FRAGILERESISTENTE (il turno di notte)
Fragileresistente è il titolo di questo spettacolo. Un contrasto efficace, ossimoro di aggettivi contrapposti, per definire la condizione di più di una generazione al cospetto della società contemporanea. Silvia Pallotti e Tommaso Russi della compagnia il turno di notte, sul palco del Centrale Preneste a Roma, esprimono così tutto il turbamento determinato dal caos in cui bisogna compiere delle scelte, misurare il proprio presente con l’ingombro del passato e l’incertezza del futuro; in una parola, insomma, diventare adulti. A dispetto di tutto. I due giovani artisti, riuniti dalla vocazione per l’autorialità della scena, pur alla ricerca di un linguaggio più solido mostrano segni di ciò che si farà pungente; consapevoli della varietà dei meccanismi teatrali, danno al lavoro una struttura frammentaria, volutamente dividono segmenti di racconto che altri elementi tendono ad arricchire, siano essi l’ironia o il lavoro al microfono con la loop station, oppure l’interazione con il pubblico che partecipa attivamente alle sequenze costruttive. La scena ha pochi elementi: c’è all’inizio un divano al centro ricoperto di plastica, come si usa per preservare i mobili durante una ristrutturazione e dunque inutilizzabile, eppure quel divano è l’unico punto di stabilità, così ci si abbarbicano come privi di forze per alzarsi e andare nel mondo, che non gli piace. Sul fondo di queste intenzioni c’è la storia di un padre e di un figlio (che mantengono anche come personaggi l’articolo indeterminativo), di una incomunicabilità sovrana in cui si specchia, come ne fosse il paradigma, quella della società; l’apatia depressiva del figlio sconvolge il padre che però non può farci nulla, la difficile convergenza di idee, umori, motivazioni, anche quando assieme saranno in piazza per il 25 aprile e il padre cercherà il figlio scomparso, provoca una distanza sistematica che mescola insieme la delusione della militanza politica e la necessità di recuperarla: forse è questo, più di tutto, allo stesso tempo fragile e resistente. (Simone Nebbia)
Visto al Centrale Preneste. Credits: di Il turno di notte; con Silvia Pallotti e Tommaso Russi; consulenza al suono Jacopo Malusardi; scene Fabio Pallotti e Silvia Pallotti; produzione il turno di notte
CIARLATANI (di Pablo Remòn)
Chi sono i ciarlatani? Quelli che parlano all’infinito mossi più dalla vacuità delle affermazioni che dalla concretezza, quelli che emettono unicamente suoni e pur le chiamano parole. E Ciarlatani – ma la traduzione forse più esplicita è parsa “impostori” – sono quelli di uno spettacolo scritto e diretto dal drammaturgo castigliano Pablo Remòn, in tournée in Italia con la traduzione di Davide Carnevali, per intuizione e convinzione di Silvio Orlando, tra i protagonisti sulla scena. Alcune vicende che si intrecciano sul palco sembrano infine confluire in un comune, non pacifico, delta di fiume: Anna Velasco è una giovane attrice, presto delusa dalla recitazione che ha scelto solo per misurarsi all’ombra del proprio padre regista di culto; Diego è un regista invece commerciale, che vive una crisi personale meditata in un confronto proprio con la stessa ombra di Velasco padre. Entrambe le storie, cui si intreccia anche quella metateatrale del drammaturgo che difende la propria opera di plagio, fluttuano tra passato e presente ed esplicitano un comune denominatore: l’arte è una condanna, è fatta di rinunce e sacrifici, di scelte ogni volta da rifare dall’inizio, senza poter contare sulla strada compiuta, conta solo quella da fare. In una scenografia componibile che via via si trasforma da interno casalingo a camerino di teatro, da ospedale a bar notturno dove scambiare paure e segreti, con Orlando gli attori (Francesca Botti e Francesco Brandi) danno vita a molti personaggi, attraverso una qualità mimetica minima eppure rilevante, disegnando così lo sfondo su cui può articolarsi la storia di Anna, Blu Yoshimi secondo locandina, ma che abbiamo visto interpretare a una sorprendente attrice di nome Nina Pons. Impostori, dunque, questi ciarlatani. Perché non sono nel loro posto, hanno confuso i loro sogni con i sogni altrui, sono mossi da motivazioni prive di solidità. E dunque il rapporto con figure che la considerazione ha reso statuarie genera frustrazione, riduce la gioia dell’arte, talvolta, al passo lento della malinconia. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Argentina. Crediti: scritto e diretto da Pablo Remón; traduzione italiana di Davide Carnevali da Los Farsantes; con Francesca Botti, Francesco Brandi, Silvio Orlando, Blu Yoshimi (Nina Pons)
ALDST – Al limite dello sputtanamento totale (di Viola Marietti)
In un’intervista Viola Marietti definisce la protagonista del suo monologo una «wannabe Sarah Kane». Scivolando oltre la grandezza letteraria, si avverte, in questa aspirazione, un’amarezza sghemba, il dolore di una generazione (i venti-trentenni) alla quale sembra essere stata sottratta anche la grandezza tragica del dolore. C’entra un po’ pure David Foster Wallace quando diagnostica, negli anni ’90, la degenerazione della categoria interpretativa (ma anche esistenziale) dell’ironia, la sua tirannide. Se tutto può essere oggetto di (auto)ironia, se persino l’affondo dentro se stessi è “ridicolo” (e anche, diciamocelo, già visto), cosa resta? Tutto è uguale a tutto. E infatti la giovane, sola sul palco, confessa: «Guardo con la stessa attenzione Herzog e Walt Disney e credo a entrambi nello stesso modo». Poi evoca una galleria di personaggi, li interpreta con maestria, stilizzandone un tratto ciascuno: il coinquilino francese, che ha scelto la via della razionalità, lo psicanalista, le sorelle, il padre appassionato di storia e mezzo sordo, la madre, che invece il dramma se lo concede eccome. C’è anche un’altra generazione – quella della borghesia di sinistra, dei «presi bene con l’URSS, ma prima che sgamassero i gulag» – che ha consegnato, ai figli, solo i detriti del sogno sessantottino, il suo anacronismo, e un pianeta al collasso. Tutto questo è già dato di fatto, l’ironia ci seduce, certo, ma è un’arma spuntata (zero catarsi, zero denuncia) o, peggio ancora, partecipa al sistema che deride, segna la nostra rassegnazione, dunque la nostra implicazione. Eppure, nel frattempo, il disagio psichico giovanile registra numeri record e risale fino ai territori della pre-adolescenza. Di nuovo: cosa (ci) resta? Viola Marietti, secondo me, lo ha capito: prendersi in carico il proprio languore e il proprio tormento, dire benissimo quel che si ha da dire, con mestiere e con cuore, con il coraggio di non curarsi di tutti questi vicoli ciechi. E, alla fine, il candore. Di nuovo Foster Wallace: «La verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te».(Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi, Crediti: con Viola Marietti; regia di Matteo Gatta e Viola Marietti; drammaturgia di Viola Marietti; dramaturg/supervisore artistico Gabriele Gerets Albanese; produzione Tristeza Ensemble, Mismaonda.
HYBRIDUS (Cornelia Dance Company)
Nell’intensa programmazione del Festival Danza in Rete OFF del Comunale di Vicenza, la partenopea Cornelia Dance Company ha presentato un trittico di lavori tutti ispirati al repertorio dei Ballets Russes. Una serata piena di nuove idee, di accuratezza, e pure di feroce ironia. Sul palco grande, ma con il pubblico lungo la linea di fondo, quindi con la maestosa platea di fronte, a mantenere vasto lo sfondo. Un bel modo di rileggere, in un’ottica metavisiva, il passato illustre attraverso la figura dell’ibrido (Hybridus è infatti il titolo comprensivo della serata). Un ritorno della Storia sul palco del teatro del Mondo per niente illustrativo né, tantomeno, regressivo, bensì generativo perché capace di vera trasformazione: l’obiettivo di questo eterogeneo ma concorde e vitalissimo gruppo è quello di aprire le interpretazioni, disseminare nuove visioni, rielaborare rompendole le simmetrie del tempo e della memoria. Sembrano dire: v’è altro a cui pensare, a cui fare spazio, il tempo di ciò che è stato, ora, è nostro. Su un tappeto esagonale rosso porpora un corpo femminile potenziato di protesi (Eleonora Greco) si avvicina tra le note stravinskjane di Petrušhka contrastato da orizzonti sonori elettronici e ritmici capaci di dare tempo e fare spazio alla deformità. Questa «donna contemporanea deformata» come un Petrušhka nuovamente oppress* e sopraffatt* è di Nicolas Grimaldi Capitello. Mentre Divine Beasts di Maša Kolar prova a fare i conti col Bolero di Ravel (disturbato con mille altri suoni) con un quartetto che da terra fa emergere (in una danza decisa e sempre corale) figure mitiche «ibride e chimeriche» capaci di ritrovare nel divino del corpo umano la creatura bestiale che chiede libertà e presenza (non redenzione). Infine, il bellissimo Sa Rose di Nyko Piscopo con una straordinaria diciannovenne Marta Ledeman, che fa gridare a tutt* a voce alta: «vagina!», che è poi il vero tema dello Spectre de la rose che qui si riscrive. È uno sfrontato e delicatissimo inno all’autoerotismo femminile, alla dimensione onirica del desiderio, al fantasma sempre perturbante del doppio (a proposito: l’orgasmo ha la voce di Otis Redding). (Stefano Tomassini)
Visto al teatro Comunale di Vicenza Ispirato a Petruška di Igor Stravinskij coreografia Nicolas Grimaldi Capitello danzatrice Eleonora Greco assistente Nyko Piscopo music designer Pietro Santangelo costume designer Tiziana Barbaranelli scenografia Cosimo De Luca produzione Cornelia coproduzione Teatro Comunale Città di Vicenza Supporto / Divadlo Studio Tanca creazione realizzata con il supporto del progetto ABITARE – di Equilibrio Dinamico, Comune di Andria, Teatro Pubblico Pugliese, Festival Castel dei Mondi. [Crediti completi]
FROM ENGLAND WITH LOVE (Hofesh Shechter)
Un po’ delude il nuovo lavoro di Hofesh Shechter per la sua compagnia giovane, Shechter II: From England with love, visto al Teatro Comunale di Vicenza. Sia perché la composizione non trova una più vera linea di realizzazione e sviluppo dell’idea (l’Inghilterra contemporanea vista da un gruppo di studenti in divisa stile boarding shool); e sia perché questo consueto dispiego super tecnologico di luci, sempre aggressive ed esposte, in questo lavoro finiscono per essere parecchio improduttive. Né ombre, né pieghe, nessuna intimità tantomeno profondità emergono in questa sorta di assalto (più o meno) continuo che produce (e consuma) molta tensione. Non oltre però l’effetto vetrina. L’ode programmata a un paese che non solo lo ha accolto ma anche ne ha sostenuto la fortuna, si impenna soltanto nel finale, in cui il gruppo di otto interpreti sembra perdere il centro che li aggrega, si disperde lentamente e spaurito nello spazio, senza mèta, senza scopo, senza unità, finalmente esita in un inattivo contrappunto. Ed è questa oggi senz’altro la cartolina più intimamente fedele delle aporie e delle difficoltà sociali di quest’isola. Il movimento di Shechter, pur in un ristrettissimo trito-e-ritrito vocabolario, è sempre fascinoso, sempre demandato alla percezione ritmica della scena bombardata alternativamente da partiture concertanti anglosassoni (Edward Elgar, Tomas Talis, Henry Purcell e William H. Monk) e tirate rock del coreografo/musicista stesso. Nulla di nuovo, nulla di sorprendente: tutto però è un po’ meno necessario, per nulla inventivo, tutto visto-e-rivisto; una immaginazione, in tanto dispiego di kilowatt, ridotta quasi al lumicino. La semplicità ostentata e sorretta soltanto dagli ottimi performer può essere invece il punto di partenza per una più franca riflessione su quello che la danza può dire e fare per superare le retoriche delle personali autobiografie. Il mondo è in fiamme, non servono cartoline, tantomeno lettere d’addio. (Stefano Tomassini)
Visto al teatro Comunale di Vicenza choreography and music Hofesh Shechter light design Tom Visser costume design Hofesh Shechter additional music composizioni ingkesi di Edward Elgar, Tomas Talis, Henry Purcell & William H. Monk production Hofesh Shechter Company co-commissioned Château Rouge, scène conventionnée – Annemasse, Espace 1789, scène conventionnée danse - Saint-Ouen, Scène nationale de Bourg-en-Bresse, Düsseldorf Festival!, Escales Danse with the support of Théâtre de la Ville Paris, Fondazione I Teatri Reggio Emilia and a production residency at DanceEast, Ipswich
IGRA (Kor’sia)
«Non esistono poesie finite, solo poesie abbandonate». Paul Valery annota così, a proposito della natura della poesia, e del limite. A questo assunto si ispira il pensiero coreografico di Mattia Russo e Antonio De Rosa: sulla scena si compone un’idea di passato come entità avviluppante, che orienta le forme e la nozione di bellezza. Igra, in russo, significa «gioco» e rinvia a Jeux di Nijinskji, un balletto in un solo atto, su un poème dansé di Debussy, che avrebbe dovuto essere «un’apologia plastica dell’uomo del 1913». L’azione – la ricerca di una pallina da tennis perduta in un parco – si svolge in un’atmosfera crepuscolare che, alla comparsa di due fanciulle, sfuma nel jeux amoureux. Russo e De Rosa elaborano e moltiplicano l’onirismo in una sequenza di quadri, ne riprendono il tratto stilizzato e ginnico, immergendolo in un ambiente soffuso, scandito dalle geometrie del campo da tennis (sedute in plastica, rete che taglia il palco), in un paesaggio sonoro che, alla sinfonia, coniuga una psichedelia leggera, pochi bassi e rintocchi, suoni d’ambiente che sono già “archivio” (le celebri urla di Maria Sharapova, applausi, il suono elastico dei rimbalzi) e da un costante cinguettio lontano. C’è una qualità opalescente, nella visione (velata da una membrana in proscenio) e nel suono, alla quale si oppone il prodigio nitido dei corpi, la perfezione atletica e struggente del movimento, portato ai propri vertici, di precisione tecnica o di estaticità tribale. È proprio alla superficie estatica e muta, al mistero dell’apollineo (più profondo e sapienziale di quello del dionisiaco) che, infine, la partitura rinviene. Il lirismo di Eros appare senza dirompere, cristallizzato in un perimetro, esaminabile attraverso il lessico della zoologia: una voce fuori campo riconduce le gestualità degli interpreti – fluidissime, combinatorie – al sexual behaviour delle scimmie bonobo. La «nobile semplicità e quieta grandezza» neoclassica sorveglia il confine, totemica, in forma di scultura marmorea. L’enigma eterno, comune a ogni epoca, è quello dell’imitazione come trascendenza. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi, Crediti: direzione Mattia Russo e Antonio De Rosa; coreografia Mattia Russo e Antonio De Rosa in collaborazione con gli interpreti; interpretazione Edoardo Brovardi, Benoît Couchot, Angela Demattè, Antonio de Rosa, Helena Olmedo Duynslaeger, Giulia Russo e Alberto Terribile; ambiente sonoro Da Rocha; assistenti alla drammaturgia e consulenza artistica Agnès López-Río e Gaia Clotilde Chernetich
DAMMI UN ATTIMO (di Mariasilvia Greco e Francesco Aiello)
Francesco (Francesco Aiello) e Silvia (Mariasilvia Greco) sono una coppia di trentenni alle prese con le scelte e i cambiamenti che si suppone debbano arrivare alla loro età: il lavoro fisso, quando il lavoro c’è, e un figlio. Lui un figlio lo vorrebbe anche subito, visto che ha firmato il contratto a tempo determinato, e pure lei, un giorno, forse, chissà. Entrambi accolgono le fughe giornaliere di Maria (Elvira Scorza), sorella di Francesco, che esce di casa per allontanarsi dal marito distante e dal figlio non troppo desiderato. Silvia scopre di avere un ritardo e capisce di non volere un bambino. Forse non è nemmeno in grado di crescerne uno. Per quanto i tre abbiano una relazione vivace, che li porta a continue discussioni, in realtà conducono esistenze solitarie, ognuno com’è nei propri problemi. Si isolano accovacciati in scatole di plastica, lontani dalla ribalta che li espone nelle giustificazioni per ogni decisione presa o nei pensieri difficili da comunicare. Al centro della scena è sospeso un fornetto dentro cui è stato messo a cuocere del pane: al termine del tempo necessario alla completa cottura, ogni conflitto dovrà essere sciolto. Ogni personaggio ha una e una sola specifica funzione, e anche l’accenno a una storia personale ha un valore solo in quanto funzionale all’andamento della narrazione, per cui la relazione con l’altro non può essere altro che nel conflitto, che deve necessariamente portare a una conclusione pacifica. Forse è proprio questa troppo netta linearità a precludere complessità al lavoro, che si ritrova così a uno stato di bozza a metà strada tra un dramma borghese e una commedia romantica. A questo stato di scrittura, ne risente la scelta di soluzioni che dimostrano poca inventiva e incisività, e ne risente anche la resa attoriale che risulta spesso sopra le righe, per quanto non manchino felicissimi guizzi di abilità come quelli di Mariasilvia Greco. Che sia arrivato il tempo di inventarsi qualcosa di nuovo per raccontare i trentenni? (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Elicantropo, Crediti: Drammaturgia e regia Mariasilvia Greco e Francesco Aiello; Con Francesco Aiello, Mariasilvia Greco, Elvira Scorza; Produzione Teatro Rossosimona/Teatro del Carro MigraMenti Spac Badolato CZ/ ScenaVerticale-Residenze artistiche nei territori
GO FIGURE (di Sharon Fridman)
Shmuel Dvir Cohen attraversa lentamente lo spazio, da sinistra a destra, la scena del teatro Palladium è nera e vuota, ma densa di fumo e delle musiche originali di Noem Helfer. Le luci, poste anche sullo sfondo in un set dal potente effetto, disegnano i corpi, fanno sì che quello di Cohen si stagli nella nebbia. È un viaggio epico il suo, a cavallo di un monopattino elettrico con un un sedile, di quelli per persone con mobilità ridotta. Ma bastano pochi secondi per capire che l’obiettivo del performer è quello di spostare ad ogni metro il confine della difficoltà: il piccolo mezzo di trasporto continua indefesso a muoversi, disegnando un cerchio in scena mentre Cohen si impegna in lente posizioni acrobatiche. Un cambio di luci e di atmosfera mostrerà, al termine di questo prologo in assolo, il corpo del secondo performer, Tomer Navot, anche questo dentro una tutina blu, accasciato sul pavimento: forse ha appena ritrovato il proprio doppio. Ora il primo può scendere dal monopattino e inforcare le due stampelle agganciate dietro al sedile, anche qui c’è qualcosa di epico e cavalleresco. È poesia e forza fisica, equilibrio e leggerezza, potenza e precisione, quella studiata da Sharon Fridman per i corpi dei due artisti, è una relazione coreografata senza che emerga un piano di subalternità di uno rispetto all’altro. In uno dei momenti più suggestivi Navot si posa sulle spalle di Cohen, apre le braccia ed è come se spiccasse il volo. Ma anche nelle posizioni più complesse, tra Contact e abilità quasi circensi, la ricerca tende a un poetico punto di commozione in cui la realtà si sospende. È stato il corpo non conforme di Shmuel a ispirare il lavoro del quarantenne coreografo israeliano: «[...] mi ha proposto nuove forme e nuovi modi di creare architettura da un corpo che funziona in modo diverso dal mio. In questa creazione il mio obiettivo era creare bellezza mediante logiche a me sconosciute, cercando in un altro corpo un’opportunità per un nuovo linguaggio». (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Palladium, nella stagione di danza Orbita Crediti: Direzione e coreografia Sharon Fridman Assistente alla direzione e Production Manager Tamar Mayzlish Con Shmuel Dvir Cohen, Tomer Navot Musiche originali Noem Helfer Light Design Yaron Abulafia e Sharon Fridman Costumi Miki Avni Management Lola Ortiz de Lanzagorta (New Dance Management) Durata 50'
MIRLITONS (di Aymeric Hainaux, François Chaignaud)
“Un concerto, una battaglia, un rituale”. Così si legge nelle note di sala quando ci si reca a vedere lo spettacolo Mirlitons nato dalla sinergia di due forti personalità artistiche come il musicista beatboxer Aymeric Hainaux e del ballerino – maestro del crossdressing – François Chaignaud. Un incontro dettato da una condivisione di ricerca poetica, nel tentativo di “trovare un corpo nel suono e nel movimento”. E di questo si tratta. Al centro della sala una pedana quadrata è il fulcro spaziale e visivo: Chaignaud vi gira attorno e ne modula le marginalità, in una sorta di moto di trascinamento, per instaurare una relazione con il musicista. Relazione che è al tempo stesso motore di attivazione degli spazi e principio di quel riverbero sonoro che vuole abitare i corpi per scivolarvi sopra, penetrarvi in un sussulto e uscire via, nell’ansimo di un respiro, nel calpestio dei tacchi sbattuti a ritmo per terra. Qui, la partitura coreografica di Chaignaud è intensa, viscerale, e affonda nelle sonorità organiche di Hainaux, giocate sui respiri di una vocalità convulsa ma controllata. E l’energia vitale che ne scaturisce si fa inizialmente calamita, per il suo potere magnetico, per la sinergia dei corpi che si intrecciano e collidono all’interno di un rituale condiviso; poi si fa gioco e, nel gioco, trova il suo apice massimo, lasciando gli artisti agire quella zona liminale tra provocazione e trance, tra spiritualità e consunzione. Il disegno luci di Marinette Buchy ne asseconda via via le fasi, per creare un eco brumoso alla potenza acustica di Hainaux, performata anche dai tintinnii delle vesti, e lasciata sospesa nell’aria come unica, residuale particella pulviscolare. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: idea e interpretazione: Aymeric Hainaux, François Chaignaud collaborazione artistica: Sarah Chaumette design dei costumi: Sari Brunel light conception: Marinette Buchy responsabile tecnico: Marinette Buchy, Anthony Merlaud operatori suono: Jean-Louis Waflart, Patrick Faubert produzione: Mandorle productions (Garance Roggero, Jeanne Lefèvre, Emma Forster) distribuzione internazionale: APROPIC (Line Rousseau, Marion Gauvent)
GRANDI NUMERI (di e con Lorenzo Maragoni)
All’indomani dell’approvazione dell’AI Act da parte del Parlamento Europeo e della volontà della Presidente Meloni di investire più di un miliardo e mezzo sull’Intelligenza Artificiale, lo spettacolo, o meglio, il progetto, che è anche un libro, di Lorenzo Maragoni dal titolo Grandi numeri si incunea perfettamente nell’attualità. A Carrozzerie Not, il debutto romano sembra quasi una festa, tra chi si ritrova, chi si conosce, e tra chi già conosce Maragoni per cui la platea sembra addirittura una curva da tifo. L’autore, attore, poeta e laureato in statistica lo sa e con questa fiducia ci gioca. Il primo gesto è proprio quello di offrire dei Cookies, ben accetti da chi, alle 21 di sera, è a teatro senza aver cenato prima. Con la scaltrezza furbesca e accattivante della slam poetry, il pubblico partecipa, risponde alle domande, si fa quindi conoscere e si concede, trattando con l’attore uno scambio di informazioni e ricordi; davvero epifanica la carrellata delle Top Hits anni Novanta Duemila dalle Destiny’s Child ai Green Day. La consapevolezza rende questa trattativa palese e non subdola ma l’acutezza che soggiace a questo entertainment fa emergere l’annosa questione della profilazione dei gusti e delle abitudini che delineano i contorni della collettività composta da diverse singolarità. Grandi Numeri si focalizza sul valore di questi dati, quotidianamente ceduti in cambio di servizi gratuiti nell’etere, che sono rappresentazione della realtà nella quale viviamo, una realtà certo parziale perché comunque determinata da logiche di potere e sovranità economico finanziaria, per cui la sensibilità delle analisi dipende, soprattutto, dalle domande, da chi e da come sono poste e a chi per reperire determinate informazioni. Come viviamo? Come amiamo e come ci lasciamo? Quindi, chi siamo? Un motivetto allegro, quanto perturbante, suonato da Maragoni con l’ukulele ci ammonisce: se internet ci conosce meglio di noi, che fine fa allora quel margine di aleatorietà dell’esistente?(Lucia Medri)
Visto a Carrozzerie Not: musiche originali e sound design Giovanni Frisona, assistente alla drammaturgia e alla regia Lucia Raffaella Mariani, luci Massimo Galardini, coordinamento tecnico dell’allestimento Marco Serafino Cecchi, assistente all’allestimento Giulia Giardi, organizzatore di compagnia Daniele Filosi, cura della produzione Francesca Bettalli e Camilla Borraccino, ufficio stampa Cristina Roncucci, comunicazione Francesco Marini, foto e videodocumentazione Davide Santinello, produzione Teatro Metastasio di Prato/TrentoSpettacoli, con il sostegno di Fondazione Caritro/Provincia Autonoma di Trento
P COME PENELOPE (di e con Paola Fresa)
Penelope ha paura dell’acqua, ma il costume lo indossa lo stesso e prova a tuffarsi, quel salto dall’odore del cloro, tra la ceramica delle mattonelle da piscina. Un salto che racchiude una vita, la sua, del figlio Telemaco, del marito Ulisse, quello delle lettere concluse con «PS: saluta la mamma». E la mamma è lei, «Penelope: anatroccola» come si definisce con una didascalia sullo sfondo, nella prima scena, a ricordare la sua goffaggine bambina rispetto alla bellezza già donna di Elena. Paola Fresa porta sul palco del Quarticciolo durante il weekend della giornata internazionale dei diritti della donna, un monologo che è una riscrittura contemporanea del personaggio omerico, che si aggiunge alle numerose attualizzazioni del mito. Ma è un mito? Seppur con una drammaturgia troppo letteraria a tratti, e poco scenica in altri, soprattutto quando i soliloqui del personaggio si fanno più riflessivi e densi; Fresa conduce Penelope in una sorta di percorso di alleggerimento di quell’aura leggendaria. La scena è scarna, con pochi oggetti: alcune sedie, un orsacchiotto e una Barbie. Simboli di famiglia, l’orsacchiotto di Telemaco chiamato “Cazzarola”, la Barbie vestita come Cenerentola a ricordare un’esistenza che fiaba non è, e che in fin dei conti nessuna vorrebbe. Fresa ci avvicina a Penelope con semplicità, una chiacchierata, al punto che ci porta con lei alla partita di calcetto del figlio, a quando viene picchiato, e ci ritroviamo poi sul letto della sua cameretta il giorno che decide di andarsene di casa lasciandola, di nuovo, sola. Ri-conosciamo Penelope scoprendo, con genuinità, il suo punto di vista su se stessa oggi ma sempre in relazione agli uomini della sua vita, il marito, il figlio e anche il padre. Forse avremmo voluto sapere di più di lei, starle vicino più a lungo nel finale, su quel bordo piscina, ad aspettare, a vivere la trepidazione per quel salto, solo suo stavolta, veramente di nessun altro; sarebbe stato un bellissimo inizio piuttosto che una conclusione. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo: di e con Paola Fresa, in collaborazione con Christian Di Domenico, supervisione registica Emiliano Bronzino, scene e costumi Federica Parolini, luci Paolo Casati, regista assistente Ornella Matranga, una produzione Accademia Perduta-Romagna Teatri Fondazione TRG di Torino, in collaborazione con Officina Corvetto Festival,TRAC (Teatri di Residenza Artistica Contemporanea), KanterStrasse, Dialoghi_Residenze delle arti performative a Villa Manin, a cura del CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia
LA STANZA DI AGNESE (di Sara Bevilacqua)
Sapere quasi nulla di uno spettacolo, se non il tema centrale, in questo caso la storia di Paolo Borsellino, senza preoccuparsi, o avere il tempo, di leggere sinossi e note di regia, non avere nessuna voglia di uscire di casa, in una serata piovosa di lunedì - che sarebbe il giorno di riposo del teatro - e poi all’improvviso rimanere sopraffatti dalla sorpresa. Fissare quella figura seduta sulla destra del palcoscenico stretta in un vestito grigio, sobriamente elegante, come il taglio di capelli. Ma non basta un vestito e una parrucca, per dare voce ad Agnese Piraino Borsellino ci vuole quella luce fiera negli occhi: Sara Bevilacqua trova una cifra commovente per tecnica e sentimento, tra l’iperrealismo della prossemica, dei toni, delle cadenze e la mimica teatralità di alcuni gesti, soprattutto nei movimenti delle mani. Gli incontri con i familiari - nella replica del lunedì sera al Sala Umberto era presente anche Lucia Borsellino, una dei figli -, con i magistrati vicini a Paolo, lo studio dei documenti e dei libri sul caso, fino ad arrivare alla drammaturgia finale di Osvaldo Capraro, un lavoro di preparazione durato mesi. L’idea è quella di ripercorrere la figura, la vita di Paolo Borsellino attraverso la voce della moglie in un monologo che procede per salti in avanti e indietro e che comincia dalla fine, anzi quasi vent'anni dopo la fine « “Via D'Amelio è stata da colpo di Stato”/Così mi disse il Presidente Cossiga e mise giù./ Da colpo di Stato. Cosa aveva voluto dire? E perché dirmelo diciotto anni dopo». Lo spettacolo, presentato per la prima volta a Maggio all’Infanzia, è adatto a tutti, forse proprio per la capacità di tenere insieme la commozione di una famiglia con i fatti storici. Risuona come un sasso nel vuoto la solitudine che precede la strage di via D’Amelio, una sconfitta per lo Stato, una sofferenza enorme per chi resta. Il teatro è in questi casi l’arte della memoria che si fa carne, il lavoro scenico di Bevilacqua è un esempio necessario.(Andrea Pocosgnich)
Visto al Sala Umberto: Meridiani Perduti Teatro, Sara Bevilacqua di e con Sara Bevilacqua drammaturgia Osvaldo Capraro disegno Luci Paolo Mongelli video Mimmo Greco grafica Studio Clessidra Con il sostegno di Factory Compagnia Transadriatica In Sinergia Con Scuola Di Formazione Antonino Caponnetto
DI GRAZIA (di Alexandre Roccoli / Roberta Lidia De Stefano)
Di Grazia, ultimo lavoro della performer Roberta Lidia Di Stefano insieme al coreografo Alexandre Roccoli, è un’operetta rurale che vuole restituire grazia, intesa come dignità, al femminile violato. Si tratta del racconto di Rosetta - la figlia della ciociara nel romanzo moraviano - che, rimasta orfana di padre, si ritrova a lavorare sotto un nuovo e più crudele padrone che abusa di lei. Per mettere in scena questa storia i due artisti hanno ricercato molto nell’ambito dell’inchiesta contemporanea: testi come Oro Rosso di Stefania Prandi e Lettere da una tarantata di Annabella Rossi costituiscono la base teorica di questo spettacolo. Non da meno la ricerca etnomusicologifcica sui canti popolari del Sud Italia che vanno a formare tutta la partitura sonora: alla zampogna, strumento simbolico di un corpo sfruttato, si aggiungono le nacchere, gli zoccoli battuti forte sul suolo polveroso della scena ricoperta di terra e un pianorforte dalle corde scoperte che la Di Stefano suona con tutto il corpo, seminudo e sgraziato, precariamente seduta su una cassetta di legno traballante. Tutto questo rimanda a una dimensione arcaica del suono, all’evidenza violenta di quella che viene definita musica concreta, alla verità che, se nelle parole di Rosetta, ingenue e ignoranti, irrita, nella musica commuove e ci fa empatizzare con lei. La catarsi che ci viene proposta però è frammentata, come la storia di Rosetta che quasi scompare dietro a un apparato simbolico enorme, di cui è difficile trovare la sintesi mancando all’opera una struttura drammaturgica salda e una regia. Colpisce soprattutto la performance perché raramente un corpo si dà al pubblico tanto generosamente come in questo assolo disperato. C’è un susseguirsi di visioni che passano per il suo corpo politico: la forza brutale della violenza, la nostalgia dell’abbandono, la frenesia della taranta e infine la veemenza della denuncia su cui la Di Stefano costruisce un mash up che va da Mina a Miss Keta. (Silvia Maiuri)
Visto al Teatro Arena del Sole Sala Thierry Salmon ideazione, regia e drammaturgia Alexandre Roccoli / Roberta Lidia De Stefano con Roberta Lidia De Stefano musiche Benoist Bouvot, Roberta Lidia De Stefano, Alexandre Roccoli scene e costumi Alexandre Roccoli e Roberta Lidia De Stefano disegno luci Lucia Ferrero
SHAME CULTURE (di Asilo Republic)
Ogni anno, secondo le statistiche Istat, in Italia si registrano circa 4.000 morti per suicidio. Nella fascia di età compresa tra i 15 e i 34 anni le morti ammontano a 468, di cui circa 200 casi al di sotto dei 24 anni, con una percentuale elevatissima tra la popolazione universitaria. Il 33% di studenti e studentesse intervistat* sperimenta ansia, il 27% depressione. Eppure, una vulgata superficiale vorrebbe gli anni dell’università i più spensierati, una fase sospesa tra la giovinezza e la costruzioni di un io sufficientemente coriaceo per farsi largo nell’età del lavoro, nella vita “adulta”. È tra l’altro proprio questa narrazione a aumentare il carico delle aspettative, in una fase storica in cui sempre più la ricerca di una posizione professionale è diventata una porta stretta, strettissima per molti percorsi di studio. Ma Shame culture ci dice che non si tratta solo di dati e congiunture. Andrea Lucchetta in regia, con Anna Bisciari, Marco Fanizzi e Vincenzo Grassi sul palco, ci portano, con sapiente scrittura e azione scenica, nell’infinita catastrofe di una promessa generazionale tradita, nella eco frastagliata di una piccola bugia domestica che diventa nevrosi, che diventa linguaggio interrotto tra genitori e figl*, tra amici e amiche. Ci è consegnato il ritratto delicato di una fragilità in cui è facile riconoscersi, come un acquario prezioso in cui Bisciari, Fanizzi e Grassi si muovono con precisissimo impaccio, parlandosi senza mai toccarsi, guardandosi senza mai vedersi. Così come è impossibile fissare negli occhi l’interlocutore in una delle nostre infinite videochiamate, la videocamera essendo eccentrica rispetto allo schermo, ci ricorda Bisciari, evocando alcuni spunti saggistici come materiale drammaturgico. Distogliere lo sguardo, evitare un contatto è infatti la fenomenologia diffusa della vergogna. E mentre tra le infinite applicazioni AI abbiamo a disposizione tool che reindirizzano lo sguardo verso quello dell’interlocutore, offrendoci soluzioni prima ancora che possiamo interrogarci sul problema, un piccolo dispositivo teatrale esplora la strada, più lenta e terrosa, dell’empatia. (Andrea Zangari)
Visto al Teatro Belli nell’ambito di Expo – Teatro Italiano Contemporaneo - Drammaturgia di Asilo Republic, regia di Andrea Lucchetta, scene e costumi di Dario Gessati, light designer Gianni Staropoli, video designer Igor Renzetti, musiche di Luca Nostro, sound designer Luca Gaudenzi, con Anna Bisciari, Marco Fanizzi, Vincenzo Grassi, foto di Manuela Giusto
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