Cordelia - le Recensioni

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GIUNSERO I TERRESTRI SU MARTE (regia Giacomo Bisordi)

Giunsero i terrestri su Marte, per la drammaturgia di Pierfrancesco Franzoni e Giacomo Bisordi (e il testo a cura della compagnia) si presenta agli occhi della platea come una continua sorpresa: l’oscillazione degli stati d’animo, lo stupore, la curiosità di mettere a fuoco gli eventi, la dilatazione dei tempi drammaturgici e l’utilizzo in profondità dello spazio. L’idea è quella di lavorare sul tema del viaggio verso il pianeta rosso e parallelamente utilizzare questa possibilità per una vera e propria ricerca sui linguaggi teatrali. La prima scena è nell’oscurità, i tre astronauti (Giulia Heathfield Di Renzi, Gaia Rinaldi, Francesco Russo) entrano dalla platea in mezzo al fumo, calcano il palcoscenico accorgendosi che è un palcoscenico, nel quale la bandiera non può essere piantata. Nella seconda parte la scena si apre e i tre si ritrovano in un luogo che è una sorta di deposito, ci sono un televisore a tubo catodico in cui verrà trasmesso Pippi Calzelunghe (ma solo in audio), una numerosa quantità di scatole, in cui i tre viaggiatori troveranno i resti di un altro mondo e i frammenti di un compleanno d'infanzia. Non si tratta di un mondo sconosciuto, ma del nostro, di qualche decennio fa. Il viaggio su Marte è diventato un viaggio nel tempo oppure la squadra ha trovato qualcuno che è arrivato su quel pianeta prima di loro e poi è scomparso? E se quei ricordi appartenessero all’infanzia dei tre viaggiatori? Nel primo quadro la parola testuale interveniva come voce off, qui la voce torna dal vivo ma per pronunciare singole parole, le urla di un gioco reiterato al parossismo: “palla! palla!” grida come un ossesso l’astronauta alle prese con un solitario e violento ping pong. Arriverà poi una conferenza stampa - nella bellissima profondità di India, al limitare dell’uscita di fondo - che però non chiarirà nulla. «La Terra è la culla dell’umanità, ma non possiamo rimanere nella culla per sempre.» dirà uno dei tre. C’è una libertà compositiva unica in questo spettacolo e una richiesta, anche al pubblico, di mollare gli ormeggi per farsi trasportare in luoghi divertenti e poco tranquillizzanti. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro India: regia ed ideazione Giacomo Bisordi drammaturgia Pierfrancesco Franzoni e Giacomo Bisordi testo a cura della compagnia con (in o. a.) Giulia Heathfield Di Renzi, Gaia Rinaldi, Francesco Russo, scene e costumi Marco Giusti e Alessandra Solimene, suono Dario Felli, video Igor Renzetti, assistente alla regia Paolo Costantini

LAMPYRIS NOCTILUCA (di Aristide Rontini)

Forse un giorno il corpo non sarà strumento di affermazione di distinzione, ma solo il limitato contenitore di qualcosa di splendido. Aristide Rontini porta in scena il suo contenitore e lo apre agli occhi del pubblico, disvelando un’emotività ricca eppure delicata, in parte misteriosa, fatta di morbide fluidità e punture stentoree. In principio il buio si ritrae al fioco bagliore che sorge da una massa su cui si riconosce una vaga forma umana; la struttura totemica è sollevata per aria, è cangiante. Più piccolo, quasi minimo, la figura d’uomo appare confusa mentre gli occhi si abituano alla nuova condizione di luce. È di spalle, il suo corpo è ciò che abbiamo davanti, e ciò che lo contraddistingue è l’abbigliamento maschile e nulla più. I movimenti flessuosi della schiena e delle braccia, la curvatura estrema dal collo alle ginocchia, precedono il dischiudersi del semplice contenitore. La forma è quella della statuaria. La luce del totem prende vigore quando il corpo si volta e si esprime in numerosi tentativi di posizionamento, nessuno dei quali corrisponde al suo aspetto. Le braccia si fanno sicure, ruotano e accompagnano; si stende per terra, sul fianco. La mancata corrispondenza di ciò che appare e ciò che intimamente è, spacca l’esteriorità e conducono alla mutazione. La veste cambia, rossa, nasconde la forma in un turgido bozzo da cui è possibile distinguere la sagoma del viso, e per qualche attimo ciò che pulsa non è più un corpo bensì lo splendore che porta dentro. Lo splendore si compatta in una sembianza più propriamente femminile, lì dove la lunga gonna meglio accompagna quella fluidità curva del bacino e delle anche, moltiplicando le curve dinamiche. Quidni si ritorna a una forma, una e data. Tralasciando il riferimento a Pasolini e al suo famoso articolo sulle lucciole, perché improprio, fuorviante e soggetto a un pensiero identitario che rigetta quello di classe, e al netto della bellezza dell’immagine, sorge un dubbio: si applaude per la forma del contenitore o per lo splendore che porta dentro? (Valentina V. Mancini)

Visto a Spazio Körper; Crediti: Di e con Aristide Rontini; Dramaturgia Gaia Clotilde Chernetich; Musiche originali live Vittorio Giampietro; Disegno luci Giulia Pastore; Tecnico Luci Angelo Generali; Audio-descrizione poetica Live (per un pubblico cieco) Camilla Guarino e Giuseppe Comuniello; Collaborazione produttiva Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Ass. Cult. Nexus – Aps; Con il sostegno di Versiliadanza, Onassis AiR nell’ambito del progetto Europe Beyond Access cofinanziato dal programma Europa Creativa, Progetto Residenze Artistiche 2022/2023 Area Cultura Comune di Imola, Masque Teatro

SIGNOROTTE (di Massimo Odierna)

Tre donne, che probabilmente hanno superato i cinquanta, si incontrano dopo decenni: Ada, Ida e Beta, questi i tre nomi assonanti; si conoscono dalle scuole superiori e ora è la morte del marito di Ida a riunirle. Massimo Odierna, autore e regista, le fa incontrare in una scena buia e vuota: qualche seduta e le luci accuratissime, acide e affilate, basta questo per disegnare un incubo in cui le tre donne appaiono come delle apparizioni grottesche, con abbigliamento vistoso e parrucche pettinate, inquietanti, ma comiche. Sara Putignano (Ida), splendida per le sfumature e l'interpretazione di questa “preziosa ridicola” che ha sposato un uomo ricco grazie al quale può permettersi di produrre le proprie commedie con una compagnia di amatoriali, è terribilmente infelice e lo nasconde dietro alla maschera dell’attrice colta. Viviana Altieri è Ida, deve affrontare la perdita del compagno di una vita ritrovandosi sola, proprio come quando da giovane passava da un fidanzato all’altro. A Elisabetta Mandalari il personaggio più facilmente comico: parlata romana squillante e colorita, un figlio con disabilità allevato da sola e una rosticceria da gestire in periferia. Il passato e il presente si alternano nel tempo di una svestizione e le tre, una volta tornate, cominciano a raccontarsi anni pieni di ferite e infelicità. Le avventure giovanili e la comicità però devono fermarsi di fronte a un luogo della memoria che era stato rimosso. Una vacanza, forse in un paese lontano, un gioco che diventa pericoloso e la difesa che diventa omicidio. Le tre signorotte appaiono d’un tratto come tre ciniche assassine vendicative. Quel passato di colpe le avvicina definitivamente, dando loro la possibilità di rivelare frammenti di un presente violento, segnato da storie di abusi e perversioni familiari sempre scatenate da uomini orribili, alle quali le tre sono “costrette” a rispondere con altri omicidi. Qui la drammaturgia ha un’accelerazione troppo brusca e le confessioni aggiungono un’ulteriore patina di crudeltà a uno spettacolo sorprendente che si apre in commedia e si chiude come un grottesco noir. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Lo Spazio: Di Massimo Odierna Regia Massimo Odierna Con Viviana Altieri, Elisabetta Mandalari, Sara Putignano

RESPIRO PIANO (Di Piera Russo e Nicola Maiello)

Matilde è una giovane donna, sola nella casa di famiglia; è con degli operai per liberare la casa dagli oggetti più vecchi, ma ognuno di essi la riporta alla sua infanzia fatta di rimproveri e divieti. Da donna timorosa di muoversi tra le mura di quello che sembra un mausoleo, diventa una bambina vivace, curiosa e piena di immaginazione. Tocca il grammofono del padre e la macchina per cucire della nonna, e immediatamente si abbattono su di lei le ire del primo e le aspettative matrimoniali, meglio senza amore, della seconda. È una bambina sola, ha sporadici e tesi rapporti col paese, e non può fare altro che cacciare il naso per pochi istanti dalla finestra di legno socchiusa, per poi essere immediatamente redarguita dalla made apprensiva. Matilde si chiede perché la sorella minore non riceve lo stesso trattamento. Intanto l’unico che pare volerle realmente bene è uno zio, amico della madre. Piera Russo si confronta con una storia italiana molto classica, ma la affronta con energia ed intelligenza, riuscendo a non apparire mai stucchevole nell’accarezzare i ricordi, anche quelli più antichi ma mai passati, perfettamente meridionali di chi osserva: una capacità per niente da sottovalutare. L’esuberanza fisica viene compressa nella costruzione di uno spazio angusto per rendere una condizione di perenne instabilità, sia emotiva che effettiva; si ha l’impressione che ogni oggetto possa essere gettato per aria nella foga di un salto o di una giravolta. Per lo stesso principio, appare ancora più evidente lo scoppio del corpo accompagnato da una vocalità eccitata da un entusiasmo infantile. La scrittura si adatta a questa esuberanza e acquista un ritmo da assolo di batteria, gestendo bene i tempi e disseminando con agilità le attese, ma ha una, seppur lieve, mancanza: dovendo seguire l’euforia fisica, la parola è costretta a costruirci attorno un pesante apparato barocco, che, se non è di certo lezioso, rischia di essere poco proporzionato a quelle scelte di scena perché propriamente letterario. (Valentina V. Mancini)

Visto a Teatro Sala Ferrari; Crediti: Di Piera Russo e Nicola Maiello; Con Piera Russo; Scenografia Rossella Pugliese; Musiche originali Frankie Broccoli e Francesco Granatello; Light design Marco Ghidelli; Laboratorio scenico Alovisi; Collaborazione artistica Elena Starace; Aiuto regia Carolina Romano; Prodotto da Fratelli di Versi

A.D.E. A.LCESTI (Di Fabio Pisano)

In un contesto culturale napoletano poco soddisfacente, è un sollievo seguire assiduamente il lavoro di alcuni autori di ultima drammaturgia (piccolo appunto polemico: per la maggior parte sono uomini quelli che riescono, certo non assiduamente, a lavorare in teatri non off. Un po’ di modernità, suvvia), per niente succubi della tradizione partenopea eppure ben consapevoli di quella, intelligenti e curiosi , spavaldi nel non essere immediatamente riconducibili alla loro città. Fabio Pisano è uno di quelli. Traduce l’Alcesti di Euripide e lo riscrive con delle buone intuizioni che dissolvono il mito in un umanissimo dramma borghese, pur lasciandone intatta la composizione. Di spettacolo in spettacolo, dimostra di saper gestire la regia, migliorando; dirige con cognizione i suoi attori: riesce a rendere la sempre convincente Francesca Borriero, in scena Alcesti, lì chiusa nella teca da morta, una presenza femminile vivida, una voce di coscienza e d’amore che può commuovere. La sintassi delle luci diventa sempre più complessa e crea spazi e figure interessanti, aiutato da una ottima modulazioni del buio e delle ombre. I dialoghi, forse più convincenti dei seppur bei monologhi, riescono perfettamente a restituire profondità ai personaggi e alle relazioni che li tengono vivi: il confronto tra Admeto (Raffaele Ausiello) e il padre Ferete (Roberto Ingenito), in una dinamica che capovolge l’interazione originaria, per cui ora è il figlio a biasimare severamente il padre incompreso, è un pezzo di abilità di scrittura. È un teatro che è fatto per essere seguito con attenzione, che richiede uno sforzo non di poco conto. È un teatro che però ha dei limiti nella ricerca per la scrittura: per quanto l’utilizzo del chiasmo, l’attenzione a frazionare i periodi disseminandone nel tempo i significati, producono sì delle tensioni relazionali scosse da intime riservatezze, si rischia di lasciar troppo spazio a un formalismo che, non trovando una compiuta risoluzione nell’azione, viene frustrato in una sperimentazione a metà.

Visto a Sala Assolii; Crediti: Testo e regia Fabio Pisano; Con Raffaele Ausiello, Francesca Borriero, Roberto Ingenito; Suggestioni sonore Francesco Santagata; Costumi Rosario Martone; Scene Luigi Ferrigno; Luci Fabio Pisano e Alessandro Salzano; Assistente regia Francesco Luongo; Produzione Liberaimago.

RUMBA (di Ascanio Celestini)

Questo racconto inizia dalla fine. E la fine, quasi sempre, è la morte. Ma se a morire è un personaggio esemplare come Francesco d’Assisi a un certo punto fatto santo, allora quella fine si estende oltre la morte, anzi quasi l’estensione ne fa un esempio ancora maggiore per chi ne raccoglie testimonianza. E allora ci vuole poco a far sì che il “poverello” d’Assisi, dalla propria ultima data in Terra vecchia di 800 anni o quasi, sopravviva in tutti i poverelli che oggi restano nelle intercapedini tra i negozi e l’asfalto, sui marciapiedi di ogni città. E, magari, nel parcheggio del luogo simbolo della modernità ipertrofica: il centro commerciale che condensa in un edificio gli effetti più roboanti del capitalismo. Ascanio Celestini, al Teatro Carcano di Milano e in tournée in tutta Italia, porta in scena Rumba. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato. Assieme al musicista Gianluca Casadei, referente del racconto e maschera muta come già nei precedenti capitoli della trilogia che comprende Laika e Pueblo, il racconto di Celestini nasce dal buio di un firmamento stellato, mescolando una proiezione lontana a un’osservazione da vicino della realtà, chiamando gli spettatori a un viaggio che magicamente comprime il tanto grande nel tanto piccolo e rivela così la profondità scoscesa e densa della memoria. Francesco, che a Greccio diede vita a un presepe simbolico per dire che ogni luogo è “terra santa”, ricorre nelle parole dei barboni del parcheggio, nella percezione del ritmo che si muove attorno, nell’identificazione della differenza tra i poveri e la povertà, ma allo stesso tempo rifrange nelle vetrine del supermercato, si specchia nei personaggi che osservano in negativo lo stesso paesaggio, come il facchino incattivito dalla sfortuna familiare che se la prende con i rom, compiendo così un’impresa di estrema difficoltà: come già in precedenti racconti, Celestini esprime pensieri scomodi nei personaggi, al punto di confondere gli spettatori che si trovano a un bivio, non sanno se indignarsi per la superficie delle parole, oppure in esse, con grande sforzo di accettazione, riconoscere le proprie. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Carcano, gennaio 24. Credits: di e con Ascanio Celestini; musiche di Gianluca Casadei; voce Agata Celestini; immagini dipinte Franco Biagioni; suono Andrea Pesce; luci Filip Marocchi

I MASNADIERI (regia Michele Sinisi)

Nella prefazione ai Masnadieri (1781), lo stesso Schiller confessa di aver inzeppato il dramma di sottotrame per riuscire a «illustrare le passioni e i pensieri». Passioni, ancor più che pensieri, sono il catalizzatore di quella che sarebbe stata la scuola romantica, idee con cui, pochi anni prima, nella Drammaturgia d’Amburgo, Lessing aveva impastato l’identità culturale tedesca, contro il teatro di corte di Corneille e Voltaire e cantando la tragedia elisabettiana, la farsa di Molière e l’illuminismo acre di Diderot. Uno stesso progetto di metodo propone, con i consueti slittamenti da personaggio ad attore, il regista Michele Sinisi, autore di un adattamento sfrenato, urlante e complesso per il Gruppo della Creta in lunga tenitura romana all’agguerrito Teatro Basilica. Sì, perché tra gli archi di mattoncini di pietra che incorniciano lo spazio scenico nudo, al suono della sontuosa ouverture dell’opera di Giuseppe Verdi mandata da uno smartphone, il ribelle Karl Moor si presenta innanzitutto con nome e cognome dell’interprete e così faranno tutti gli altri, spezzando il racconto con note autobiografiche e un sunto rapido della funzione del proprio personaggio. Facendo persino ripetere un’intera scena senza neppure sottolinearlo, tornano gli spettri che abitano il ragionamento scenico di Sinisi: i limiti del dispositivo di finzione e però la potenza liturgica della creazione d’attore. Quasi un grimorio di formule da sturm un drang, I Masnadieri è una concitata storia di pirati in cui un rinnegato rampollo della nobiltà ducale, osteggiato dalle luciferine trame del fratello, guida una masnada di violenti guasconi a scatenare un caos assoluto che possa salvare lo «spirito tedesco» dalla cancrena benpensante. Certi tramutati in azione, altri epicamente narrati, dell’intricato ordito restano qui quasi tutti i fili: elevate al massimo volume non sono solo grida all’assalto, ma anche confessioni d’amore e ultime parole al capezzale; se la pantomima è la chiave per un rituale finale, in tono piano sono i monologhi speculativi, che danno mostra di un sottile pensiero politico, in grado di interrogare i concetti di merito e redenzione, in un mondo di maschi alfa che non s’accorge di sacrificarsi a insensati altarini, smarrendo la grana umana. La cifra usata è quella dello sberleffo che si prende gioco delle convenzioni; eppure, ancora una volta, Sinisi non si ferma qui: nudi cambi luce, una pioggia di lattine calpestate, pochi elementi di costume e oggetti sono sufficienti a questo rinnovato nerbo elisabettiano, sudicio e affascinante, dove in teatro, eduardianamente, «tutto è finto ma niente è falso». (Sergio Lo Gatto) - Crediti completi

C19H28O2 o Come Avere le Palle (di Riccardo Rampazzo)

Con poco, molto poco, per dire tanto, senza imbrigliare il pensiero o imporre un posizionamento, rifuggendo il giudizio per rappresentare un fatto, le sue luci e, attorno, le ombre. Solo una cassa nel buio della scena, dalla quale si allungano due microfoni con filo serpeggiante sul pavimento di Fortezza Est. Poi due torce, che diventeranno in seguito tre, a illuminare i punti cardinali di una notte che non farà mai giorno. Loris (Paolo Sangiorgio) e Gu (Leonardo Cesaroni) e un’ombrina, il pesce che ha gli stessi occhi di Anna (Sara Younes). È un tedio circolare quello che li unisce: Loris canta, è romantico ma prevaricatore; Gu più misterioso e alienato nella sua catena di montaggio quotidiana. Due pescatori in impermeabile uno e salopette l’altro, entrambi gialli, ingombranti, stanno sulla barca, pescano e, spesso, non tirano su niente, poi tornano a casa, vanno al pub, e il giorno dopo si ricomincia. Il guizzo registico è un’idea semplice ma efficace, calibrata in un’interpretazione giovane e non acerba, anche se troppo gridata e accesa negli sbotti ma di una densità che tiene il pubblico all’erta. La scrittura drammaturgica è completata da una partitura musicale che punta all’essenza e fa palpitare proprio le viscere: i microfoni sono infatti usati come casse sonore, battuti con le mani o sul petto a creare pulsazioni ritmate, frequenze di onde che si propagano e scandiscono «Prendo, taglio, tolgo, butto» e di nuovo, e ancora. Una mascolinità incapace, goffa e impaurita emanano i due personaggi, soggiogati dal lavoro e dall’unica figura femminile che esercita su di loro un controllo, verso il quale ci si ribella con quell’imprevedibilità tossica e inconsapevole che trasforma la maldestrezza in turpe violenza: i punti di luce dal giallo virano al rosso e poi buio. L’oscurità è dei flutti, delle profondità marine, viscose e impenetrabili, come il titolo stesso C19H28O2, dalle quali sembra levarsi sinuosa la dolcezza di un canto di sirena, ammaliante, stregato, che ti stordisce e ti tira giù, fortissimo. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: scritto e diretto da Riccardo Rampazzo, Aiuto-regia Giulia Ravelli, con Leonardo Cesaroni, Paolo Sangiorgio, Sara Younes, un progetto di Lidi Precari

CAMERA 701 (di di E. Wilk, regia L. Mazzone)

Si è da poco tenuto al Libero Camera 701, della romena Elise Wilke, per un progetto in collaborazione con PAV / Fabulamundi Playwriting Europe. Il titolo allude a una stanza d'albergo in cui si svolgono le vicende di varie coppie di passaggio: un non-luogo allo stesso tempo aperto e chiuso rispetto all'esterno. L'elegante ambiente déco vagamente anni Settanta, arredato da Mario Chiappara, è la sede fissa di vicende le quali, nel loro continuo succedersi, si presentano invece come effimere, transitorie. «Una camera d’albergo non possiede il calore di una casa. Ci si sente soli, immersi nella propria esistenza scandita da amore, delusione, fallimento, paure»: al suo interno si svolgono vicende tutto sommato quotidiane, ma che dal quotidiano fuggono in virtù di qualche singolare e ironica specificità. Un matrimonio di convenienza, un'imprevedibile lezione di spogliarello, un suicidio sventato, una relazione che da professionale sembra divenire ambiguamente affettiva. La stanza dell'hotel diviene dunque lo spaccato di un umano colto nei limiti della propria irredimibile contemporaneità. In toni da commedia brillante, gli interpreti (Federica D’Angelo, Giuseppe Lanino, Nicolò Prestigiacomo, Silvia Scuderi) portano in scena un pugno di nevrosi e speranze: la regia (di Luca Mazzone) le organizza tutte con equilibrata misura, strutturando l'intera rappresentazione intorno al cadenzato svolgersi dei rapporti tra i personaggi. Rapporti fondati sullo scambio di sensazioni e sentimenti: sono questi a rappresentare il vero e unico fulcro della vicenda drammatica. In fondo è su un tono di accattivante superficie che il racconto vuole svolgersi: Camera 701 diverte il pubblico mantenendosi su un'ironia delicata e sempre conciliante, tratteggiata a tinte pastello (Tiziana Bonsignore).

Visto al Teatro Libero, Palermo. Crediti: di Elise Wilk, traduzione Loredana Chircu, scena e regia Luca Mazzone, con Federica D’Angelo, Giuseppe Lanino, Nicolò Prestigiacomo e Silvia Scuderi, costumi Lia Chiappara, elementi scenici Mario Chiappara, luci e suoni Michele Ambrose. Foto di Giulia Mastellone

LADIES FOOTBALL CLUB (di S. Massini, regia G. Sangati)

Nel 1917 gli Usa entravano in guerra e in Russia si preparava la rivoluzione. Ma non solo: in Inghilterra, in una fabbrica di munizioni, undici operaie decidono di calciare un pallone nel cortile dello stabilimento. È l'avvio di Ladies Football Club, di Stefano Massini, per la regia di Giorgio Sangati, vista alla Strehler del Biondo di Palermo. Quel calcio, apparentemente casuale, è molto di più: è l'inizio di una partita di calcio clandestina, per sole donne, perché gli uomini sono tutti al fronte e durante il conflitto non possono certo giocare al pallone. Il primo lancio è di Rosalind Taylor: nei suoi panni di proletaria, Maria Paiato racconta in prima persona una storia corale, un mosaico unitario di esperienze diverse ma coincidenti. Tra sport e lotta politica, assistiamo alla metamorfosi di un corpo di lavoratrici in squadra: la trasformazione ha i toni di un romanzo di formazione, dove tuttavia alla persona autoriale si sostituisce una moltitudine di individualità. Attraverso la voce dell'interprete, siamo in grado di attribuire a ciascuna delle protagoniste un volto, una storia, un'attitudine personalissima e individuale. Paiato le racconta tutte, da acuta caratterista. Sebbene rimanga abbastanza stabile al centro della scena, dove mantiene senza cadute le attenzioni del pubblico, la rievocazione di azioni e passaggi agìta dall'attrice si imprime nella mente dello spettatore con precisione definita. Nella breve traiettoria che l'attrice talvolta attraversa per rivolgersi più direttamente a chi la osserva, si consuma anche la trasformazione degli spettatori in tifosi, e viceversa. La scena di Marco Rossi, un cortile in cemento su cui si riverberano luci da stadio (di Luigi Biondi), si scopre essere «un rettangolo sublime, di misura regolamentare», il luogo di uno slancio «non sportivo, ma disperato». Tuttavia, la vicenda delle operaie è anche un fatto gioiso, vissuto tra toni di festa: sport e teatro si trovano uniti in una comune radice ludica. Ma il gioco qui è un fatto serissimo; una volta tornati dal fronte, le partite verranno restituite alle gambe e ai muscoli dei reduci. Agli occhi del restaurato patriarcato calcistico, le imprese delle giovani operaie non sono state che uno scherzo (Tiziana Bonsignore).

Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: di Stefano Massini con Maria Paiato, regia Giorgio Sangati, scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca, luci Luigi Biondi, assistente alla regia Michele Tonicello, produzione Teatro Biondo Palermo / CTB - Centro Teatrale Bresciano, in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa. Foto di Masiar Pasquali

PASSAGE/PAYSAGE (di Camilla Monga)

Una volta entrate, come gli spettri, non usciranno più dalla nostra mente. Ma prima il preludio, solo musicale di elettronica e viola di Federica Furlani, che è lungo, intenso, necessario oltreché bellissimo: come un dare le carte prima della partita, che già si anticipa intensa, decisa, vivace. Poi, come angeli nerovestite cadute sulla scena, prima Camilla Monga, morbida e flessuosa, poi Chiara Montalbani, più accesa e spedita, questo duo di figure in dinamica scavano tra loro diversità sofisticate e affinità impertinenti. Tra selvaggie rotazioni e morbidi incroci, come un susseguirsi di educati esorcismi per opera di garbati sciamani, assistiamo a una infinita serpentina di disseminate alternanze e intelligenti decostruzioni di movimento: un incredibile susseguirsi di invenzioni cinetiche come una sorta di Pensée Sauvage tra passaggio e paesaggio, in una festosa mestizia. «Un immaginario in costante evoluzione», è scritto, di questo Passage/Paysage. Ed è proprio così, ma è nel pieno montare di basse onde sonore e di «suoni concreti e acidi», che allora tutta una corsa insegue e sorpassa con perizia lo sguardo di noi spettatori, improvvisamente trascinati entro i malinconici recessi dell’incontro con l’Alterità. Eccolo forse il più vero passaggio inseguito e marcato: dai residui nostalgici di una Natura primitiva e selvaggia al paesaggio di una sofisticata Cultura piena di eredità. Monga restituisce al tema della ripetizione il suo valore di classico nella composizione coreografica, con tutto quel che ciò comporta: «cambiamento» e «combinazione», ma anche epifania di ciò che manca, e ricerca di ciò che si è perduto, in una nuova condizione che è felice presagio. L’incontro più vero delle due danzatrici non è nell’ordine del dicibile né del documentabile. Ma solo nello svanire dell’una nel corpo dell’altra, nell’impronta delle ombre che restano a terra, fra i sussulti sonori e le fenditure luminose della scena. Nella finale realtà che compare in un’ultima sparizione. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Comunale di Vicenza; progetto di Camilla Monga e Federica Furlani; coreografia di Camilla Monga; live music (viola & electronics) Federica Furlani; danza Camilla Monga e Chiara Montalbani; luci di Francesco Bertolini; produzione Van.

IL TUO È UN POSTO DOVE NON POSSO ARRIVARE (di Eleonora Gusmano)

Lei sta nella vasca perché al mare non ci è mai andata e solo immersa nella vasca può “dividersi a metà”, come fa qualsiasi corpo immerso. Prima rigirata e capovolta, poi alzata, è proprio una vasca bianca a occupare la scena e a fungere da rifugio, nido, all’attrice Eleonora Gusmano che racconta la storia di M. Nonostante l’ingombrante presenza dell’oggetto sia ancora in una fase di ulteriore definizione, la vasca sembra porsi come correlativo oggettivo de Il tuo è un posto dove non posso arrivare, al debutto lo scorso weekend a Fortezza Est. Il racconto solitario di Gusmano è un monologo prismatico, scisso in più voci che a quella di lei, nipote di M., che si inserisce con i suoi ricordi, si alternano quella di M., che racconta della sua esistenza reclusa, distante dalla vita perché fragile, costretta in casa da una famiglia anaffettiva che ha scambiato l’amore con il possesso; e poi brevi inserti di Enrichetto, Piero, l’amica Daniela, i vicini. L’interpretazione di Gusmano, guidata dalla regia di Daniele Aureli, si colorisce del dialetto torinese, detto con puerile accento all’inizio, cresciuto negli interrogativi adolescenziali e posato, definito, nella maturità consapevole di una presa di coscienza. Al realismo della scrittura si contrappone tanto nel disegno luci che nelle musiche originali di Alessandro Romano Lorco, un immaginario fiabesco e impalpabile, fatto di suoni sommersi oppure stridenti, che sembrano provenire da un es agitato e quindi castigato da un super io limitante. Calibrando maggiormente alcuni passaggi, come la funzione della moltitudine di lettere che riempirà la scena e come queste usciranno dalla vasca, lo spettacolo potrà trovare più nettezza nel suo racconto, esemplificandolo al fine di rendere la storia di M. comune a molte e molti di noi costretti in una solitudine che non hanno scelto, inarrivabili nonostante siano stati sempre nello stesso posto, vicini ma lontanissimi. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: Finalista del Premio Letterario Internazionale Maria Cumani Quasimodo, Produzione Focus 2, Di e con Eleonora Gusmano, Regia Daniele Aureli, Dramaturg Giusi De Santis

IL GIUOCATORE (regia Roberto Valerio)

Certi testi sono dei classici proprio perché riescono sempre a ritagliarsi un piccolo spazio per parlare al pubblico di oggi e lo fanno andando oltre l’impostazione registica. Con Carlo Goldoni è spesso così, ma un classico può portare anche a un risultato noioso sul palcoscenico, non è il caso del Giuocatore, messo in scena con grande abilità e sapienza da Roberto Valerio. Il quale può affidarsi a un gruppo di attrici e attori coeso e di talento - nel quale spiccano il Florindo di Alessandro Averone e la Gandolfa di Alvia Reale - e a una scena suggestiva (di Guido Fiorato) che racconta un vicolo veneziano pieno di praticabili, scorci, altezze diverse e sembra quasi una nave in cui i personaggi si muovono in balia delle onde. Anche perché il ritmo goldoniano qui è sostenuto, Valerio e si suoi sono bravi ad agganciare l’attenzione del pubblico dentro una storia che potrebbe essere scritta oggi. La trama è semplice e ruota attorno a un male sociale, ciò che oggi chiamiamo ludopatia e forse non è un caso che il testo abbia visto la luce tra le drammaturgie della celebre scommessa giocata da Goldoni con il pubblico veneziano e i suoi detrattori, quella per cui avrebbe dovuto completare 16 commedie entro un anno. Il gioco era un problema anche nel ‘700, basti pensare che Pietro Chiari, proprio l’antagonista per eccellenza di Goldoni, pubblicò un romanzo dal titolo Le Memorie di madama Tolot ovvero la giocatrice di lotto. Averone sposta il fulcro del personaggio verso di noi, conferendogli dei tratti da anti eroe dannato e novecentesco, il suo Florindo a causa del gioco perderà la sua promessa sposa Rosaura (Mimosa Campironi che colpisce anche nel canto e nella scrittura delle musiche) e per appianare i debiti tenta di sedurre Gandolfa, la sorella di Pantalone. Qui sale in cattedra Alvia Reale disponendo sul tavolo tutte le carte da grande attrice: le numerose sfumature, l’ironia, i tempi comici e la capacità di tratteggiare in profondità un personaggio che parrebbe secondario ma che invece si staglia per modernità. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Sala Umberto: di Carlo Goldoni adattamento e regia Roberto Valerio con Alessandro Averone, Mimosa Campironi, Alvia Reale, Nicola Rignanese, Massimo Grigò, Davide Lorino, Roberta Rosignoli, Mario Valiani scene e costumi Guido Fiorato musiche originali Mimosa Campironi luci Emiliano Pona produzione Teatri di Pistoia – Centro di Produzione Teatrale

ALL YOU CAN VAX (di Enoch Marrella)

Quali sono le nostre memorie dei tempi della pandemia? Di quali immagini sono fatte? Quattro anni fa abbiamo vissuto qualcosa di unico, di tragico, che non era mai accaduto negli ultimi decenni, ma sembra che abbiamo cancellato tutto, dal discorso pubblico e forse anche dai nostri ricordi. A dissotterrare certe immagini ci ha pensato Enoch Marrella con il suo All You Can Vax, visto presso gli spazi di Fonderia delle Arti, all’interno di Entrature Sonore, nuovo progetto di Tuttoteatro.com. Marrella se ne sta sul lato destro del palco con magliette e felpe con la scritta Pfizer, dietro di lui un fondale accoglie immagini proiettate che seguono il racconto, talvolta con una relazione totalmente didascalica con il testo. L’attore e autore, originario di Verona, intreccia il tema della salute, ritagliato sulle grandi vaccinazioni, con quello del cibo, la vera e forse più importante religione della nostra società contemporanea e si veda infatti il prologo con i versi di Pompeo Bettini. Quando il protagonista - Marella interpreta un uomo qualunque, che forse accetta la vaccinazione solo per poter andare al ristorante - si presenta di fronte alla dottoressa dell’hub vaccinale, lo scambio è emblematico: «Mutamento dello stato di salute e reazione avverse? - gli chiedono prima dell'iniezione - Guardi, a parte un insopprimibile bisogno di cacio e pepe, nessuna». Il fare dinoccolato, il ritmo sincopato, i personaggi tratteggiati come se fossero usciti da un fumetto punk e sgangherato, la paura del vaccino e la sublimazione dell’ignoto con la scelta in grande, «all’insegna del design»: La Nuvola, ovvero il Il Roma Convention Center progettato dallo Studio Fuksas. E poi una volta vaccinato, il nostro sente di far parte della maggioranza, annoverato tra i «responsabili». Seconda dose a Cinecittà, dose booster presso l’hub di Acea: nell’odissea vaccinale di Marrella si incontrano personaggi e frammenti di vita, e soprattutto si fanno i conti con un rimosso collettivo, attraverso la leggerezza e la libertà del comico. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Fonderia delle Arti. Entrature Sonore: di e con Enoch Marrella In coproduzione con Tuttoteatro.com Con il sostegno di Ex Rugiada Visual | Andrea Romoli Live Electronics | Gabriele Silvestri Locandina | Andrea Romoli Foto in locandina | Nina Tyler Z

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