova a tuffarsi, quel salto dall’odore del cloro, tra la ceramica delle mattonelle da piscina. Un salto che racchiude una vita, la sua, del figlio Telemaco, del marito Ulisse, quello delle lettere concluse con «PS: saluta la mamma». E la mamma è lei, «Penelope: anatroccola» come si definisce con una didascalia sullo sfondo, nella prima scena, a ricordare la sua goffaggine bambina rispetto alla bellezza già donna di Elena. Paola Fresa porta sul palco del Quarticciolo durante il weekend della giornata internazionale dei diritti della donna, un monologo che è una riscrittura contemporanea del personaggio omerico, che si aggiunge alle numerose attualizzazioni del mito. Ma è un mito? Seppur con una drammaturgia troppo letteraria a tratti, e poco scenica in altri, soprattutto quando i soliloqui del personaggio si fanno più riflessivi e densi; Fresa conduce Penelope in una sorta di percorso di alleggerimento di quell’aura leggendaria. La scena è scarna, con pochi oggetti: alcune sedie, un orsacchiotto e una Barbie. Simboli di famiglia, l’orsacchiotto di Telemaco chiamato “Cazzarola”, la Barbie vestita come Cenerentola a ricordare un’esistenza che fiaba non è, e che in fin dei conti nessuna vorrebbe. Fresa ci avvicina a Penelope con semplicità, una chiacchierata, al punto che ci porta con lei alla partita di calcetto del figlio, a quando viene picchiato, e ci ritroviamo poi sul letto della sua cameretta il giorno che decide di andarsene di casa lasciandola, di nuovo, sola. Ri-conosciamo Penelope scoprendo, con genuinità, il suo punto di vista su se stessa oggi ma sempre in relazione agli uomini della sua vita, il marito, il figlio e anche il padre. Forse avremmo voluto sapere di più di lei, starle vicino più a lungo nel finale, su quel bordo piscina, ad aspettare, a vivere la trepidazione per quel salto, solo suo stavolta, veramente di nessun altro; sarebbe stato un bellissimo inizio piuttosto che una conclusione. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo: di e con Paola Fresa, in collaborazione con Christian Di Domenico, supervisione registica Emiliano Bronzino, scene e costumi Federica Parolini, luci Paolo Casati, regista assistente Ornella Matranga, una produzione Accademia Perduta-Romagna Teatri Fondazione TRG di Torino, in collaborazione con Officina Corvetto Festival,TRAC (Teatri di Residenza Artistica Contemporanea), KanterStrasse, Dialoghi_Residenze delle arti performative a Villa Manin, a cura del CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
LA STANZA DI AGNESE (di Sara Bevilacqua)
Sapere quasi nulla di uno spettacolo, se non il tema centrale, in questo caso la storia di Paolo Borsellino, senza preoccuparsi, o avere il tempo, di leggere sinossi e note di regia, non avere nessuna voglia di uscire di casa, in una serata piovosa di lunedì - che sarebbe il giorno di riposo del teatro - e poi all’improvviso rimanere sopraffatti dalla sorpresa. Fissare quella figura seduta sulla destra del palcoscenico stretta in un vestito grigio, sobriamente elegante, come il taglio di capelli. Ma non basta un vestito e una parrucca, per dare voce ad Agnese Piraino Borsellino ci vuole quella luce fiera negli occhi: Sara Bevilacqua trova una cifra commovente per tecnica e sentimento, tra l’iperrealismo della prossemica, dei toni, delle cadenze e la mimica teatralità di alcuni gesti, soprattutto nei movimenti delle mani. Gli incontri con i familiari - nella replica del lunedì sera al Sala Umberto era presente anche Lucia Borsellino, una dei figli -, con i magistrati vicini a Paolo, lo studio dei documenti e dei libri sul caso, fino ad arrivare alla drammaturgia finale di Osvaldo Capraro, un lavoro di preparazione durato mesi. L’idea è quella di ripercorrere la figura, la vita di Paolo Borsellino attraverso la voce della moglie in un monologo che procede per salti in avanti e indietro e che comincia dalla fine, anzi quasi vent'anni dopo la fine « “Via D'Amelio è stata da colpo di Stato”/Così mi disse il Presidente Cossiga e mise giù./ Da colpo di Stato. Cosa aveva voluto dire? E perché dirmelo diciotto anni dopo». Lo spettacolo, presentato per la prima volta a Maggio all’Infanzia, è adatto a tutti, forse proprio per la capacità di tenere insieme la commozione di una famiglia con i fatti storici. Risuona come un sasso nel vuoto la solitudine che precede la strage di via D’Amelio, una sconfitta per lo Stato, una sofferenza enorme per chi resta. Il teatro è in questi casi l’arte della memoria che si fa carne, il lavoro scenico di Bevilacqua è un esempio necessario.(Andrea Pocosgnich)
Visto al Sala Umberto: Meridiani Perduti Teatro, Sara Bevilacqua di e con Sara Bevilacqua drammaturgia Osvaldo Capraro disegno Luci Paolo Mongelli video Mimmo Greco grafica Studio Clessidra Con il sostegno di Factory Compagnia Transadriatica In Sinergia Con Scuola Di Formazione Antonino Caponnetto
DI GRAZIA (di Alexandre Roccoli / Roberta Lidia De Stefano)
Di Grazia, ultimo lavoro della performer Roberta Lidia Di Stefano insieme al coreografo Alexandre Roccoli, è un’operetta rurale che vuole restituire grazia, intesa come dignità, al femminile violato. Si tratta del racconto di Rosetta - la figlia della ciociara nel romanzo moraviano - che, rimasta orfana di padre, si ritrova a lavorare sotto un nuovo e più crudele padrone che abusa di lei. Per mettere in scena questa storia i due artisti hanno ricercato molto nell’ambito dell’inchiesta contemporanea: testi come Oro Rosso di Stefania Prandi e Lettere da una tarantata di Annabella Rossi costituiscono la base teorica di questo spettacolo. Non da meno la ricerca etnomusicologifcica sui canti popolari del Sud Italia che vanno a formare tutta la partitura sonora: alla zampogna, strumento simbolico di un corpo sfruttato, si aggiungono le nacchere, gli zoccoli battuti forte sul suolo polveroso della scena ricoperta di terra e un pianorforte dalle corde scoperte che la Di Stefano suona con tutto il corpo, seminudo e sgraziato, precariamente seduta su una cassetta di legno traballante. Tutto questo rimanda a una dimensione arcaica del suono, all’evidenza violenta di quella che viene definita musica concreta, alla verità che, se nelle parole di Rosetta, ingenue e ignoranti, irrita, nella musica commuove e ci fa empatizzare con lei. La catarsi che ci viene proposta però è frammentata, come la storia di Rosetta che quasi scompare dietro a un apparato simbolico enorme, di cui è difficile trovare la sintesi mancando all’opera una struttura drammaturgica salda e una regia. Colpisce soprattutto la performance perché raramente un corpo si dà al pubblico tanto generosamente come in questo assolo disperato. C’è un susseguirsi di visioni che passano per il suo corpo politico: la forza brutale della violenza, la nostalgia dell’abbandono, la frenesia della taranta e infine la veemenza della denuncia su cui la Di Stefano costruisce un mash up che va da Mina a Miss Keta. (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Arena del Sole Sala Thierry Salmon ideazione, regia e drammaturgia Alexandre Roccoli / Roberta Lidia De Stefano con Roberta Lidia De Stefano musiche Benoist Bouvot, Roberta Lidia De Stefano, Alexandre Roccoli scene e costumi Alexandre Roccoli e Roberta Lidia De Stefano disegno luci Lucia Ferrero
SHAME CULTURE (di Asilo Republic)
Ogni anno, secondo le statistiche Istat, in Italia si registrano circa 4.000 morti per suicidio. Nella fascia di età compresa tra i 15 e i 34 anni le morti ammontano a 468, di cui circa 200 casi al di sotto dei 24 anni, con una percentuale elevatissima tra la popolazione universitaria. Il 33% di studenti e studentesse intervistat* sperimenta ansia, il 27% depressione. Eppure, una vulgata superficiale vorrebbe gli anni dell’università i più spensierati, una fase sospesa tra la giovinezza e la costruzioni di un io sufficientemente coriaceo per farsi largo nell’età del lavoro, nella vita “adulta”. È tra l’altro proprio questa narrazione a aumentare il carico delle aspettative, in una fase storica in cui sempre più la ricerca di una posizione professionale è diventata una porta stretta, strettissima per molti percorsi di studio. Ma Shame culture ci dice che non si tratta solo di dati e congiunture. Andrea Lucchetta in regia, con Anna Bisciari, Marco Fanizzi e Vincenzo Grassi sul palco, ci portano, con sapiente scrittura e azione scenica, nell’infinita catastrofe di una promessa generazionale tradita, nella eco frastagliata di una piccola bugia domestica che diventa nevrosi, che diventa linguaggio interrotto tra genitori e figl*, tra amici e amiche. Ci è consegnato il ritratto delicato di una fragilità in cui è facile riconoscersi, come un acquario prezioso in cui Bisciari, Fanizzi e Grassi si muovono con precisissimo impaccio, parlandosi senza mai toccarsi, guardandosi senza mai vedersi. Così come è impossibile fissare negli occhi l’interlocutore in una delle nostre infinite videochiamate, la videocamera essendo eccentrica rispetto allo schermo, ci ricorda Bisciari, evocando alcuni spunti saggistici come materiale drammaturgico. Distogliere lo sguardo, evitare un contatto è infatti la fenomenologia diffusa della vergogna. E mentre tra le infinite applicazioni AI abbiamo a disposizione tool che reindirizzano lo sguardo verso quello dell’interlocutore, offrendoci soluzioni prima ancora che possiamo interrogarci sul problema, un piccolo dispositivo teatrale esplora la strada, più lenta e terrosa, dell’empatia. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Belli nell’ambito di Expo – Teatro Italiano Contemporaneo - Drammaturgia di Asilo Republic, regia di Andrea Lucchetta, scene e costumi di Dario Gessati, light designer Gianni Staropoli, video designer Igor Renzetti, musiche di Luca Nostro, sound designer Luca Gaudenzi, con Anna Bisciari, Marco Fanizzi, Vincenzo Grassi, foto di Manuela Giusto
OLD FOOLS (di Tristan Bernays, regia di Silvio Peroni)
Silvio Peroni cambia testo per non cambiare mai: la scena, la drammaturgia, l’interpretazione attoriale si muovono su binari riconoscibili, familiari che fanno dell’ordinarietà e verosimiglianza le direttrici perseguite, da sempre, dal regista. Anche in questo caso la drammaturgia di partenza è quella britannica: Old Fools di Tristan Bernays parla di Tom e Viv; i protagonisti sono una coppia, si incontrano, si conoscono, decidono di passare la vita insieme, hanno dei figli e poi anche nipoti finché, in vecchiaia, sopraggiunge la malattia, in questo caso l’Alzheimer, come accadeva pure in Costellazioni di Nick Payne, altro adattamento firmato da Peroni. Quella di Tom e Viv è un’esistenza normale per quanto puntinata da tragici e dolorosi avvenimenti che vediamo succedere dinanzi a noi nel consueto montaggio scenico, avanti e a ritroso nel tempo, operato da Peroni. La scena è vuota con solo una pedana reclinata a occupare lo spazio sulla quale si muovono, volteggiano, e scivolano, Marco Grossi (Tom) e Marianna de Pinto (Viv) i cui momenti di vita, letteralmente, si accendono e spengono illuminati dal disegno luci di Claudio de Robertis. Oltre all’empatia, alla naturalistica immedesimazione nei personaggi, alla fisiologica narrazione di eventi quotidiani, al dolore per quelli più turbolenti, cosa resta? Ormai, dopo una quindicina di anni, queste storie cosa possono continuare a dirci se non che direttamente o indirettamente le abbiamo vissute anche noi? C’è ancora bisogno di questo realismo dei primi anni Duemila? Peroni non troverebbe più sfidante parlare di questo presente con altre storie? In teatro potremmo osare di più di quello che propone una fiction, che certo è ben scritta e recitata ma il cui miele che stringe gli abbracci, compatisce le lacrime, intenerisce gli sguardi del pubblico rischia di allontanarsi dalla poesia e quindi risultare assai indigesto, dopo anni di riconoscibilità autoriale, dopo una ventina di minuti in cui la struttura diventa prevedibile e dopo che sappiamo già come andrà a finire. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Argot: di Tristan Bernays, Traduzione Noemi Abe, Con Marianna de Pinto e Marco Grossi, Regia Silvio Peroni, Musiche Oliviero Forni, Luci Claudio De Robertis, Scene Riccardo Mastrapasqua, Assistente alla regia Lara De Pasquale, Costumi Monica De Giuseppe, Progetto grafico Cristina Gardumi, Con il sostegno di Teatro Kismet/Cittadella degli Artisti. Un ringraziamento particolare ad Associazione Alzheimer Italia Bari.
FLY ME TO THE MOON / FIRMAMENTO (MUTA IMAGO)
Le opere in divenire, quelle riprese da altri progetti e in grado di illuminarsi in maniera inedita, gli incontri con un bicchiere di vino, la possibilità di conoscere artiste e artisti in un territorio di informalità ormai raro nelle grandi città: Firmamento è nato, al Teatro Basilica, ed è la prima creatura pubblica di un nuovo e inedito organismo, Index. Entità che raccoglie le energie artistiche e produttive di Muta Imago (Claudia Sorace e Riccardo Fazi), Daria Deflorian e Antonio Tagliarini per unire le forze ma anche per cominciare a passare il testimone ad altre generazioni teatrali o per farsi casa di ulteriori creatività. In musica si direbbe che è stata fondata un’etichetta, ma sembra più una famiglia allargata: «È da quando la conosco, da diciotto anni, che dico Deflòrian, con l’accento sbagliato», scherza Riccardo Fazi durante l’incontro di presentazione della rassegna. Abbiamo seguito un paio di serate, di fronte alle alchimie sceniche di Extragarbo, in ascolto degli incontri di Viola Lo Moro, tra le preghierine lo-fi di Gabriele Portoghese, per chiudere con uno slancio immaginifico, sulla luna pensata da Muta Imago per la voce di Riccardo Fazi. Fly Me To The Moon è una lettura che riprende un testo scritto ai tempi di Radio India: Fazi lo legge da seduto, su dei fogli appoggiati al suo laptop, possiamo anche chiudere gli occhi, dice. È un viaggio che comincia in California, mentre il protagonista di questa lettera racconta di essere sdraiato a terra per una sessione di respirazione olotropica all’Esalen Institute. Ma qualcun altro comincia sommessamente a recitare le parole di Leopardi ed ecco che siamo trasportati su un cratere lunare: «Sembra di essere nella Death Valley, ma senza il caldo, il sole e il sudore». La luna è un’utopia, una metafora poetica ma anche qualcosa di tangibile, un satellite naturale. Viaggi spaziali, meditazione, deprivazione sensoriale, reti di strutture cerebrali: con il solito talento Muta Imago apre mondi in cui farci sprofondare, oppure in cui farci alzare lo sguardo, tra il Firmamento e la luna. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: di Riccardo Fazi e Claudia Sorace con Riccardo Fazi consulenza musicale Chiara Coli una produzione INDEX, Teatro di Roma produzione, organizzazione, amministrazione Valentina Bertolino, Silvia Parlani, Grazia Sgueglia comunicazione Francesco Di Stefano
IL RITO (di A. Postiglione)
Una voce in lingua svedese, fuori campo, lascia inquadrare via via la scena sopraelevata a centro palco, una stanza d’ufficio dove si svolgerà presto un interrogatorio (o, vedremo, più di uno); dà la sensazione di essere una miniatura che fuoriesce da una valigetta enorme, aperta a favore di pubblico. Così inizia Il rito, sul palco del Teatro San Ferdinando di Napoli con la regia di strong>, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman del 1969, realizzato per la TV svedese. Nella stanza il giudice (Elia Schilton) si sta preparando ad accogliere tre attori, clown precisamente, per l’istruttoria a proposito di un numero che ha ricevuto una denuncia per oscenità; attorno alla scena è invece l’atonalità asettica del grigio in cui appaiono – nella musica misteriosa e tormentata di Paolo Coletta – Thea (Alice Arcuri), Sebastian (Giampiero Judica) e Hans (Antonio Zavatteri), fasciati nella profondità dell’abito bianco. Il tema della censura dell’arte, che Bergman portava addirittura in TV da noi oggi ridotta a organo di sistema, attraversa l’intera piéce con profonda inquietudine e si rivela avvolgendo l’ambiguità della relazione tra i tre personaggi, uniti da una viscerale profondità diabolica e allo stesso tempo da una pungente fragilità terrena. L’attrazione che il giudice prova nei confronti dell’arte, nel manifestare l’incongruenza dell’indagine anche al netto della sua fondatezza, rivela allo stesso tempo la pericolosità della sua brama di penetrarne il mistero, lasciando così il campo libero all’essere fatalmente colpito. La regia di Postiglione è compatta e determinata a perseguire l’obiettivo bergmaniano di rappresentare la profonda complessità umana, peccando forse solo nella gestione magniloquente e poco a fuoco delle immagini di opere d’arte, apparse grazie un proiettore luminoso da scrivania, ma insistendo con intelligenza sul conflitto trasformista dei personaggi-attori, la loro dedizione alla finzione, là dove risiede però la loro più concreta verità. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro San Ferdinando. Crediti: di Ingmar Bergman; traduzione di Gianluca Iumiento; adattamento e regia Alfonso Postiglione; con Elia Schilton Alice Arcuri, Giampiero Judica Antonio Zavatteri; scene Roberto Crea; costumi Giuseppe Avallone; musiche Paolo Coletta; disegno luci Luigi Della Monica
LA SORELLA MIGLIORE (di F. Gili, regia F. Frangipane)
Filippo Gili ci ha abituato ad una penna chirurgica utilizzata per creare drammi familiari in cui il destino di famiglie borghesi si gioca tutto tra segreti, silenzi e un passato che talvolta è un macigno impossibile da sopportare. In questo ritorno al Teatro Argot (e in tournee) con la regia di Francesco Frangipane l’innesco è proprio nel passato di uno dei tre fratelli, in una formula che lascia poche speranze, quella dell'omicidio stradale. Il presente, quello della drammaturgia, si apre con il colpevole costretto ai domiciliari dopo anni passati in carcere. È una delle due sorelle a ospitarlo, quella più giovane, lo ama senza giudizio, in maniera pura. L’altra irrompe in casa con un’idea per riaprire il processo e fare così in modo di risparmiare questi pochi anni di pena rimanenti al fratello. D’altronde è lei, avvocata di successo, ad averlo difeso, ma ora che il ragazzo è fuori dal carcere emergono rancori, diffidenze, questioni rimosse e strategie celate. La madre (Michela Martini) quando arriverà sarà contraltare serafico a discussioni incendiarie. Va detto, sono straordinari gli interpreti di questi tre fratelli e sorelle, Daniela Marra è la minore, volitiva e sincera e in grado di indagare ciò che sarebbe impossibile anche solo da pensare per una sorella, Giovanni Anzaldo che lavora bene sulle fragilità del personaggio, e poi Vanessa Scalera, in grado di tratteggiare una donna che si arroga il compito di giudicare e punire, il suo personaggio è una furia di intelligenza oscura. La regia di Frangipane tiene ben strette le corde del realismo, fin quando lo spettatore si ritrova di fronte all’indicibile rappresentato proprio dalle azioni dell’avvocata, la quale, se avesse voluto, avrebbe potuto riportare in libertà il fratello molti anni prima. Qui il rischio è quello di misurare il realismo della scena con quello dei sentimenti, che potrebbe non tenere il passo. Ma Filippo Gili con il solito talento si ferma un attimo prima del melodramma, lasciando sfumare in un abbraccio la colpa e le conseguenze. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argot. Crediti: di Filippo Gili con Vanessa Scalera, Daniela Marra, Giovanni Anzaldo e Michela Martini regia Francesco Frangipane una produzione Argot Produzioni e Teatro delle Briciole
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