IL LATTE DELL’UMANA TENEREZZA (di Umberto Marino)
Il titolo, ahinoi, tratto dalla battuta della prima entrata in scena di Lady Macbeth non rende giustizia al presente della commedia in due atti scritta e diretta da Umberto Marino. Un titolo che colloca lo spettacolo in un tempo lontano, diciamolo, vetusto. La pièce, nonostante rispetti una convenzionalità nella forma, nella direzione degli attori e dell’attrice, nella suddivisione in atti, è però agitata da una scrittura attualissima e sferzante. Tra un cambio di scena e l’altro, al buio, si passa da Coez, Gazzelle a Mina e Antonella Ruggiero, canzoni d’amore, complicato, irraggiungibile, passionale. Come quello di Massimo (Alessandro Fontana) per la sua storica fiamma, e per quella presente, Daniele (Guglielmo Poggi). Massimo, omosessuale e noto avvocato di destra, è costretto da una grave forma di meningite a dipendere dalle cure di Simona (Cristina Chinaglia) collega consacrata alla sua amicizia quasi fosse un palliativo per un amore impossibile, e da quelle del badante giovane attivista di Ultima Generazione, Daniele. La storia del personaggio Massimo coincide con quella di Alessandro, la persona la cui vita cambia nel 1999 a causa di una meningite che ha leso la vista e compromesso parzialmente la deambulazione. L’accidente determina l’accettazione di una quotidianità bisognosa dell’aiuto altrui, resa da una drammaturgia corposa di sfumature, di tempo e di umanità che spiega senza morbosità come ci si sente quando l’unica opportunità sembra quella di suicidarsi e lasciarsi andare. E invece no. Questa svolta è resa scenicamente da un ensemble unito tanto nella rappresentazione del dolore, dell’incomprensione, della differenza generazionale quanto nella possibilità di un’alternativa, dell’ascolto premuroso e infaticabile. La disabilità positiva non è allora un’etichetta al perbenismo delle definizioni edulcorate, è la reazione, verissima, di chi continua ad andare in tribunale, come Massimo, e a calcare la scena, come Alessandro, anche quando è possibile farlo aiutati dal deambulatore, insegnando che di quei passi un po' rallentati non si deve aver pudore perché in essi non vi è affatto sconfitta ma accettazione e riscatto. (Lucia Medri)
Visto al Cometa Off: Commedia in due atti scritta e diretta da Umberto Marino con Alessandro Fontana, Cristina Chinaglia, Guglielmo Poggi, Angelo Sorini e Romolo Passini, scenografia Enrico Serafini con il patrocinio di Rete Italiana Disabili e con il contributo di NUOVOIMAIE
LE TROIANE (Regia Carlo Cerciello)
Si va all’Elicantropo perché si sceglie un discorso complesso di teatro; di un teatro che cerca tra le sue varie formulazioni per raccontare ciò che lo anima. Anche la terribilità del mondo. Lì vivono quelle vecchie storie che non smentiscono il presente. E i quattro meravigliosi volti di donne funestate nel loro femminile, di attrici solide e acute e brillanti nel restituire la dignità dei pianti, sono antichi e presenti, sono assoluti. Sedute abbandonate su una spiaggia, vestite di nero e simili a statue di sale, le troiane Ecuba (Imma Villa), Andromaca (Serena Mazzei), e Cassandra (Mariachiara Falcone) guardano il mare da cui arrivano gli ultimi echi del disastro che le ha fatte orfane e vedove, sole. Sempre dal mare, una voce metallica ribadisce il dominio feroce della Grecia, di quell’Europa barbara che non ha alcun riguardo delle esangui vittime. Poco distante da loro, esposta da sola e vestita di bianco, Elena (Cecilia Lupoli) sonnecchia sotto un ombrellone; accanto a lei c’è un vecchio cavallino a dondolo di legno. Elena, col suo insopportabile e vezzoso esprimersi, è l’egemonia europea e occidentale tutta, dominante persino negli interessi e nelle narrazioni dei conflitti. Eppure, non è di certo per la “puttana” spartana che la guerra ha avuto inizio, quantunque quel terribile pretesto serve a mascherare ragioni anche più terribili. Le ragioni si riversano nella follia distruttrice di Cassandra, galvanizzata dalla vendetta, nell’algido tormento di Andromaca, astiosa nei confronti della vecchia Ecuba che, da madre di Paride, ha in sé la colpa. Le ragioni sono anche nei lamenti di Elena, venduta dagli dei come schiava per gli appetiti di Paride e, per puro inganno, diventata la causa di tanti dolori. Euripide e Seneca, poi Sartre, nel maneggiare il mito per attribuirgli la profondità della Storia, hanno restituito le parole alle durezze del reale. Carlo Cerciello accoglie con sensibilità l’ispirazione. Oltre il mito, viene esibita con fraterna devozione la bandiera della Palestina.
Visto a Teatro Elicantropo; Crediti: Da Euripide, Sartre, Giraudoux, Seneca; Regia Carlo Cerciello; Con Ima Villa, Mariachiare Falcone, Cecilia Lupoli, Serena Mazzei; Aiuto regia Aniello Mallardo.
LES SAISONS (coreografie di Thierry Malandain)
Due ore scarse di danza per cinque repliche (a teatro sempre pieno): è tutto quanto previsto dall’intera stagione «di Lirica e Balletto» (sic!) del Teatro La Fenice di Venezia. È troppo poco. In attesa di tempi con più doveri, ho quindi visto Malandain Ballet Biarritz con Les Saisons. Una intera serata del coreografo Thierry Malandain, ma a doppio titolo: Nocturnes (del 2014), su musica di Frédéric Chopin e Les saisons (nuova produzione del 2023), sulle quattro stagioni di Vivaldi integrate da quelle meno note del coevo Giovan Antonio Guido. I brani di Chopin sono restituiti (live da Thomas Valverde) secondo una prassi esecutiva molto lirica e aproblematica. I 20 interpreti agiscono e scorrono tutto il tempo in linea, appena dietro il proscenio ma davanti al pianoforte sul palco, secondo un incedere quasi sempre uguale, da destra a sinistra, in una vera apoteosi del tempo cronologico. Vi è un intenso duo maschile e un bellissimo assolo femminile ma la linea di movimento orizzontale non si interrompe mai, anche in momenti più accesi, o con gestualità più trattenute. Il movimento, nelle intenzioni del coreografo, ha un effetto d’altorilievo vagamente medioevaleggiante. Tutto è molto terreno, e la virtù sembra essere qui la costanza. Questa apoteosi della continuità, dell’irreversibile, della impossibilità del ritorno fa un po’ effetto catena di montaggio: non ci sono idee sceniche (né scenotecniche), solo abbracci sporadici ed esibiti come suggerire a sottotesto i conflitti del cuore. E vi è un sentore di malinconia, però compiaciuta e in fondo inefficace: in termini coreografici tutto è coerente e riuscito nelle intenzioni, che sono anche pochissime. Les Saisons purtroppo ha risentito della serata infelicissima (quella del 12 gennaio) del violinista e direttore d’orchestra, Stefan Plewniak, da dimenticare. In scena, la scansione stagionale alterna differenti stati d’animo, e i gruppi sono davvero molto ben disegnati. Dall’esile drammaturgia soprattutto emerge, potente, Hugo Layer: sempre nel posto giusto, nel momento giusto, a fare la cosa più giusta. Insieme a Claire Lonchampt, étonnante. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro La Fenice di Venezia; Crediti Malandain Ballet Biarritz, Nocturnes e Les saisons, coreografie di Thierry Malandain, Orchestra del Teatro La Fenice, pianoforte Thomas Valverde, direttore e violino Stefan Plewniak.
PREFERISCO IL RUMORE DEL MARE (Collettivo BALT)
“Se ti fermi è peggio, perché senti il vuoto”. Eccola la questione, un mondo come quello attuale somiglia alla ruota di un criceto che però è consapevole della sfrenata insensatezza della corsa, quella sequenza ripetuta di gesti e geometrie viziose che sono il cuore del nostro più oscuro capitalismo. In questo nucleo di pensiero si situa Preferisco il rumore del mare, creazione firmata dal Collettivo BALT, formato da Francesco Altilio, Francesca Mignemi, Alessandro Balestrieri e Eleonora Paris, questi ultimi due sulla scena del Teatro Argot Studio per l’apertura della frequentata rassegna Green Days, dedicata a progetti under35 scelti dagli operatori under25 di Dominio Pubblico. Due personaggi, fronte al pubblico in un palco vuoto: lui è un giovane rampante impiegato che ha raggiunto la Londra delle aspettative, ma ignora gli effetti del capitalismo sui comportamenti umani, ciò che fa diventare una società civile una società commerciale in un battito di tastiera, in ogni caso subordinate a un potere – Dio o il denaro poco importa; lei è una giovane che, nella stessa città, ha perduto il lavoro, si strugge da un lato, ma dall’altro sembra recuperare via via un tempo che aveva perso, quello in cui riscoprirsi umani. Il loro incontro – scontro – mette in correlazione due condizioni opposte in un terreno intimamente comune. A questo dialogo di stampo narrativo e realista si incrocia un altro più astratto, in cui i due personaggi – vestiti di un pastrano verde con un cappuccio – ripetono una partitura di passi, seguono un tracciato segnato da regole ignote; possono stare solo ai margini, non guardare il centro e osservare solo i propri piedi in perenne movimento. È un lavoro intelligente e intenso questo di BALT, la cui leggerezza della forma è un valore aggiunto; Balestrieri si muove con sicurezza, Paris raggiunge una profondità ancora maggiore e dona un carattere tragico all’intera vicenda. In scena c’è una vita che riguarda tutti, che sembra andare dritta all’obiettivo ed è invece centrifuga, sfugge al confronto col vero fine della vita: la vita stessa. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Argot; Crediti: Ideazione: Francesco Altilio, Alessandro Balestrieri, Francesca Mignemi, Eleonora Paris | Musiche originali: Francesco Altilio | Con: Alessandro Balestrieri, Eleonora Paris Vincitore della Menzione Speciale Borsa Teatrale “Anna Pancirolli” 2022 Con il sostegno di Teatro della Caduta e Matutateatro | In collaborazione con CONCENTRICA
WONDER WOMAN (di Antonio Latella e Federico Bellini)
Se un utile compendio è l’ intervista rilasciata qui, è difficile ricondurre Wonder Woman di Antonio Latella ad altri modelli del nostro teatro. Si respira sì un’aria non italiana, ma la vis post-drammatica di questo esperimento è quasi totalmente dedicata alla produzione del dato, più che del segno; proposta al pubblico è un’organizzazione semantica, mentre la sintassi resta nuda e graffiante.
Il palco scarnificato accoglie, condotte da una marcia che solca la platea illuminata a giorno, Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti, quattro giovani attrici che, programmaticamente, non portano (ancora) un nome di richiamo. In nero, con scarpe col tacco rosse, in una schiera rotta soltanto da sintetici movimenti espressivi e reciproco scambio di sguardi e assensi, il gruppo scandisce, in un rigoroso coro dall’alto volume e dal ritmo incalzante, la sentenza delle giudici che hanno assolto il branco di strupratori ai danni di “Nina”, ritenuta “troppo mascolina” per subire violenza sessuale. Si passa poi al kafkiano interrogatorio della giovane peruviana, per tornare sulla replica delle giudici alle proteste seguite. Nel quadro finale la tensione è montata da una svolta performativa, tra simulazioni di sfilate in simbolici costumi tradizionali e una danza tribale che sfocia negli slogan delle manifestazioni femministe, in cui si punta il dito contro la responsabilità dello script sociale, che è di tutte e tutti noi.
Fatto di Eumenidi che diventano Erinni, il nòmos distorto di questa polis contemporanea, che ha ormai stuprato il concetto di giustizia, genera una nuova Wonder Woman, amazzone che è tutte le amazzoni, supereroina il cui lazo della verità strangola un’umanità che continua a mentire a se stessa. Nel testo lirico di Federico Bellini, sciolto in agili versi che sono insieme rap e sputi, non c’è grottesco, ché «non è più tempo di andare per il sottile». E nella prova di quattro infaticabili testimoni, per il potere della sineddoche, ci raggiunge un urlo, un insulto, una fiera bestemmia. Non è uno spettacolo, è la sineddoche di un’infuriata manifestazione di preghiera umanitaria. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro Astra Crediti: Crediti di Antonio Latella e Federico Bellini regia Antonio Latella con Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti costumi Simona D’Amico musiche e suono Franco Visioli movimenti Francesco Manetti, Isacco Venturini produzione TPE – Teatro Piemonte Europa in collaborazione con Stabilemobile
DA QUI NON È MAI USCITO NESSUNO (di Alessia Cristofanilli)
Il piccolo spazio scenico ricavato in una delle sale del Teatro di Documenti è occupato in un angolo da un’enorme quantità di gonfiabili colorati, quelli delle feste di compleanno, a forma di lettere, numeri e oggetti. Ci sediamo nella platea, tra il bianco e l’avorio della storica perla architettonica inventata da Luciano Damiani scavando dentro Monte dei Cocci a Testaccio; l’attesa viene interrotta a sorpresa quando Giulia Mombelli emerge da sotto la montagna di palloncini colorati per guadagnare il proscenio. La modalità è quella consueta di un racconto teatrale che si ferma qualche metro prima della stand up comedy per quello che riguarda la relazione con lo spettatore, ma che si allontana ancora di più dal genere per la qualità della scrittura poetica. Da qui non esce nessuno è un monologo scritto e diretto da Alessia Cristofanilli (e nato all'interno di un workshop tenuto da Lucia Calamaro) e indossato da Mombelli con naturalezza e precisione. Il nucleo tematico non è nuovo, una donna deve fare i conti con il proprio spaesamento di fronte alla società dei consumi e con la propria incapacità di stare al mondo, in quel mondo. La scrittura di Cristofanilli sorprende per vivacità, intelligenza e ironia: il centro commerciale con le lumache di plastica sulle pareti, il caffè dove tutto è illibato e conciliante mentre fuori «imperversa il post moderno, vige la contraddizione, è una bolgia di incertezze». La critica al capitalismo delle merci viene qui declinata con un tratto di moderno esistenzialismo: la protagonista, che si fa chiamare U è consapevole del proprio status marginale, eppure un giorno si blocca di fronte alla porta di casa, non riesce più ad uscire. Forse la distanza tra lei e il mondo è ormai incolmabile: «alla base c’è un eccesso di pensiero critico, un eccesso di domande, un eccesso di dubbio» e, al contrario del Marcovaldo calviniano, il grande desiderio è quello di uno spazio vuoto, senza merci, un luogo in cui svuotarsi, invece che riempirsi. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro di Documenti; Crediti: Scritto e diretto da Alessia Cristofanilli Con Giulia Mombelli Elementi scenici di Eleonora Ticca Costume di Nika Campisi Supervisione artistica Alberto Bellandi Foto di scena Manuela Giusto
BRAVE (di Paola Bianchi e Valentina Bravetti)
Cominciamo dalla fine, dal termine degli applausi, quando il remix disco di A far l’amore comincia tu si prende la scena inaugurando un piccolo dance floor pubblico. Qualcuno dalle prime file della platea situata su tre lati della scena si alza e raggiunge Paola Bianchi e Valentina Bravetti, poi altre e altri. Danzano in scena da seduti, a gambe incrociate, a terra, e in ginocchio, proprio come è costretta a fare Valentina Bravetti a causa della malattia. All’inizio le due performer sono come un corpo unico Paola Bianchi tiene Valentina Bravetti vicino a sé, si comincia dai movimenti più piccoli, dai polsi fino alle gambe, ma i ruoli si invertiranno successivamente. Bianchi lavora da anni su una performatività che ha un tratto creativo documentaristico, alcuni dei suoi progetti hanno come obiettivo l’archiviazione delle posture e dei gesti attraverso la loro descrizione: avere a che fare con il corpo e igesti di qualcun altr*, nel caso di Brave in maniera diretta, tattile. È una danza ancorata al pavimento quella di Bianchi e Bravetti, eppure ha l'ambizione dell'elevazione ed è influenzata anche dalla Deposizione di Rosso Fiorentino. La prima fase è quasi di accudimento, ma senza pietismi: si muove con energia e precisione il corpo di Bianchi, insieme a quello di Bravetti, ma è pieno anche di umana simbiosi. Nella fase successiva il corpo di Bravetti può sperimentare la libertà del movimento, gli arti si muovono con lentezza e precisione ritmica; con un moto costante, ipnotico, la performer disegna un cerchio attorno allo spazio scenico. Intanto sul fondo l'altra scompone il movimento con dolorosa precisione. A Teatri di Vetro le comunità si ritrovano, si riconoscono, artiste e artisti assistono a vicenda a lavori e incontri di colleghi e colleghe. Sono giorni preziosi questi ricamati da Roberta Nicolai e dal suo gruppo a India (e prima al Teatro del Lido), che quest’anno hanno portato a Roma spettacoli che trovano con difficoltà delle repliche e una comunità di riferimento nella Capitale. Ciò vale anche per quest'opera importante di Bianchi e Bravetti, che grazie a un crowfunding ha inoltre visto sbocciare un’importante ricerca sull’audiodescrizione per le persone cieche. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro India per Teatri di Vetro; concept e coreografia Paola Bianchi creato e danzato da Valentina Bravetti e Paola Bianchi Crediti completi
ENTERTAINMENT (Menoventi)
Cosa domanda l’amore? Piuttosto plausibilmente, per Lacan l’amore domanda di mancare all’Altro, quello che ci sta sempre davanti, talmente onnipresente da farsi, appunto, mancanza, allucinazione. È esperienza comune quella mancanza che si fa ossessione, col conseguente paradosso: è possibile amare tanto qualcosa che, pur essendoci sempre, non c’è? Nelle pieghe dell’interrogativo Ivan Vyrypaev misura alcuni paradigmi della rappresentazione teatrale, squadernata come flusso erotico lungo un circuito mai chiuso tra attore-spettatore-personaggio. Due personaggi, un uomo e una donna, vanno a teatro. Tant* altr* uomini e donne, noi, andiamo con loro. Al di qua e al di là di una linea che non c’è ci sediamo, specchiandoci. Tamara Balducci e Francesco Pennacchia prendono posto su una gradinata, mentre il pubblico, ai piedi della tribuna, si scopre forse in scena, dopo aver attraversato distrattamente una quinta de facto. Ma lo spettacolo si svolge appena sopra le nostre teste, in un punto improprio all’altezza dello sguardo di Balducci e Pennacchia, che osservano l’azione invisibile, la commentano, si interrogano sui ruoli e sul confine tra gli (assenti?) attori e i loro (assenti?) personaggi. Un uomo e una donna, Steven e Margot, si corteggiano, nonostante la non-presenza della moglie di lui, che dilata il gioco. Balducci e Pennacchia sono prima spettatori che riferiscono l’azione, poi diventano Steven e Margot. Mescolando i toni del cinema americano degli anni ‘40 e di un teatro dell’assurdo rimasticato dal drammaturgo russo, Entertainment ci offre un gioco elegante e sfuggente che forse trova un limite proprio nella ritrita materia metateatrale. La sapienza attorale e la pulizia registica di Gianni Farina raggiungono però un grado metafisico nell’allungo finale quando, consumato (in remoto) l’amplesso amoroso, Steven e Margot restano imprigionati in un congedo finale ipnotico e misterioso, macchiettistico e toccante insieme nella reiterazione di un addio impossibile. Il grido degli amanti, d’altro canto, per Lacan è encore! (Andrea Zangari)
Visto a Teatro India per Teatri di Vetro; di Ivan Vyrypaev, con Tamara Balducci e Francesco Pennacchia, regia Gianni Farina, traduzione Teodoro Bonci del Bene, immagine Magda Guidi, voice over Consuelo Battiston
SOMEWHERE (di Lucia Guarino e Ilenia Romano)
La partitura coreografica, visiva, e sonora di Somewhere fa compiere un viaggio al pubblico in platea; la sensazione è di una sorta di incantamento, di torpore. Sarà il caldo della sala del Teatro India, sarà la cadenza ritmica dei movimenti, l’universo luminoso che gravita attorno fatto di linee iridescenti, bagliori, crepuscoli e albe; sarà ma, inaspettatamente insieme, Lucia Guarino e Ilenia Romano puntinano una dimensione di vuoto pneumatico con una coreografia dalle meccaniche veloci e ipnotiche fatta di gesti che come ingranaggi si corrispondono e si oppongono, molto introversi, sul posto, a disegnare una piccola porzione di spazio, “un cono di movimento” che poi si sposta, si muove, piroetta, e si allarga in altri angoli. Sia Guarino che Romano, con indosso maglie dai colori anch’essi antinomici, si dislocano in solitaria senza essere però isolate, “monadi” le chiameremmo di primo acchito ma non c’è nulla nelle loro traiettorie che sia autonomo: sin dai primi microscopici passi, riverberi e echi dinamici, fino alle nevrotiche scosse che dagli occhi e poi testa, collo e spina dorsale coinvolgono tutta la fisicità, e poi le spigolature e aperture, le corse, i salti; tutti i movimenti combaciano a distanza, si incastrano legando insieme l’habitat individuale delle singole danzatrici, e in questo caso coreografe, con quello dei luoghi le cui fotografie sono proiettate sullo sfondo. Il brutalismo e macrostrutturalismo delle Vele di Scampia, il Serpentone del Corviale, e di altri riconoscibili edifici diventano estensione inanimata e immobile degli “strutturalismi coreografici” costruiti in scena. Ma più che la desolazione e l’abbandono, i gesti di Guarino e Romano sembrano voler sondare la possibilità di colmare l’assenza sconfinata, di mettere il corpo al centro, anzi due corpi che si incontrano pur nelle deviazioni, ripensando la geografia urbana per creare una cartografia umana, fatta di calma e tensione, relazione e distacco, paura e incontro. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India per Teatri di Vetro ideazione, creazione, interpretazione Lucia Guarino e Ilenia Romano, luce Gianni Staropoli, musiche AA.VV., con il sostegno amministrativo di Nexus Factory, con il sostegno alla residenza artistica di CURA centro umbro residenza artistica – Spazio ZUT, Teatri di Vetro – Triangolo Scaleno, Home- centro umbro residenze artistiche. Foto di Margherita Masé
LINGUA_DA CLAUDE CAHUN (di Alessandra Cristiani)
Andate a cercare un ritratto di Claude Cahun. Fatevi penetrare alla prima visione: qualcosa di disturbante e tenero vi confonde. Gli occhi sono tremendi, le linee ovoidali della sagoma del viso avvolgono le labbra, una fessura orizzontale che stride e taglia. Non dice ma parla, perplime e affascina, è sfuggente e impossibile da verbalizzare: è la sua resistenza surrealista dinanzi al tempo. La nettezza del volto, il cui sfondo ombrato delle foto degli anni trenta si concentra nel nero di un segno, la ritroviamo tracciata, sul pube pancia e sguardo di Alessandra Cristiani, che distesa a terra, in parallelo e di spalle, si volta con impercettibili movenze scoprendo “ciò che resta” di Cahun sul suo corpo. Il linguaggio è incarnato in lei, la lingua è muta. Non c’è articolazione verbale ma gestuale; linguistica è la posa plastica, ricurva, contratta, a nascondere proprio il volto, riferimento espressivo celato dalla chioma rossastra. Oltre la realtà, il surreale, è la perfezione circospetta con cui le braccia, avvolte in guanti bianchi, accostano al corpo una maschera bianca: nello spettatore si schiudono immaginari pittorici, fotografici, poetici che in maniera sinestetica si condensano nell’immanenza di Cristiani. La corporeità scrive ma viene anche scritta, attraverso parole che l’artista traccia con la china sul petto, gambe, piedi, braccia, per trasformare l’integrità bianca della nudità in un campo di incisione, dilatato e accogliente. Il pubblico anche sarà invitato a parlare scrivendo sul corpo dell’artista, un’azione non di marcatura ma di rivelazione incandescente. Dalla platea, il ritorno sul palco segna un cambiamento, comico, diremmo, e sanguinolento: il nero diventa rosso e si mescola alla veemenza di azioni più estatiche, spinte nell’insondabile, tra luce abbacinante e buio. Il suono compenetra la carne, che ride e piange e trema. Tutto è potenza nel piccolo grande mistero di Cristiani. Vorremmo abbracciarlo più spesso, avrebbe bisogno di più spazio per farsi spazio. (Lucia Medri)
Visto al Teatro India per Teatri di Vetro progetto e performance Alessandra Cristiani, suono Ivan Macera, musiche aggiuntive Alessandro Cortoni, luce Gianni Staropoli, produzione PinDoc, Foto di Margherita Masé
ALICE! È TARDI (di F. Pallara e R. Ferrari, Regia F. Pallara)
Tornando, dopo una prima versione nel 2014, sul classico di Lewis Carroll, Alice! è tardi del teatrodelleapparizioni è un esperimento di linguaggio scenico su una delle tradizioni più fortunate del teatro di figura, il burattino a guanto. Con due piani per ambientare diverse linee narrative, la baracca disegnata da Marco Lucci ospita l’ottimo debutto di Eleonora Bracci accanto a Francesco Picciotti, ormai artigiano della manipolazione degno delle più floride famiglie di pupari.
Wonderland diventa un Giardino, un mondo arcadico di calma e leggerezza; più che un inquietante labirinto, quasi un’utopia à la Hume, che chiede di farsi piccoli e arguti, atti a scomparire dentro alle piccole o meno piccole peripezie del quotidiano. In questo affascinante Altrove si è tutti conigli: Alice è la figlia del Bianconiglio, padre premuroso che se la perde per strada per inseguire il ritmo frenetico della vita adulta; altri non è che Alice stessa, più grande in scala. Terzo coniglio quasi identico, entità di mezzo tra infanzia e maturità, è una coscienza parlante, la cui sottile resa semantica deve essere ancora perfezionata. Mescolando pupazzi e peluches si ottiene una consistenza soffice e solo in apparenza rassicurante, una plasticità tutta nuova per una manipolazione di alto livello: con prismatici registri vocali e una solida destrezza nella manovra nascosta, tutto scorre fluido tra sipari, mini-set e chirurgici puntamenti luce. In una baracca dalla inedita profondità di campo, Fabrizio Pallara (che firma la drammaturgia con Roberta Ferrari) è in grado di disegnare un mondo altro dove, come nella fantasia infante, tutto è plausibile. Tra Humpty-Dumpty, Cappellaio, Bruco e una Regina di Cuori severa maestra, questa geniale compagnia di ricerca per (tutte) le nuove generazioni posiziona ancora il discorso su un livello alto e stratificato, senza timore di rendere un complesso ragionamento sul valore e lo strapotere del Tempo, evocato, a una maniera quasi cechoviana, come possibile alleato ma pure carnefice silenzioso e fatale. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro di Roma - Torlonia, Crediti: da Lewis Carroll; un'idea di Fabrizio Pallara; drammaturgia Roberta Ferrari e Fabrizio Pallara; regia Fabrizio Pallara; con Eleonora Bracci e Francesco Picciotti; produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG con teatrodelleapparizioni
CONFINI DISUMANI (Equilibrio Dinamico)
La compagnia Equilibrio Dinamico porta in scena, nella suggestiva coreografia di Roberta Ferrara, un corpo compatto fatto di migliaia di corpi. Sotto le luci degli elementi naturali che sfaldano i contorni già di per sé confusi, un coro compatto appare dal fondo: è un movimento continuo lento, oscillatorio, un trascinarsi con ostinazione come un mare senza limitazioni di costa. L’elemento naturale, di acqua e di sabbia, è a sua volta evocato in maniera pervasiva da un repertorio musicale che riproduce più che un’idea universale di Mediterraneo, una più semplice e immediata di Sud. Come ogni mare, il coro compatto ha le sue correnti interne, e dal lento fluire il ritmo deflagra in una forsennata fuga circolare da cui emergono i singoli, la cui corsa in prima fila diventa emblematica quanto un’antica immagine sacra. Persino gli attimi in cui il coro, frantumato in singole componenti che si ricompattano momentaneamente nello scontro per poi sospingersi lontano, hanno il portato del sacro. Il misticismo, traghettato dall’elemento della perenne sofferenza corporale, si estende su tutta la scena per attribuire una dignità altrove rifiutata; ma vi riesce in parte, perché è un senso di imponenza che distrae. Un pensiero laterale, una riflessione sulle note di regia che partono dalla scrittura emotivamente troppo semplicistica di Erri De Luca; una scrittura che ha comunque contribuito, in scena, a formulare immagini di notevole spessore figurativo e di un non trascurabile impatto emotivo, ma su cui è necessario postillare: la disumanità non è un qualcosa che esiste, ma è un processo di elaborazione del senso di colpa che porta a vedere nell’altro esclusivamente il dolore che gli viene provocato (il più delle volte da chi poi elabora l’idea di disumanità), commettendo l’errore di identificare quell’altro col solo dolore, senza che ci sia una storia individuale a controbilanciare. Semplificando: quella dell’esule e della vittima di guerra è una categoria compattante di facce tutte uguali che esclude le vite. (Valentina V. Mancini)
Visto al Piccolo Bellini; Crediti: Compagnia Equilibrio Dinamico; Concept e coreografie Roberta Ferrara; Disegno luci Roberto Colabufo; Costumi Franco Colamorea; Produzione Equilibrio Dinamico; Con il sostegno di Teatro Koreja
MARIA STUARDA (di Davide Livermore)
Sembra che per Davide Livermore il teatro sia un gigantesco corpo da travestire e scuotere a suo piacimento, godendone gli effetti grotteschi e seducenti. Il suo Maria Stuarda è un oggetto ammiccante, prodotto per piacere a colpo sicuro, per essere ammirato. L’allestimento scenico è minimale: pochissimi elementi a restituire ampi e imponenti spazi vuoti, dal gusto vagamente gotico. Ogni personaggio più che entrare in scena, appare e contribuisce all’allestimento, impreziosendolo come un bell’oggetto deliziosamente decorato. Dalla cima di una scalinata, un angelo fa le veci di un crudele caso divino, e getta una piuma che andrà a cadere, appunto per caso, ai piedi di chi dovrà morire. A contendere le personalità delle due regine consanguinee sono Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni, straordinarie nel virtuosismo di proporsi, di sera in sera, in entrambi i ruoli in un tormento appassionato. Conosciuto il responso, inizia un ricco gioco di travestimenti e cambi di personalità, mentre Giua, sotto le sembianze di un David Bowie poco convincente, accompagna costantemente l’azione della prosa di Schiller con brani musicali: sarebbe un dramma musicale se non fosse per la laccata patina glamour da video musicale. Ma non il glamour che avrebbe suggerito la presenza di Bowie, quel rivoltoso sovvertimento dell’immagine che diventa pura espressione di sé senza una categoria di valori a determinarla o senza una logica di mercato a cui far riferimento, ma quello freddo e vuoto da Condé Nast. Tutto è uno sfoggio sfrenato di bellezza eccessiva, dai costumi di Dolce e Gabbana, alle interpretazioni forzate in un tecnicismo sperticato; emblematica è un’eccentrica Linda Gennari nei panni dell’inquietante Mortimer, tanto mellifluo e angosciato da non riuscire a mantenere una posa eretta. Restano memorabili delle splendide immagini, come quella iconica di Elisabetta (in quella sera, Laura Marinoni) seduta algida di profilo contro un fondale rosso veneziano. Ma quando la malia del glam svanisce con lo spegnersi delle luci, che resta? (Valentina V. Mancini)
Visto al Teatro Mercadante, Crediti: Di Friedrich Schiller; Traduzione Carlo Sciaccaluga; Regia Davide Livermore; Con Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi, Gaia Aprea, Linda Gennari, Giancarlo Judica Cordiglia, Olivia Manescalchi, Sax Nicosia, Giua (chitarra e voce); Costumi regine Dolce & Gabbana; Costumi Anna Missaglia; Allestimento scenico Lorenzo Russo Rainaldi; Musiche Mario Conte;
SAGOMA (di F. Pisano, Regia D. Iodice)
Cos’è oggi un teatro che ha per oggetto solo sé stesso? Scritto durante il periodo pandemico, Sagoma è la riflessione di Fabio Pisano, con la regia di Davide Iodice, sul valore di un teatro lasciato al buio, dove le figure di riferimento si muovono confuse alla ricerca di identità. Niente è stato previsto al di fuori dello spoglio e buio palcoscenico del Teatro Nuovo, nemmeno l’identità di un’embrionale presenza estranea. Esiste l’attore in quanto finto e in quanto vero, in quanto mestiere e in quanto oggetto poetico. Il palco è senza allestimento, un elemento tecnico persino banale e brutto (con le luci d’emergenza, a mo’ di pudenda, a vista) che quasi impedisce, o rende eccessivamente difficile, l’essere in scena. Si è al momento in cui lo spettacolo è solo l’idea vaga di una rivisitazione dal teatro beckettiano nella mente dell’attore, Nando Paone, la cui frustrata urgenza è capire che postura assumere al momento di agire. Cerca sé stesso in una controluce «senza riverbero», che lo faccia sagoma, un astratto corporeo, così da poter impersonare ciò che più gli corrisponde senza dover subire il peso dei ruoli che ha di volta in volta vestito o che l’hanno fatto iconico e lo hanno allontanato da quello che realmente è. Il suo unico interlocutore è il tecnico delle luci-servo di scena Matteo Biccari: è trait d’union tra la realtà e la finzione. Non è possibile scorgerne il volto, così com’è dietro i fari, ma il suo mutismo, tanto dissonante rispetto all’incessante parlare del compagno, e i suoi movimenti repentini e plateali lo rendono immediatamente comprensibile. Forse molto più naturale, per paradosso, di quanto sia l’attore stesso. Da questo buio stracciato dall’intermittenza delle luci, emerge la presenza ingombrante del pubblico seduto in platea, inquietante folla dai volti bianchi a ostacolare i bisogni dell’attore. Con dichiarati riferimenti pirandelliani, l’azione si ripete in cerchio fino a che non perde di senso e non produce il riso, in una formula consueta nella scrittura di Pisano. Troppo interessato a esistere e basta, questo teatro pare non sapere cosa vuol essere davvero. (Valentina V. Mancini)
Visto al Teatro Nuovo, Crediti: di Fabio Pisano; Regia, spazio scenico, luci, musiche Davide Iodice
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