Cordelia - le Recensioni

HomeCordelia - le Recensioni

LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG (di Massimo Odierna)

La figlia di Kioto Zhang potrebbe diventare una sorta di espressione idiomatica, un modo di dire; una perifrasi che non corrisponde al vero ma che può supportare la ricerca di una verità. Chi è la figlia di Kioto Zhang? Forse una funzione, per questa drammaturgia che attinge ai pastiche pulp à la Tarantino, ai racconti umorali bukowskiani, all’epica delle serie Anime e alla densità bianco nero delle graphic novel, presentando un mondo che, drogato dall’innovazione, non dà il tempo ai processi umani di adattarsi a quelli avveniristici, creando dolorose distanze. La scrittura scenica - che tuttavia potrebbe alleggerirsi da alcuni eccessi di virtuosismo formale - ha il merito di fare un uso sapiente del sottotesto: le intenzioni dei personaggi sono diverse dalle loro azioni e la loro emotività si manifesta in iperboli aggressive, anche se i sentimenti sono fragili e latenti metonimie. Due solitudini, quella di Thomas (Giovanni Serratore) e di Libero (Enoch Marrella), decidono di compiere un viaggio alla ricerca dell’amata perduta da Libero, ovvero Noa, la figlia di Kioto Zhang. Thomas è un alcolizzato che, mentre cerca di coinvolgere in questa missione anche Amélie, la sua ex ambientalista (Sofia Taglioni) per poterla riavvicinare a lui, passa da una donna all’altra (Federica Quartana). Intorno, i genitori, antagonisti, di Libero: una “madre suora” (Irene Ciani) penitente e timorata di Dio, un marito (Alessio Del Mastro) fissato con Baudelaire e la pederastia, e una sboccata zia maga (Ciani) che, come una Tiresia in pelliccia, vede oltre e fungerà da aiutante. Massimo Odierna lo avevamo conosciuto nel Verso Occidente di Wallace adattato dalla sua compagnia Bluteatro, e già si notava la capacità del collettivo di nutrirsi di un immaginario - visivo, letterario, filmico – che Odierna applica a questa opera originale e, osando con azzardo registico, amalgama e struttura in una tradizione teatrale (merito anche della formazione con Ronconi) e poi la “sporca” con questo folle presente, affidandola a un cast di altrettanti autori e autrici, non solo meritevoli interpreti. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Lo Spazio: con Irene Ciani, Alessio Del Mastro, Enoch Marella, Federica Quartana, Giovanni Serratore, Sofia Taglioni. Menzione speciale della giuria all’idea originale al Festival InDivenire 2023

GLI ABITANTI (di Alessio Forgione, regia Arturo Cirillo)

Alessio Forgione si confronta per la prima volta col teatro, e il suo Gli abitanti chiude la stagione al Ridotto del Mercadante con la regia di Arturo Cirillo. Con la ricerca di una drammaturgia consuntiva, tenta un teatro in cui la vita stessa, di carne vera che già esiste lontano dallo sguardo del pubblico, si potenzia nel poetico. Questa carne è di quattro brillanti attori, Martina Carpino, Luciano Dell’Aglio, Domenico Ingenito, Daniele Vicorito, che con estrema generosità e bellezza si sono prestati a un’esperienze che lascia perplessi: sembravano tutti completamente soli e mossi da qualcosa di inspiegabile, nonostante la presenza di una regia sapiente e di mestiere che ha saputo fare di un solo fascio di luce lo strumento della costruzione di uno spazio fisico dello spirito. In un buio pesante, emergono delle vite che portano con sé quelle che vorrebbero restituire le essenze di Napoli, le complessità di una città costantemente prossima a cedere sotto potenze distruttive, le complessità del contatto promiscuo di classi distanti. Si tenta una strana forma di tradizione, che fallisce. Ingenito, il cui personaggio è provvisto di maggiore spessore rispetto agli altri, è un uomo involgarito dalla solitudine alla ricerca del suo gatto: la sua è una maschera kitsch di vocazione moscatiana. Carpino e Dell’Aglio sono una coppia borghese di annoiati, mediocri e deviati. Vicorito è una figura quasi cristologica, forse di un sottoproletariato pragmatico e vigoroso. Tutto qui. La vita non esiste in questa storia di maschere anche troppo stereotipate e vecchie. Lo sforzo abile degli attori è ostacolato da una scrittura che si rifugia con leggerezza nel grottesco e nel ridicolo, che non sa dosare le emotività e si limita alla superficie delle cose. Ogni personaggio è inquadrato e limitato in uno sketch che si ripete in maniera estenuante, senza che mai questo reiterarsi produca completezza. Loro sono e basta, senza motivo, senza Napoli, senza Storia, senza niente. (Valentina V. Mancini)

Visto a Ridotto del Mercadante; Crediti: Di Alessio Forgione; Regia Arturo Cirillo; Con Martina Carpino, Luciano Dell’Aglio, Domenico Ingenito, Daniele Vicorito; Costumi Anna Verde; Regista assistente Roberto Capasso; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale;

IL VIAGGIO DI VICTOR (di Nicolas Bedos, regia Davide Livermore)

Un uomo ha subito un trauma e ha perso la memoria. Ha avuto un incidente, ma non ricorda bene, forse non era solo. Una donna l’assiste, cerca di fargli mettere a fuoco i ricordi, ricomporre i frammenti della propria biografia. L’uomo si chiama Victor, vive nel Marais parigino, ha condotto un’esistenza appagante, ricca di frequentazioni, di relazioni con attrici famose, come gli viene raccontato dagli avventori del bar del quartiere. Traditore, misogino, forse persino omofobo – tutte spacconate da maschio etero che emergono, come aculei, nel suo racconto che sprofonda pian piano nel dolore – ha poi conosciuto una donna di cui si è realmente innamorato, con cui ha fatto un figlio. Marion è il nome di lei. Ma più si avvicina a questa figura e più il nucleo del dolore diventa rovente, tanto che – mentre il pubblico scopre che è proprio Marion la figura che Victor scambia per infermiera, e che il passeggero che era con lui nell’auto al momento dell’incidente è loro figlio – l’uomo continua a negare la verità, a trincerarsi ermeticamente in una realtà alternativa. Pur essendo nella sostanza un dramma borghese, Il viaggio di Victor di Nicolas Bedos si sviluppa narrativamente come un noir, come un sofisticato gioco di specchi infranti dove l’“assassinio” non riguarda un uomo, ma le dinamiche stesse di una possibile felicità, e dove investigatore e investigato finiscono fatalmente per coincidere. Un dialogo che, nella versione di Davide Livermore, è affidato quasi interamente alla relazione tra gli attori in scena, Linda Gennari e Antonio Zavatteri, dalla recitazione livida, in equilibrio costante tra rabbia e pathos; ma che trova poi un’esplosione tridimensionale nella scenografia video (disegnata dallo stesso Livermore e da Lorenzo Russo Rainaldi) che plasma visivamente l’incidente, la caduta, l’abisso, la quiete – i vari stadi del viaggio di Victor. Una storia – tradotta da Monica Capuani – che sembra disegnare un dolore senza via d’uscita dove i frammenti della relazione amorosa, sparsi qua e là come le schegge di vetro dell’incidente, segnano una flebile, ma presente, possibilità di speranza. (Graziano Graziani)

Visto al Teatro gustavo Modena. Teatro Nazionale di Genova. Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale Traduzione Monica Capuani Regia Davide Livermore Interpreti Linda Gennari e Antonio Zavatteri Diego Cerami in video Abiti Giorgio Armani Scene Davide Livermore e Lorenzo Russo Rainaldi Disegno sonoro Edoardo Ambrosio Luci Aldo Mantovani Video maker D-Wok Regista assistente Carlo Sciaccaluga Assistente alla regia Milo PrunottobCast tecnico direttrice di scena Lorenza Gioberti capo macchinista Raffaele Giacobino capo elettricista Federico Calzini fonico Edoardo Ambrosio

DURANTE (di Pascal Rambert)

Negli episodi della trilogia di Pascal Rambert sulla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (qui l'intervista) c’è sempre il lento delinearsi di un altrove, di un’apertura che si nasconde sul fondo, verso tutto ciò che è altro dal teatro, dal palco, dalla scena. Dopo l’opera Prima, nel secondo capitolo intitolato Durante, questo “altrove” sembra squarciare il dispositivo teatrale, perché prende con prepotenza il sopravvento, come un’esplosione sonora e visiva che divampa a tutti gli effetti sul palco del Piccolo Teatro. E l’esplosione è motore di avvio della trama, allude a quell’incidente d’auto in cui la compagnia teatrale si trova coinvolta e di cui il regista, con particolare sguardo indagatorio, cerca di recuperarne le tracce agendo sulla memoria e sui pensieri degli attori. Per farlo, Rambert fa sì che in scena passato-presente-futuro dei personaggi - attraverso il loro sdoppiamento con gli allievi della Scuola di Teatro “Luca Ronconi” del Piccolo - si incontrino, in un continuo flusso di scambi, di relazioni e dialoghi che costruiscono un palco abitato da presenze fantasmali (tra cui la rimembranza di un lontano Arlecchino), avvolte da luci ora bianche ora stereoscopiche, curate da Yves Godin. “Che cosa vedi?”, chiede uno degli attori alla compagna, “Fiumi di cose che non riesco a distinguere…la tua voce non è la tua voce…tu mi senti? Tu mi ami?”. In un limbo che non è già morte ma non è neppure più vita, queste presenze sembrano muoversi senza meta né fissa dimora sul palco, come burattini di uno spettacolo mai davvero cominciato, privi di quel carattere identitario e passionale evocato in Prima, anzi più fragili, forse anche più vuoti. Di essi rimangono solo le sagome e i contorni proiettati su di un telo, in una sorta di teatro delle ombre cinesi; un tableau vivant in cui i confini si confondono fino a sparire, in cui regna forse più la fascinazione retorica della riflessione metateatrale, più l’estetica della stessa vita. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: testo e regia Pascal Rambert, traduzione Chiara Elefante, scene Pascal Rambert e Anaïs Romand, costumi Anaïs Romand, luci Yves Godin, musiche Alexandre Meyer, assistente alla regia Virginia Landi, con (in ordine alfabetico) Anna Bonaiuto, Anna Della Rosa, Marco Foschi, Leda Kreider, Sandro Lombardi , e con gli allievi del Corso Claudia Giannotti della Scuola di Teatro “Luca Ronconi” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa Miruna Cuc, Cecilia Fabris, Pasquale, Montemurro, Caterina Sanvi, Pietro Savoi, e con Ludovica Bersani, Giorgio Saglimbeni/Filippo Boncinelli, Amelia Varretta, produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, in coproduzione con structure production e Compagnia Lombardi-Tiezzi. Ph Masiar Pasquali

BRONX GOTHIC (di Okwui Okpokwasili)

«Isn’t necessarily a black play, it’s purely a relationship between these two women», così sul The Guardian. Bronx Gothic è una performance in assolo, scritta e interpretata da Okwui Okpokwasili nel 2014 (oggi anche documentario), ora ripresa in scena da una incredibile interprete, Wanjiru Kamuyu. Vista al Festival FOG della Triennale di Milano, è la storia di come due vite contrastano in una: evoca ricordi difficili dell’infanzia, spesso di natura biografia; la perdita dell’innocenza nel racconto di personaggi che sono però inventati. Attorno a pareti bianche circondate a terra da lampade riverse fra cocci e terriccio, una figura di spalle accoglie il pubblico in un nervoso e inquieto twerking, un prolungato tremore che si espande progressivamente come un terremoto capace di mandare in pezzi il corpo: pancia, dita, piedi, occhi e bocca. Respiro affannato e sudore: è tutto quanto sappiamo nei primi trenta minuti di questa performance. Un corpo si disfa, e finalmente si libera al racconto, alla spiegazione, ora necessaria. Segue la lettura ‘a due voci’ di appunti raccolti a terra, scambiati tra due giovanissime ragazze, appena adolescenti. Sono lettere (da qui il titolo: l’epistolario è genere letterario di molti romanzi gotici) esplicite, cupe, raccontano di corpi iniziati alla sessualità con violenza e predazione, degli apprezzamenti non richiesti, delle aggressioni verbali razziste (Okpokwasili, figlia di immigrati nigeriani, è cresciuta nel Bronx), e dei tentativi di dare senso all’orrore per restare a occhi aperti, per tenere in piedi il proprio mondo. Il corpo in scena di Wanjiru Kamuyu, gli occhi fissati sul pubblico in una denuncia uno-ad-uno, in fondo racconta dell’età dell’abisso che attende la crescita di queste due donne in corpi neri. Con una grande fiducia però nella forza delle parole, come una possibile catarsi del mondo interiore attraverso la scrittura. La cui retorica comunque non può che essere di grande pretesa emotiva, come una ricaduta che esige, e quasi pretende a forza, nel cambio di narrazione, empatia e visibilità. (Stefano Tomassini)

Visto alla Triennale di Milano, scrittura e performance originale: Okwui Okpokwasili, regia, scenografie e light design: Peter Born, interpretato da: Wanjiru Kamuyu, canzoni originali: Okwui Okpokwasili con musica di Peter Born e Okwui Okpokwasili, produzione: Sweat Variant.

DUET BEHAVIOR (Meredith Monk e John Hollenbeck)

Travolta, e fortemente impressionata, per una accoglienza quasi da stadio, Meredith Monk ha inaugurato la programmazione del 77° Ciclo di Spettacoli Classici del Teatro Olimpico di Vicenza. Quest’anno affidata alla cura sapiente (e piena di vere promesse) di Ermanna Montanari e Marco Martinelli. La rassegna parte già benissimo: sembra un concerto sperimentale e interdisciplinare per ascoltatori esclusivi, eppure c’è un pieno di pubblico in attesa, in ascolto, preparatissimo. L’offerta dunque ha chiamato una risposta capace di intercettare una obliqua vitalità. L’ottantenne performer americana duetta in scena con l’amico di vecchia data, il polistrumentista John Hollenbeck, che ha pure un suo breve momento solistico (Click Song #1), ma che più in generale le fa da contrappunto gentile, in un duetto di buone maniere e di empatia tra voce e percussioni che è già anche una lezione etica. E di gioco (uno dei bis si chiude su un’irresistibile gag fra i due). La playlist è più che varia e copre quasi 50 anni di lavori, lo spirito della ricerca vocale è intatto, i suoni sempre ben piazzati con una ancora davvero impressionante gestione del fiato. La ricchezza della tecnica estesa di Monk proviene da una esplorazione che in lei è ormai uno stato dell’essere: perché conoscenza e tecnica sono solo i mezzi per raggiungere il suono autentico che è in ognuno. Pochi i gesti, bambolistici se non proprio marionettistici, sempre a sostegno di una performance contenuta e minimale. Confesso questa non essere la prima volta che assisto a un suo concerto. Eppure questa è stata la più intensa, e memorabile: questione di privilegio. Per esempio, Madwoman’s Vision (da Book of the Days del 1988), eseguita da Monk al pianoforte, è perfettamente intatta nella sua forza ipnotica, anche se la grana della voce a tratti resta come ossidata, opaca, in una dimensione felice della maturità di certo non meno trascendentale: un ammaccato fulgore nell’ora più recente della sua luminosa vita canora. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Olimpico di Vicenza Meredith Monk & John Hollenbeck "Duet Behavior 2024" 77° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza, Meredith Monk (voce, pianoforte, arpa ebraica), John Hollenbeck (percussioni)

RUA DA SAUDADE (coreografia di Adriano Bolognino)

La riflessione di Adriano Bolognino sul sentimento affermativo della nostalgia per eccellenza più indefinibile e inappropriabile, è una composizione fatta tutta a contrasto. In Rua da Saudade visto tra il molto pubblico della sala grande del Comunale di Vicenza (così si sostengono i giovani artisti!), l’idea funziona benissimo: perché per il coreografo campano non si tratta tanto di un sentimento, ma invece di un improvviso momentaneo abisso, come l’inciampo in una caduta, l’ossessiva ripetizione in un gesto di scaramanzia, l’immobilità in uno stupore che resiste, l’anticipazione apotropaica nel nero, tutto per scongiurare il buio. La ricerca di una difficilissima armonia. Espressamente ispirato alla «poetica di Fernando Pessoa e la sua grande creazione estetica: l’invenzione degli eteronimi» (non personaggi ma parti di personalità, segmenti di soggettività inesplosi), qui Bolognino dimostra una maturità piena di curiosità e di sapienza, in cerca di libertà. Quattro danzatrici di diverso-colore-vestite: Rosaria Di Maro, Noemi Caricchia, Sofia Galvan e Roberta Fanzini, dànno così vita ad altrettante forme dell’inquietudine in traccia del proprio fantasma. Se la maggior parte dei pezzi musicali sono lirici, anche di un minimalismo gentile, fino al Satie più riconoscibile e d’atmosfera, la danza all’opposto è invece costruita per schemi, ed è prevalentemente geometrica, la gestica quasi sempre scattosa a volte pure rigida, con il baricentro basso in un andirivieni di veloci ripartenze (che piacerebbero senz’altro ad Arrigo Sacchi). Il disegno luci azzeccatissimo è di Gianni Straropoli: non le avverti, tutto sembra immobile sotto una luce quadrata che invece detta le situazioni proprio solo quando serve. Vi è anche una lunga parte in silenzio, che è una difficile eppure necessaria, tensiva transizione: il desiderio che si fa largo tra le tenebre. Bolognino ha una incredibile capacità di invenzione, con una decisa preferenza per ben orchestrati assieme, un sincrono ossessivo che è collante ma al momento giusto spezzato in singolarità quasi sempre danzate però tra mille spigoli, e mille pieghe. Figure della mente di una vita in potenza. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza, coreografia Adriano Bolognino, danzatrici Rosaria di Maro, Noemi Caricchia, Sofia Galvan e Roberta Fanzini, luci Gianni Staropoli, costumi Tns Brand, dramaturg Gregor Acuña-Pohl, testi a cura di Rosa Coppola, produzione Torinodanza Festival/Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Fondazione I Teatri Reggio Emilia\Festival Aperto, Orsolina28, Cornelia.

LA BUCA (Nerval Teatro)

C’è un tubo bianco in campo bianco, di lato c’è un albero, anch’esso bianco, senza foglie e dotato solo di pochi rami. È questa l’immagine che apre La Buca, spettacolo che Nerval Teatro ha portato sul palco della Fonderia delle Arti, per la rassegna Entrature > Sonore curata da Tuttoteatro.com, un nucleo di resistenza importante e ingiustamente ignorato, in una città che sta colpevolmente sciogliendo il proprio legame con la tradizione delle officine artistiche, le cantine della Roma teatrale. Un uomo entra in scena, sistema il cappotto e il cappello di fianco alla sua valigia, poi si mette in cammino, perimetrando il palco come fosse un viaggio, finché chiama qualcuno che, in silenzio, uscirà dal tubo. Appunto, la buca. L’uomo (Carlo De Leonardo) compie gesti minimali, con lentezza ripete in modo ossessivo degli atti estesi a riempire, consistere completamente il tempo, come volerlo compiere nella sua intima natura di contenitore di azioni; l’ampiezza del bianco, proprio come appunto il tempo, forza i propri confini fino a non vederne più, verso i margini, ma contrastandoli e discutendoli proprio nel mezzo, là dove il nero dell’abito e della valigia spicca nella lattiginosa uniformità. L’altra figura che emerge dalla buca (Maurizio Lupinelli) esplicita questo contrasto, ricerca la verticalità “nascendo” come larva nell’orizzontalità del tubo, fuori dal quale pone dubbi, magnifica la profondità della relazione sotto forma di dialogo; come nelle opere di Samuel Beckett, che di questo lavoro è una forte ispirazione, l’altro è allo stesso tempo un’occasione e un limite, una presenza contemporaneamente da accogliere e rifiutare. “Me ne vado”; “Ma non si può”, si diranno i personaggi. E dentro c’è il cuore di quest’opera, firmata da Lupinelli con Elisa Pol: lo spazio occupato dai corpi è ineludibile, non si può andar via dal proprio, non si può andar via da sé stessi perché le regole dell’esistenza non sono spiegabili, sono e basta. Nella buca si torna, perché dalla buca si è usciti. (Simone Nebbia)

Visto a Fonderia delle Arti per Entrature Sonore Crediti: di Maurizio Lupinelli ed Elisa Pol; con Carlo De Leonardo e Maurizio Lupinelli; regia Maurizio Spinelli; costumi Elisa Pol; disegno luci e direzione tecnica Gianni Gamberini; collaborazione artistica Barbara Caviglia

THE CITY (di Martin Crimp, regia di Jacopo Gassmann)

Scritta nel 2008, aveva debuttato al Royal Court Theatre di Londra l’opera teatrale dello scrittore e drammaturgo britannico Martin Crimp, The City. Jacopo Gassmann la riporta in scena anni dopo e con il chiaro intento di far riemergere quelle sfumature di cui la pièce inglese era intrinsecamente caratterizzata: “un'inquietudine e una crudeltà di fondo, spesso stemperate da una vena grottesca e surreale” nelle parole del regista. E ci riesce senza troppi orpelli al Teatro Elfo Puccini di Milano, agendo allo stesso tempo su di un linguaggio vertiginoso e tensivo (nella traduzione di Alessandra Serra) a cui coniuga una costruzione scenica (di Gregorio Zurla) per quadri minimalisti e spogli, ma vibranti nei colori intessuti dalle luci, curate magistralmente da Gianni Staropoli. Le scene così si rincorrono, cadono e si rifrangono una nell’altra in una sequenza quasi allucinata di quadri che si compenetrano, come le storie di cui sarebbero sfondo (e che talvolta finiscono per sovrastare). In realtà, tutto appare al pubblico come sospeso in un’eterna tensione, dalla componente narrativa a quella musicale e visiva: è teso il rapporto di coppia tra i due protagonisti, Chris e Clair, lui frustrato per l’imminente disoccupazione, lei tediata dall’incapacità del compagno di imporsi e reagire. È teso il rapporto con la vicina Jenny, figura ambigua che si presenta saltuariamente a casa ma che cela indizi di un passato e di una storia altra. È teso il rapporto tra padre e figlia, immersi come ogni personaggio dell’opera in un mare incolmabile di distanza e incomunicabilità. Condita di una particolare nevrosi che investe le relazioni umane e di oggetti “ritornanti”, caratterizzati da quel punctum di barthiana memoria, la pièce avanza fastidiosa verso lo spettatore, restituendo a pieno l’enigmaticità dell’opera di Crimp. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini, Crediti: di Martin Crimp, traduzione Alessandra Serra, regia Jacopo Gassmann, con (in ordine alfabetico) Lucrezia Guidone, Christian La Rosa, Olga Rossi e, per la prima volta in scena, Lea Lucioli, scene e costumi Gregorio Zurla, luci Gianni Staropoli, disegno sonoro Zeno Gabaglio, movimenti Sarah Silvagni, video Simone Pizzi, produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Teatro dell’Elfo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa. Ph Luca Del Pia

DARKMOON (di Matteo Fasanella)

Certe volte si dimentica che i grandi uomini, prima di essere tali, siano stati anche bambini. Si dimentica con tutti, ma più ancora con i poeti perché essi, nella scelta delle immagini e nella vocazione all’invenzione dell’invisibile, conservano proprio quella qualità di rimanere bambini a lungo, così da confondere qualunque indagine. Se questo è vero in assoluto, per Giacomo Leopardi lo è in un modo quasi paradossale, così tanto adultizzato dalla missione cui la famiglia lo volge da offuscare l’infanzia e la pubertà con uno studio che tutti ormai sanno definire “matto e disperatissimo”. Proprio a quel Leopardi si rivolge Michele Mari nel romanzo Io venia pien d’angoscia a rimirarti (1990) a cui Matteo Fasanella di Darkside ETS si è ispirato per portare sul palco di Teatrosophia il suo Darkmoon. La luna, sopra la testa e dentro i pensieri dei protagonisti: Giacomo detto Tardegardo o Salesio (Giuseppe Coppola), dai fratelli più piccoli Carlo/Orazio (Nicolò Berti) e Paolina/Pilla (Sabrina Sacchelli), affascinati e forse un po’ impauriti da un fratello amato di cui scorgono una grandezza soverchiante, anche per sé stesso. Al centro della vicenda è una storia noir, una serie di delitti che sconvolgono il piccolo borgo di Recanati, attorno proprio alla casa del Conte Monaldo che appare in tante opere del poeta. Nel testo di Michele Mari sorprende la compiutezza dei riferimenti eruditi che certo erano del giovane Leopardi, ma soprattutto la ricerca linguistica che rintraccia un italiano tardo settecentesco – la vicenda è però dei primi anni dell’Ottocento – che Fasanella sa tradurre e interpretare per la scena con cura e qualità delle scelte, motivando gli attori a caratterizzare i dialoghi attraverso una profonda nettezza vocale perché si compia quel miracolo di rendere una lingua antica così vicina a un pubblico moderno. La luce cerea sullo sfondo è sospesa nella storia, a essa mirano al contempo la tensione poetica e l’intimità negata, ossia le due facce della luna che ispirerà, a lungo, Giacomo Leopardi. (Simone Nebbia)

Visto a Teatrosophia. Crediti: Liberamente tratto da “Io venia pien d’angoscia a rimirarti” di Michele Mari; Scritto e diretto da Matteo Fasanella; con Sabrina Sacchelli, Nicolò Berti e Giuseppe Coppola; Assistente alla regia Lorenzo Martinelli; Allestimento scenico Alessio Giusto; Disegno luci Matteo Fasanella

GIUNSERO I TERRESTRI SU MARTE (regia Giacomo Bisordi)

Giunsero i terrestri su Marte, per la drammaturgia di Pierfrancesco Franzoni e Giacomo Bisordi (e il testo a cura della compagnia) si presenta agli occhi della platea come una continua sorpresa: l’oscillazione degli stati d’animo, lo stupore, la curiosità di mettere a fuoco gli eventi, la dilatazione dei tempi drammaturgici e l’utilizzo in profondità dello spazio. L’idea è quella di lavorare sul tema del viaggio verso il pianeta rosso e parallelamente utilizzare questa possibilità per una vera e propria ricerca sui linguaggi teatrali. La prima scena è nell’oscurità, i tre astronauti (Giulia Heathfield Di Renzi, Gaia Rinaldi, Francesco Russo) entrano dalla platea in mezzo al fumo, calcano il palcoscenico accorgendosi che è un palcoscenico, nel quale la bandiera non può essere piantata. Nella seconda parte la scena si apre e i tre si ritrovano in un luogo che è una sorta di deposito, ci sono un televisore a tubo catodico in cui verrà trasmesso Pippi Calzelunghe (ma solo in audio), una numerosa quantità di scatole, in cui i tre viaggiatori troveranno i resti di un altro mondo e i frammenti di un compleanno d'infanzia. Non si tratta di un mondo sconosciuto, ma del nostro, di qualche decennio fa. Il viaggio su Marte è diventato un viaggio nel tempo oppure la squadra ha trovato qualcuno che è arrivato su quel pianeta prima di loro e poi è scomparso? E se quei ricordi appartenessero all’infanzia dei tre viaggiatori? Nel primo quadro la parola testuale interveniva come voce off, qui la voce torna dal vivo ma per pronunciare singole parole, le urla di un gioco reiterato al parossismo: “palla! palla!” grida come un ossesso l’astronauta alle prese con un solitario e violento ping pong. Arriverà poi una conferenza stampa - nella bellissima profondità di India, al limitare dell’uscita di fondo - che però non chiarirà nulla. «La Terra è la culla dell’umanità, ma non possiamo rimanere nella culla per sempre.» dirà uno dei tre. C’è una libertà compositiva unica in questo spettacolo e una richiesta, anche al pubblico, di mollare gli ormeggi per farsi trasportare in luoghi divertenti e poco tranquillizzanti. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro India: regia ed ideazione Giacomo Bisordi drammaturgia Pierfrancesco Franzoni e Giacomo Bisordi testo a cura della compagnia con (in o. a.) Giulia Heathfield Di Renzi, Gaia Rinaldi, Francesco Russo, scene e costumi Marco Giusti e Alessandra Solimene, suono Dario Felli, video Igor Renzetti, assistente alla regia Paolo Costantini

LAMPYRIS NOCTILUCA (di Aristide Rontini)

Forse un giorno il corpo non sarà strumento di affermazione di distinzione, ma solo il limitato contenitore di qualcosa di splendido. Aristide Rontini porta in scena il suo contenitore e lo apre agli occhi del pubblico, disvelando un’emotività ricca eppure delicata, in parte misteriosa, fatta di morbide fluidità e punture stentoree. In principio il buio si ritrae al fioco bagliore che sorge da una massa su cui si riconosce una vaga forma umana; la struttura totemica è sollevata per aria, è cangiante. Più piccolo, quasi minimo, la figura d’uomo appare confusa mentre gli occhi si abituano alla nuova condizione di luce. È di spalle, il suo corpo è ciò che abbiamo davanti, e ciò che lo contraddistingue è l’abbigliamento maschile e nulla più. I movimenti flessuosi della schiena e delle braccia, la curvatura estrema dal collo alle ginocchia, precedono il dischiudersi del semplice contenitore. La forma è quella della statuaria. La luce del totem prende vigore quando il corpo si volta e si esprime in numerosi tentativi di posizionamento, nessuno dei quali corrisponde al suo aspetto. Le braccia si fanno sicure, ruotano e accompagnano; si stende per terra, sul fianco. La mancata corrispondenza di ciò che appare e ciò che intimamente è, spacca l’esteriorità e conducono alla mutazione. La veste cambia, rossa, nasconde la forma in un turgido bozzo da cui è possibile distinguere la sagoma del viso, e per qualche attimo ciò che pulsa non è più un corpo bensì lo splendore che porta dentro. Lo splendore si compatta in una sembianza più propriamente femminile, lì dove la lunga gonna meglio accompagna quella fluidità curva del bacino e delle anche, moltiplicando le curve dinamiche. Quidni si ritorna a una forma, una e data. Tralasciando il riferimento a Pasolini e al suo famoso articolo sulle lucciole, perché improprio, fuorviante e soggetto a un pensiero identitario che rigetta quello di classe, e al netto della bellezza dell’immagine, sorge un dubbio: si applaude per la forma del contenitore o per lo splendore che porta dentro? (Valentina V. Mancini)

Visto a Spazio Körper; Crediti: Di e con Aristide Rontini; Dramaturgia Gaia Clotilde Chernetich; Musiche originali live Vittorio Giampietro; Disegno luci Giulia Pastore; Tecnico Luci Angelo Generali; Audio-descrizione poetica Live (per un pubblico cieco) Camilla Guarino e Giuseppe Comuniello; Collaborazione produttiva Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Ass. Cult. Nexus – Aps; Con il sostegno di Versiliadanza, Onassis AiR nell’ambito del progetto Europe Beyond Access cofinanziato dal programma Europa Creativa, Progetto Residenze Artistiche 2022/2023 Area Cultura Comune di Imola, Masque Teatro

SIGNOROTTE (di Massimo Odierna)

Tre donne, che probabilmente hanno superato i cinquanta, si incontrano dopo decenni: Ada, Ida e Beta, questi i tre nomi assonanti; si conoscono dalle scuole superiori e ora è la morte del marito di Ida a riunirle. Massimo Odierna, autore e regista, le fa incontrare in una scena buia e vuota: qualche seduta e le luci accuratissime, acide e affilate, basta questo per disegnare un incubo in cui le tre donne appaiono come delle apparizioni grottesche, con abbigliamento vistoso e parrucche pettinate, inquietanti, ma comiche. Sara Putignano (Ida), splendida per le sfumature e l'interpretazione di questa “preziosa ridicola” che ha sposato un uomo ricco grazie al quale può permettersi di produrre le proprie commedie con una compagnia di amatoriali, è terribilmente infelice e lo nasconde dietro alla maschera dell’attrice colta. Viviana Altieri è Ida, deve affrontare la perdita del compagno di una vita ritrovandosi sola, proprio come quando da giovane passava da un fidanzato all’altro. A Elisabetta Mandalari il personaggio più facilmente comico: parlata romana squillante e colorita, un figlio con disabilità allevato da sola e una rosticceria da gestire in periferia. Il passato e il presente si alternano nel tempo di una svestizione e le tre, una volta tornate, cominciano a raccontarsi anni pieni di ferite e infelicità. Le avventure giovanili e la comicità però devono fermarsi di fronte a un luogo della memoria che era stato rimosso. Una vacanza, forse in un paese lontano, un gioco che diventa pericoloso e la difesa che diventa omicidio. Le tre signorotte appaiono d’un tratto come tre ciniche assassine vendicative. Quel passato di colpe le avvicina definitivamente, dando loro la possibilità di rivelare frammenti di un presente violento, segnato da storie di abusi e perversioni familiari sempre scatenate da uomini orribili, alle quali le tre sono “costrette” a rispondere con altri omicidi. Qui la drammaturgia ha un’accelerazione troppo brusca e le confessioni aggiungono un’ulteriore patina di crudeltà a uno spettacolo sorprendente che si apre in commedia e si chiude come un grottesco noir. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Lo Spazio: Di Massimo Odierna Regia Massimo Odierna Con Viviana Altieri, Elisabetta Mandalari, Sara Putignano

RESPIRO PIANO (Di Piera Russo e Nicola Maiello)

Matilde è una giovane donna, sola nella casa di famiglia; è con degli operai per liberare la casa dagli oggetti più vecchi, ma ognuno di essi la riporta alla sua infanzia fatta di rimproveri e divieti. Da donna timorosa di muoversi tra le mura di quello che sembra un mausoleo, diventa una bambina vivace, curiosa e piena di immaginazione. Tocca il grammofono del padre e la macchina per cucire della nonna, e immediatamente si abbattono su di lei le ire del primo e le aspettative matrimoniali, meglio senza amore, della seconda. È una bambina sola, ha sporadici e tesi rapporti col paese, e non può fare altro che cacciare il naso per pochi istanti dalla finestra di legno socchiusa, per poi essere immediatamente redarguita dalla made apprensiva. Matilde si chiede perché la sorella minore non riceve lo stesso trattamento. Intanto l’unico che pare volerle realmente bene è uno zio, amico della madre. Piera Russo si confronta con una storia italiana molto classica, ma la affronta con energia ed intelligenza, riuscendo a non apparire mai stucchevole nell’accarezzare i ricordi, anche quelli più antichi ma mai passati, perfettamente meridionali di chi osserva: una capacità per niente da sottovalutare. L’esuberanza fisica viene compressa nella costruzione di uno spazio angusto per rendere una condizione di perenne instabilità, sia emotiva che effettiva; si ha l’impressione che ogni oggetto possa essere gettato per aria nella foga di un salto o di una giravolta. Per lo stesso principio, appare ancora più evidente lo scoppio del corpo accompagnato da una vocalità eccitata da un entusiasmo infantile. La scrittura si adatta a questa esuberanza e acquista un ritmo da assolo di batteria, gestendo bene i tempi e disseminando con agilità le attese, ma ha una, seppur lieve, mancanza: dovendo seguire l’euforia fisica, la parola è costretta a costruirci attorno un pesante apparato barocco, che, se non è di certo lezioso, rischia di essere poco proporzionato a quelle scelte di scena perché propriamente letterario. (Valentina V. Mancini)

Visto a Teatro Sala Ferrari; Crediti: Di Piera Russo e Nicola Maiello; Con Piera Russo; Scenografia Rossella Pugliese; Musiche originali Frankie Broccoli e Francesco Granatello; Light design Marco Ghidelli; Laboratorio scenico Alovisi; Collaborazione artistica Elena Starace; Aiuto regia Carolina Romano; Prodotto da Fratelli di Versi

ULTIMI ARTICOLI

A Palermo il festival Bastardo e incatalogabile

A ottobre scorso si è tenuta a Palermo la nona edizione del festival “Teatro Bastardo” diretta da Giulia D’Oro e Flora Pitrolo, molto attente...