PINOCCHIO (Teatro del Carretto)
Pannelli neri posti a semicerchio circondano lo spazio scenico ma lasciano che lì, proprio nel mezzo, si compia l’atto generativo dal quale prende vita, o almeno prende forma, il burattino Pinocchio. Questa versione del capolavoro collodiano, apparso per la prima volta nel 1883, è nel repertorio del Teatro del Carretto, storica compagnia lucchese, da oltre 10 anni; tornato in tournée durante questa stagione, sempre con la regia storica di Maria Grazia Cipriani e la scena e i costumi di Graziano Gregori, è giunto al Teatro Vascello di Roma. Pinocchio (iconico ormai sotto il suo naso è un formidabile Giandomenico Cupaiuolo) appare in catene e un po’ stordito, un carceriere tenebroso gli lancia un osso come fosse un cane; le pareti del muro circolare, dalle cui porte e finestre a scomparsa appaiono figure e ombre della sua interiorità, incubi e sogni di una maturazione tarda ad arrivare, hanno graffi e sembrano in tutto e per tutto una prigione. In questa estetica dominata da una componente immaginifica e circense si avvia il dramma in maschera che il burattino narra in prima persona, ripercorrendo a ritroso la propria storia; è una fiaba nera, Geppetto è fabbricante ma non padre, fin da principio è assente, lo dona e insieme lo abbandona al mondo, alla cura di una fata turchina che gli fa da sorella maggiore ma allo stesso tempo teme lei stessa l’abbandono (Elsa Bossi), alla mercé di personaggi minacciosi in maschera che nutrono i volti sottostanti di un’inquietudine sorpresa e talvolta assorta, vestiti con drappi sgualciti di bianco che macchiano l’uniformità del nero. Pinocchio vive in un tempo fluttuante, la morte gli è spesso vicina ma lui se ne prende gioco, il pericolo lo porta in catene perché non conosce, o ignora, le conseguenze delle proprie azioni, è un burattino che crede a tutto, si fida e non impara mai dai propri errori. Sarà pure un vecchio spettacolo, ma ciò lo rende uno spettacolo vecchio? Il gioco del teatro è in sé compiuto: un burattino fatto uomo, ma un uomo che resta un po’ burattino. Tanto lontano dai tanti Pinocchio di questo nostro tempo? (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Vascello. Crediti: Adattamento e regia Maria Grazia Cipriani; Scene e costumi Graziano Gregori; Attori Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani, Filippo Beltrami; Suoni Hubert Westkemper; Luci Angelo Linzalata; Foto di scena Filippo Brancoli Pantera; produzione compagnia Teatro Del Carretto
TRILOGIA CADELA FORÇA – CAPITOLO I – LA SPOSA E BUONANOTTE CENERENTOLA (di Carolina Bianchi)
Dopo il debutto al Festival d’Avignone la scorsa estate, Carolina Bianchi apre la stagione 2024 di FOG alla Triennale di Milano con il primo capitolo di una trilogia lacerante, che si articola attorno al concetto di violenza. In La Sposa e Buonanotte Cenerentola, l’artista brasiliana decide di affrontare lo stupro negando il potere della catarsi, decide di reiterare il proprio smarrimento attraversando il trauma. E nel penetrare quella fitta selva oscura di dantesca memoria, sceglie di abbandonarsi: agli abissi del rimosso, agli incubi del presente, a quello che ha perduto per sempre. Qual è il potere dell’arte nel riportare alla memoria le tracce di questo dolore? Quale quello del teatro nella sua rappresentazione? È da questi interrogativi che lo spettacolo prende avvio nella forma di una conferenza/performance - minimalista nelle tonalità - con diapositive, microfono e tavolino, dove Bianchi illustra con precisione i germi della sua lunga ricerca, ne scava i riferimenti letterari, iconografici, poetici e mette in evidenza l’ubiquità della violenza femminicida, innescando una crisi che investe i codici stessi del teatro. Riproporre in scena le dinamiche del suo sopruso in uno spettacolo - di cui ci ricorda vuole essere regista e non protagonista – è dunque un atto di responsabilità nei confronti di una storia collettiva, di cui l’artista rievoca i legami alla cronaca recente. Attraverso l’assunzione in sala della Boa Noite Cinderela (droga che induce assopimento, usata in Brasile per lo stupro), Bianchi sprofonda in un lungo sonno, portando il pubblico ad assistere con un’intensità disturbante alla sua carne esposta, ad abitare le ossessioni della sua mente, in cui le parole proiettate divengono sfondo di sogni infestanti, dove la visione di balli rituali (performati da un validissimo team di artisti) soggioga lo spettatore, sono odore agre di alcool, luci accecanti e suoni pop lontani. Il lavoro di Carolina Bianchi si rivela così un densissimo “esercizio di memoria inquietante”. È un morire, per sempre o solo per un momento, nel dolore, per rinascere un passo più vicini alla verità. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: idea, testo, drammaturgia e regia: Carolina Bianchi cast: Alita, Carolina Bianchi, Chico Lima, Fernanda Libman, Joana Ferraz, José Artur, Larissa Ballarotti, Marina Matheus, Rafael Limongelli drammaturgo e collaborazione nella ricerca: Carolina Mendonça
PAURA DEL BUIO? (di Giuseppe Massa)
È difficile pensare a una condizione più totalizzante del buio, in senso fisico e metaforico; proprio in esso si addentra il recente Paura del buio? di Giuseppe Massa, visto allo Spazio Franco di Palermo. È nell'oscurità che Antonio e Bernardo, fratelli elettricisti, si trovano in un sotterraneo nel tentativo di riparare un guasto. Antonio e Bernardo sono costretti alla coesistenza in uno spazio inesistente ma possibile, in cui il dato reale e il dato immaginifico si confondono dissolvendosi l'uno nell'altro. E non bastano i brevi momenti di luce a fornire coordinate più precise, quando brevi flash rivelano due fantocci dai movimenti robotici e stereotipati, privi di vita e senso al di fuori di quell'universo immaginifico consentito dall'oscurità. Nel reale black-out che spegne la città, i due protagonisti si perdono, si negano alla vista, si disintegrano per materializzarsi in una dimensione altra. Spogliati dei loro corpi, si riducono a voce; questa si impone brutale con cruda, tagliente asperità. Giuseppe Massa e Gabriele Cicirello interpretano due fantasmi, due idee, due maschere senza volto: si tratta di una soluzione alla quale Massa è pervenuto per gradi, dopo un iniziale interesse verso forme di più didascalico straniamento scenico. Ma Paura del buio? adesso lascia tutto all'immaginazione, letteralmente. Lo squallore del sotterraneo – uno squallore soltanto evocato, ma che davvero odora di umido e ruggine – è il setting in cui i fratelli si sottopongono a una sorta di allucinata seduta psicanalitica; da questa emerge un sommerso ancora più profondo del luogo in cui i due si trovano a lavorare, tra utensili e rumore di ferraglie. E non è facile uscirne, tra ricordi e associazioni spontanee, muovendosi tra il pubblico alla ricerca di un'uscita che possa salvare tutti e rimane introvabile. L'immaginazione permette la liberazione definitiva: la discesa nel sommerso è pulsione di morte, ma il suo recupero è ascesa. Nel grembo della madre (Sofia La Licata), i due fratelli riescono infine a ritornare, dopo la metamorfosi in stelle – in luce (Tiziana Bonsignore).
Visto allo Spazio Franco. Crediti: di Giuseppe Massa, con Gabriele Cicirello, Sofia La Licata, Giuseppe Massa, suono Giuseppe Rizzo, scene Elena Amato, costumi Linda Randazzo, aiuto regia Simona Sciarabba
DELITTO E CASTIGO – I TRE INTERROGATORI (di Claudio Collovà)
In Delitto e castigo di Dostoevskij la vicenda di Raskol’nikov, lo studente colpevole di un duplice assassinio, è un fatto esemplare, posto al di là del bene e del male. Tutto si consuma nello slancio del protagonista, al quale l'autore consente una luce di possibile salvazione spirituale. Non accade così nel riadattamento di Claudio Collovà, visto al Biondo in un fuori cartellone concesso al pubblico dopo il successo dello scorso dicembre – successo che renderebbe quantomeno auspicabile un'opportuna distribuzione. Come nel precedente Viaggio celiniano, anche ne I tre interrogatori il regista isola una vicenda dotata di forte potenza autonoma: i momenti del confronto tra Rodiòn Romànovič Raskol’nikov (Nicolas Zappa) e il suo giudice Porfirij Petrovic (Sergio Basile). Collovà si addentra nel testo risparmiandone un nucleo drammaturgico essenziale; in esso condensa felicemente le difficili relazioni tra libertà e pena, individuo e massa che agitano l'intero romanzo. La labirintica isteria del protagonista, resa da Zappa in una significativa prova attoriale, attraversa la scena come se fosse in una trappola; una trappola è l'inchiesta del Porfirij di Basile, il quale con lucida crudeltà si accanisce sull'altro per esercizio intellettuale e di potere. Nel dialogo tra i due prevalgono più i vuoti che i pieni. È uno scambio di silenzi, dai quali la parola emerge sospesa e faticosa, ma sempre densa di una tensione energetica palpabile. Il suo innesco agisce più volte da detonatore sulla scena di Enzo Venezia che, come in risposta al lavoro di sintesi dell'impianto drammaturgico, racchiude in un'unica superficie l'intero universo in cui si svolge la narrazione. I luoghi sono stilizzati fino a diventare cose evocative, oggetti simbolici sui quali incombe un'inquietante e ricorsiva ritualità. L'ideale palingenetico, nel quale Raskol'nikov canalizza la sua rabbia sociale, attraversa le fasi di una provvidenza affatto provvidenziale: alla vicinanza di Sonja, che per Dostoevskij infine redime il protagonista, si sostituisce la smorfia di orrore dello spettro della vittima Lizaveta (Serena Barone), creatura tenera e insostenibile. Nella perfetta chiusa della vicenda narrativa, il finale rimane aperto. Non c'è soluzione. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo. Crediti: dal romanzo di Fëdor Dostoevskij adattamento e regia di Claudio Collovà con Sergio Basile (Porfirij Petrovic) Nicolas Zappa (Rodiòn Romànovič Raskol’nikov) Serena Barone (Vecchia usuraia \ Lizaveta) scene e costumi Enzo Venezia, musiche Giuseppe Rizzo luci Pietro Sperduti. Foto di Rosellina Garbo
LA FAGLIA (di Adèle Gascuel, regia Simone Amendola)
Confinati nel profondo di una faglia che ha spaccato la terra, impegnati a pompare cemento, costretti a riorganizzare un intero immaginario terrestre da laggiù, ora che il “mondo di sopra” non è più abitabile, Dan e Balt (Daniele Amendola e Valerio Malorni) armeggiano con simbolici strumenti meccanici; sudicie divise da trivellatori vestono questi due uomini-talpa, relitti di questa nostra generazione rosa e insozzata dal consumismo sfrenato. In questa «favola post-apocalittica» scritta dalla giovane autrice francese Adèle Gascuel (nell’École des Maîtres 2020-2021) la Madre Terra non appare solo stuprata e incancrenita, ma è anche una matrigna alla quale rivolgere insulti e recriminazioni, visione apparentemente non consolatoria e che però non riesce a guidare il testo fuori da certe stanze di retorica. Essenziale ma curata, la scenografia quasi sembra composta dalla risulta di una discarica; si completa con uno schermo di fondo dove la “faglia” è sintetizzata in una circonferenza perfetta marcata da un cursore che non smette di percorrerla – senza scavarne alcuna profondità verticale – e resa densa da un generosissimo uso della macchina del fumo, elemento materico e metaforico che nasconde e confonde, fino allo smarrimento di visus e di ragione. Con alle spalle passi precisi e a tratti davvero sorprendenti, qui torna il tema del “teatro nel diluvio”, il tono cupo dell’horror esistenziale; e tuttavia la ruvida e però sottile autorialità di Simone Amendola e la complessa e parlante presenza scenica di Malorni si chiudono stavolta in una gabbia che non del tutto permette loro il consueto agio creativo. Nonostante l’evidente tentativo di rendere i personaggi stratificati come immaginiamo sarebbe la faglia, un testo troppo acerbo sembra impedire una vera discesa nelle profondità di ferite collettive. Tra dialoghi che si ripetono a loop e guizzi onirici forse troppo marcatamente lirici, la carica cinica che pure contraddistingue questo duo di artisti/autori si risolve (ma è il testo a comandarlo) in un omaggio al Beckett più desolato ma non altrettanto graffiante. (Sergio Lo Gatto)
Visto a Time Labs. Crediti: testo Adèle Gascuel; con Daniele Amendola Valerio Malorni; regia Simone Amendola; traduzione Adele Palmeri Borghese; in video e voce off Caterina Marino; scenografia Santo Alessandro; Badolato; costumi Clorinda Bartoleschi; musiche Giulia Ananìa; canto Sabina Meyer; 3D artist Davide Riccitiello; disegno luci Marco D’Amelio, Omar Scala; ambiente sonoro Gregorio Comandini; foto di scena Filippo Trojanolo
PLEASE COME! (di Chiara Ameglio)
Attorno a un corpo dai contorni difficili da identificare, poco alla volta si compone un perimetro luminoso: è una barriera oltre la quale è impossibile andare. Il corpo, che in realtà si presenta più come una semplice “massa”, è di spalle e viene maneggiato senza alcuna delicatezza. È gettato nello spazio e subisce pressioni da un esterno visibile solo per gli effetti che producono. Questo corpo-massa perde naturalezza e vitalità perché non compie dei veri movimenti, in quanto è spinto esclusivamente da forze estranee. Chiara Ameglio, della compagnia milanese Fattoria Vittadini, indaga quelle che sono le condizioni di dolore di chi è costretto alla schiavitù, e quindi di chi perde ogni facoltà sul proprio corpo. Il percorso è interminabile e circolare, e la ripetizione acuisce il senso di un inevitabile dilatamento del tempo che diventa storia collettiva. Le luci intermittenti deformano il corpo-massa che è scosso da terribili tremori; di rado, lembi di pelle vengono lentamente esposti ed è inevitabile che la parziale nudità provochi una profonda inquietudine, se non anche vergogna per l’osservare qualcosa di illecito. Il lavoro si presenta chiaramente come un manifesto e incede proprio nel modo apodittico del manifesto, lavorando su immagini fisse e riconoscibili: in questo senso, è pleonastico l’utilizzo, a scena vuota, dell’audio degli spezzoni televisivi che esprimono laconicamente dei fatti e dei dati, quasi che non fosse stato chiaro ciò che si era già visto; forse avrebbe avuto maggiore valenza perturbante se fossero stati utilizzati come accompagnamento dell’azione, come ulteriore riflessione sul semplice concetto fornito dai mezzi d’informazione. Questo nulla toglie alla strabiliante capacità comunicativa e alla espressività vivida del corpo di Ameglio, o all’intuizione di immagini vere e potenti. Però è probabile che una maggiore profondità drammaturgica tesa a complicare la semplice idea, avrebbe dato maggiore respiro al concetto espresso in coreografia. (Valentina V. Mancini)
Visto a Spazio Körper, Crediti: Di e con Chiara Ameglio; Collaborazione artistica, Santi Crispo; Musiche KeepingFaka; Luci Fabio Bozzetta; Produzione Fattoria Vittadini; Coproduzione Festival Danza in Rete – Teatro della Tosse
OPERA VIVA (di Elvira Buonocore, regia Maria Chiara Montella)
Rosario (Riccardo Ciccarelli), Palma (Stefania Remino) e Alfio (Gianluca Vesce), sono tre fratelli che pare abbiano poco da spartire se non il ricavato della vendita della casa di famiglia; sono dalla notaia (Alessandra Cocorullo), e attendono che si presenti il compratore. È molto difficile scrivere una storia famigliare, e non solo per l’invenzione artistica in sé, ma anche per una banale questione emotiva: in un niente ci si trova a faccia a faccia con i ricordi silenti del pubblico. Questa scritta da Elvira Buonocore è affascinate, capace di unire più generi in modo naturale, diverte e produce quegli attenti silenzi carichi di emozione. I tre fratelli, molto diversi tra loro, hanno in comune un forte attaccamento col mare e sul tavolo della notaia sono disposte in prefetto ordine delle bottiglie piene d’acqua; questa inoltre li tormenta con numerose domande che li costringono a esporsi troppo e in maniera dolorosa. Con attenzione si fa uso dei ricordi, legandoli al tempo presente e producendo così un andamento ondivago della narrazione, che permette inoltre di qualificare in maniera completa le peculiarità di ogni personaggio. Il ricordo si presenta come una particolare dissolvenza: al posto degli adulti, lo spazio è invaso da ragazzini che ripercorrono il difficile rapporto con un padre invadente e manipolatore con cui i rapporti diventeranno impossibili da sostenere. I meccanismi della relazione di famiglia sono resi seminando i silenzi tesi e gli sguardi sbiechi pieni di sensi di colpa. C’è però qualcosa che frena la completa espressione del lavoro, ed è come un timore che aleggia. Gli attori sono più naturali nelle vesti di bambini che in quelli di adulti; un finale così inutilmente esplicito, come se fosse stato necessario alla comprensione porre un punto chiaro, ha smorzato le energie: quel dubbio che invece era stato così bene instillato nelle menti degli spettatori sarebbe stato più adeguato al procedere dei fatti. Inezie facilmente risolvibili rispetto alla bellezza complessiva del lavoro. (Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Cediti: Di Elvira Buonocore; Con Riccardo Ciccarelli, Alessandra Cocorullo, Stefania Remino, Gianluca Vesce; Regia Maria Chiara Montella; Aiuto regia Mario Ascione; Scene Lucia Imperato; Costumi Giuseppe Avallone; Disegno luci Luca Sabatino; Progetto sonoro Alessio Foglia; Produzione Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini.
DAVIDSON (di Maurizio Camilli e Michela Lucenti)
Tratto da Padre Selvaggio di Pier Paolo Pasolini, abbozzo di sceneggiatura del 1962 e pubblicata postuma nel 1975, Davidson è la storia di un giovane liberiano di buone speranze e del suo modernissimo insegnante assediato da sensi di colpa coloniali. Balletto Civile, fedeli alla loro agenda, affrontano (e aggiornano), in un fitto corpo-a-corpo non solo verbale, il tema razziale messo alla prova con i caposaldi della convivenza, del vivere civile, nonmeno che della responsabilità storica. Davidson in scena è Confident Frank, giovanissimo performer modenese, di talento spontaneo e di immediata istintività. L’insegnante (Pasolini stesso, ma pure ognuno di noi) è uno straordinario Maurizio Camilli, che qui un poco accentua il ruolo incanutito e mite dell’insegnante/padre, che dialoga e lotta (volano i banchi e pure schiaffoni e spallate) e prova a educare, poi a contenere, poi a smontare, tra consapevolezza e sentimento, le ragioni così forti e inoppugnabili dell’oppresso. Come avviene sempre con Balletto Civile, la realtà del presente traborda sulla scena, e genera tutta la potenza dell’ambiguità dei nostri tempi. Ma questo il teatro deve saper fare. Dalla platea non mancano nemmeno inconsapevoli approvazioni al linguaggio dell’oppressione («un topo in una stalla di cavalli resta comunque un topo» anche per qualche anzianotta turbata in platea), né mugugni prolungati di fronte a una realtà che è già per le strade delle nostre città. Ma questo non impedisce il prolungato applauso finale, di una comunque folta platea, in un misto di vero apprezzamento e anche difficilissima consapevolezza. Siamo a Castelfranco Emilia, in un bellissimo teatrino del circuito ERT, sulla piazza centrale all’ombra di un monumento al tortellino emiliano (un vecchione dal buco della serratura osserva l’intimità di un corpo femminile del quale scorge l’ombelico: il desiderio così dà forma anatomica ai fantasmi insoddisfatti della realizzazione erotica). Ma forse ciò che sovverte la legge del Padre, il perenne asservimento al godimento (al tortellino, dunque al capitale), è per Balletto Civile proprio questa necessaria dissoluzione dei limiti per aprire le comunità a nuove soggettività. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Dadà (Castelfranco Emilia), concept e drammaturgia Maurizio Camilli; coreografia Michela Lucenti; con Maurizio Camilli, Confident Frank; disegno luci Vincenzo De Angelis; disegno sonoro Andrea Gianessi; assistente alla regia Ambra Chiarello
IL DIARIO DI IRENE BERNASCONI (a cura di e con Laura Nardi)
In tempi di autonomia differenziata e di dimensionamento scolastico, come la delibera approvata dalla giunta Rocca a livello regionale, di occupazioni e autogestioni punite, re-imparare alcune basi del metodo montessoriano è un esercizio di educazione alternativa e propositiva. Soprattutto se, come ne Il diario di Irene Bernasconi a cura di e con l’attrice e formatrice Laura Nardi, si rappresenta scenicamente un pensiero che - nonostante poi le sue attualizzazioni e critiche - sopravvive oggi proprio in virtù di quella relazione adulto-bambino paritaria, responsabilizzante e non paternalista. Bernasconi, dopo la formazione montessoriana presso la Società Umanitaria di Milano, fu chiamata nel 1915 dal Comitato delle Scuole dei contadini per l’Agro romano e le Paludi Pontine a dirigere a Palidoro la “Casa dei bambini secondo il Metodo Montessori”, a educare i figli dei «derelitti», dei guitti ciociari che durante l’inverno venivano nelle campagne romane a lavorare la terra, a vivere nelle capanne, per poi riandarsene prima dell’estate. Nardi, negli abiti di Irene, è in scena abbigliata proprio come un’educanda svizzera (Bernasconi viene infatti dal Canton Ticino) e con lei ci sono circa una quindicina di bambole di pezza rappresentanti i bambini. Non ci sono cattedre, né sedie, ma tappeti, dove riposare, tavoli, dove mangiare insieme e lenzuoli su cui disegnare mentre si ascoltano le musiche popolari. Di questo diario, a cura di Elio De Michele e aa. vv. - grazie a una drammaturgia pedagogica che si relaziona al pubblico insegnando alcuni passaggi politici del testo – emergono i temi del «farci bambini», dell’educare senza autorità «con fermezza ma anche affetto», dell’insegnamento che deve emanciparsi «dai programmi imposti perché la scuola non è un’idea astratta». E tra una parola in dialetto, un canto e un capriccio, il pubblico riscopre il bisogno di una scuola anche senza libri che si faccia luogo, dove i bambini vanno anche “solo” per essere educati alla pulizia, allo stare insieme, al rispetto reciproco. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo : uno spettacolo di e con Laura Nardi, collaborazione artistica Simone Faucci e Amandio Pinheiro, consulenza storica e antropologica Elio Di Michele e Roberta Tucci, marionette Francesca Turrini, musiche tratte da Le voci dell’Anio di Ettore De Carolis, produzione Teatro Causa, Cranpi. Foto Manuela Giusto
SUPER SANTOS (di Donato Paternoster)
Donato Paternoster ha voce precisa e calma, siamo una manciata di spettatori e spettatrici in questo freddo giovedì di gennaio. L’autore e interprete entra dal piccolo corridoio che divide in due la platea di Fortezza Est.Ha una tuta della nazionale e un borsone da calcio, in entrambi i casi i colori e i segni sono quelli degli anni Novanta, quelli delle Notti magiche di Nannini e Bennato. Paternoster lo ammette subito: ognuno ha il proprio credo, la propria fede, io ho il calcio. Di spettacoli, soprattutto nella forma monologante, sul mondo del calcio se ne sono visti. L'epica del pallone ha i propri miti che si sono fatti palcoscenico (basti pensare all’opera di Davide Enia). In questo caso Paternoster prende una storia apparentemente piccola, ma curiosa e in grado di farci entrare proprio nel mezzo della questione calcio e fede. Il protagonista è Graziano Lorusso, pugliese (come l’attore) che prima di prendere i voti e diventare frate francescano fu una promessa del calcio; da qui il titolo del monologo: Super Santos (uno che ce l’ha fatto). Da Gravina di Puglia Graziano si sposta a Bologna. Ha 12 anni e viene selezionato dai Rossoblu. Il ragazzo arriva fino a vestire la maglia della nazionale under 17, in squadra con Del Piero, per dirne uno. Poi la discesa improvvisa e amara, la retrocessione del Bologna in C e il prestito a squadre sempre più piccole. A 22 anni Graziano torna in Puglia per trovare la fede religiosa e la via di San Francesco. Racconta con garbo Paternoster, con una prima persona quasi invisibile, dimostrando la naturalezza degli interpreti esperti, è la prima volta che mi capita di vederlo da solo in scena, senza quel formidabile clan guidato da Michele Sinisi nelle produzione Elsinor. Lentamente lo spettacolo lascia i tranquilli binari della narrazione, i segni si mescolano, il palco accoglie un mash-up di narrazioni, riflessioni e folgorazioni; la tuta lascia il posto alla camicia del parroco. Sulla stola bianca appare “cosa vi siete persi”. Non manca un passaggio sulla storica semifinale a Napoli, quell'Italia Argentina in cui proprio Maradona doveva scegliere tra fede e amore.
Visto al Fortezza Est. Crediti: Di e con Donato Paternoster Dramaturg Simone Faloppa Assistente Barbara Scarciolla Consulenza scenica Federico Biancalani Disegno Luci Martin Emanuel Palma Una produzione Pagina40 e IAC Centro Arti Integrate Con il sostegno di Fortezza Est Partner Cortile Teatro Festival, Festival Castel dei Mondi, Matera Sport Film Festival
VOLANO ALBERI SPOGLI COME RADICI (di Beatrice Mitruccio)
Su femminicidioitalia.info è possibile avere il conteggio delle donne uccise, di giorno in giorno, nel 2023 sono state 43, nel 2024 siamo già a 5. Cosa ancora più importante, in quell’elenco oltre ai numeri ci sono i nomi. Morte per femminicidio. Di fronte a noi abbiamo una giovane donna, che è stata vittima di una relazione abusante, e che forse - è lei stessa ad ammetterlo - in quella lista avrebbe potuto finirci. Beatrice Mitruccio però è una forza della natura, artistica; e come artista è in grado di tenerci con lei per un’ora, nell’accogliente spazio di Fortezza Est, mentre con i mezzi del teatro fa rivivere fantasmi e dolori. In primis ci sono il corpo, la voce e un microfono, come fossimo a una serata di stand-up: la scrittura, efficace, nella forma e nella trama, comincia con leggerezza, si parla dei paradossi creati dalla storia patriarcale, fin dalla Bibbia, passando poi per l’orgasmo femminile e l’invidia del pene. Scaldato il pubblico Mitruccio può affondare. È un viaggio a ritroso che riparte anche in questo caso da un sentimento di gioia: Beatrice arriva a Roma e qui, con parole chiarissime, spiega di aver trovato la libertà di crearsi il proprio mondo, di scegliersi amicizie e frequentazioni. La relazione abusante con un uomo violento non viene percepita immediatamente come una negazione di quella libertà, ci vorrà un tempo lunghissimo, le violenze psicologiche, quelle fisiche e poi un risveglio improvviso. Arriverà anche la paura, la famiglia a fare da scudo e fortunatamente la vita che prosegue. Mitruccio spezza la narrazione, di cui cura anche la regia, con poesie al microfono, video proiezioni e canzoni. Sono momenti estetizzanti, aggiungono pathos a un racconto che non ne ha bisogno, di certo dimostrano i talenti di questa giovane autrice. Avrebbero forse bisogno di una semplificazione che possa avvicinarli alla temperatura scenica di questo racconto intimo in cui non c’è quarta parete e nel quale il teatro è il mezzo con cui urlare una verità personale che si fa collettiva.
Visto al Fortezza Est. Crediti: di e con Beatrice Mitruccio/Collettivo Est Aiuto regia Ludovico Cinalli e Paolo Perrone Voci Martina Tirone e Paolo Perrone Ambienti scenici Beatrice Mitruccio e Mila Damato Vocal coach Martina Bonati Tecnico Yonas Aregay Foto Luca Brunetti Produzione Collettivo Est Produzione esecutiva Progetto Goldstein
I TRENI DELLA FELICITÀ (di Laura Sicignano)
Ci sono storie che nella storia non ci finiscono, nascoste in un silenzio attraverso il tempo senza mai finire nei libri che la storia la raccontano, dimostrando quanto essa proprio di questi episodi – storie – sia composta. Perciò, quando partirono I treni della felicità, stracolmi di bambini e alimentati da una virtù solidale, fu un piccolo grande gesto di rivoluzione gentile che oggi, per mano e idee di Laura Sicignano, alla drammaturgia insieme a Alessandra Vannucci, raggiunge il palco del Teatro Basilica di Roma con Fiammetta Bellone, Federica Carrubba Toscano, Egle Doria. Siamo nel dopoguerra, tempo in cui la parola “treno” si associava alla morte, alla dispersione, all’esilio, mentre proprio attraverso i treni si affaccia alla cronaca una vicenda edificante che, in un’epoca di eserciti schierati e lotte di potere, è fatta invece dal popolo per il popolo. Sono le donne comuniste del Nord, precisamente dalla Lombardia e dall’Emilia, a immaginare un viaggio che trasportasse bambini di zone rese inospitali dalla guerra, costrette alla fame e in lotta per la sopravvivenza, in luoghi e famiglie in grado di accoglierli, anche solo per un tempo di riassestamento, quando a guerra finita sarebbero tornati nella loro famiglia d’origine. Lo spettacolo, che si avvale delle vibranti musiche in scena di Edmondo Romano, nasce da un’intenzione civile, quella di dar voce a una vicenda rimossa, quasi dimenticata, ma allo stesso tempo ha l’obiettivo di esprimere il carattere esemplare che queste donne hanno impresso all’Italia postbellica, veicolando il loro messaggio attraverso non solo l’interpretazione delle attrici ma per la loro propria esistenza umana. La nobile causa, insieme di coraggio e vergogna, di miseria e dignità, resa efficiente da interpretazioni solide, solo in parte raggiunge l’obiettivo, reso fosco da scelte di regia a tratti didascaliche e non in perfetto equilibrio tra il fatto storico e certe ricorrenze che paiono occasionali, tra la condizione femminile dell’epoca e il più recente e profondo dibattito sulla maternità. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Basilica: Drammaturgia Laura Sicignano e Alessandra Vannucci; con Fiammetta Bellone, Federica Carrubba Toscano, Egle Doria; musiche di scena eseguite dal vivo Edmondo Romano; scena Francesca Marsella; costumi Daniela De Blasio; luci, video e foto Luca Serra; tecnica Francesca Mazzarello
IPERDARK (di Dario Muratore)
Un vociare indistinto e concitato, nel buio, si riversa su un corpo tagliato in silhouette dalla luce retrostante, come un grumo di ombra. «Prova? Prova? Provo a ricordare»: è l'avvio del racconto, ma anche un mantra che il protagonista si trascina fin dentro il mondo di scatole che riempiono, come gusci vuoti, lo scantinato in cui, ancora ragazzino, si trova. Con Iperdark, di e con Dario Muratore, aiutoregia di Gisella Vitrano, lo Spazio Franco di Palermo inaugura la nuova edizione della rassegna Scena Nostra, dal significativo titolo Se fosse l'ultimo? In un mondo al collasso questa domanda è certamente appropriata, così come inevitabile appare chiedersi cosa potrebbe accadere oltre la fine. Nel momento di transizione in atto, il dramma di Muratore affonda il coltello nel problematico atteggiamento di una generazione presa alla sprovvista, schiacciata dal cieco ottimismo di chi l'ha preceduta e dall'incertezza che le si offre in prospettiva. Tra la scatola del dondolo e l'ipermercato in cui il protagonista, Davide Geometra, si trova a consumare i suoi trentatré anni, si svolge un allucinato rito di passaggio. Luogo e tempo si spezzano, si incuneano l'uno nell'altro, restituiscono una visione onirica sostenuta dalla versatile capacità di caratterizzazione dell'interprete. Su di lui scorre di tutto: le labirintiche corsie del Gigante, i dialoghi dei familiari, le stanze in cui il ragazzo fluttua sospeso, dopo la morte del padre. Un genitore difficile a uccidersi, rispetto al quale non sembra possibile altra ribellione se non nell'assimilazione. L'atto di rivolta, ammesso che di questo si tratti, è il frutto di un lapsus accidentale, di un'inettitudine sfociante nell'Armageddon dove tutto il mondo brucia a prezzi stracciati. Il "labirinto liberale" è attraversato da Davide nell'accurata sospensione di comico e tragico, tra luci calde e fredde (eleganti ed essenziali, di Gabriele Gugliara), lungo un percorso che può, e deve, permettersi il ricorso alla crudeltà. (Tiziana Bonsignore)
Visto allo Spazio Franco. Crediti: di e con Dario Muratore, Suono Giovanni Magaglio, Disegno Luci Gabriele Gugliara, Allestimento e costumi Fulvia Bernacca, AiutoRegia Gisella Vitrano, Produzione FrazioniResidue, con Babel, In collaborazione con Spazio Franco e Piccolo Teatro Patafisico. Foto di Fulvia Bernacca
IO & TU (regia di Gianluca Merolli)
Crediamo nella poesia perché attraverso di essa riusciamo ad andare oltre il reale, oltre la materialità dei corpi e la loro precaria esistenza, fatta di fragilità e accidenti; la poesia ci connette ad altre dimensioni del tempo e dello spazio, possiede una tensione virtuale, ci spinge fuori dalle nostre immanenti convinzioni e pregiudizi. Quella di Walt Whitman, il poeta del barbarico e ribelle «yawp!», del mistero dell’io e del tu, dell’io e me stesso, un noi che ci comprende, è la poesia riascoltata l’altra sera, allo Spazio Diamante, per merito di Io&Tu diretto da Gianluca Merolli nell’adattamento del testo originale di Lauren Gounderson (I and You). Quei versi, nel gioco interpretativo di Aurora Spreafico (Caroline) e Derli Do Rosario Soares (Anthony) si rinnovano brillanti e ammantati di luce ma senza sacralità, possiedono invece un’aura “teen”, romantica, nella cameretta di Caroline tra glitter, Pringles e tartarughe luminose. La raccolta di Whitman, Foglie d’erba, è presa in mano, stropicciata, piegata, sfogliata per declamare i versi preferiti scoperti tra una risata, l’imbarazzo, le prime adolescenziali scoperte. La poesia è il linguaggio che mette in contatto Anthony, appassionato anche di basket, con Caroline, sua compagna di classe costretta a casa da sempre per una patologia genetica. La regia è sensibile a insistere, senza imbrigliare, sulle sfumature dei caratteri, a spingerli verso la spontaneità dell’essere più che del dire, il quale anche se sporcato da qualche increspatura convince per estroversione e genuinità. Le scene semplici e essenziali sono per questo agili nel restituire l’idea di una scatola scenica che si apre verso mondi sconosciuti. Quel luogo dell’attesa, in cui andare quando non ci si trova, in cui avere fiducia, è la metafora di questo incontro poetico, e salvifico, tra i due adolescenti, vite predestinate: finisce il tempo di vita terreno per uno e inizia quello dell’altra. (Lucia Medri)
Visto a Spazio Diamante: regia di Gianluca Merolli, con Aurora Spreafico e Derli Do Rosario Soares, con la voce di Paola Sambo, traduzione Andrea Paolotti e Chiara Loria, scene Paola Castrignanò, costumi Domitilla Giuliano, musiche Luca Longobardi, luci Pietro Sperduti, assistente alla regia Iulia Bonagura, foto Pino Le Pera, grafica Fabio Rea, produzione Viola Produzioni - Centro di Produzione Teatrale
ULTIMI ARTICOLI
Orecchie che vedono: la danza che si ascolta a Gender Bender
Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...