XMAS FOREVER (di Tony Clifton Circus)
Ad aprile, la neve a Villa Bonelli coglie di sorpresa e col naso all’insù un nugolo di persone davanti il tendone del festival Sciapitò curato da Dario Aggioli, che entusiasta e con sorriso sornione tiene in mano l’aggeggio tramite cui spara in aria pulviscoli di schiuma bianca che si posano sui capelli, le spalle e i vestiti del pubblico. Per molto poco, un’aria di magia circonda il giardino di Via Montalcini in cui, davanti il tendone, giace steso a terra un enorme, affranto, Babbo Natale gonfiabile. Il vero Santa Claus (Werner Waas) arriverà scortato dal suo body guard cocainomane (Enzo Palazzoni) e sotto braccio a Adolf, la renna antropomorfa (Iacopo Fulgi) con mocassino vellutato ai piedi...sarà subito chiaro che non è proprio come ce lo aspettavamo; vestito raggrinzito e liso, cappello stropicciato, calosce al posto degli stivali...Il re-enactement di XMAS FOREVER di Tony Clifton Circus è un esilarante delirio alcolizzato, blasfemo, politicamente scorrettissimo che se ne frega di arrecare traumi ai bambini e bambine sedute in prima fila. Dopo circa 15 anni dal debutto, è ancora una scarica adrenalinica di cattivo senso, disillusioni, invettive, attentando all’incolumità di una platea piena che, tra risate e applausi, consapevolmente si consegna a questo gruppo di delinquenti. Il trapasso di Santa Claus segna il passaggio dal sogno d’infanzia alla repressione dell’età adulta in cui regna il dictat capitalista della libertà, raggiunta però tramite i soldi e quindi grazie al lavoro (un urlato e spregiudicato Arbeit Macht Frei). Tra una «frosty air» e «we are the children» e «'Cause this is thriller», la bastardaggine ribelle camuffata socialmente prende il sopravvento, si accende in fuochi liberi, si spacca a terra come una chitarra giocattolo e spara in aria come una pistola a salve. I quattro clown cattivi ci mostrano le storture e nefandezze di un circo che, abbandonata la meraviglia, svela gli orrori del reale (Lucia Medri).
HYENAS. FORME DI MINOTAURI CONTEMPORANEI (Compagnia Abbondanza/Bertoni)
In uno spazio disadorno, quasi sfregiato, entrano, uno alla volta, cinque danzatori. Indossano maschere di pecore, di capre e di arieti, gli abiti sono colorati e leggeri, i corpi giovani. La sproporzione delle teste posticce richiama l’antropomorfismo oscuro di Rabbits di David Lynch. Modellano con lentezza il gesto e la posa, scrutandosi a vicenda: sembrano stabilire, con il pubblico, una relazione basata sulla pazienza, sulla richiesta di presiedere a questa lunga preparazione. A volte, indirizzano alla platea i loro sguardi vitrei e attoniti, di animali impagliati. All’improvviso, il tempo concesso è disatteso, spezzato dalla schiettezza della musica techno, dal movimento percussivo e forsennato, ma non liberatorio. Come in Femina, anche qui la coercizione sembra effondere dall’interno e (seppure le note di regia e lo studio attento delle distanze svelino la genesi della ricerca, ai tempi del Covid) le inquietudini e le latenze che palpitano nelle compulsioni leggere dei movimenti – a volte sembrano scrollare uno schermo, oppure soppesare una sostanza invisibile – lasciano apparire, sul palco, un’immagine atemporale di giovinezza. C’è forse il veleno onirico delle adolescenze di Sofia Coppola, ma senza quel languore. Il mistero è violento, esposto, eppure irraggiungibile. Deporre la maschera non modifica la tensione, la nudità del viso si contorce in un ghigno di iena. Michele Abbondanza e Antonella Bertoni lavorano stavolta sulla dualità dei volti e, attraverso la metafora del ballo in maschera, sull’istinto, di tutti, a portarsi in scena. Ma la gigantografia delle teste caprine non si lascia dimenticare e, mentre questi satiri contemporanei danzano, ridono e si immobilizzano, striking a pose, la luce sacrificale delle Grandi Dionisie lampeggia, insinuandosi tra quelle della festa e della possessione. Viene da domandarsi chi sia a esercitare lo sguardo – così purificato dal giudizio – su questa ritualità incomprensibile persino a se stessa. Una danzatrice, dal proscenio, rivolge al pubblico i suoi occhi, che somigliano a una preghiera.
Visto al Teatro Mengoni, Magione – Crediti: di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni; coreografie in collaborazione con Marco Bissoli, Eleonora Chiocchini, Cristian Cucco, Ludovica Messina, Francesco Pacelli; con Sara Cavalieri, Cristian Cucco, Ludovica Messina, Francesco Pacelli, Serena Pedrotti; disegno luci Andrea Gentili; elaborazioni musicali e collaborazione al progetto Tommaso Monza
FUNERALE ALL’ITALIANA (di Benedetta Parisi e Alice Sinigaglia)
Due donne, attrice e regista che non superano la trentina, portano in scena un funerale, ricordando nel titolo la tragicommedia prima teatrale di De Filippo da cui è stato poi tratto il celebre film di De Sica. In Funerale all’italiana di Benedetta Parisi e Alice Sinigaglia tutto nasce dalla morte e dalla consapevolezza cinica che, nonostante la giovane età delle autrici, se prima si credeva di “avere tutta la vita davanti” ora si parla del futuro indicandolo con “il resto della mia vita” perché, come ribadisce in scena l’attrice Parisi: «Rimarremo morti per molto più tempo di quanto siamo stati vivi». Lo spettacolo è un rito funebre autogestito e sabotato: Benedetta non vuole ammettere il trapasso della nonna e quindi occupa la chiesa, si impossessa del pulpito, fa le veci del prete, officia questa messa alternativa e invita gli e le astanti – prevalentemente familiari e amici in una delle repliche sold out al Teatro Basilica – a prendere parte ai suoi ricordi d’infanzia che, seguendo un’impostazione mista all’autofiction e alla stand-up comedy, dal passato interrogano le mancanze del presente. Da piccole come ci immaginavamo a trent’anni? Madri, lavoratrici, in famiglia o senza? Con chi al nostro fianco che poi non ha mantenuto la promessa? Che fine hanno fatto gli amori à la Gary Copper e Marlene Dietrich? C’è molta convulsione nel racconto di Benedetta, il ritmo sostenuto delle battute intrattiene la visione e incuriosisce per fatti e personaggi presentati. Talmente concitato da rendere il finale un po’ caotico e dispersivo per il pubblico tanto che al momento del buio gli applausi stentano a iniziare. Vi è però una tensione attoriale genuina verso la platea, per coinvolgerla nella memoria della casa dei nonni, dei giochi da bambini, dell’ostia che sa di carta, dell’amore di un tempo che supera tutte le difficoltà e rimane unito fino alla fine, in una danza anziana, sbilenca e arteriosclerotica ma giovane di sentimenti e, ancora, complementare. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Basilica: di Benedetta Parisi e Alice Sinigaglia, regia Alice Sinigaglia, in scena Benedetta Parisi, voce off Michele Coiro, suono Fabio Clemente luci Daniele Passeri, produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d'Innovazione, TPE Teatro Piemonte Europa - Festival delle Colline Torinesi, costumi grazie a Sandra Cardini, foto Andrea Macchia.
NON TROVERETE NULLA DI ME IN QUESTO FILM (Ateliersi)
Capita spesso, anche ai più smaliziati in ambito tech, che nel turbinio quotidiano di release di prodotti e servizi ci si trovi spiazzati di fronte alla crescita apparentemente illimitata del potenziale di nuovi strumenti e linguaggi. Ogni slittamento imposto da un “progresso” genera un nuovo passato, più netto e concreto del futuro stesso. È possibile che questo strapparsi del tempo ci restituisca parziale nozione di tutte quante le altre faglie, di quello stesso limbo di chi è stato, in altri tempi, spinto fuori dal proprio presente. Nel 1916, Eleonora Duse recitò nell’unico film della sua carriera, Cenere, tratto dall’omonimo romanzo di Grazia Deledda. La presenza della divina scorre sullo schermo accompagnato da uno strano senso di estraneità al mezzo: un’enfasi certamente teatrale, ma anche, all’opposto, un’asciuttezza naturale antitetica al vago espressionismo di Febo Mari, già divo del cinema muto, regista e attore nei panni del protagonista del film. Immersa nel tempo, fuori dal tempo, dis-misura dello iato tra due linguaggi, quella prova di curiosità diventa un atto paradossale di autonegazione. Non troverete nulla di me in questo film, chioserà Duse nelle lettere cui Fiorenza Menni presta la sua consueta formidabile voce, doppiando i gesti e i movimenti privi di parola della pellicola. La performance gioca con la forma del cineconcerto: lo schermo sul fondale, Menni e, al suo fianco, Luca Maria Baldini al dj set, in uno straziante atto sinestetico che trasferisce il senso dall’immagine al suono, parole e musica, come per rendere assente l’immagine – che forse per questo è trasfigurata in sostanza emozionale dal recoloring dell’originale con filtri a dominante prima blu, poi gialla e poi rossa. L’impronta drammaturgica mima sapientemente la volontà di autosottrazione della Duse ad ogni livello: la presenza vocale e corporea di Menni è sempre discreta e misurata; il toccante tappeto musicale di Baldini commenta nitidamente il film senza mai occupare il centro della scena. A lunghi tratti, il girato sul fondale mostra le smagliature della pellicola lungo l’asse centrale, come un fuoco che mangia la figura di Duse. Resta quell’assenza al centro di tutto. (Andrea Zangari)
Visto all’Angelo Mai voce Fiorenza Menni; musiche originali e sonorizzazione dal vivo Luca Maria Baldini; ideazione e regia Cosimo Terlizzi ; prodotto da Ateliersi, Luca Maria Baldini, Cosimo Terlizzicon il sostegno di Asolo Musica e Asolo Art Film Festival in collaborazione con Agorà
CONTENUTO PORNOGRAFICO (scritto e diretto da Tommaso Agnese)
In una distopia in cui la realtà è virtuale e le nostre vite sono il risultato di scelte algoritmiche, non è difficile credere che la rudezza pornografica soppianti il mistero erotico. Contenuto pornografico Un Futuro Senza Amore di Tommaso Agnese sembra prendere spunto dalla fantapolitica orwelliana di 1984, quella degli slogan La guerra è pace, La libertà è schiavitù, L'ignoranza è forza ai quali però i due protagonisti, interpretati con accentuato fervore da Moisè Curia e Manuela Zero, rispondono con «La libertà è tutto». Una struttura di metallo riempie la scena dell’Off/Off Theatre creando una dimensione detentiva in cui il calore, umano e emotivo, non esiste più e solo il freddo della solitudine riempie lo spazio, dove osserviamo, in quadri scenici che si alternano tra di loro, una recluta (Curia) che si prepara a schierarsi contro gli attivisti, e un’attivista (Zero) che si prepara a scendere in piazza rivendicando libertà e diritti contro la supremazia dell’algoritmo. In voice over, ascoltiamo la voce dell’Intelligenza Artificiale che impartisce ordini, del padre della ragazza e del suo compagno. Evocando uno scenario fantascientifico, lo spettacolo si caratterizza per una scrittura sincretica che se da un lato sembra in alcuni passaggi appiattirsi sulla retorica e semplificazione di tematiche assai complesse, dall’altro mette insieme il linguaggio, e la recitazione, televisivo e seriale con inserti musicali che spaziano dal pop alla musica classica; con le ambientazioni dei videogiochi ricreate sia attraverso il disegno luci basato sui toni del blu, viola, rosso, che nei costumi, armature, caschi, mantelle, tute di latex. Sarà la “resistenza emotiva” dei due personaggi a cambiare il futuro: entrambi si riconosceranno e scopriranno amanti inceppando il sistema di controllo circolare che gestisce le loro esistenze e che li vorrebbe solo automi, l’uno maschile istigato alla violenza, l’altra femminile ridotta a mero contenuto pornografico. (Lucia Medri)
Visto a Off/Off Theatre: scritto e diretto da Tommaso Agnese, con Moisè Curia e Manuela Zero e con le voci di Luigi Di Fiore, Edoardo Purgatori, Laura Adriani, Maurizio Tesei, costumi Silvana Turchi, scene Fabrizio Bellacci, hair stylist Adriano Cocciarelli, aiuto regia Giovanni Ardizzone, musiche Stefan Larsen, foto Giovanna Onofri, grafica Carola Scotti
I CUORI BATTONO NELLE UOVA (Les Moustaches)
Un letto di legno circolare a centro scena, ci si può salire o scendere da ogni punto, come se il letto fosse il luogo centrale di una stanza in cui si sta svolgendo una gestazione; sopra alla struttura è una giostra sospesa con i pendagli che fa ombra sulla parete di fondo, di quelle che si mettono sopra i lettini dei neonati. Ma qui, il neonato, non c’è. O non ancora. Attorno sono tre donne, il loro ventre esposto nel mezzo di una biancheria intima candida, contenitiva quanto possibile, mentre la pancia spinge verso fuori, ineludibile, inaggirabile allo sguardo e ad ogni considerazione: ci sarà, lì dentro, una nuova vita. E nuova, pure, sarà quella delle madri. Qualunque sia la vita che c’è dentro. Questa l’immagine forte e primigenia che emerge dalla scena – firmata Eleonora Rodigari – de I cuori battono nelle uova di Alberto Fumagalli e Ludovica D’Auria – Les Moustaches – per la rassegna EXPO al Teatro Belli. Tre future madri, tre diversi modi di vivere e far vivere la gravidanza. C’è una dolce donna che ha paura non ci sia vita nel suo ventre (Grazia Nazzaro), c’è una donna energica che attende due gemelli e fatica a vedersi madre (Matilda Farrington), c’è infine una donna che inizia a lottare con suo figlio, maschio che solo maschio accetta possa essere, fin da prima che nasca (Elena Ferri). Ma soprattutto c’è l’ignoto di un trauma da venire, magnifico e terribile, che emerge con estrema forza dal testo versificato, ma non lirico, di Fumagalli. Grazie a una partitura fisica di grande impegno, anche se merita un approfondimento più severo nelle scelte e le soluzioni drammaturgiche non sono totalmente nitide, lo spettacolo consegna tre luminose prove d’attrice e soprattutto pone in luce un tema molto urgente e talvolta rimosso dal dibattito contemporaneo, la narrazione stereotipata di una maternità che in contrario è ricca di strati complessi sul piano emotivo e psicologico, di una varietà di situazioni molto lontane dal candore, certo paradossale, in cui è consolatorio immaginare una gravidanza. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Belli. Credits: di Alberto Fumagalli; con Elena Ferri, Matilda Farrington, Grazia Nazzaro; regia Ludovica D’Auria, Alberto Fumagalli; costumi Giulio Morini; ligh designer e scenografia Eleonora Rodigari; aiuto regia Tommaso Ferrero; produzione Società per Attori, Accademia Perduta Romagna Teatri, Les Moustaches
L’ORIGINE DEL MONDO, RITRATTO DI UN INTERNO (di Lucia Calamaro)
La nostalgia di un pezzo di comunità teatrale per la Roma degli spazi indipendenti, per la versione originaria di questo spettacolo in cui erano straordinarie Daria Deflorian e Federica Santoro; la difficoltà di accesso per giovani e meno giovani alle occasioni importanti, la mancanza di porosità dei teatri pubblici verso attrici e attori fuori dal giro e poi il nome di Concita De Gregorio… Insomma tante le critiche piovute su questa operazione (soprattutto nelle bolle teatrali di Facebook) e tante le questioni che si sono annodate attorno allo spettacolo scritto e diretto da Lucia Calamaro su un testo che a una prima analisi potrebbe sembrare lontano: a chi importa di una borghese intellettuale che non riesce ad uscire di casa? E invece eccoci, noi durante la pandemia di un paio di anni fa, noi che ci facciamo forza contro le piccole e grandi depressioni, noi alle prese con il lavoro in smart e i progetti da chiudere. E la casa che rischia di diventare luogo di autoreclusione. Calamaro firma anche il disegno luci e lo spazio scenico: c’è un fondale che cambia colore a ogni atto, pochi oggetti e arredi di scena, piante che vengono portate in regalo e un frigorifero che è un altare domestico, luogo rituale in cui cercare sollievo dagli sprofondamenti esistenziali. Si ride molto grazie alla scrittura dell'autrice romana, qui asciugata in una versione più agile, della durata di un paio di ore (nel 2012 assistemmo a una maratona di più di quattro), con quell’ironia che fa pensare a Woody Allen e Nanni Moretti. L’opera, rispetto alla versione di 12 anni fa, ha un tratto borghese più evidente (allestirlo all’Argentina ha contribuito naturalmente), tutto è maggiormente pulito e per certi versi meno sorprendente, come nella recitazione di De Gregorio: precisa, con un tono intimo (ben sonorizzato nell’amplificazione) e un timbro pieno e chiaro, ma priva di picchi ironici, di sussulti. Redini e Mascino sono tecnica pura (ma non solo), la prima trasformista nei ruoli della figlia e della psicologia, la seconda dà una lezione di comicità, a lei gli applausi a scena aperta. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argentina scritto e diretto da Lucia Calamaro con Concita De Gregorio, Lucia Mascino, Alice Redini, scene e costumi Lucia Calamaro assistente scene Laura Giannisi aiuto regia Jacopo Panizza, disegno luci Lucia Calamaro, costumi Sartoria Bàste srl, foto di Claudia Pajewski produzione Teatro di Roma - Teatro Nazionale
PAOLO SORRENTINO VIENI DEVO DIRTI UNA COSA (di Giuseppe Scoditti)
Chi non ha mai sognato di scambiare qualche parola con un grande personaggio del nostro tempo o, meglio, del passato? Cosa diremmo, una volta superata una certa emozione, a chi con la propria opera ha ispirato o ispira molte persone e senza dubbio noi? Deve aver fatto questo pensiero Giuseppe Scoditti, comico apparso anche in TV e al cinema nel recente Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, autore e unico interprete – la regia è di Gabriele Gerets Albanese – di Paolo Sorrentino vieni devo dirti una cosa, in scena al Teatro Basilica. Il Sorrentino del titolo, regista pluripremiato e ritenuto ormai un maestro del cinema italiano nel mondo, è un pretesto iniziale perché Scoditti possa rivolgere una domanda più ampia al nostro contemporaneo: cosa crea l’aura di grandezza? Chi e come entra nel pantheon dei grandi così da diventare esemplare? Il punto di partenza è un provino, sostenuto dall’attore per un personaggio minore di un film del regista, ma senza aver ottenuto poi il ruolo. Da quel momento l’esigenza si è via via espansa, permettendo a Scoditti così di riflettere sul senso dell’originalità, in un mondo che ha già inventato tutto e che spaccia per nuove idee trite soltanto ben rimescolate, omaggiando sì il regista ma ponendo attenzione su quanto l’arte diventi molto rapidamente una maniera, su quanto sia poi difficile dire davvero ciò che si pensa rispetto a modelli che il mercato e il consenso definiscono sempre più universali. Lo stile, oltre un iniziale approccio da stand up comedy, attraverso l’ironia tende a trasformarsi in una critica più profonda, riuscendo solo in parte ad affrancarsi da una relazione di superficie tra attore e spettatore, ricercata con smodata ricorrenza e dunque permettendo con più fatica al testo – eccessivo l’indugio sui vuoti e sulle stanchezze – di superare tale meccanismo. E tuttavia, pur se lo spettacolo riesce con difficoltà ad allontanarsi da quanto già il titolo esprime, Scoditti si segnala come un comico raffinato e pronto a creazioni capaci di aumentare il proprio spessore con intelligenza e acume. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Basilica. Credits: uno spettacolo di e con Giuseppe Scoditti; scritto da Giuseppe Scoditti e Gabriele Gerets Albanese; regia di Gabriele Gerets Albanese; light designer Cristian Allegrini
DE GASPERI: L’EUROPA BRUCIA (di A. Dematté, regia C. Rifici)
Una tenda bianca, sistemata sull'angolo sinistro della scena, questa è un quadrato che restringe il largo spazio del palco del Vascello, come a chiudere i protagonisti della vicenda in una sorta di teca. Un luogo in cui far rivivere il passato, dove trovano posto un'asta sulla quale sventoleranno prima una bandiera nera, poi una rossa e infine una bianca, ovvero, ciò che rimaneva del fascismo, i temuti comunisti e la verginità ricostituita con l'avvento della Democrazia Cristiana. Con questa nuova produzione del Lac, l'istituzione teatrale ticinese, affonda la propria ricerca attorno al fare politica di De Gasperi dalle prime elezioni repubblicane ai grandi summit internazionali e gli inizi degli anni '50. Attorno a questo filo storico si stringono inevitabilmente una serie di nodi che ancora oggi rappresentano la posizione dell'Italia nel mondo. Al centro dello spettacolo c’è la prestazione superlativa di Paolo Pierobon: nel corpo proteso in avanti, nei movimenti delle braccia e delle mani, nella voce, con quell’accento trentino che contribuisce a costruire l’immagine di un politico d'altri tempi, venuto dalla provincia lontana, nonostante gli studi e l’esperienza austriaca. Accanto allo statista e fondatore della DC la figlia, interpretata da Livia Rossi; solo altri tre personaggi entreranno in questa camera della memoria, Palmiro Togliatti (Emiliano Masala, puntuale, deciso ed elegante), un ambasciatore americano (mellifluo e all’altezza Giovanni Crippa) e un giovane simbolo della riqualificazione di Matera (Francesco Maruccia già in scena seduto al piano). Con loro De Gasperi/Pierobon misura le relazioni del giovane partito democristiano e del Paese: la paura rossa (appassionante il dialogo in punta di retorica politica e filosofica con Togliatti) e il grande alleato atlantico che proprio vorrebbe l’estromissione dei comunisti. Questo lavoro brilla per attualità, per la regia raffinata e funzionale di Carmelo Rifici, per la recitazione ma anche per l’ordito drammaturgico di Angela Dematté (nonostante il rischio agiografico) in grado di manovrare una lingua sempre alta ma anche puramente teatrale. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Vascello Crediti: di Angela Dematté regia Carmelo Rifici con Paolo Pierobon Giovanni Crippa Emiliano Masala Livia Rossi Francesco Maruccia scene Daniele Spanò costumi Margherita Baldoni luci Gianni Staropoli musiche Federica Furlani assistente alla drammaturgia Valentina Grignoli assistente alla regia Alice Sinigaglia
DECISIONE CONSAPEVOLE (coreografia di Roberto Tedesco)
È arrivato a compimento, col debutto a serata intera, il progetto coreografico Decisione consapevole di Roberto Tedesco. La crescita del percorso compositivo e la maturità delle scelte sono ora precisate ed evidenti. Un concorde quartetto di interpreti (Mattias Amadori, Eleonora Dominici, Laila Lovino e Francesco Misceo), sempre in scena, si moltiplica o si sottrae continuamente entro o sopra uno spazio ottimamente illuminato, segnato a terra da una larga cornice che accoglie e accompagna e distende le azioni. È un esterno, almeno in avvio, perché il sonoro vi allude nel vociare di bambini. Ma poi le sequenze si disseminano in quadri stanziali o in improvvise fughe, secondo mappe estemporanee ma non improvvisate, continuamente mediate dal processo decisionale di ognuno. Il corpo dei quattro (che spesso si estende in un effetto di moltiplicazione) non confonde infatti le singolarità, che restano distinte e attive nel gioco d’insieme. Un unico, lungo, buio introduce a una scena di transizione, che riparte dal nudo di una coppia. E che si ricongiunge secondo una idea di convivenza che non ammette fratture né esclusioni. Forse solo il piano musicale, ricchissimo di brani e di atmosfere in serie (le trappole di melopee collettizie), a volte risulta solo finalizzato a segnare il movimento; una più indipendente ricerca di relazione, tutta d’un getto, tra forme del movimento e musicali, avrebbe forse ridotto l’effetto funzionale, rischiarando una più consapevole unità. Ma vi è però una coerente dimensione intuitiva delle presenze che salda insieme le parti del lavoro: gli elementi messi in gioco da ognuno dei corpi sono già azione, non solo reazione. Così una intensa e nervosa segmentazione del movimento, fatta di ripartenze o di rallentamenti (anche tra coppie in simultanea), scompone e ricompone la mappa del mondo che qui si sta disegnando. È il risultato di una decisione di natura percettiva: Tedesco sembra allora aver voluto coreografare proprio ciò che voleva riuscire a introdurre nel proprio mondo interno. (Stefano Tomassini)
Visto alla Fonderia di Reggio Emilia, Coreografia: Roberto Tedesco, Interpreti: Mattias Amadori, Eleonora Dominici, Laila Luchetta Lovino, Francesco Misceo, Musiche: Eskmo, Brendan Angelides / Rival Consoles / The Gentleman Losers / Pan-American / J. S. Bach / Raime / Senking, Sound designer: Giuseppe Villarosa, Disegno luci: Giacomo Ungari, Costumi: Francesca Messori. [Crediti completi]
PROMETHEUS PROJECT, SECOND MOVEMENT: ἸΏ (di Raffaele Di Florio)
A immaginare il Prometeo incatenato di Eschilo, l’aspettativa era quella di trovarsi davanti l’idea di una landa desolata, tagliata da rocce crudeli, sommersi da gemiti e strilli; l’aspettativa era quella di trovarsi davanti uno spazio umano. Ai piedi del Titano incatenato, la grossa giumenta Io urla il proprio dolore. La stanchezza l’ha resa ottusa, corre fino alla follia, aspetta un figlio; vittima dei capricci di Zeus e delle gelosie di Era, è destinata a non trovare pace. Invece, nella messa in scena di Raffaele Di Florio, della tragedia manca del tutto la cieca disperazione, il tormento ossessivo: manca, insomma, l’animale. Il regista salernitano opta per una ricerca estetica strabordante ma estenuata, poco carnale, e fredda. Non esiste tempo o spazio, ma solo un informe flusso emotivo dove la presenza del mondo reale si riconosce in un letto su cui si sono riversati solitudine, desiderio e paura. L’eccedenza di elementi, tra quelli musicali curati dal compositore Salvio Vassallo, e quelli visivi ideati dal visual designer Alessandro Papa, sovraccarica l’aria di stimoli senza arricchirla di sensazioni, poiché mal comunicano tra loro: non è sufficiente ad accompagnare l’impeccabile esibizione di Luna Cenere e avvolgere il suo corpo, e anzi ne limitano il potenziale. La danzatrice e coreografa inscena la storia della sacerdotessa di Zeus prima che questo la seducesse e la costringesse al patimento, fino alla terribile metamorfosi. Comunica con l’inquietante figura di Prometheus, la cantante Valentina Gaudini, ricordando ciò che è stato e domandando responsi sul proprio destino. Cenere è capace di rendersi iconica, classica e astratta; il suo corpo esprime il pensiero e lo significa nei minimi movimenti tellurici dalla schiena fin nelle dita dei piedi. Ogni gesto è una mutazione in costante avvenire, non esiste la quiete ma un instancabile vivere, le mani toccano il corpo e lo modellano lì dove le emozioni si impongono. Ma non strazia, talmente lontana dall’impeto che dovrebbe esprimere (Valentina V. Mancini)
Visto a Ridotto del Mercadante, Napoli; Crediti: Ideazione, spazio scenico e regia Raffaele Di Florio; Con Luna Cenere e Valentina Gaudini; Musiche originali e disegno del suono Salvio Vassallo; Video Alessandro Papa; Coreografia e danza Luna Cenere; Canto e performing art Valentina Gaudini; Voce registrata Cristiana Dell’Anna; Foto di scena Ivan Nocera; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
HEDDA (di e con Clio C. Buren)
Più volte nel rileggere Hedda Gabler avremmo cercato di condensare in una modalità “spiegabile” le sue scelte, per poi ritrovarci ad analizzare una psicologia che in fin dei conti non vuole essere compresa e non cerca legittimazione. Ed è per questo potentissima e radicalmente rivoluzionaria. La sua colpa è proprio questa, essere così. Reato reso evidente nella riscrittura di Clio Cipolletta Buren, monologo di circa una cinquantina di minuti in cui Hedda si rappresenta in tutta la sua superba consapevolezza e più volte lo ricorda, semmai il pubblico non lo avesse chiaro: «Questi, noi siamo». Una sedia, un tavolo, una pistola e una pennetta usb sul palco di Fortezza Est, e poi lei, in abito lungo, giacca, décolleté a spillo, tutto di colore nero. C’è una dolce inflessione nella dizione che per le sfumature più rancorose si appoggia al vernacolo campano, familiare per l’attrice, in particolare quando l’emozione appesantisce il ragionamento e diventa ingestibile. Hedda pensa ad alta voce spiegando del suo amore fallito con Borg, quello di ripiego con Telmo, dei soldi che non ci sono, della zia che incalza, dell’occasione professionale che non può non essere colta. A tutti i costi. E quanto le è costato? Basta guardare la sua postura, esemplificativa: il mento alzato, la schiena inarcata, lo sguardo orizzontale, impietoso con se stessa, con chi ascolta, con la vita. L’adattamento si concentra sui vulnus del testo originale e li attualizza anche se collocati in una presente senza tempo perché potrebbero accadere in tutti i tempi; unica indicazione, contemporanea, è che il famigerato manoscritto di Borg - che gli varrebbe la cattedra universitaria al posto del marito di lei, Telmo, e che lei perciò farà sparire - è racchiuso in una pennetta usb. La dimensione compatta e tascabile dell’oggetto contiene in uno spazio ridotto la complessità di documenti sensibili che possono comprometterci, racchiusi in un parallelepipedo in apparenza insignificante. L’io monologante, in alcuni momenti, sembra avvolgersi in un soliloquio intimo, oscuro, che potrebbe, per coloro che non conoscono il dramma ibseniano, risultare criptico alla comprensione e perdere quell’incisività espressa invece nell’interpretazione attoriale magnetica, a disarmare qualsiasi pregiudizio e che si fa osservare e ammirare in tutta la sua perfida compromissione.
Visto a Fortezza Est: di e con Clio C. Buren, Suono Mauro Autore, TLTA produktion, con il sostegno di Tedecà Bellarte Torino – Fertili Terreni Torino, Scugnizzo Liberato Napoli, Ex Asilo Filangieri Napoli
INDOVINA VENTURA (di Ortolani, Provinzano, Massa)
«Scriverai anche di questo?», chiede Provinzano. E perché no. Da poco si è tenuto allo Spazio Franco Indovina Ventura, esito di un laboratorio da Scaldati. Oltre una ventina di performer per una triplice regia (Margherita Ortolani, Giuseppe Provinzano, Giuseppe Massa) in collaborazione con tre musicisti (Angelo Sicurella, Serena Ganci, Dario Mangiaracina) in un collage di tre episodi. Del testo originale viene accolta la forma frammentaria, qui cucita in una rapsodia già tenuta a dicembre, nell'ambito dei progetti legati ai dieci anni dalla morte dell'autore. Il primo atto è di Ortolani e Sicurella, entrambi presenti sul palco. Nel complesso, la disperazione troppo urlata dei protagonisti si disintegra in un lavoro più disorganico che eterogeneo; a questo stadio, si avverte la mancanza di una misura più ponderata a regolare l'esplosione dei singoli momenti parossistici. Bel quadro è quello in cui Ortolani recita, seduta, in duetto con Sicurella. Il secondo atto, di Provinzano e di Ganci, si presenta in una forma che già adesso ci pare compiuta: la comitiva di vavaluci (lumache) avanza in schiera orizzontale verso il pubblico, e davvero lo fa divertire nella riuscita fusione armonica con il cantato. Interessante l'ultimo atto, di Massa-Mangiaracina: un aperitivo sui toni del rosa sul quale sembra incombere la fine del mondo. Massa si trova a suo agio nel buio, dove gioca confondendo codici e linguaggi: nell'oscurità imposta dall'Enel le interpreti e le interpreti si abbandonano a un ultimo slancio erotico, mentre nudi si abbracciano al suolo. Ricorda un po' quella scena di Zabriskie Point, ma non è nel deserto che i protagonisti si trascinano; piuttosto è in un'atmosfera lunare che si incontrano e che incontrano il pubblico con la loro presenza opprimente. Al povero Totò (Giuseppe La Licata), non resta che urlare, vilipeso e inascoltato. Bene il coinvolgimento di così tante valide professionalità, secondo una linea tesa a delineare «nuove direzioni del futuro, non soltanto dal punto di vista strettamente culturale ma anche come centro di processi creativi virtuosi».
Visto allo Spazio Franco. Crediti: ... Passat'a porta Siemo un Filu i Fumu Regia di Margherita Ortolani Musiche di Angelo Sicurella con Tea Bruno, Angelica Di Pace, Alessandra Falanga Chiara Gambino, Daria Karpova, Dario Muratore, Chiara Muscato. Va' Va' luci regia di Giuseppe Provinzano, musiche di Serena Ganci, con Julia Jedlikowska, Giancarlo Latìna Daniela Macaluso, Oriana Martucci, Alessia Quattrocchi, Luigi Maria Rausa, Riccardo Rizzo, Esdra Sciortino Nobile. Si l'àncili cantassiru câ luci e no câ vuci Regia di Giuseppe Massa, Musiche Dario Mangiaracina, con Ibrahima Deme, Paolo Di Piazza, Giuseppe LaLicata, Sofia Lalicata, Chiara Peritore, Simona Sciarabba, Nancy Trabona E con Roberto Calabrese e Carmelo Drag. Foto di Alessandra Leone.
MADINA (coreografia di Mauro Bigonzetti)
Profetica e purtroppo attuale, l’opera musicale Madina in forma di Teatro Danza in tre quadri del compositore Fabio Vacchi con la coreografia di Mauro Bigonzetti è tornata nella stagione di balletto del Teatro alla Scala di Milano. Tratta dal romanzo La ragazza che non voleva morire di Emmanuelle de Villepin (autore del libretto che in parte se ne discosta), comprende anche due cantanti solisti (soprano e tenore), il coro e un attore. Una sfida di bilanciamento delle presenze (e delle drammaturgie) alla quale Bigonzetti già al tempo del debutto non si sottrasse, convocando un imponente immaginario visivo, mobile e mai di intralcio, grazie al magistrale lavoro su scene e luci di Carlo Cerri, in perfetta sintonia con il lavoro dei video designer Alessandro Grisendi e Marco Noviello. Il libretto, come già il romanzo, racconta una storia vera: una ragazza (nel romanzo cecena) subisce l’occupazione della propria terra, la distruzione della propria famiglia (rigidamente patriarcale), lo stupro da parte degli occupanti (nel romanzo i russi), le richieste dei familiari di immolarsi in un attentato suicida in una grande città occidentale. Corpo reso docile dalla violenza e dalla cultura del possesso degli uomini, Madina è per tutti loro vita sacrificabile. Lei dirà di no, interrompendo la diarchia azione/reazione. Dirà di no alla violenza della manipolazione che risiede nella cultura dello stupro e nel familismo ricattatorio. Non senza conseguenze per sé e per altri: ma Madina conosce un’altra forma dell’amore senza odio, senza sovranità, che è resistenza, ed è senza contropartita. La coreografia richiede ferocia e anche violenza: Bigonzetti prende qui tutti i suoi rischi, e alla fine si esce turbati. In questa ripresa, la capacità trasformativa di Antonella Albano nel ruolo di Madina (su di lei creato) resta intatta; mentre sorprende la forza di Gabriele Corrado (nel ruolo inedito del brutale Kamzan) capace di mostrare l’ingovernabile squallore del disumano. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro alla Scala Coreografia MAURO BIGONZETTI Musica FABIO VACCHI Luci e scene CARLO CERRI Costumista MAURIZIO MILLENOTTI Costumista collaboratore IRENE MONTI Video designer CARLO CERRI Video designer ALESSANDRO GRISENDI Video designer MARCO NOVIELLO Direttore MICHELE GAMBA, cast del 6 marzo [Crediti completi]
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