OLD FOOLS (di Tristan Bernays, regia di Silvio Peroni)
Silvio Peroni cambia testo per non cambiare mai: la scena, la drammaturgia, l’interpretazione attoriale si muovono su binari riconoscibili, familiari che fanno dell’ordinarietà e verosimiglianza le direttrici perseguite, da sempre, dal regista. Anche in questo caso la drammaturgia di partenza è quella britannica: Old Fools di Tristan Bernays parla di Tom e Viv; i protagonisti sono una coppia, si incontrano, si conoscono, decidono di passare la vita insieme, hanno dei figli e poi anche nipoti finché, in vecchiaia, sopraggiunge la malattia, in questo caso l’Alzheimer, come accadeva pure in Costellazioni di Nick Payne, altro adattamento firmato da Peroni. Quella di Tom e Viv è un’esistenza normale per quanto puntinata da tragici e dolorosi avvenimenti che vediamo succedere dinanzi a noi nel consueto montaggio scenico, avanti e a ritroso nel tempo, operato da Peroni. La scena è vuota con solo una pedana reclinata a occupare lo spazio sulla quale si muovono, volteggiano, e scivolano, Marco Grossi (Tom) e Marianna de Pinto (Viv) i cui momenti di vita, letteralmente, si accendono e spengono illuminati dal disegno luci di Claudio de Robertis. Oltre all’empatia, alla naturalistica immedesimazione nei personaggi, alla fisiologica narrazione di eventi quotidiani, al dolore per quelli più turbolenti, cosa resta? Ormai, dopo una quindicina di anni, queste storie cosa possono continuare a dirci se non che direttamente o indirettamente le abbiamo vissute anche noi? C’è ancora bisogno di questo realismo dei primi anni Duemila? Peroni non troverebbe più sfidante parlare di questo presente con altre storie? In teatro potremmo osare di più di quello che propone una fiction, che certo è ben scritta e recitata ma il cui miele che stringe gli abbracci, compatisce le lacrime, intenerisce gli sguardi del pubblico rischia di allontanarsi dalla poesia e quindi risultare assai indigesto, dopo anni di riconoscibilità autoriale, dopo una ventina di minuti in cui la struttura diventa prevedibile e dopo che sappiamo già come andrà a finire. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Argot: di Tristan Bernays, Traduzione Noemi Abe, Con Marianna de Pinto e Marco Grossi, Regia Silvio Peroni, Musiche Oliviero Forni, Luci Claudio De Robertis, Scene Riccardo Mastrapasqua, Assistente alla regia Lara De Pasquale, Costumi Monica De Giuseppe, Progetto grafico Cristina Gardumi, Con il sostegno di Teatro Kismet/Cittadella degli Artisti. Un ringraziamento particolare ad Associazione Alzheimer Italia Bari.
FLY ME TO THE MOON / FIRMAMENTO (MUTA IMAGO)
Le opere in divenire, quelle riprese da altri progetti e in grado di illuminarsi in maniera inedita, gli incontri con un bicchiere di vino, la possibilità di conoscere artiste e artisti in un territorio di informalità ormai raro nelle grandi città: Firmamento è nato, al Teatro Basilica, ed è la prima creatura pubblica di un nuovo e inedito organismo, Index. Entità che raccoglie le energie artistiche e produttive di Muta Imago (Claudia Sorace e Riccardo Fazi), Daria Deflorian e Antonio Tagliarini per unire le forze ma anche per cominciare a passare il testimone ad altre generazioni teatrali o per farsi casa di ulteriori creatività. In musica si direbbe che è stata fondata un’etichetta, ma sembra più una famiglia allargata: «È da quando la conosco, da diciotto anni, che dico Deflòrian, con l’accento sbagliato», scherza Riccardo Fazi durante l’incontro di presentazione della rassegna. Abbiamo seguito un paio di serate, di fronte alle alchimie sceniche di Extragarbo, in ascolto degli incontri di Viola Lo Moro, tra le preghierine lo-fi di Gabriele Portoghese, per chiudere con uno slancio immaginifico, sulla luna pensata da Muta Imago per la voce di Riccardo Fazi. Fly Me To The Moon è una lettura che riprende un testo scritto ai tempi di Radio India: Fazi lo legge da seduto, su dei fogli appoggiati al suo laptop, possiamo anche chiudere gli occhi, dice. È un viaggio che comincia in California, mentre il protagonista di questa lettera racconta di essere sdraiato a terra per una sessione di respirazione olotropica all’Esalen Institute. Ma qualcun altro comincia sommessamente a recitare le parole di Leopardi ed ecco che siamo trasportati su un cratere lunare: «Sembra di essere nella Death Valley, ma senza il caldo, il sole e il sudore». La luna è un’utopia, una metafora poetica ma anche qualcosa di tangibile, un satellite naturale. Viaggi spaziali, meditazione, deprivazione sensoriale, reti di strutture cerebrali: con il solito talento Muta Imago apre mondi in cui farci sprofondare, oppure in cui farci alzare lo sguardo, tra il Firmamento e la luna. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: di Riccardo Fazi e Claudia Sorace con Riccardo Fazi consulenza musicale Chiara Coli una produzione INDEX, Teatro di Roma produzione, organizzazione, amministrazione Valentina Bertolino, Silvia Parlani, Grazia Sgueglia comunicazione Francesco Di Stefano
IL RITO (di A. Postiglione)
Una voce in lingua svedese, fuori campo, lascia inquadrare via via la scena sopraelevata a centro palco, una stanza d’ufficio dove si svolgerà presto un interrogatorio (o, vedremo, più di uno); dà la sensazione di essere una miniatura che fuoriesce da una valigetta enorme, aperta a favore di pubblico. Così inizia Il rito, sul palco del Teatro San Ferdinando di Napoli con la regia di strong>, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman del 1969, realizzato per la TV svedese. Nella stanza il giudice (Elia Schilton) si sta preparando ad accogliere tre attori, clown precisamente, per l’istruttoria a proposito di un numero che ha ricevuto una denuncia per oscenità; attorno alla scena è invece l’atonalità asettica del grigio in cui appaiono – nella musica misteriosa e tormentata di Paolo Coletta – Thea (Alice Arcuri), Sebastian (Giampiero Judica) e Hans (Antonio Zavatteri), fasciati nella profondità dell’abito bianco. Il tema della censura dell’arte, che Bergman portava addirittura in TV da noi oggi ridotta a organo di sistema, attraversa l’intera piéce con profonda inquietudine e si rivela avvolgendo l’ambiguità della relazione tra i tre personaggi, uniti da una viscerale profondità diabolica e allo stesso tempo da una pungente fragilità terrena. L’attrazione che il giudice prova nei confronti dell’arte, nel manifestare l’incongruenza dell’indagine anche al netto della sua fondatezza, rivela allo stesso tempo la pericolosità della sua brama di penetrarne il mistero, lasciando così il campo libero all’essere fatalmente colpito. La regia di Postiglione è compatta e determinata a perseguire l’obiettivo bergmaniano di rappresentare la profonda complessità umana, peccando forse solo nella gestione magniloquente e poco a fuoco delle immagini di opere d’arte, apparse grazie un proiettore luminoso da scrivania, ma insistendo con intelligenza sul conflitto trasformista dei personaggi-attori, la loro dedizione alla finzione, là dove risiede però la loro più concreta verità. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro San Ferdinando. Crediti: di Ingmar Bergman; traduzione di Gianluca Iumiento; adattamento e regia Alfonso Postiglione; con Elia Schilton Alice Arcuri, Giampiero Judica Antonio Zavatteri; scene Roberto Crea; costumi Giuseppe Avallone; musiche Paolo Coletta; disegno luci Luigi Della Monica
LA SORELLA MIGLIORE (di F. Gili, regia F. Frangipane)
Filippo Gili ci ha abituato ad una penna chirurgica utilizzata per creare drammi familiari in cui il destino di famiglie borghesi si gioca tutto tra segreti, silenzi e un passato che talvolta è un macigno impossibile da sopportare. In questo ritorno al Teatro Argot (e in tournee) con la regia di Francesco Frangipane l’innesco è proprio nel passato di uno dei tre fratelli, in una formula che lascia poche speranze, quella dell'omicidio stradale. Il presente, quello della drammaturgia, si apre con il colpevole costretto ai domiciliari dopo anni passati in carcere. È una delle due sorelle a ospitarlo, quella più giovane, lo ama senza giudizio, in maniera pura. L’altra irrompe in casa con un’idea per riaprire il processo e fare così in modo di risparmiare questi pochi anni di pena rimanenti al fratello. D’altronde è lei, avvocata di successo, ad averlo difeso, ma ora che il ragazzo è fuori dal carcere emergono rancori, diffidenze, questioni rimosse e strategie celate. La madre (Michela Martini) quando arriverà sarà contraltare serafico a discussioni incendiarie. Va detto, sono straordinari gli interpreti di questi tre fratelli e sorelle, Daniela Marra è la minore, volitiva e sincera e in grado di indagare ciò che sarebbe impossibile anche solo da pensare per una sorella, Giovanni Anzaldo che lavora bene sulle fragilità del personaggio, e poi Vanessa Scalera, in grado di tratteggiare una donna che si arroga il compito di giudicare e punire, il suo personaggio è una furia di intelligenza oscura. La regia di Frangipane tiene ben strette le corde del realismo, fin quando lo spettatore si ritrova di fronte all’indicibile rappresentato proprio dalle azioni dell’avvocata, la quale, se avesse voluto, avrebbe potuto riportare in libertà il fratello molti anni prima. Qui il rischio è quello di misurare il realismo della scena con quello dei sentimenti, che potrebbe non tenere il passo. Ma Filippo Gili con il solito talento si ferma un attimo prima del melodramma, lasciando sfumare in un abbraccio la colpa e le conseguenze. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argot. Crediti: di Filippo Gili con Vanessa Scalera, Daniela Marra, Giovanni Anzaldo e Michela Martini regia Francesco Frangipane una produzione Argot Produzioni e Teatro delle Briciole
PUPO (di Sofia Nappi)
La scoperta, l’esplorazione dello spazio tramite il corpo e del corpo tramite lo spazio, e ancora la simulazione delle possibili identità, la misura del proprio essere in mezzo agli altri, lo slancio e l’inciampo. L’ultimo lavoro di Sofia Nappi con Komoco, progetto coreutico fondato dalla coreografa insieme a Adriano Popolo Rubbio e Paolo Piancastelli, estrae dal personaggio di Pinocchio l’essenza dell’esistere in un flusso prismatico di situazioni, colori e temperature. Nel contesto di un disegno luci narrativo giocato su tagli e ombre, l’ensemble di sette danzatori abita uno spazio di esplorazione che alterna assoli a momenti corali, vuoti e pieni scanditi da un’unica energia vitale. Le stesse scelte musicali (note classiche, echi di tango, riti tribali, riverberi elettronici) raccontano un universo magmatico, gravido di possibilità e contraddizioni, guidando il gesto senza condizionarlo. Di Pinocchio si indaga l’infanzia che rivendica se stessa, l’avventura di scoprire il mondo in un’evoluzione - da pupo a uomo e viceversa - che rompe le regole del passato e del futuro, del prima e del dopo. I sette danzatori si fanno a tratti corpo unico, attraversati da energie incostanti espresse in gesti frammentati eppure fluidi, fino all’apparizione di una maschera, rivendicazione identitaria o forse vera affermazione di una metamorfosi involuta. Quando si è uomini? Quando si smette di essere marionette? Forse esistere è sempre viaggiare da una forma all’altra, un andirivieni più che un tragitto, senza punti di arrivo, solo tappe solitarie, affollate, piene di versioni variegate di noi stessi. (Sabrina Fasanella)
Visto alla sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica – Equilibrio Festival Ideazione e coreografia Sofia Nappi con i danzatori Arthur Bouilliol, Leonardo de Santis, Gregorio Dragoni, Glenda Gheller, India Guanzini, Paolo Piancastelli, Julie Vivès. Assistente alla coreografia Adriano Popolo Rubbio. Musiche Dead Combo, Jean du Voyage, Irfan, Frédéric Chopin. Sound design Ed Mars & Sofia Nappi. Luci Alessandro Caso. Costumi Judith Adam
L’ETERNO MARITO (regia Claudio Autelli)
Scorre veloce un paesaggio dal finestrino di un treno. Lo vediamo proiettato su un muro di fondo, mentre davanti si delinea a poco a poco, con una luce languida e soffusa (nel disegno di Omar Scala), la scena di un salotto borghese. Lì, l’incontro casuale tra due personaggi dostoevskijani detterà lo sviluppo narrativo, nel libero adattamento di Davide Carnevali che si immerge nella pericolosa ambiguità di certi sentimenti umani per estrarne delle tracce e distillarle con verve ironica lungo la trama. A partire da questo cesellato meccanismo di scrittura, il testo L’eterno marito dell’autore russo viene intrecciato ad alcuni elementi biografici degli attori (vividi e meschini nelle beffarde interpretazioni di Ciro Masella e Francesco Villano), ripercorrendo una stratificazione di significati, di storie, di rappresentazioni che portano lo spettatore ad abitare una dimensione sempre messa in dubbio, perché di continuo spaesamento. Francesco e Ciro danno voce ad un’irrisolta dualità: Francesco è Aleksej, l’eterno amante, Ciro è Pavel, l’eterno marito. Tra i due una costante tensione psicologica, agita dall’elemento video che nella regia di Claudio Autelli ha un affilato taglio indagatore, rivela l’infimità di ciò che è tenuto nascosto, il segreto omesso nel retro di un palco, i pensieri taciuti dietro le fattezze di un volto. Poi, lo spettro di una donna che non c’è più, il fantasma di una figlia. I personaggi, che nel dramma russo continuano a vivere in un’eterna ripetizione, vengono così scossi da queste riprese video, vibrano negli attori che li interpretano, scivolano gli uni sugli altri, fino a giungere ad una rottura: è una voce che proviene dalla platea – in un continuo sconfinamento delle barriere, della quarta parete, della storia stessa. È una voce del presente che cerca risposte per questi personaggi ancora ingabbiati nell’illusione dei loro vuoti ideali. Sono questi i modelli di riferimento da stimare? E riprendendo Dostoevskij “Siamo ancora in grado di esercitare la cura? Di essere padri, maestri, guide?” (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: da Fëdor Dostoevskij, libero adattamento Davide Carnevali, regia Claudio Autelli, con Ciro Masella e Francesco Villano, in video Sofija Zobina e Lia Fedetto, scene Maddalena Oriani, disegno luci Omar Scala, musiche originali e sound design Gianluca Agostini, costumi Margherita Platé, film-making Alberto Sansone, responsabile tecnico Emanuele Cavalcanti, assistente alla regia Valeria Fornoni, organizzazione Daniele Filosi e Dalila Sena, ufficio stampa Cristina Pileggi, produzione Teatro Franco Parenti / LAB121 / TrentoSpettacoli. Ph Francesca Ferrai
I CAMBI DI STAGIONE (regia Francesco Calogero)
Edoardo e David si trovano uniti e separati da un medesimo lutto, all'improvviso, davanti alla tomba di un assolato cimitero ebraico. Così inizia I cambi di stagione, prodotto da Massimo Puglisi per Nutrimenti Terrestri, visto al Vittorio Emanuele di Messina per la regia di Francesco Calogero, nella duplice veste di traduttore del testo. Il dramma è un libero adattamento da Mr. Halpern & Mr. Johnson, dramma televisivo scritto negli anni Ottanta da Lionel Goldstein, oggetto di un primo adattamento teatrale per il Cameri Theatre di Tel Aviv nel 1995. Sul palco del Vittorio Emanuele, il luminoso parco nel quale si svolge la vicenda è una grande cortina di schermi verdi – le pareti di una serra – sui quali si stagliano appunto Edoardo (Maurizio Marchetti) e David (Antonio Alveario). Gli interpreti agiscono con sicuro mestiere, e con fermezza caratterizzano i loro personaggi. Il primo è mite, delicato, comunque sottoposto a una certa imperscrutabile irascibilità; il secondo esplosivo, caustico, insofferente davanti alla scoperta di una moglie che non conosceva. Flo e Maria Flora non sono la stessa persona, anche se hanno vissuto nello stesso corpo. Entrambe costituiscono un individuo ambivalente i cui contorni rimangono sfuggenti a che di lei ha potuto afferrare soltanto una parte. Ma al di là del dialogo tra gli uomini, teso sapientemente tra momenti di incontro e di scontro, il dramma sembra troppo appiattito sul testo, reso in un eloquio continuo e verboso. La scena è un grande dispositivo luminescente davanti al quale gli attori appaiono in leggera controluce, e piuttosto invadente sembra il monitor sul quale l'immagine grafica è didascalica e vagamente kitsch – sarebbe bastato molto meno. Il dramma si è assestato su toni rassicuranti, televisivi: pare mancare di una riflessione più profonda sul senso del lutto e della sua elaborazione, da restituire al pubblico in un codice più contemporaneo. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Vittorio Emanuele, Messina. Crediti: da Halpern & Johnson, di Lionel Goldstein. Con Maurizio Marchetti e Antonio Alveario, con la partecipazione di Tania Luhauskaya, traduzione e adattamento Francesco Calogero, regista collaboratore Laura Giacobbe, scene Mariella Bellantone costumi Cinzia Preitano, luci Renzo Di Chio, visual artist Giovanni Bombaci, foto di scena Giuseppe Contarini, regia Francesco Calogero, produzione Maurizio Puglisi per Nutrimenti Terrestri
CONCERTO FETIDO SU QUATTRO ZAMPE (di Alice e Davide Sinigaglia)
«Una dedica a chi non grida mai, a chi non si scompone, alle famiglie ricche che fanno figli puliti e disciplinati e alla violenza composta delle persone educate». Quello di Alice e Davide Sinigaglia è uno scarabocchio su un muro, un salto su un letto appena rifatto, la pipì sul tappeto. Da una provincia odiata al centro del mondo globalizzato, un vero e proprio concerto che usa il teatro con un ghigno beffardo e irriverente. «Niente potrebbe disturbare i due artisti che stanno per esibirsi», dice Maura Teofili chiedendo comunque al pubblico di Carrozzerie Not di spegnere i cellulari prima di entrare in sala. Progetto sviluppato nell’ambito dell’edizione 2023 di Powered By REF, con radici che affondano nell’infanzia condivisa dei due, Concerto Fetido è la collisione dei loro due mondi di provenienza, la musica e il teatro, nel mood della sfrontatezza giocosa, dispettosa, istintuale di due cani che decidono di usare il linguaggio umano. La prospettiva a quattro zampe è ideale per irridere un’epoca di pose vuote, di ideali ipocriti, di risposte insignificanti a domande inutili. Il risultato è un urlo viscerale e adolescenziale, una performance fatta anche di genuine ingenuità, sulle note di sonorità rap, reggae e blues contenute anche in un progetto discografico. Sempre più la musica è alleata prescelta per una generazione che continua a scegliere il teatro, la viva presenza della parola e del corpo significante, fregandosene dei confini tra i generi ma piegandoli alla propria necessità, innervata di un’urgenza che non è più solo artistica, ma esistenziale. (Sabrina Fasanella)
Visto a Carrozzerie Not di e con Alice e Davide Sinigaglia. Luci e fonica Febe Bonini. Produzione Gli Scarti ETS Centro di produzione teatrale d’innovazione. Progetto selezionato Powered by REf 2023
UniVerse: A Dark Crystal Odyssey (di Wayne McGregor)
The Dark Crystal è un film del 1982 diretto da Jim Henson e Frank Oz , i due artisti burattinai conosciuti soprattutto per aver dato vita ai Muppets. Ma nell’opera, andata in scena all'Auditorium di Roma per il festival Equilibrio, i pupazzi animatronici e l'estetica fantasy anni ‘80 lasciano il posto ai corpi dell’ensemble diretto da Wayne McGregor che si muovono in una striscia di palco delimitata da due schermi di proiezione, uno davanti a loro, un velatino trasparente e l’altro dietro, sul fondale. Un sistema molto complesso in cui sfavillano le creazioni video di Ravi Deepres: mondi subacquei (nelle prime scene un pesce tropicale ha un’andatura tridimensionale verso il pubblico), foreste infuocate, simboli cabalistici, geroglifici, terre desolate… insomma del film di Henson rimane l’ispirazione perché qui l’idea è quella di parlare del nostro presente e del nostro pianeta. Obiettivo lodevole, ma attenzione, il rischio minestrone è dietro l’angolo e infatti i simboli si mescolano senza dare il tempo allo spettatore di acquisirli e la sensazione è quella di trovarsi di fronte a uno spettacolo-luna park che altro non riesce a fare se non tentare di stupire gli occhi con effetti mirabolanti, tutine blu che trasformano i performer in alieni, altre tutine con le ali, strani copricapi animaleschi e un costume che potrebbe rappresentare una sorta di arbusto pieno di radici. Di tanto in tanto emerge in voce off lo spoken word di Isaiah Hull, forse tra le poche cose interessanti: sue le parole sul declino del pianeta e sul prezzo da pagare in futuro per le nuove generazioni. Le musiche di Joel Cadbury tentano di tenere tutto insieme, di avvolgere lo spettacolo, ma non abbiamo il tempo di prendere un respiro e capire dove siamo. E solo nel finale la coreografia mostra i corpi in caduta, abbandona quella leziosità e quell’atletismo che per più di un’ora caratterizzano gli interpreti, sempre altissimi con le gambe, le braccia tese, le rotazioni perfette e le dita eleganti mentre tutto attorno, questo nostro mondo, sta per collassare. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Sala Petrassi dell'Auditorium Parco della Musica. Crediti: regia e coreografia: Wayne McGregor musica: Joel Cadbury film design: Ravi Deepres illuminazione: Lucy Carter costumi e copricapi: Philip Delamore, Dr. Alex Box spoken word: Isaiah Hull drammaturgia: Uzma Hameedcon
ELENA (regia di Elena Arvigo)
«Là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia / la storia umana». Su una scena arredata con trascurata eleganza, tra veleggiare di tendaggi e luci soffuse in trasparenza, tutto sembra ricoperto di polvere sottile, cenere o talco profumato e un po’ appassito che rimane sospeso nell’aria come le parole di Ghiannis Ritsos. Questo densissimo poema in forma di monologo parte da Elena di Troia per navigare senza meta nelle acque del pensiero a posteriori, nella stasi lucida della vecchiaia, nella contemplazione del vissuto con la distanza che magnifica i dettagli e smaschera l’epica. Così Elena è una donna e tutte le donne, ha duemila anni e gli occhi di una bambina, è vittima e carnefice. Arvigo si fa abitare dal verso del poeta che sgorga in lei percorrendo strade tortuose, cambiando di stato, sciogliendosi in rivoli di senso attraverso il vibrare delle sue agili corde vocali per farsi infine nebbia e avvolgere i sensi. Il suo corpo, i suoi occhi liquidi, la sua mimica chirurgica sono il fulcro della messa in scena. Ad accompagnarla è il fantasma di un’ancella, Monica Santoro: presenza intravista, complice e sospetta insieme, come lo siamo noi spettatori, inconsapevoli interlocutori di un disincantato flusso di coscienza. Persi nel vortice del ricordo, aggrappati al sapore agrodolce della sconfitta, ci sentiamo dare del tu, guardare negli occhi, chiamare alla presenza proprio quando siamo invitati ad andarcene. Dobbiamo lasciare la sala e tornare nel mondo, questo mondo, violenza che continua a ripetersi uguale a se stessa: sta a noi sbattere le palpebre e disfarci di quella polvere assuefatta e indolente che si insinua tra le ciglia e ci offusca la vista. Anche senza speranza. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Argot Studio. di Ghiannis Ritsos. Traduzione di Nicola Crocetti. Regia Elena Arvigo. Con Elena Arvigo e con la partecipazione di Monica Santoro (flauto traverso e canto). Assistente alla regia Monica Santoro. Scene e costumi Elena Arvigo. Consulenza musicale Ariel Bertoldo. Collaborazione scene Maria Alessandra Giuri. Consulenza al testo Francesco Biagetti. Una produzione Teatro OUF Off con Compagnia Elena Arvigo (Associazione SantaRita & Jack teatro)
DON GIOVANNI (L. De Liberato, A. Esposito, L. Garufo)
Patrimonio culturale alto e popolare insieme, il repertorio operistico è ricco di storie e arie vive nell’immaginario collettivo; restituirlo in chiave pop è più naturale e meno ardito di quanto si possa pensare, benché rimanga impresa sfidante trapiantare su palcoscenici off o comunque non operistici melodrammi di tale mole e complessità. In questa direzione lavorano I Tre Barba, ovvero Lorenzo de Liberato, Alessio Esposito e Lorenzo Garufo, interpreti e registi attivi in diversi progetti paralleli e riuniti qui sotto il segno della lirica: Così fan Tutte, Il Barbiere di Siviglia, Rigoletto. Quello che è diventato un vero e proprio format teatrale ha avuto come ultimo approdo il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte. Utilizzando pochissimi elementi - il libretto come copione-guida, la tecnica attoriale e alcuni semplici ed efficaci espedienti registici – i Tre Barba confezionano un viaggio completo nell’odissea di Don Giovanni, dall’incursione in casa di donna Anna fino al celebre invito a cena con il defunto commendatore, passando per le arie più note cantate a cappella con credibile resa vocale. La struttura agile dell’adattamento nasconde un lavoro sul testo (e la partitura) che si immagina notevole, con un approccio goliardico eppure sempre fedele: nella linearità della vicenda c’è spazio per innesti dichiaratamente pop che non hanno lo scopo di attualizzarne i contenuti, quanto piuttosto di togliere all’opera in sé quella rigidità che la tradizione tramanda e farne cosa viva, fatto teatrale con il quale è possibile giocare, cavalcando i recitativi, la ripetitività del verso nelle arie, l’affastellarsi dei personaggi nei concertati. La sequenza finale recupera la musica originaria per il resto assente e accompagna all’epilogo gli attori che hanno recitato fino ad allora anche l’esser cantanti: questa scelta è forse un omaggio, forse una resa, o forse è Mozart il convitato di pietra che irrompe a punire la goliardia dei tre Barba i quali, come Don Giovanni, comunque non si pentiranno. (Sabrina Fasanella)
Visto a Fortezza Est di e con I tre Barba Lorenzo De Liberato, Lorenzo Garufo, Alessio Esposito. Luci Matteo Ziglio. Produzione Fortezza Est
Teatro alla Scala: SMITH/LÉON E LIGHTFOOT/VALASTRO
Molto fumo ma anche molto arrosto. Però, quanto fumo di scena! In tutti e tre i lavori, eppure molto diversi per cronologie, stili, estetiche, presentati alla Scala di Milano, nel segno del contemporaneo. Sarà forse un diffuso bisogno di atmosfera; una impaurita carenza d’ambiente, chissà: fumo ovunque, sospeso, sempre. Il primo, Reveal (2015) dell’americano Garreth Smith, è il lavoro più debole. Un inutile dispiego di brutte luci in stile musical, e l’uso di ingressi laterali a schiera ma senza alcuna consapevolezza formale dei 12 interpreti, portano in scena una coreografia dal segno morbido ma superficiale, ricolma di spettacolosi lift di gruppo in stile ‘corpo sacrificale’ (d’ambo i sessi), inefficaci. Ma è il rapporto mancato con la musica di Philip Glass, a cui la coreografia espressamente si ispirerebbe (sic!), che impedisce qui a qualche idea di sopravanzare, e rivelare alcunché. Di altissima qualità e cura del movimento, invece, è il quartetto di Sol Léon e Paul Lightfoot, Skew-Whiff (1996, Sghembo), su musiche di Rossini. Il gioco in scena è estremamente fisico, per scardinare ogni sopruso egotico sul corpo dell’altro. Prima con un irresistibile duo, Darius Gramada e Rinaldo Venuti, anche grottesco, in controluce eppure raffinatissimo; violento e sostenuto, ma anche intelligente e ben centrato affinché le storture comiche dei corpi esplodano (pari solo al Rossini insuperato di Bigonzetti); poi, nell’assolo mirabile di Navrin Turnbull che si completa tra i vezzi di Maria Celeste Losa, qui con una verve e una vena d’umore credo inedita. Infine, il terzo, assai atteso e impegnativo lavoro di Simone Valastro, Memento (musiche di Max Richter e David Lang). In uno spazio che si estende a salita sul fondo, e a cascata a proscenio nella buca d’orchestra, l’intero corpo di ballo alterna ben orchestrate pattuglie di movimento, con eccellenti assoli e sequenze a numeri più ristretti È un apologo della polvere che siamo (vi allude il titolo) come emblema della vita d’artista: ma i movimenti nello spazio alludono con semplicità a cicli continui di nascita e rinascita. Il successo è garantito: tutto è bello e funziona, anche senza le forze del caos o del disordine. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro alla Scala SMITH/LEÓN E LIGHTFOOT/VALASTRO Garrett Smith, Sol León & Paul Lightfoot, Simone ValastroDal 7 al 18 febbraio 2024 1 ora e 41 minuti circa incluso intervallo Corpo di Ballo del Teatro alla Scala Musica su base registrata. Crediti completi
DUE SCHIACCIANOCI (di Alice Bertini)
I due schiaccianoci qui non sono i protagonisti del racconto di Hoffman o del celebre balletto tardo romantico musicato da Čajkovskij, sono comunque due soldati e la loro missione è quella di difendere la porta di ingresso delle stanze della Regina. Hanno un’uniforme blu, molto semplice, quasi una livrea che potrebbe ricordare due portieri di lusso; un copricapo cilindrico alla francese con visiera e qualche ornamento ci riportano a una regalità da diciannovesimo secolo. Dietro di loro la porta, disegnata con una certa grazia, ci ricorda l’altra realtà nascosta, quella della Regina Società. Nello spettacolo scritto e diretto dalla giovane Alice Bertini (alla regia anche Carlotta Solidea) i due soldati sono però il contrario di quello che ci si aspetterebbe: sono due ragionatori, un po’ clown e un po’ filosofi, appassionati di musica jazz, passano il tempo a riflettere sullo stato delle cose e sulla relazione che intercorre tra il popolo e il potere. Arriveranno alla conclusione che la Regina deve essere fatta fuori, ci vuole una rivoluzione. Ma come? Sono due maschere e dunque il loro orizzonte di analisi politica e sociale è oltre la Storia, fortunati loro che possono pensare alla rivoluzione senza i sensi di colpa della pragmatica quotidiana, senza i fallimenti stampati sui libri. Ma la sconfitta arriverà a mordere i sogni quando uno dei due si innamorerà proprio della Regina. Ѐ possibile far mutare di segno al potere dall’interno? Cosa accade se invece di spazzare via chi sta al potere ci si innamora del potere stesso? Il primo spettacolo della rassegna Expo Teatro italiano Contemporaneo al Teatro Belli è un piccolo ma intelligente apologo per adult* (e ragazz*, il circuito del teatro per le nuove generazioni gioverebbe di creazioni come questa), con due giovani attori (Federico Gatti e Michele Breda) straordinari per precisione e generosità. Tema e ambientazione non sono nuovi, ma Bertini dimostra una scrittura da tenere d’occhio per eleganza e ritmo. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Belli, Expo Teatro italiano Contemporaneo. Crediti: Compagnia Poveri Comuni Mortali, di Alice Bertini con Federico Gatti e Michele Breda regia di Alice Bertini e Carlotta Solidea Aronica costumi Annarita Romeo disegno luci Marco D’Amelio scene Leonardo Barroccu cappelli Marilena Fantozzi organizzazione Valeria Iovino comunicazione e social Eduardo Rinaldi
LE SERVE (regia di Veronica Cruciani)
Fulgida dimostrazione della capacità drammaturgica di Jean Genet, Le Serve (1946) è una macchina infallibile che, come spesso accade nella scrittura del “Santo” preferito da Sartre, attinge alla vita reale per caricare lingua, linguaggio e immaginario di crudeltà ferina e spregiudicata. Il punto di partenza è un fatto di sangue, il brutale duplice omicidio di una ricca signora e sua figlia a opera delle due governanti, sorelle. In una sorta di true crime rivisitato, Genet tramuta la vicenda in un esperimento complesso sul teatro dei ruoli: Claire e Solange giocano con grande crudeltà a impersonare la Signora, ne progettano l’assassinio ma su di loro vinceranno la schiavitù sociale, la desolante avidità di sentimenti innescata dalla povertà e l’autodistruzione. La traduzione di Monica Capuani restituisce al testo un’orecchiabilità contemporanea; l’adattamento e la regia di Veronica Cruciani comandano ruggiti a volume altissimo che scagliano insulti e imprecazioni da personaggio a personaggio, con la zuccherosa cantilena della Signora a far da contraltare tonale (giustamente irritante la macchietta di Eva Robin’s). Suggestiva, razionale, virata in toni freddi da luci e colori d’abiti è la scena, composta di flycase che recano scritte didascalie emotive, si chiudono a far da letto o si schiudono rivelando armadi e tolette di una casa dalla gelida apparenza lunare. Sul tappeto sonoro che spezza la frontalità dei quadri con esplosioni di rock acido, la fisicità nevrotica e imponente e la virtuosa coloritura vocale delle sorelle circondano i ritmi e i gesti melliflui della Signora: spicca di energia e precisione la Solange di Matilde Vigna, che trova un’ottima sponda nell’inquietante Claire di Beatrice Vecchione. Tuttavia la direzione delle attrici sembra soffrire di un volume eccessivo e di alcuni pattern piano/forte che, cercando l’andamento ipnotico, incontrano un grado di monotonia. L’operazione di recupero di questo raffinato gioco al massacro è forte di un’evidente intenzione di cura, che finisce per indebolire in parte il declinarsi su aspetti politico-sociali contemporanei (sempre così cara a Cruciani) di una delle più potenti rappresentazioni del male rese da questo grande autore. (Sergio Lo Gatto)
Visto al Teatro Arena del Sole di Bologna, febbraio 2024. LE SERVE di Jean Genet; con Eva Robin’s, Beatrice Vecchione, Matilde Vigna; regia Veronica Cruciani; traduzione Monica Capuani; adattamento Veronica Cruciani; scene Paola Villani; costumi Erika Carretta; drammaturgia sonora John Cascone; disegno luci Théo Longuemare
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Al festival bolognese Gender Bender molte sono state le proposte di danza, tra le quali sono emerse con forza il corpo resistente di Claudia...