Cordelia - le Recensioni

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PERSONNE. CHRONIQUES D’UNE JEUNESSE (di Ugo Fiore e Livia Rossi)

C’è uno spazio bianco, pulitissimo e asettico, sulla parte di sinistra, in profondità è seduto in terra, sul bianco linoleum Ugo Fiore, autore e interprete di questo spettacolo vincitore della scorsa edizione di Forever Young, il concorso indetto dalla Corte Ospitale per accompagnare la produzione di nuove opere. Sulla sinistra, più vicina al pubblico Federica Furlani suona il theremin e creerà le atmosfere sonore di una fiaba per adulti in cui lentamente l’oscurità si mangerà anche il bianco della scena, anche il sorriso un po’ obliquo del protagonista. Ugo Fiore è un artista italo francese trentatreenne che insieme a Livia Rossi ha tratto dalla propria esperienza un dramma autobiografico ambientato nell’infanzia francese, tra le anguste stanze della casa familiare. Sul fondale le immagini della vecchia casa vengono montate con la prospettiva e il ritmo di una soggettiva animalesca, quella del ratto. D’altronde la narrazione si apre con frammenti di filastrocche, un po’ in italiano e un po’ in francese e poi con una variazione del classico C’era una volta, che qui diventa immagine suggestiva e inquietante: «Tanto tempo fa, quando i mostri esistevano solo nelle storie, nella periferia di una grande città, in Francia, c’era una bellissima casa. La mia.Il portone di quella casa somigliava al portone di un carcere. Era una frontiera, che divideva due mondi.». La prima persona di Fiore procede come un una torcia accesa in un passato oscuro, lentamente e con la gravità sospesa di qualcosa che sta per accadere, che deve accadere:  i giochi con il fratello, un vicino di casa immaginato come uno stregone e poi quel bagno del parco che ogni tanto torna, come frammento di un’immagine più inquietante che verrà dissotterrata successivamente, dopo anni, in un racconto al padre (il testo è bellissimo anche solo da leggere). E poi quel finale in cui viene raccontato l’incontro di questo bambino di 11 anni con un adulto e il sesso: il bambino non tenta di scappare, è affascinato, suggestionato, manipolato e forse solo l’adultità gli darà coscienza della violenza subita.

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. di Ugo Fiore e Livia Rossi drammaturgia Livia Rossi con Ugo Fiore e Federica Furlani progetto sonoro Federica Furlani disegno luci Giulia Pastore consulenza alle scene Paolo Di Benedetto scene realizzate da Laboratorio di Scenografia “Bruno Colombo e Leonardo Ricchelli” del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa produzione La Corte Ospitale co-produzione Proxima Res con il sostegno di MiC e Regione Emilia-Romagna Spettacolo vincitore Forever Young 2021/2022 – La Corte Ospitale

CIAK SI GIRA, LA VITA È UNA TORTURA (di C. Rossi, E. Rosselli)

Gruppo Uror, ovvero Caterina Rossi ed Evelina Rosselli, avrebbero dovuto portare a La Spezia il loro bellissimo Rosso visto a Contemporaneo Futuro, ma a causa dell'indisponibilità di un’attrice (Rebecca Sisti, impegnata in un’altra tournée) hanno rilanciato con una nuova proposta: uno spettacolo più piccolo per mezzi e lunghezza, che dispiega una tavolozza di colori, segni e temi apparentemente lontana da quella riscrittura dark della favola di Charles Perrault. Le due autrici e performer qui allestiscono la rappresentazione di una trasmissione podcast che è sia parodia di un certo mondo radiofonico sia demenziale accoglienza di alcune contraddizioni del nostro presente. In scena due sedie, un tavolino con mixer e strumentistica per musica ed effetti pronti all’uso, dietro di loro campeggia la scritta un po' pacchiana e illuminata Good Vibes. “Ciak si gira vita è una tortura”, canta allegramente il jingle perfettamente intonato dalle due. Il tema è quello del disagio, della sofferenza e attraverso un ribaltamento comico le due conduttrici sorridono alle torture a cui le nostre vite sono sottoposte quotidianamente. Non manca l'invenzione di una pubblicità, che altro non può essere se non l’ennesimo ritrovato farmacologico per perdere peso. Come ogni trasmissione radiofonica che si rispetti c’è anche lo spazio per alcune ospiti: l’esperta di amori catastrofici che risponde alle telefonate di cuori torturati e solitudini eterne sempre con lo stesso consiglio, quello sostanzialmente di preferire un cane a una relazione umana; c’è una mental coach, dallo spiccato accento americano, che insegna la cattiveria gratuita per liberarsi dallo stress. Si ride, con intelligenza, una punta di cinismo e si rimane anche affascinati dalla presenza scenica, anche solo se seduta, di queste due artiste, per il loro trasformismo, per i loro talenti così limpidi e per quella capacità di incarnare l'artigianato del teatro di figura, tra maschere e pupazzi, antichi eppure modernissimi.

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. Intervento ironico registico di gruppo UROR con Caterina Rossi, Evelina Rosselli ( gruppo UROR ) realizzazione maschere e marionette Caterina Rossi con il sostegno di PAV

UN HORROR DEDICATO A MAMMA E PAPÀ (di Niccolò Fettarappa)

«Mamma, siediti vicino a me, ho paura!». Il titolo non andrebbe preso alla lettera. Forse. «Ma non faceva paura», ha detto poi la piccola spettatrice con le codine. «A me sì», ha risposto la mamma tra i denti. La scrittura ormai riconoscibile di Niccolò Fettarappa nel suo tratto sagace e penetrante ripropone una altrettanto riconoscibile dinamica scenica che ha il suo vertice appuntito rivolto alla platea. La famiglia sembra essere una tappa inevitabile nel percorso drammaturgico di Fettarappa (o forse solo un lapsus?), non tanto per il carico tematico sempreverde, ma come specchio – sempre distorto e disturbante – di un discorso allargato a una generazione disgregata, ancorata a valori deformati, aggrappata a certezze insulse, smarrita. In quello che si presenta come primo studio “sulla nausea di nascere”, Lorenzo Guerrieri e Maria Anolfo sono mamma e papà di un figlio silente, spettatore pescato in platea e portato di peso sulla scena (Filippo Amatiste). Sono tre solitudini obbligate dal vincolo famigliare ad occuparsi dell’altro, attraversando le dinamiche spietate della crescita: i risultati scolastici, la competizione con i coetanei, le foto ricordo, le carriere supposte. Il dialogo è un perenne monologo, violento come solo gli affetti di sangue sanno essere, in un’altalena ossessiva che oscilla tra amarezza e tenerezza, spietatezza e umanità. Non c’è redenzione, non c’è una morale, non c’è speranza, non c’è il futuro: c’è l’esistere, un sadico gioco con la morte che è meglio imparare presto, tanto prima o poi tocca gestirlo. In un palleggio allucinato eppure consapevole, sotto gli occhi aperti e innocenti del figlio, Guerrieri e Anolfo rappresentano con efficacia l’involucro del ruolo genitoriale portato alle sue estreme conseguenze: un vestito che è d’obbligo indossare e che impone una serie di movenze, attitudini, posture. Pur indugiando a tratti nel suo stesso gioco, la scrittura si regge su ciò che nasconde, lasciando trapelare nonostante tutto un calore imperfetto, una flebile luce: una realtà disastrata, ma pur sempre, spietatamente umana. (Sabrina Fasanella)

Visto al teatro Centrale Preneste nella rassegna YOU- The Young City – You under 35. Di Niccolò Fettarappa. Con Maria Anolfo, Lorenzo Guerrieri e la partecipazione speciale di Filippo Amatiste. Compagnia Bruttipensieri

LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI (di Joseph Roth, regia Giacomo Pedini)

Nella koinè transfrontaliera inaugurata da Mittelfest nel 1991 arriva come anteprima all'edizione 2024 la regia del direttore artistico Giacomo Pedini, che discute l’identità meticcia di questo festival. Ne La cripta dei cappuccini (1938) il cantore della Mitteleuropa Joseph Roth tenta una summa del transito dalla vecchia alla nuova Europa: il disgregarsi dell’Impero Austro-Ungarico, il sanguinoso strisciare nelle trincee della Grande guerra, fino all’Anschluss, atto finale delle glorie asburgiche e fondazione del nuovo disastro che avrebbe riorganizzato il mondo. A portarne il peso, come epico testimone, è Trotta, umili origini nobilitate da un atto d’onore, interpretato da un malinconico Natalino Balasso. Come un corpo astrale attraversa il vissuto e insieme lo commenta infilando in tasca le mani, con voce piccola che mastica l'amaro. La scena è una fatiscente giostra che, girando, mostra i set d’ambientazione; la pigra velocità di rotazione fa da contrappunto alle scene: in quasi quattro ore di spettacolo il ritmo non subisce quasi variazione; il mondo pare incastrato tra passato e futuro, in un affresco estremamente terreo dove si muovono personaggi colorati dai costumi d’epoca e da una recitazione oleografica non sempre semplice da condurre e sostenere. Al monito furioso di Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità (1922) Roth preferisce la forma del requiem: la guerra è una tempesta osservata da lontano e da cui si è al sicuro, non foss’altro perché si è già morti dentro. Ma vi assistiamo con occhi e orecchie di oggi, foderati di narrazioni inattendibili che ci scagliano via dall'evento. Si avverte certo la celebrazione di microstoria locale (lo spettacolo è sostenuto anche da Gorizia/Nova Gorica 2025) e però anche la perizia con cui Pedini affonda in un immaginario che gli è caro, restituendo, in una resa a tratti statica, il ragionamento sulla letale letargia della Storia specchiandolo in quello odierno, tra terremoti internazionali e speranze nella “certa idea d’Europa” steineriana, alla vigilia del nuovo Parlamento. (Sergio Lo Gatto)

Visto a Teatro Verdi Gorizia. Crediti: traduzione Laura Terreni; adattamento Giacomo Pedini e Jacopo Giacomoni; regia Giacomo Pedini; dramaturg Jacopo Giacomoni; musiche Cristian Carrara eseguite da FVG Orchestra; scene Alice Vanini; costumi Gianluca Sbicca e Francesca Novati; luci Stefano Laudato; suono Corrado Cristina; con Natalino Balasso; e con (in o.a.) Nicola Bortolotti, Primož Ekart, Francesco Migliaccio, Ivana Monti, Alberto Pirazzini, Camilla Semino Favro, Giovanni Battista Storti, Simone Tangolo, Matilde Vigna;

IL RIFORMATORE DEL MONDO (di Thomas Bernhard, regia Leonardo Capuano)

Un testo, anche un grande testo, non esiste se non in scena. E per questo ci vogliono gli attori, meglio quando sono grandi attori. Anche se il testo è Il riformatore del mondo di Thomas Bernhard. Perché senza la fragile, puerile tracotanza di Leonardo Capuano, qui anche regista, o la minuta cura dai gesti antichi di Renata Palminiello, di un’intensità scultorea, quel testo non sarebbe stato lo stesso, sarebbe rimasto pagina appena detta, non vissuta appieno come invece quella sera al Teatro Fabbricone. L’uomo entra nel buio, la sua veste bianca è bagnata di luce (da Gianni Staropoli) mentre dondola come un acrobata sugli anelli; ma se questo è un prologo, nella vicenda sconta un’immobilità, o almeno così sembra pur dando l’impressione che non muoversi sia una scelta, o un vezzo, più che una necessità; è lui il Riformatore che presto, quella stessa sera, riceverà il maggior onore: la laurea honoris causa, merito del suo magnifico testo, appunto, per riformare il mondo. La donna è serva e amante, mai moglie, il suo corpo sembra non essere corpo ma si muove con una qualità da strip comica, tratteggia la scena avvicinando lati e angoli con le sue azioni, gestisce la relazione del Riformatore con lo spazio intorno – tre cassapanche perimetrali sotto i grossi finestroni, un lampadario antico appeso in alto, una poltrona enorme e un’altra, piccola – dà l’impressione di seguire le sue indicazioni e invece le determina con una sapienza che appare svagata ma non è. Il legame tra i due, molto simile a quello che Samuel Beckett definì tra Ham e Clov nel suo Finale di partita, ha un presente ma, allo stesso tempo, ha un evidente passato: c’è un’usata consuetudine tra i due, si nota dai gesti semplici con cui lei si tocca l’abito, con cui porta degli oggetti in scena, si nota dalla dolce canaglieria in cui lui scioglie la sua apparente misantropia. “Chi soffre non è tenuto a rispettare l’etichetta”, dirà questo re di un regno perduto, diseredato in un tempo precedente, che ha bisogno, per sopravvivere, che il suo regno sia narrato, signore di un dolore mascherato. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Thomas Bernhard; traduzione Roberto Menin; regia Leonardo Capuano; con Leonardo Capuano, Renata Palminiello; con le voci di Andrea Bartolomeo, Andrea Macaluso e Mariano Nieddu; aiuto regia Andrea Bartolomeo; assistente ai movimenti di scena Paola Corsi; sound designer Francesco Giubasso; scene e costumi Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano e Renata Palminiello; light designer Gianni Staropoli

IL QUARANTOTTO (regia Laura Sicignano)

Una grande giostra: la macchina scenica diretta da Laura Sicignano per Il Quarantotto, da Gli di zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, è un enorme carillon che domina l'intera Sala Futura dello Stabile di Catania. Lungo questo prisma rotante (di Elio Di Franco) si svolgono i tempi e i luoghi di una rivoluzione affatto rivoluzionaria le cui fasi, comprese tra i moti liberali e l'annessione all'Italia, sono un grande mascheramento che si cela e si rivela. I tre interpreti (Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, Enrico Sortino – Vucciria Teatro) si scambiano costantemente abiti (di Vincenzo La Mendola) e ruoli: tra loro si instaura un grande gioco delle parti dove il ricorso a segni minimi e riconoscibili determina l'avvicendarsi di personaggi e situazioni. Nobili, popolani, borghesi e in genere arrivisti rincorrono l'affermazione di sé tra pareti rotanti, inarrestabili nonostante la stasi domini di fondo lo svolgimento degli eventi. I protagonisti sono ridotti a burattini, pupi manipolati dall'interno da attori e attrice a ritmo serrato ma fluido, in cui movimenti di scena e incalzare dell'intrigo si incuneano l'uno nell'altro senza cedimenti. La storia torna sempre su stessa, in circolo, destinata a un eterno ritorno; il baratto di indumenti e casacche scorre sui corpi di interpreti sottoposti a incarnazioni sempre nuove e vecchie. Era facile scadere nel macchiettismo, ma il pericolo è stato sventato da una parodia ben calibrata; al contempo, le musiche di Puccio Castrogiovanni, eseguite sul palco, imprimono al dramma un sapore consapevolmente tradizionale e non folkloristico. Sicignano entra nel testo sciasciano con lodevole asciuttezza, isolandone l'ossatura narrativa senza scadere nell'usuale retorica insulare. Piuttosto, inserisce il fatto letterario in un discorso teatrale aggiornato, fruibile e contemporaneo, sostenuto da una compagnia appassionata e affiatata. Sono questi gli spettacoli di cui auspichiamo un'adeguata circuitazione anzitutto in Sicilia, dove spesso la cultura siciliana è poco più che un polveroso fossile auto-elogiativo. Ma che si vorrebbe elogiare, di grazia? (Tiziana Bonsignore)

Visto in Sala Futura, Teatro Stabile di Catania. Crediti: tratto da Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, regia Laura Sicignano, con Joele Anastasi Federica Carruba Toscano, Enrico Sortino, musiche Puccio Castrogiovanni, scene Elio Di Franco, costumi Vincenzo La Mendola, produzione Teatro Stabile di Catania

THE CONFESSIONS (di Alexander Zeldin)

Poteva non essere Milano, da sempre Porta Europa, ad ospitare al Piccolo Teatro le maggiori proposte internazionali? Non c’è voluto molto, per creare con Presente Indicativo qualcosa di ricco eppure agile, che somigliasse a una festa estiva balneare con musica, cocktail e sdraio colorate di fronte all’ingresso del Teatro Strehler o dello Studio, dove tra gli altri abbiamo visto Pascal Rambert e Mariano Pensotti, Caroline Guiela Nguyen e Tiago Rodrigues o Łukasz Twarkowski, insieme agli italiani Marco D’Agostin, Fanny&Alexander, Davide Carnevali. Tra questi, il britannico Alexander Zeldin ha portato a Milano The Confessions, viaggio a ritroso nella storia di una donna, Alice, nata in Australia e giunta poi in Europa attraverso passaggi di stato e imprevisti, come tutti. Ecco, “come tutti” è proprio il punto: Zeldin, come già in Love e Faith, Hope And Charity, spinge ancora il tasto della rappresentazione collettiva attraverso l’ordinario, il consueto. Alice – Amelda Brown delimita anche la narrazione del racconto sulla scena – è un’attivista, il suo corredo esistenziale si è arricchito via via di esperienze alimentate dai cambiamenti epocali culturali, ne ha vissuto i benefici e anche gli effetti negativi, drammatici. Sullo sfondo della guerra del Vietnam, di rapporti familiari sfilacciati, delle lotte per i diritti femminili contro la repressione di aspirazioni e desideri, Alice è una donna che sempre ha saputo ricreare con errori e impegno l’habitat adatto alla vita, la propria e quella degli altri, ha saputo farsi carico anche del dolore di uno stupro per trasformarlo in altra vita. La struttura scenica, in cui attori straordinari si prendono il tempo del teatro, è un interno casalingo, ma il contesto familiare da un’epoca all’altra muta, lo spazio accoglie le trasformazioni della società e dunque degli individui che lo abitano, finché la storia di Alice ricorre in tante donne che possono riconoscere in lei i segni di una vittoriosa emancipazione, affondando nel reale perché sia esso il terreno fertile ove possa crescere il seme della nuova realtà. (Simone Nebbia)

Visto al Piccolo Teatro Strehler. Crediti: testo e regia Alexander Zeldin; con Amelda Brown, Kate Duchêne, Jerry Killick, Lilit Lesser, Brian Lipson, Hannah Morrish, Gabrielle Scawthorn, Jacob Warner, Yasser Zadeh; scene e costumi Marg Horwell; coreografia e cura dei movimenti Imogen Knight; luci Paule Constable; musiche Yannis Philippakis; suoni Josh Anio Grigg; direttore del casting Jacob Sparrow; dramaturg Faye Merralls, Sasha Milavic Davies; Ph Alípio Padilha

IL CASO JEKYLL (di Sergio Rubini)

È nota la vicenda che compone Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde, racconto di Robert Louis Stevenson che anticipava di poco un tetro Novecento: Jekyll, dottore onesto, ben inserito nella comunità, sperimentando su di sé l’alterazione di una pozione fa emergere il suo doppio, Mr Hyde, diverso sia nell’aspetto – erano gli anni in cui Lombroso teorizzava i propri studi – sia nei comportamenti, responsabili di ripetute azioni omicide. La vicenda, che presto diventerà d’uso comune nell’evidenziare la doppiezza dell’animo umano, arriva con Il caso Jekyll al Teatro Bellini di Napoli, per la regia di Sergio Rubini. La scena è un edificio che fa da interno e da esterno, sfruttando al meglio i livelli rialzati e la velatura delle vetrate, con una porta al centro, che creano i diversi piani di visione; l’ambientazione d’epoca emerge dai costumi e da un certo cupo utilizzo delle luci. In tale contesto Rubini, anche tra gli interpreti e al contempo narratore con leggio a corredo delle scene, fa emergere l’intenzione di lavorare sul risvolto psicanalitico, anticipando il discorso che sarà di Freud o Jung; eppure la messa in scena è ben lontana da una simile profondità: i pur bravi attori (tra i quali l’ottimo Daniele Russo che interpreta entrambi i protagonisti, con la parrucca o senza) sono al servizio di una regia didascalica che fa apparire l’ombra quando si pronuncia ombra, che fa cigolare e sbattere una porta quando si parla, appunto, di una porta, e così via. A non convincere è dunque proprio l’impianto ideologico dello spettacolo che brutalizza, banalizza l’archetipo del doppio, la coesistenza tra bene e male, tra attrazione e repulsione dell’una per l’altra, la compresenza di angeli e demoni condensati nell’animo segreto degli umani. Di tanto non resta che la reazione retrodatata a qualche episodio di bullismo represso e l’idea di far paura alzando il volume al massimo, sparando le luci in faccia al pubblico, usando un linguaggio improvvisamente turpe, incongruo all’epoca in questione, isterizzando qualche vocetta e facendo balbettare un po’ le vittime. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Bellini. Crediti: tratto da Robert Louis Stevenson; adattamento Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini; regia Sergio Rubini; con Sergio Rubini e Daniele Russo; e con Geno Diana, Roberto Salemi, Angelo Zampieri, Alessia Santalucia; scene Gregorio Botta; scenografa assistente Lucia Imperato; costumi Chiara Aversano; disegno luci Salvatore Palladino; progetto sonoro Alessio Foglia; produzione Fondazione Teatro Di Napoli - Teatro Bellini, Marche Teatro, Teatro Stabile di Bolzano

GENERAZIONE PASOLINI (di Marta Bulgherini)

Pasolini è un’icona, Pasolini sui murales, Pasolini immagine. L’intellettuale nato a Bologna ma romano di vita rischia di essere una spilletta sul petto di chi bisogno di una citazione da sfoggiare. Da questo assunto parte lo spettacolo di Marta Bulgherini, Generazione Pasolini, uno dei più sinceri, strani e divertenti che mi sia capitato di vedere sul grande artista e che ha una sola pecca: la cornice surreale, che gioca con la platea sul tema del viaggio/spettacolo e di cui non c'è alcun bisogno. L’incipit è un continuo sberleffo: Bulgherini è da sola sul proscenio, con il sipario chiuso e ripercorre la proteiformità del genio pasoliniano:scrittore, poeta, drammaturgo, regista, pittore… la prima poesia a sette anni, il primo testo teatrale a sedici. «Pasolini è troppo per noi umani», esclama Bulgherini con la sua recitazione molto fisica, volutamente enfatica. Il registro è ampio, dalla battuta irriverente: «Pasolini è un accollo», alla citazione colta, come quando viene scomodato proprio uno dei massimi appassionati conoscitori di Pasolini, lo scrittore Walter Siti. La nostra società manca di complessità, ecco la difficoltà nel comprendere il pensiero pasoliniano. Quando il sipario del Teatro Vittoria si apre l’attrice dovrà scontrarsi con Petrolio (chi lo acquista lo fa per metterlo in bella mostra, per poi rendersi conto che è troppo difficile da leggere), con la poesia (bollata come noiosa) e poi con lo stesso intellettuale, che appare come una sorta di fantasma, interpretato da Nicolas Zappa. Qui la questione si fa più seria e il pretesto teatrale serve a sviscerare la critica alla società dei consumi e il concetto di omologazione. Bulgherini insomma con questo spettacolo che comincia come controcanto corrosivo si fa mediatrice di quel pensiero troppo complesso e soprattutto trova un modo per metterlo in dialogo con con la nostra società, anzi con la sua generazione, quella dei trentenni; senza però scomodare facili o improbabili parallelismi. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Vittoria. Credits: Drammaturgia e regia Marta Bulgherini con Marta Bulgherini e Nicolas Zappa produzione Attori & Tecnici. Spettacolo vincitore del concorso Salviamo i talenti 2023<

TCHAÏKA (di Natacha Belova e Tita Iacobelli)

A volte capita di vedere dei piccoli capolavori ma come li spieghi? Come li racconti? Perché ti dispiace, da critico, che i lettori non siano stati lì, non abbiano potuto fare il viaggio insieme. Poi tu trovi alcune parole, ma non è lo stesso. Questa sensazione mi ha trascinato via dal Teatro India dopo aver visto Tchaïka, il piccolo Gabbiano cechoviano di Natacha Belova e Tita Iacobelli che, sulla scena, ne guida movimenti e voce. Perché questo gabbiano è un burattino a misura d’uomo, no, di donna, precisamente un’attrice in là con gli anni ma non con l’età – lo so, sembra un gioco di parole, ma come la raccontereste un’attrice che all’ultima recita della sua vita vuole fare Nina e non Arkadina? Si sente giovane, l’arte le permette di considerarsi tale. In cuore, che è come dire nella memoria, le restano i personaggi di ogni recita, è stata mille volte madre e non ha mai avuto figli, è stata colpevole anche da innocente, la magia di stare in abiti di vite altrui, che solo il teatro sa restituire, esiste in lei come una particolare forma d’arte che riguarda la sua vita, non solo il suo mestiere. Tchaïka è al passo finale, l’addio alle scene, ma sarà poi vero? Non sta recitando anche il ruolo dell’attrice all’ultimo ruolo? Il dubbio si scioglie nella magia, la neve che dall’alto bagna il capo di Tchaïka sconvolge da fuori una scena d’interni ma, allo stesso tempo, quel clima sembra l’unico possibile in un salotto coperto di teli, sopra mobili in disuso che qualcuno, prima o poi, porterà via. È, quel salotto, la stessa attrice? Non lo sappiamo, ma nel dubbio i teli lei li tira via, non si sa mai che sia dimenticata. Nel salotto appaiono via via gli oggetti, saranno i personaggi di un Gabbiano tutto nella sua memoria; un po’ ha dimenticato le battute, un po’ fa finta di averle perse perché le fanno male, dicono cose che non vuole escano dalla sua bocca. Un peluche è Kostya, un libro è Trigorin, Nina beh, Nina è un gabbiano lo sanno tutti, sul greto di un lago dove si specchia il suo dolore… un lago? E come lo metti in un salotto un lago? (Simone Nebbia)

Visto al Teatro India. Credits: di Natacha Belova e Tita Iacobelli; con Tita Iacobelli; scenografia Natacha Belova; luci Gabriela González, Christian Halkin; musica Simón González dalla canzone La pobre gaviota di Rafael Hernández; in consolle Gauthier Poirier; produzione Ifo Asbl

AMAE (di Eliana Stragapede, Borna Babić)

Poche decine di minuti segnano la durata di questo passo a due, ma densissimi per tecnica e disegno coreografico, Amae è il primo spettacolo dell’edizione 2024 di Futuro Festival, manifestazione dedicata alla danza e alle arti performative (a cui da quest'anno si aggiungono le incursioni nelle arti visive a Palazzo Merulana). Diretto da Alessia Gatta ha il proprio centro nevralgico nei rigogliosi giardini  del parco del Teatro Brancaccio. Qui è stato montato un piccolo tendone con una platea che circonda quasi interamente lo spazio scenico, fuori gli spazi di un bar rendono sociale l’esperienza tra uno spettacolo e l’altro. In Amae c’è qualcosa che ha a che fare con la sparizione, con l’abbandono, l’abdicazione e la resa. C’è un corpo femminile, che tra le braccia di un uomo non ha peso, anzi è come se subisse un processo di liquefazione. La coppia di artisti è formata da una danzatrice italiana, Eliana Stragapede, che si è formata a Rotterdam e ora vive a Bruxelles, collaboratrice tra l’altro di Peeping Tom e dal danzatore croato Borna Babić (tra gli artisti della Ultima Vez / Wim Vandekeybus company), con questa performance hanno vinto la Copenhagen International Choreography Competition. L’idea è quella di riflettere sul concetto di co-dipendenza nelle relazioni umane e alla base dell’ideazione vi è però anche un’influenza nipponica, il libro L'anatomia della dipendenza dello psicoanalista giapponese Takeo Doi. E il titolo rimanda infatti alla parola giapponese Amae (甘え?), è un concetto che ha anche fare con la capacità di indurre gli altri a prendersi cura di noi. Il corpo della giovane donna  prima viene sollevato, dalle braccia, dai fianchi e poi perde peso improvvisamente, come a rendere inutile lo sforzo di cura ricevuto. Babić ha una presa forte ma gentile, di chi fa di tutto per rianimare un corpo che vuole solo sparire: lo svuotamento è anche mentale, di chi si è arreso. Ci sarà il tempo per il distacco, ma i due corpi in lontananza manifesteranno malessere, la fluidità si trasformerà in gesti spezzati e improvvisi. Cosa siamo senza gli altri? (Andrea Pocosgnich)

Visto a Brancaccino Open Air / Chapiteau, Futuro festival regia + coreografia Eliana Stragapede + Borna Babić |Drammaturgia Margherita Scalise | Composizione musicale Nenad Kovačić | Voce Teresa Campos | Musiche originali Nicholas Britell | Audio editing Giuseppe Santoro | Interpreti Eliana Stragapede + Borna Babić | Disegno luci Benjamin Verbrugge | Costumi Nina Lopez-Le Galliard | Una co-produzione VGC Brussels, Culture Moves Europe (European Union and Goethe Institut), L'OBRADOR Espai de Creació, Roxy Ulm and TanzLabor Ulm | Contributi fotografici David Kalwar

RIDICOLA (di Annamaria Troisi)

Accovacciata sul tavolo, in bocca le parole di Alda Merini, Mistica d’amore, un’ode per chi soffre, per «coloro che non sanno gridare/ perché nessuno li ascolta», prima che la luce si spenga risucchiando nel buio questa figura e la sua disperata umanità. Ma oltre a Merini nella drammaturgia di Annamaria Troisi si insinuano anche Erich Fried, C.S. Lewi e Fëdor Dostoevskij che con Il sogno di un uomo ridicolo fa da scintilla proprio alla creazione di Ridicola, spettacolo vincitore della passata edizione della rassegna Over ideata dal Teatro Argot. E proprio nello spazio di via Natale del Grande abbiamo visto il monologo prima che questo possa debuttare tra qualche giorno al Torino Fringe Festival: la prossimità con l’interprete e autrice permette al pubblico quell’esperienza di verità aumentata possibile solo quando di fronte a noi si svela la creazione vivida di un personaggio in cui possiamo credere. Annamaria Troisi questo personaggio lo fa nascere nel buio: leggings neri e ciabatte rosa, racconta di essere incinta ma non c’è nessuna pancia finta, solo un largo pile colorato e poi la lingua napoletana, di tenera o tagliente ironia. È la storia di una prostituta, tra la vita e la morte, con un sogno di mezzo (ecco Dostoevski) e una pistola che sparerà due volte, ma il centro propulsore non sta tanto nella trama, ma nella capacità portentosa di questa attrice di farsi cassa di risonanza di una sofferenza universale. Lo fa prima attraverso un dispositivo molto classico, quello del dialogo con personaggi assenti, invisibili al pubblico ma presenti e veri nei suoi occhi, per poi rompere questa relazione imbracciando un microfono nelle parti più liriche. Qui la vicenda si fa rarefatta, i suoi contorni lattiginosi, forse poco si capirà del bambino e del rapporto tra sogno e realtà, ma lo sguardo è rivolto agli altri, a coloro che giudicano e tutto logorano: «Divennero insensibili e indifferenti pure alle stelle del cielo che prima tanto li commuovevano». (Andrea Pocosgnich)

Visto a Teatro Argot di e con Annamaria Troisi progetto sonoro DANIVA assistente alla regia Sara Consoli produzione AMA Factory spettacolo vincitore OVER – Emergenze Teatrali 2023

UNA GIORNATA FATALE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA (di E. Barba, L. Gleijeses e J. Varley)

Sul sito di Lorenzo Gleijeses, nella scheda dello spettacolo Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, leggiamo due generose testimonianze di Eugenio Barba e Giulia Varley, numi tutelari del ben noto, e certamente singolare per fisionomia, percorso artistico di Gleijeses. Nessuna concessione panegirica, ma la condivisione di tutte le perplessità e degli stalli nell’accompagnare un percorso frastagliatissimo. Impossibile inquadrare lo spettacolo in una fisiologia produttiva, nemmeno citando il famoso progetto 58° PARALLELO NORD, che dal 2015 al 2020 ne è stato incubatore, raccordando sentieri e sensibilità complesse quali quelle degli stessi Barba e Varley, Michele Di Stefano, Chiara Lagani, Luigi de Angelis e altri… Tentacolare? Certamente non meno della stessa esperienza di visione, che restituisce tutta l’evenemenzialità dell’atto creativo, fino alla domanda più larvale e destabilizzante: che senso ha questo stare in scena? La questione dell’identità e del dubbio dilagano nell’ombra sin dai primi movimenti, quando Lorenzo-Gregorio tituba sull’orlo di un fascio di luce, lasciando esordire a brani l’epifania del proprio corpo. Un corpo disciplinato e maniacale nel suo apparire prima ancora che nella partitura coreografica – è chiaro che Gleijeses nuota nel mare auto-fictionale mentre si annoda al cordone ombelicale della propria biografia da figlio d’arte, del suo rapporto con la figura-mito di Barba, della scelta professionale sospesa tra la comoda carreggiata del mestiere e il sentiero della “ricerca”. Sotto il filtro kafkiano, i 70’ minuti mettono in scena tutta la fatica di recidere quel cordone, insieme all’ambiguo piacere di lasciarsene nutrire, fatica che però si riversa sul pubblico. Una rappresentazione, dunque, la cui forza e raffinatezza drammaturgica (potenziate dai suggestivi disegni sonori e luminose di Mirto Baliani) restano imbrigliate dalla stessa autoevidenza della storia-viaggio che è il lungo lavoro a monte. Un sentiero che vale la pena risalire, ma di cui a pochi spettatori, forse, è comoda e chiara la traccia. Di tanto travaglio resta evidenza nel titolo, in quel “fatale” che sovrascrive “qualunque”, come l’amara nota a margine di un’ennesima incertezza. (Andrea Zangari)

Visto a Teatro India | regia e drammaturgia Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley; con Lorenzo Gleijeses; Crediti completi

LE MIE TRE SORELLE (di Ashkan Khatibi)

Sono 147 i pallini che abitano il corpo di Sadaf Baghbani. Sono 147 i colpi che ne hanno invaso con violenza la carne, sparati dalla milizia iraniana durante una manifestazione di protesta contro il governo. Nell’impossibilità di ricevere soccorso e medicazioni, Sadaf Baghbani continua a portarli con sé anche dopo la fuga dal Paese, cicatrici disseminate che raccontano di lei, della sua storia, del suo sopruso, di ciò che non può più essere taciuto. E non tace Ashkan Khatibi, regista e scrittore esule come lei costretto alla fuga, alla migrazione, che di quella storia decide di prendersi cura. Sadaf così salirà sul palco del Teatro Franco Parenti, le vedremo tremare le gambe e luccicare gli occhi di un’intensità lunare, eco di un dolore senza fondo. Accanto a lei vedremo poi comparire come in un sogno lontano le due sorelle minori rimaste in Iran, interpretate in scena da Nazanin Aban e Saba Poori, spiriti forti e dolci al tempo stesso che recitano in italiano, ma affondano le radici della propria rabbia anche in assoli rap in persiano (diventato per i giovani iraniani la lingua della rivolta). Un telo bianco si srotolerà su di loro come una coperta che ne avvicina distanze e dolori e i dialoghi – in un intreccio linguistico di farsi e italiano che attinge dalla materia pulsante della vita – le caleranno all’interno di un liquido amniotico condiviso. Tutto sembra tornare agli anni in cui si dormiva assieme, in cui la sera si aspettava che le luci si spegnessero per parlare dei propri desideri, delle proprie paure. Ora il bianco del telo e dei vestiti si tinge di rosso, sono le impronte dello scontro, della fuga necessaria. “A Roma, a Roma!”, ritornello di cechoviana memoria (“A Mosca, a Mosca”) e riferimento culturale in cui Khatibi vuole immergere la pièce mutandone la prospettiva, diviene un sogno che si infrange, appiglio letterario per cercare un nuovo orizzonte di speranza. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: regia e sceneggiatura Ashkan Khatibi, con Sadaf Baghbani, Saba Poori, Nazanin Aban, Taher Nikkhah, cantante Sahba Khalili Amiri, costumi Delshad Marsous, scenografia Taher Nikkhah, assistenti di scena Alma, Ava, Tina Karam Zadeh, assistenti alla regia Michele Marelli, Ghazal Shamlou, Arash Shojaei, Tina Karam Zadeh, traduzione dal persiano Michele Marelli, produzione Teatro Franco Parenti

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