Cordelia - le Recensioni

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PLAY (di C. Baglioni / M. Bellani) 

Un rettangolo velato lascia intravedere una figura di spalle seduta ad una grande scrivania. La sua silhouette è disegnata dalla luce essenziale e tagliente di Gianni Staropoli, che costruisce uno spazio insieme reale e asettico. Quando Caroline Baglioni entra timidamente sedendosi a un lato della scrivania, è da subito evidente il rapporto di potere tra i due. Testo sorto dalle suggestioni legate al movimento MeToo, Play ricostruisce quelle dinamiche che, a lungo nascoste in piena vista, sono passate potentemente alla cronaca per gli esiti più tristemente tipici della molestia e dell’abuso in ambito cinematografico e dello spettacolo in generale. La drammaturgia di Caroline Baglioni non gioca per metafore, ma introduce l’argomento con deciso realismo: il dialogo tra il regista e l’attrice percorre precisamente le insidie del provino cinematografico, laddove il rapporto tra i due sessi cammina sul crinale tra lecito e illecito con il filtro della creazione stessa: sulla carta è perfettamente legittimo per un regista ricercare la figura più adatta alla vicenda che vuole raccontare, non soltanto indagandone gli aspetti esteriori – essenziali nel racconto per immagini del cinema - ma scavando nell’intimità dell’attrice, un voyerismo amplificato dalla presenza delle immagini in live streaming proiettate in primo piano rispetto all’azione sul palco per gran parte dello spettacolo. Ma qual è il confine da non oltrepassare? Un ribaltamento di posizioni interviene a deviare la traiettoria del racconto: l’attrice si ribella, denunciando l’abuso di potere del regista, ma comunque non lasciando la stanza. Quel film lo vuole fare. Il racconto evolve innestando il dubbio sul reale rapporto tra i due, salvo poi ritornare nei binari iniziali, mentre scorrono le didascalie di uno script: la vita stessa è come decidiamo di raccontarla. Il gioco interessante tra i diversi piani di realtà non arriva del tutto a sostenere una riflessione profonda sulla complessità di tali sottili dinamiche relazionali, per una sproporzione forse eccessiva tra la parte iniziale, descrittiva di dinamiche ben note, e il plot twist dello scambio di ruoli tra i due protagonisti. (Sabrina Fasanella)

Visto in prima nazionale a Primavera dei Teatri, Teatro Sybaris. Di Caroline Baglioni. Con Caroline Baglioni, Annibale Pavone. Regia Michelangelo Bellani. Luce e spazio Staropoli. Suono e musiche originali Francesco Federici. Scenografia Loris Giancola. Costumi Aurora Damanti. Assistente alla regia Barbara Pinchi. Cura del movimento Lucia Guarino. Produzione La Corte Ospitale

VORREI UNA VOCE (di T. Granata)

Il teatro è un processo osmotico, dalla vita alla vita. Reazioni chimiche che hanno per materia l’umano, la sua organica complessità, potente quanto più ridotta ai minimi termini. Tindaro Granata restituisce sul palcoscenico l’esperienza umana e poetica del suo lavoro con le detenute di massima sicurezza della Casa Circondariale di Messina. Il reagente è Mina, la sua voce di assoluta potenza, la sua presenza dirompente; l’assunto di base è apparentemente disimpegnato, d’intrattenimento, un lavoro di pura mimesi, come in un lipsynch show. Ma reinterpretare i brani della voce più raffinata, misteriosa e popolare della canzone italiana mette in atto un processo tutt’altro che mimetico, uno svelamento vestito di paillettes. Granata lo ripercorre dando voce e presenza alle storie di quelle donne ai margini, ferite, sole, colpevoli quasi sempre per conto di uomini. Nel farlo, è lui stesso a svelarsi e raccontarsi, perché non c’è reazione che possa avvenire senza uno scambio di energia. La sua storia di artista s’intreccia e si riscrive tramite quelle voci incontrate nel luogo della reclusione, dove il palcoscenico e la musica ad alto volume consentono gli unici momenti di intima confessione. Rievocando quell’atmosfera di difficile confidenza, di fiducia costruita a fatica, di progressivo svelamento, la drammaturgia che sostiene Vorrei una voce restituisce con efficacia le tappe di un percorso di scoperta – tanto per l’autore quanto per le sue attrici detenute - , giocando tra il tempo attuale della platea e il passato della casa circondariale, spesso coincidenti. La struttura del monologo è tradita dalle tante voci che vi risuonano, ricostruite da Granata con efficace e generosa cura e sempre nel rispetto profondo verso quelle storie piccole e potenti organicamente tenute insieme dalla musica: linfa vitale per l’immaginazione e il sogno, panorami che il carcere offusca. (Sabrina Fasanella)

Visto a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria. Di e con Tindaro Granata. Con le canzoni di Mina. Ispirato dall’incontro con le detenute-attrici del Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina nell’ambito del progetto “Il teatro per sognare” di D’aRteventi diretto da Daniela Ursino. Disegno luci Luigi Biondi. Costumi Aurora Damanti. Regista assistente Alessandro Bandini. Produzione LAC Lugano Arte e Cultura in collaborazione con Proxima Res.

PINOCCHIO – CHE COS’È UNA PERSONA (di D. Iodice)

La passione di un grillo parlante che trascina il suo cricri sotto il peso di una croce di libri. Un abecedario ambulante, zavorra da cui si staccano parole da reinventare, ridefinire, interrogando un mondo normativo che impone definizioni escludenti ed elitiste. Pinocchio è uno e sono tanti, ognuno è Pinocchio a modo suo, con la stessa energia «anarchica e dirompente» compressa in un corpo di legno. Pinocchio – che cos’è una persona? è il primo spettacolo della compagnia della Scuola Elementare del Teatro | Conservatorio popolare delle arti sceniche, progetto laboratoriale napoletano di pedagogia sociale nato dieci anni fa negli spazi dell’ex asilo Filangieri e successivamente accolto e sostenuto dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. Marginalità e disabilità si specchiano negli archetipi della storia di Pinocchio: come racconta il regista Davide Iodice, «da sempre ci siamo rivolti a lui come a un fratello simbolico dei ragazzi con sindrome di down o di autismo, o Williams, o Asperger che compongono l’articolato gruppo di lavoro». In scena accanto a loro le famiglie, nuclei di resistenza civile, registi del quotidiano dei propri figli, fate turchine senza bacchetta, rivolte ad un futuro che è vicino e lontano insieme, da scrivere e continuamente inventare. Nel lavoro di Iodice il teatro non è terapia, né autonarrazione, piuttosto macchina del sogno, insieme paese dei balocchi e ventre della balena dove si incontrano poesia e denuncia, senza pietismi ma con spietata realtà, quella di tutte le favole. Gli oltre venti interpreti si muovono in scena riscrivendo le regole del vedere ed essere visti; qualche sguardo curioso raggiunge lo spettatore e senza volerlo lo interroga, consegnandogli un’innocente e disarmante domanda: «…e poi?». (Sabrina Fasanella)

Visto in prima assoluta a Primavera dei teatri, Capannone. Ideazione, drammaturgia e regia Davide Iodice. Crediti completi

RAP – REQUIEM AL POETA (di Pouria Jashn Tirgan)

Un canto liturgico rap ad una poesia defunta, o forse più un eloquio musicale ad una bellezza che non trova più alba. RAP - Requiem Al Poeta non è altro che la celebrazione degli strascichi fallimentari del 21 secolo, nelle voci di chi questo secolo se lo ritrova costantemente come uno scomodo zainetto in spalla, in cui ansie e responsabilità ne aumentano il peso specifico, minando costantemente l’equilibrio del giovane costretto a indossarlo. Ecco che sul palchetto del Ghe Pensi Mi, sono proprio due ragazzi, vestiti con tuta e calzetti bianchi al ginocchio - Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini - a celebrare questo inno alla stanchezza: stufi di non sentirsi abbastanza per raccogliere le fila di un presente di scarti, eppure pronti, colmi di ideali e passioni da condividere per ricominciare a vedere luce anche nel buio pesto. Ma se “è possibile che noi siamo lo sbaglio in un tempo sbagliato” allora è anche possibile che “siamo le persone giuste in un tempo giusto”? Partendo da questi interrogativi e assumendone le diverse prospettive di sguardo, la coppia scivola nella storia recente e negli scontri generazionali con battute e colpi di risposte a ritmo rap, in cui le note elettroniche di Tirgan incalzano il fraseggio vorticoso di Fantini, che si fa sempre più arguto nelle rime, negli accostamenti sintattici e nell’ironia dei suoi esiti, rievocando nel pubblico madri, nonne, bisnonne, radici di una generazione che dalle sue battaglie ora ci chiede conto e riscontro. Chissà se c’è una risposta a quella domanda, eppure Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini, “come i becchini dell’Amleto”, continuano a scavare, a scavare e a scavare, con freschezza e spigliatezza, con ironia ma non senza una punta di severità, “per dare – finalmente – degna sepoltura ai morti”. (Andrea Gardenghi)

Visto all’interno del palinsesto del FringeMI, Milano. Crediti: con Pouria Jashn Tirgan e Emanuele Fantini, drammaturgia e regia Pouria Jashn Tirgan, musiche originali Emanuele Fantini, co-produzione Teatro del Lemming, Vincitore Bando Cura 2022, Finalista premio Alberto Dubito 2023

TOTALE (di Pier Lorenzo Pisano)

Tutto si trasforma, dicono. Tranne una storia d’amore. Quando finisce una relazione si presenta il conto di quello dato e perso e più che rinnovare il sentimento in una spinta rigeneratrice vorremmo stiparlo in un archivio, con scontrino annesso. Ma, contro la nostra volontà, di archiviato c’è ben poco. Nel divertissement drammaturgico firmato da Pier Lorenzo Pisano, Gioia Salvatori e Andrea Cosentino sono Mauro e Chiara, sono una “proto coppia” che si costruisce da sé: nel buio del palcoscenico si spogliano dagli involucri scuri e scoprono i loro abiti bianchi con linee nere, a ricordare proprio i cartamodelli che si applicano a delle figurine, diventando degli enti a limite tra il fumetto e cartoon. I due pianificano il loro incontro, la loro prima notte insieme a casa di lei e nel mentre anche la scenografia si svela sotto i tendaggi neri, bianca e componibile sul momento, che al debutto crea un po’ di difficoltà di gestione e lede l’organicità dei movimenti scenici. Sappiamo già come va a finire la storia, quindi ci godiamo la comicità adamantina di Salvatori - che per il suo personaggio potrebbe sperimentare un tono più compìto e meno svagato, specie all’inizio – e quella straniata di Cosentino, qui con un’inedita aura romantico adolescenziale. Anche se il loro affiatamento è da rodare, l’attrice e l’attore sembrano studiarsi vicendevolmente determinando un’interpretazione consapevole di questo gioco che non necessita dei passaggi meta teatrali, in quanto la scrittura scenica è già improntata al “facciamo che”. Il momento del totale arriva alla fine, a riavvolgere tutta la storia in un interminabile rotolo di carta termica su cui sono segnati i costi relazionali: è un momento cinico per Chiara, tesa con la schiena dritta e le parole nette, struggente per Mauro, ricurvo con gli occhi bassi, la voce sommessa. L’ultimo invito di lui e il rifiuto di lei è un’immagine di profonda e dolorosa dolcezza, il totale è tutto lì e non c’è conto che tenga. (Lucia Medri)

Visto in prima assoluta a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria: drammaturgia e regia Pier Lorenzo Pisano con Gioia Salvatori, Andrea Cosentino, Luci Raffaella Vitiello, scene Rosita Vallefuoco, musiche originali Francesco Leineri, costumi Raffaella Toni, aiuto regia Valeria Patota, produzione Cranpi, con il contributo di MiC – Ministero della Cultura. Foto di Angelo Maggio

LA MORTE OVVERO IL PRANZO DELLA DOMENICA (Compagnia Dammacco)

Al di là dell’impegno rituale, dell’appuntamento abitudinario, la fine del pranzo della domenica a casa dei genitori lascia sempre una routinaria malinconia. È un bruciore nostalgico che si conficca tra la digestione e la successiva fame, un che di psicologico e biologico, e più i ruoli genitori-figli si invertono, più sembra acuirsi con insistenza. Mariano Dammacco e Serena Balivo hanno portato in scena questo umore e hanno saputo vedere la morte attraverso il teatro. Approccio che può sembrare tautologico ma in realtà lo è di rado. Dei tendaggi bianchi, leggeri, chiusi sul proscenio appiattiscono e riducono lo spazio in cui è collocato un tavolino di legno con sopra qualche bicchiere, una bottiglia e delle noccioline sparse, dietro i tendaggi sembra di intravedere una profondità che riflette questi essenziali oggetti. In scena Balivo è ricurva sul tavolino; masticando con posa storta e nevrotica, agita le mani e la testa, il suono di Marcello Gori è ipnotico e cresce di volume. Indossando degli eleganti abiti signorili, una parrucca di capelli bianchi, orecchini, anelli alle mani, Balivo è all’apparenza una signora anziana e parla da anziana. Il suo ruolo però è scisso: nel corpo della madre e nella voce della figlia che racconta il suo punto di vista sul pranzo a casa dei genitori ultranovantenni: l’arrivo, le portate, il dolce, la musica, il commiato. Scorre tutta una vita, i tendaggi diventano un paesaggio colorato che muta col variare dello spettro di luci e, mentre Balivo percorre quello spazio bidimensionale avanti e indietro, nella familiarità dei gesti si palesano i discorsi sulla morte dei genitori e i pensieri della figlia: è la consapevolezza di dover lasciare andare, è quella bambolina poggiata sul tavolino che l’anziana /figlia colpisce fino a far cadere. La platea singhiozza, per le risate ma anche per le lacrime che iniziano a scorrere discrete nel buio; non tutta ma una buona parte viene coinvolta con soave caducità in questa catarsi collettiva. (Lucia Medri)

Visto in prima assoluta a Primavera dei Teatri, Il Capannone: di Diaghilev – Dammacco/Balivo, con Serena Balivo, ideazione drammaturgia, regia di Mariano Dammacco, musiche originali di Marcello Gori, tecnica Erica Galante produzione Compagnia Diaghilev, con il sostegno di Spazio Franco (Palermo) | Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno). Foto di Angelo Maggio

SPEZZATA. RAPSODIA (PER INTERCESSIONE DEL SILENZIO) (di Fabio Pisano)

La notizia della condanna a morte di Lisa Montgomery non lasciò indifferente l’opinione pubblica a metà gennaio del 2021. Montgomery era colpevole di aver ucciso una donna incinta e di averle estratto con un coltello il feto. C’è un terrore di vita e di morte, in questo fatto di cronaca che ne racchiude altri, impalpabili, che la sentenza esclude e, in questo caso, lascia al teatro. Il testo di Fabio Pisano è una «rapsodia» incarnata dall’attrice Mariangela Granelli e dalla cantante e compositrice Serena Ganci. All’interno di una struttura composta da diversi spunti vocali, ritmici, interpretativi, si inizia dal monologo di Lisa detenuta e vestita con gli abiti carcerari per poi passare ad un’alternanza di personaggi, sempre interpretati da Granelli: la madre di Lisa, il «padre regno», gli amici di lui, la vicina di casa e poi vittima Bobbie Jo Stinnett; sequenza che mantiene però un tema fisso, proprio come una rapsodia, e cioè la voce «spezzata» di Lisa. Tramite la prestanza attoriale di Granelli, il pubblico rivive con spietatezza gli abusi sessuali sofferti da Lisa, l’infanzia da incubo in un camper alla mercé di una madre e un patrigno sadici, fino ad arrivare al delitto, nato dal desiderio di Lisa per una gravidanza, un amore, una famiglia mai avuti. La regia di Livia Gionfrida sembra aggredire un testo già feroce caricandolo di elementi tangenziali -  come le parentesi cantate e musicali (poco organiche al racconto), e quelle relative a uno stereotipato immaginario americano (un copricapo indiano indossato da Ganci e una tuta, casco e mazza da baseball) - ma anche di una violenza irritante che degenera nel grottesco, confuso e offensivo: perché usare quel naso da clown? Si fatica non solo per la tematica in sé che rinnova il senso di smarrimento e dolore ma anche per il dover sopportare l’assenza di una sensibilità poetica e formale nell’affrontare un fatto, di vita innanzitutto, un’ingiusta condanna inflitta a un’esistenza già condannata dalla nascita. (Lucia Medri)

Visto in prima assoluta a Primavera dei Teatri, Teatro Vittoria: di Fabio Pisano, con Mariangela Granelli, regia di Livia Gionfrida, musiche di Serena Ganci, luci e spazio sonoro Alessandro Di Fraia, costumi di Daniela Salernitano, direttrice di produzione Hilenia De Falco, produzione Teatri Associati di Napoli, in coproduzione con Bottega degli Apocrifi Ente Teatro Cronaca. Foto di Angelo Maggio

QUELLO CHE NON C’È (di Giulia Scotti)

Ci sono dolori nelle famiglie che non ci sono nelle nostre vite, li ereditiamo perché cresciamo coi ricordi di chi li ha vissuti, e ancora li vive, ma non ne abbiamo esperienza diretta: l’esperienza è più dolorosa, quindi più vera? Cos’è un’esperienza se non sono io a farla? Quando «quello che non c’è» appartiene al passato, e noi viviamo nel presente, è necessario cercare degli appigli narrativi per fare entrare quella storia lì nella vita di qui. L’autrice, attrice e fumettista Giulia Scotti si pone queste domande ed è alla ricerca di questo “raccordo” in Quello che non c’è, che già nella sua anteprima si poggia su una materia potente di senso, che proviene dall’autobiografia ma sin dalle prime battute viene “allontanata” dal sé per farsi intimità collettiva. Per parlare di un dolore preciso, Scotti inizia raccontandone altri: di un fratello caduto in un precipizio, di una giovane protesta che si impone il digiuno, e poi ci presenta la storia di Daniela. Nebulosa e ancora fragile, la scrittura scenica si esprime però attraverso le proiezioni della nettezza bianco nera dei suoi fumetti: la definizione grafica, e simbolica, di spazi, oggetti, momenti, viene macchiata di un rosso acceso, conturbante. Coi disegni, l’autrice ci si relaziona, li aspetta apparire sullo sfondo, li guarda, li tocca, e con la sua voce, e quella dello zio registrata in voice over, ci entra in contatto. Una vischiosità virtuale in cui il suono di Lemmo funge da veicolo e si fonde alle parole di Scotti, dette secondo quel fare un po’ post drammatico, un po’ già sentito che sembrerebbe proprio non appartenerle, e che deve ancora trovare una sua cifra autonoma. Nella rarefazione di un progetto illuminato da squarci più decisi, intravediamo la fierezza di sguardo di Giulia, il tono di voce esplicito che saprebbe tuonare con risolutezza; elementi che aspettano un’ulteriore messa a fuoco perché ancora nascosti sotto un cappuccio e ostacolati da un microfono tenuto troppo vicino. (Lucia Medri)

Visto in anteprima assoluta a Primavera dei Teatri, Teatro Sybaris: di e con Giulia Scotti, collaborazione al progetto Andrea Pizzalis, consulenza Alessandra Ventrella, disegno luci Elena Vastano, suono Lemmo, coproduzione Tuttoteatro.com, residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t. Foto di Angelo Maggio

SBUCCI (Gli Omini)

Come arriva la rabbia? Nasce con noi o appare a un certo punto? Come riesce a prendere il sopravvento su tutto il resto? Che cos’è una macchina della gioia? “Sbucci” non è un’indagine sull’uomo, né la sua caricatura; gli sbucci sono le prime ferite, quelle da cui ognuno di noi si è rialzato, chi piangendo, chi con fierezza, orgoglioso di portare addosso, su gomiti e ginocchia, i segni delle prime battaglie. Sono stati gli sbucci a dare l’incipit alla nostra strategia di sopravvivenza. La compagnia pistoiese, che con questo spettacolo chiude la stagione Agorà 23-24, ha scelto di ripartire dall’infanzia attivando una serie di laboratori nelle scuole elementari e chiacchierando con i bambini e le bambine per calarsi, di nuovo, nei loro panni. Facendo un balzo all’indietro verso l’infanzia, proseguendo a ritroso fino ai primi atterraggi sui ginocchi, Gli Omini restituiscono un’immagine limpidissima del pensiero “bambino” che ci descrive – noi, tutte le generazioni precedenti – con disincanto, senza retorica. Questi esseri umani, che noi percepiamo senza futuro, si confrontano sulla scena con dei robot di cartone, scatole magiche e aliene, che producono per lo più interrogativi sulla specie umana ma che, con inaspettata empatia, rispondono ai desideri dei piccoli offrendo loro la possibilità concreta di veder realizzate aspettative e immaginazioni. Così dalla bocca di un grande Bobi – robot gigante che domina la scena – vengono fuori personaggi come la “Mama” cioè la versione femminile del Papa, o una grande e sguaiata cicogna con la sindrome di Peter Pan. Bobi non giudica mai, guarda con curiosità allo srotolarsi di emozioni contrastanti dei bambini e delle bambine; su tutte la più importante pare proprio la rabbia, quella che a un certo punto della vita arriva e fatica ad andare via. Ma anche la perplessità rispetto alla vita degli adulti. Sbucci è un palcoscenico per la prossima generazione, è un vastissimo mondo dei sogni e delle paure in cui possiamo specchiarci, è l’antologia dei sentimenti che abbiamo provato e ci fanno sentire tanto lontani dai piccoli che hanno il potere di farci ritornare, finalmente, vulnerabili. (Silvia Maiuri)

Visto alla Sala Giulietta Masina di San Giorgio di Piano (BO)– Crediti: Una produzione de Gli Omini con il sostegno di Teatro Metastasiodrammaturgia Giulia Zacchini con Francesco Rotelli e Luca Zacchini

ERETICI. IL FUOCO DEGLI SPIRITI (di Matthias Martelli)

«Eresia» significa, in senso etimologico, «scelta». È attorno al principio di autodeterminazione, dunque, che si gioca la partita di Matthias Martelli, di nuovo alle prese con la lezione di Dario Fo, con quella «letteratura corporea» che si radica nella tradizione giullaresca del Medioevo. Stavolta è accompagnato, sulla scena sgombra, da tre donne (Laura Capretti, Flavia Chiacchella e Roberta Penta), cantanti a cappella ma anche interpreti, persuasive nella loro adesione appassionata alla medesima idea di corporeità: leggibile, scandita e profonda. La scelta di lavorare sulle eversioni – sulla fiamma che ha agitato, in tutte le epoche, gli «spiriti liberi», da Galileo Galilei a Julian Assange – mostra, proprio per la sua trasversalità, una premessa un po’ sacramentale e un po’ didattica, un proposito di reductio ad unum toccante ma sospetto. Ci troviamo di fronte a un’eredità, quella di Fo, e a una “militanza”: entrambe tentano di smarcarsi dai rischi inscritti nei presupposti (anacronismo, ingenuità, andamento esplicativo) attraverso il primato del corpo, la sua “smisuratezza” e la sua sintesi. A correggere la retorica impura della verità (oggi che anche la possibilità di sedersi dalla parte del torto appare integrata all’egemonia mediatica, e dunque parte del torto stesso) interviene la verità del corpo. È ancora il corpo, luogo delle istanze incarnate (nell’accezione di mutate in carne), e del «gestuare», che si fa portatore dell’eresia, della supremazia della scelta. Il corpo dipinto (per Paolo Veronese, Michelangelo, Caravaggio), il corpo nella sua rivendicata possibilità sensoriale (l’occhio di Galileo che fissa la teoria eliocentrica), il corpo magniloquente e quello profanato, il corpo “cassa armonica” dell’oggettività o della denuncia (la lingua di Giordano Bruno, il polpastrello di Assange). Oltre i pericoli della generalizzazione (tanto della figura del martire, quanto di quella dell’aguzzino), permane un sentire che appare innocente – la platea estasiata valga qui come metafora – tanto ampio da essere ormai, per paradosso, pacificato. Dunque ora siamo davvero capaci di applaudire gli eretici? E, se sì, vale per tutti o soltanto per quelli “canonizzati”, dalla storia o dalla cronaca? Sediamo ormai tutti dalla parte del torto, commossi, a distanza di sicurezza. (Ilaria Rossini)

Visto al Teatro Cucinelli, Solomeo – Crediti: di e con Matthias Martelli; e con Laura Capretti, Flavia Chiacchella, Roberta Penta; regia Matthias Martelli;

LO SCIAME (regia di Dario Costa)

Spin Time si conferma una casa, in tutte le più nobili e pratiche accezioni. È una casa per oltre 150 famiglie, per i migranti che necessitano di supporto e orientamento, per i collettivi e le assemblee, per le comunità artistiche giovani o meno giovani che hanno bisogno di spazio e, dopo le prove, di “provare” lo spettacolo davanti al pubblico. Così è stato per il nuovo progetto di Dario Costa, Lo sciame, basato sul testo originale di Aurora Di Gioia, dal sottotitolo storia di un fallimento. Sembra di stare in una scatola: una bici fissata alla parete, ai lati armadietti e panche di uno spogliatoio, davanti una tv a tubo catodico, in alto uno schermo su cui verrà proiettato il testo, che leggeremo nella sua forma “da pagina”, privo dell’interpretazione umorale istintiva dell’attrice e dell’attore, che invece ascolteremo. Elena (Giorgia Narcisi) è una ciclista perché il padre è stato solo un «prosciuttaro» romano con la passione per le due ruote, Antonio (Andrea Zatti) è il suo coach, sognava di essere il nuovo eroe del ciclismo e invece è rimasto solo un gregario. A questo nucleo, si aggiunge una drammaturgia sonora ottundente – di sciami, appunto, che come fastidiosi ricordi interferiscono nei dialoghi, e del voice over della telecronaca che proviene dalla tv – una drammaturgia visiva, con proiezioni di paesaggi, spot pubblicitari e un video emotional finale, e diremmo anche una drammaturgia fisica gestuale fatta di continui cambi di costumi e scarpe, forse troppi, e merendine scartate e ingurgitate. Serve indubbiamente una limatura di tutti questi elementi, un ritmo più sostenuto che rispetti la concitazione della corsa, e anche un maggior rigore nel portare la voce, a volte è troppo bassa e si perdono gli scambi di battute. C’è però una reagente grana emotiva nei due personaggi, la quale, se alleggerita dalla drammaturgia scenica, può guadagnare in nettezza e trasparenza facendo risaltare quegli accenni, ancora basilari e ancora poco consapevoli, di “epica ciclistica”.

Visto a Spin Time: Regia Dario Costa, Testo Aurora Di Gioia, Con Giorgia Narcisi e Andrea Zatti. Una coproduzione Spin Time. Foto di Enrico Giansanti

LA SPEDIZIONE PERDUTA (di e con Alessia Giovanna Mastriciano)

Partiamo dalla fine e non sarà uno spoiler: sono tutti morti i 129 membri della spedizione Franklin, per cui nel 1845 le navi della flotta britannica, Erebus e Terror, partirono per la prima esplorazione del passaggio a nord-ovest, rotta navale che collega gli oceani Atlantico e Pacifico attraverso l'arcipelago canadese nel Mar Glaciale Artico. Sia la Erebus che la Terror rimasero bloccate nei ghiacci e i loro relitti sono stati ritrovati solo nel 2014 e 2016. L’autrice e attrice del monologo documentario, Alessia Giovanna Mastriciano, ci racconta a fine spettacolo che la curiosità le è nata leggendo un articolo in cui erano mostrate le foto delle mummie dissepolte e quasi intatte per via dell’ibernazione, immagini in rete ora oscurate per non urtare la sensibilità. Ma ciò non fa che aumentare la fascinazione per un fatto storico realmente accaduto che sembra nato però da un romanzo ottocentesco e che rappresenta quella sete di scoperta e sfida del pericolo incarnate dall’essere umano, quella condanna del fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza, tema sul quale poggia infatti il testo originale dello spettacolo. Anche se programmato nei musei a fini didattici e divulgativi, lo spettacolo è più una traduzione simbolica del fatto storico - costruita per oggetti, una boule di vetro, un modellino di una nave, la sabbia, la pece – con finte testimonianze video del capitano e esploratori, perfette nei chiaro scuri aranciati a coprire i volti evidenziando i lineamenti e gesti. Le vicende storiche si diluiscono nella voce recitante di Mastriciano, un po’ naive nei toni ma tuttavia adatta nell’interpretare un testo costruito su una metrica poetica incantata, suggestiva nelle immagini evocate, nella descrizione dell’ambientazione, nell’interpretare i pensieri di questi uomini e i loro ricordi familiari, che si enunciano con stupore, paura e poi orrore, facendo emergere attraverso le parole l’horror vacui della solitudine (Lucia Medri).

Visto al Teatro Trastevere per Inventaria 2024: di e con Alessia Giovanna Matrisciano, musiche originali Marco Olivieri, videointerventi a cura di Luca Travaglini, in video Alessandro Giova, Dimitri D'Urbano, Michele Daini, Francesco Guglielmi, Giuseppe Mortelliti, Giacomo de Rose, Elena Contrino. Foto di Grazia Menna

TUTTA LA VITA DAVANTI 2024

C’è un festival che dallo scorso anno tenta di farsi luogo di ascolto per la generazione dei venti/trentenni: con la cura artistica di Alice Sinigaglia tutta la vita davanti, prodotto a La Spezia dagli Scarti, si fa comunità per dare un’occhiata  dell’arte e per condividere, palcoscenici, platee, musica, chiacchiere e un tavolo da ping pong. Anche quest'anno una tavola rotonda è stata il baricentro dei due giorni in cui giovani artiste e artisti critici e critiche, operatrici e operatori hanno interloquito rispondendo anche alle riflessioni di qualche quarantenne. Dopo il dibattito dello scorso anno sulle questioni politiche e materiali il nodo si è spostato sulla poetica. Gran parte degli artisti intervenuti convergono sulla mancanza di necessità  nel categorizzare il proprio lavoro, nel definirlo rispetto al passato, è una generazione che non ha bisogno di creare strappi, di uccidere padri o madri, maestri o maestre. Sono autrici e autori che tengono in gran considerazione il pubblico, forse talvolta hanno troppa paura di perderlo, non si sentono avanguardia, non parlano di esplorazione radicale dei linguaggi, ma surfano tra il post drammatico, la stand-up comedy, la performance urbana, i linguaggi del video e della multimedialità, la musica dal vivo, la poesia e la narrazione, il teatro di figura. Non sono l’ennesima new wave, non stilano manifesti ma tessono alleanze. Di alcuni degli spettacoli visti avevamo già scritto, è il caso di Suck My Iperuranio di Giovanni Onorato e Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso del Gruppo della Creta, gli altri li attraversiamo ora per la prima volta. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero

SWAN (di Gaetano Palermo)

A Venezia, dove la performance di Gaetano Palermo ha debuttato nel 2023, prodotta attraverso il bando della Biennale dedicato alle opere site specific, gli sguardi erano anche dei turisti, dei cittadini; a La Spezia invece c’è l’incontro di almeno due comunità, quella del festival (composta dal pubblico, dai professionisti, dalle artisti e dagli artisti) e quella composta da qualche famiglia, donne, probabilmente bengalesi con i propri figli che giocano. Qualcuno si affaccia anche dalle case che circondano il campetto rosso di Fossitermi. Una giovane donna (Rita di Leo) si sistema i pattini, l’abbigliamento e le cuffie, su una panchina, ancora nessuno si accorge di lei, poi si alza e comincia a danzare percorrendo lo spazio del campetto rosso. La performer stringe tra le mani uno smartphone con il proprio cavalletto, talvolta lo sistema a terra e si lascia riprendere mentre esegue i suoi volteggi. Immaginiamo che la sua possa essere una performance live, per un pubblico altro, quello dei suoi follower, oppure un lavoro ossessivo per avere i migliori frammenti da montare in un video pensato per tik tok. Palermo ha strutturato l'opera e a partire dall’assolo La morte del cigno che Michel Fokine coreografò per Anna Pavlova nel 1901. Il cigno d’altronde è una trasformazione dell’umano e anche qui è presente un’interferenza nella realtà: la pattinatrice ha un viso strano, come fosse una pelle più spessa del normale, forse una maschera, si comprende meglio quando si avvicina al pubblico. Da un certo momento in poi la danza verrà interrotta dal suono improvviso degli spari. La pattinatrice/cigno ogni volta cade, poi si rialza, lentamente il ventre si insanguina, ogni volta alcuni dei bambini stringono le mani alle orecchie. Assistiamo inermi, mentre il sound di Luca Gallio avvolge lo spazio di ulteriore inquietudine e non basterà lo svelamento, attraverso la rimozione della maschera e della parrucca, mentre echeggia la celebre hit pop, a salvarci da quel senso di fallimento e di colpa, la colpa di essere solo spettatori. (Andrea Pocosgnich)

Visto all'Auditorium Dialma Ruggero. Di Gaetano Palermo con Rita Di Leo sound design Luca Gallio direzione tecnica Luca Gallio assistenza e cura Michele Petrosino organizzazione e distribuzione Arianna Di Bello amministrazione KLm – Kinkaleri, Le Supplici, mk prosthetics Crea Fx produzione La Biennale di Venezia con il supporto di Casa della cultura Italo Calvino, H(ABITA)T – Rete di Spazi per la Danza, Associazione QB Quanto Basta progetto vincitore di Biennale College Teatro – Performance Site-Specific e di Danza Urbana XL

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