MATHILDE (di V. Olmi, regia A. Aronne)
Un appartamento alieno, con i mobili ricoperti da sottili teli di nylon opachi per impedire alla pittura fresca ancora gocciolante di rovinarli. Un’atmosfera immobile circonda Pierre (Luca Mammoli), rinomato oncologo, che si aggira come uno spettro nello spazio spoglio e freddo. Poi, dalla porta d’ingresso che si socchiude, una calda luce proietta sulla parete antistante il profilo inconfondibile di una donna. L’uomo si immobilizza e fa la sua entrata, inaspettata e inattesa, Mathilde (Eleonora Giovanardi), sua moglie. Dal testo di Véronique Olmi, tradotto da Alessandro Serra, il regista Alessio Aronne, in questa nuova produzione della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse, costruisce una storia di rapporti compromessi, sulla base di un forte dilemma morale: Mathilde, nota scrittrice, infatti, è appena uscita di prigione, dopo tre mesi di reclusione, per aver intrattenuto una relazione extraconiugale con un ragazzo quattordicenne. Dilemma che si proietta negli occhi dello stesso pubblico, impossibilitato a calarsi empaticamente nei panni di Mathilde, diviso tra la repulsione e la fascinazione per una protagonista che non sembra provare il minimo rimorso per quanto compiuto e, anzi, ammette di essere propensa a macchiarsi nuovamente della stessa colpa. Tale atteggiamento ambivalente si riflette in Pierre, che condanna le azioni della moglie e vorrebbe separarsi da lei, ma al tempo stesso la esorta a scriverne e si offre di rimanere al suo fianco durante il processo. I teli vengono tolti dal mobilio, gli scatoloni con gli effetti personali della donna pian piano sono smontati, facendo riemergere oggetti forieri di ricordi, e lo spazio abitato dai due personaggi si anima. Il loro stile recitativo, a sua volta, perde i freddi stilemi alienanti dell’inizio per riscaldarsi al tepore di un affetto reciproco che persiste, nonostante gli avvenimenti e i pregiudizi. Mathilde, dunque, è un racconto di condanna e di perdono che mette lo spettatore di fronte a un’altra questione viscerale: fino a che punto siamo disposti a perdonare in nome dell’amore? (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse di Véronique Olmi traduzione Alessandra Serra con Eleonora Giovanardi Luca Mammoli Regia Alessio Aronne Scene Emanuele Conte Disegno luci Matteo Selis musiche Marco Rivolta Costumi Daniela De Blasio Coreografia e movimento scenico Marianna Moccia assistente alla regia Marco Rivolta produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse
ALICE NO (di S. Pauly, regia G. M. Bozzale)
Le chiacchiere delle infermiere fuori dalla porta, nel buio più totale, animano il reparto. Sono discorsi futili, avulsi dal contesto: basteranno tre pizzette a testa per gli ospiti della festa? Alice (Sofia Pauly), ora illuminata dai riflettori, ascolta il battibecco in corso tra le due donne, così assorbite dalla loro discussione da accorgersi a malapena della paziente a cui stanno porgendo la colazione. Le infermiere escono, Alice rimane nuovamente sola, ma per poco: in stanza arriva un’altra ragazza, Nadia, molto più giovane, reduce dello stesso intervento. Ma lo stato d’animo delle ricoverate è diametralmente opposto: tanto Alice si sente leggera e sollevata, quanto Nadia è divorata dai sensi di colpa per aver abortito il figlio che portava in grembo e che desiderava avere. Anche i loro compagni di vita si pongono su due posizioni diverse, con l’indifferenza del partner di Alice da un lato, che si annoia al bar mentre aspetta che la protagonista venga dimessa, e l’urgenza dell’uomo al fianco di Nadia, il quale aveva forzato la mano affinché la ragazza rinunciasse alla gravidanza, forse frutto di una tresca extraconiugale. Sola, appollaiata su uno sgabello, Pauly, con i suoi abiti ampi che ricordano vagamente un camice ospedaliero, è in grado di rendere distinguibile ogni personaggio del suo monologo tramite diverse inflessioni della voce, o di evocarlo con il semplice ausilio di una telefonata. Viene così esplorata la tematica dell’assenza di un desiderio considerato connaturato alla natura femminile, quello di diventare madre. Alice, lasciata libera di compiere una scelta, sente di non volerlo, e solo verso la fine riuscirà ad ammettere a sé stessa la validità della sua posizione, a discapito di cosa potrebbero pensare genitori e dottori. Pauly, evidenziando come le posizioni di Alice e Nadia siano entrambe valide, si addentra con delicatezza dentro un argomento scottante: di fronte all’ingerenza sempre più soffocante dello Stato, viene ribadita la possibilità di poter dire, a gran voce, no. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Garage. Autore: Sofia Pauly Regia: Gianluca Maria Bozzale Con: Sofia Pauly Costumi: Nicoletta Fasani
DON GIOVANNI (regia Arturo Cirillo)
Don Giovanni è una figura che vive ancora preponderante nella cultura popolare, nonostante il vorticoso cambiare dei tempi, tra mondi fragili, perché virtuali, e bulimici, perché pieni e vuoti al tempo stesso di contenuti sempre sostituibili. Radicato come simbolo nell’immaginario collettivo e nell’apparato linguistico, Don Giovanni è da sempre visto come un fuoriclasse, un donnaiolo frizzante, ingordo e dissoluto, un vero e proprio marpione capace di sfruttare le debolezze altrui e vincere il proprio gioco, ma a cui alla fine tocca un amaro conto da pagare. Un conto che paga - seppur con toni meno coloriti, anzi, più mesti e deprimenti dei riferimenti letterari a cui si ispira - anche nell’opera teatrale tragicomica di Arturo Cirillo, che intreccia i racconti di Molière e Lorenzo Da Ponte alle partiture musicali di Mozart. Sullo sfondo classicheggiante di palladiana memoria, con statue, scalinate e ampie terrazze marmoree che incorniciano teatralmente la vicenda, curata nella scenografia essenziale ma “scorrevole” da Dario Gessati, le peripezie di Don Giovanni si affrettano ad accadere: la bramosia per possedere donna Anna, l’assassinio del padre Commendatore che tentò di proteggerne la virtù, la fuga da una sedotta e abbandonata Elvira, il corteggiamento di una incredula contadinella e la gelosia del suo promesso sposo. Una rincorsa da e per la morte, in compagnia di uno Sganarello spassosissimo, interpretato dal bravo Giacomo Vigentini, giudicante ma infine mesto servitore del protagonista, che è sempre Cirillo. Perché poi la morte arriva, giunge quasi di traverso al nostro immorale Don Giovanni, e imprevista nelle modalità del suo silenzioso esito. “Perché in fondo questa è anche la storia – dice Cirillo nelle note di sala – di chi non vuole, o non può, fare a meno di giocare, recitare, sedurre; senza fine, ogni volta da capo, fino a morirne”. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: da Molière, Da Ponte, Mozart, adattamento e regia di Arturo Cirillo, con Arturo Cirillo, e con (in o.a.) Irene Ciani, Rosario Giglio, Francesco Petruzzelli, Giulia Trippetta, Giacomo Vigentini, scene di Dario Gessati, costumi di Gianluca Falaschi, luci di Paolo Manti, musiche di Mario Autore, produzione MARCHE TEATRO, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro / ERT Teatro Nazionale
L’ESPERIMENTO (regia di Monica Nappo)
Vi hanno mai raccontato nell’ora di scienze, a scuola, l’esperimento del rospo? In sostanza, si prende uno di quei batraci e si infila in una pentola ricolma d’acqua, che successivamente viene messa a bollire. La creatura percepisce gradualmente il cambio di temperatura e continua a regolare quella del suo corpo fino a quando il calore diventa insopportabile, ma è talmente esausta dallo sforzo di adattamento che non riesce più a balzare fuori dalla pentola e a salvarsi. Monica Nappo fa dell’esperimento una metafora sagace per parlare di dipendenza affettiva e di come ci si abitui a piccoli soprusi quotidiani invalidanti, che aumentano esponenzialmente per quantità e gravità, pur di mantenere in piedi l’abitudine di una relazione. Nei panni di una counselor in attesa del suo cliente, la protagonista si muove nello spazio angusto del suo ufficio, dove una vetrata colorata separa la zona ospiti dal cucinino alle sue spalle. In un angolo, controllata a intervalli regolari, una pentola su un fornelletto a gas. Il messaggio vocale di un cliente, che le racconta di aver riscritto alla ex moglie, diventa pretesto per parlare del suo, di matrimonio naufragato, e di come il fallimento della relazione abbia minato la sua persona in maniera progressiva, inavvertita: dalle critiche sul modo in cui fa la lavatrice, fino alla preoccupazione ecologica per un mondo destinato a figli che non vuole avere e che pure si è messa nella condizione di dover concepire, sottoponendosi a cicli invasivi di inseminazione artificiale, con l’intenzione di accontentare il marito. La donna, ammantata di una luce rossa, è scossa da convulsioni sempre più forti a mano a mano che ci si addentra nella sua psiche ferita. Il rospo è cotto a puntino.Eppure, la protagonista riesce finalmente a sfuggire al destino di rana bollita e a riappropriarsi del suo benessere, dei suoi successi nel nuovo lavoro, senza dover più “abbassare il volume della gioia” per alimentare l’illusione di essere la stessa persona di cui si era innamorato il marito. Alla faccia degli esperimenti, e dei rospi annessi. (Letizia Chiarlone)
Visto alla Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova Crediti Produzione Fondazione Teatro Due Regia e interpretazione Monica Nappo Scene e costumi Barbara Bessi Assistente alla regia Elena Gigliotti
L’AFFAIRE MATTEOTTI (di Marco Andorno)
L’affaire Matteotti - di e con Marco Andorno con la regia collettiva della compagnia Faber Teater – inizia il racconto del delitto dalle 16.30 di quel 10 giugno 1924, quando il deputato socialista uscì da casa per andare in Parlamento. Uscì da quello stesso palazzo, in via Pisanelli 40, che ancora deve trovare un accordo con il Comune sull’apposizione della targa commemorativa: per timore di ritorsioni, il condominio rifiuta nell’epigrafe la dicitura che testimonia la responsabilità del governo di Mussolini: “In questa casa visse Giacomo Matteotti (1885-1924) fino al giorno della morte per mano fascista”. L’attualità ci ricorda quanto siano vivi, e compromettenti, gli effetti della storia su di un presente che vede il rinsaldarsi, a livello internazionale, di poteri governativi espressi attraverso politiche securitarie di esclusione, controllo e repressione del dissenso. Questo omicidio storico, a distanza di cento anni, è dunque “un affaire” irrisolto, come viene definito dal taglio di indagine dato da questo progetto teatrale ideato da Aldo Pasquero, Giuseppe Morrone, Marco Andorno e Fabio Fiore per la consulenza storica. La “lezione” andata in scena la scorsa settimana al Teatro Torlonia unisce sia l’aspetto didattico informativo, poggiandosi su documenti e foto d’archivio, che l’approccio poetico innestando nella drammaturgia parti cantate e recitate da Andorno, unico interprete, come quelle riguardanti l’interrogatorio di Volpi e/o i discorsi di Mussolini alla Camera. Questi, sono degli a parte rispetto al teatro di narrazione che vengono indicati attraverso cambi di luce e di tono interpretativo. Seppur verso il finale vengono scelti dei ragionamenti più moderati - che fanno riferimento a tre diversi moventi storici per il delitto – il racconto di Andorno si sviluppa attorno all’affaire, alla relazione, quindi, criminale che il potere ha nei confronti delle idee antifasciste di Matteotti, la minaccia che i suoi discorsi rappresentano per il percorso verso l’instaurazione della dittatura fascista. È una questione di idee e di corpi - quello di Matteotti verrà ritrovato in stato avanzato di decomposizione, irriconoscibile per i segni di vilipendio - inserita in una dialettica di repressione muscolare dei principi democratici per l’affermazione di un governo totalitario. A Faber Teater si deve dunque il merito di un lavoro che nella sua agile ricostruzione documentaria sceglie l’afflato poetico per fissare dei concetti che dovrebbero stratificarsi nella memoria collettiva; nella memoria di corpi e menti che oggi devono essere in grado di usare la storia come strumento di rivendicazione contro pericolosi revisionismi. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Torlonia: collettiva Faber Teater, ideato da Aldo Pasquero, Fabio Fiore, Giuseppe Morrone, Marco Andorno, consulenza storica Fabio Fiore. Foto di Diego Diaz
GASSA D’AMANTE (di Sofia Guidi)
Ci sono delle luci nel buio. Poi una donna a terra, poi gravida, poi un molo e due pescatori, un pesce grosso da catturare, una sala da ballo, il roteare di una danza sacra, panni e luci stese al sole di una notte che non si sa quando finisce. Gassa d’amante non è solo un nodo a occhiello - “facile da sciogliere” dice il vocabolario nautico - è anche una figura retorica a pronunciarla; è pure un’operosità creativa messa in moto mentre il pubblico entra in sala e segue le azioni energiche ma premurose, e curate, di Sofia Guidi, Juliana Azevedo, Mattia Parrella, João Silva, Davide Ventura che costruiscono con assi di legno e basi ben una, due, tre, quattro, cinque, forse sei...scene diverse. Lampi di storie che si accendono e si esauriscono in un rituale della compresenza che richiede un’intelligibilità più di sentimento che di ragionamento. Nonostante sia ancora bisognoso di qualche limatura che possa alleggerirlo per rendere ancora più preciso e tangibile il carattere effimero del progetto, il lavoro si nutre di un immaginario molto poco italiano, per fortuna, in cui lo slancio fantasioso riesce a emanciparsi dal testo scritto e da parti e ruoli definiti. Gassa d’amante possiede infatti una drammaturgia sincretica che mischia i sensi, creando un linguaggio scenico le cui azioni sembrano pensate come versi inseriti in uno schema metrico, a confondere le lingue, tra prosa e canto, in un tempo indefinito ma circolare, fuggevole, in cui la gioventù cede il posto alla vecchiaia e viceversa. Una poesia da guardare: è difficile seguire una storia quando la cultura ci ha educato alla linearità narrativa, ma la giustapposizione, si sa, è solo dell’anima. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Basilica: Regia: Valerio Leoni e Sofia Guidi, Drammaturgia, scene e luci a cura di Valerio Leoni, Con Sofia Guidi, Juliana Azevedo, Mattia Parrella, João Silva, Davide Ventura, Disegno sonoro: Federico Scettri, Assistente alla regia: Camilla Gariboldi, Collaborazione alle scene: Federica De Tora e Sharon Tomberli. Uno spettacolo di Labirion Officine Trasversali. Realizzato con il sostegno di PAV e del programma Movin’Up Spettacolo – Performing Arts 2023/2024. Foto di Simone Galli
AMORE COINTESTATO (di Enoch Marrella)
Alcune storie lasciano una patina di squallore sul cuore, che tiene insieme memoria presente e passata. Come se ci sedessimo su una sedia sdraio, su una terrazza, a guardare cosa è stato un amore; le antenne si agitano al vento, il traffico rumoreggia, tutto si muove tranne noi, fissati nel vuoto, in alto, da soli. E proviamo un’enorme tenerezza. È questa un’immagine che rimane impressa di Amore cointestato La corazza emotiva – Primo movimento scritto e diretto da Enoch Marrella: lui, «intellettuale di origini benestanti che vive in prima periferia e nella vita non guadagna nulla», dal fondo della scena guarda lei, Ariadna (Giulia Salvarani), «una ragazza di estrema periferia che dalla vita ha tutto da guadagnare», mentre si sfoga con il pubblico rispetto quello che sperava sarebbe stato, e invece non è. In questa sorta di triello - assistiamo a uno che guarda una che guarda noi - c’è anche una sotterranea rabbia violenta che vivacizza gli sguardi. Un illusorio controllo: possiamo mai cointestarci la fiducia in un legame che esiste solo nella sua libertà? Enoch Marrella lo rappresenta in una drammaturgia surreale, emotivamente confusa in alcuni passaggi, sovraccarica di elementi in altri, in cui la relazione con Ariadna (forse uno spettro generato dalla mente di lui a causa del fallimento amoroso) si articola tra la prima e seconda periferia, spazi geografici, e personali, agli antipodi che esprimono anche una distanza intimo familiare mai colmata. Oltre alle intelligenze umane, due intelligenze artificiali appaiono nei video esilaranti: un maestro/psichiatra/santone e una barista cinese, che assolve il compito terapeutico più dello stesso psichiatra. Per loro, Enoch è l’allievo che deve imparare, il cliente che deve sapere. Ariadna, invece, sa già tutto, ribadisce quello che voleva, ma che non ha con lui, e perciò se ne va. Nei cambi luce un po’ temerari e nelle azioni un po’ impacciate, c’è però una sincerità tra palco e platea che ci tiene legati gli uni alle altre. Come nel finale, sempre sulla terrazza, 8 persone stanno lì, fissate e unite, a tenere l’antenna, per «lasciare tutto così com’è». (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo: con Enoch Marrella, Giulia Salvarani; visual Andrea Romoli; artwork Aleksandar Stamenov; sound design Gabriele Silvestri; luci Gianni Staropoli; costumi Marta Montevecchi; coordinamento Maria Federica Bianchi; progetto grafico Marco Quintavalle; foto Valerio De Rose; teaser video Daniele Parisi, Dario Tacconelli; organizzazione Cinzia Sanna; amministrazione Luigi Schiavon; segreteria Giulia Surianello; ufficio stampa Maresa Palmacci; prodotto da Tuttoteatro.com; con il contributo della Regione Lazio – Spettacolo dal Vivo
FRAMMENTI DI INFINITO (Aristide Rontini)
Delude il nuovo lavoro di Aristide Rontini, Frammenti di infinito. Tre atti per le lucciole, visto all’Arena del Sole di Bologna. Diviso in tre parti (volutamente) disuguali, ma (irreparabilmente) inconciliate, ha come punto di partenza l’«articolo in cui Pier Paolo Pasolini denunciava la scomparsa delle lucciole dal cielo di Roma»: per distruzione dell’habitat, e continuità dei fascismi. Il primo frammento è un assolo dello stesso Rontini, tutto fermo al centro, in una continua ricerca tra curve che inseguono linee e geometrici scatti (traiettorie di lucciole?). Confonde tanta inaspettata ossessione estetizzante, in fondo conformista che neutralizza ogni emersione di forze più luminose e pure brutali di mille nuovi possibili corpi che la scena può rendere oggi visibili. Il secondo frammento è un trio (Silvia Brazzale, Orlando Izzo, Cristian Cucco), tutto all black e mascherato da vibratili lucciole, ma la composizione che si vorrebbe intuitiva e irrazionale, «corpi sottratti alla luce diretta del riflettore», riesce invece molto elementare. Il terzo frammento è una pratica di comunità tutta risolta in una lenta e semplice frontalità (ispirata a Il quarto stato di Pellizza da Volpedo, dipinto nel 1901), ed è molto difficile riconoscere i valori che vi si vorrebbero ascritti: «l’essere insieme, l’attesa, l’essenzialità e l’ascolto». Il montaggio delle tre parti prevede lunghe pause, da morirne; sono scandite da una musica di scena originale (di Vittorio Giampietro) anche bella ma a getto continuo, che infine allaga le orecchie. La sensazione allora è che nel disegnare e progettare e sperimentare troppo i formati, spezzettando e poi (ri)assemblando la performance come su di un menu, si finisca per perdere la ragione più vera del proprio lavoro, e della propria ricerca. L’«istinto e l’irrazionale» non sono mai solo quel che si è già. Ciò che nella performance emerge nascosto e intimo e ignoto e latente nella forma luminosa di un coleottero, deve poter ingaggiare le lotte di domani, e prendere a calci il mondo. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Arena del Sole. Coreografia e regiaAristide Rontinid anza (in o.a.)Silvia Brazzale, Cristian Cucco, Orlando Izzo, Aristide Rontini con la partecipazione di Kamila Burban, Valentina Cavagnis, Marieva Vivarelli, Annalisa Frascari, Roberto Penzo, Delia Adele Salsi, Sonia Salsi, Christopher Serebour, Julian Soardi musiche originali Vittorio Giampietro dramaturg Gaia Clotilde Chernetich disegno luci Lampyris Noctiluca Giulia Pastore
LA SIGNORA DELLE CAMELIE (regia di Giovanni Ortoleva)
La signora delle Camelie, di nuovo, questa volta nella versione teatrale per la regia di Giovanni Ortoleva. Siamo abituati a sentircela raccontare così: la misteriosa mantenuta, tanto avvenente quanto malata, con il suo mazzolino di camelie a segnalarne la disponibilità, spezza il cuore al giovane Armando Duval (Alberto Marcello), abbandonando la loro vita in campagna, per poi rivelare sul letto di morte di essere stata costretta dal padre di lui a rinunciare alla felicità di un futuro insieme. Come nelle storie più classiche, c’è un narratore (Gabriele Benedetti) che, con le sue parole, evoca ambienti lussureggianti dove, nella realtà, non c’è nulla, un palcoscenico spoglio animato dalla sola presenza dei cinque personaggi in scena, se non fosse per un palchetto mobile, dove fa la sua comparsa, nel suo abito candido, Margherita (Anna Manella). Distante, remoto oggetto idealizzato del desiderio, la donna trasuda il fascino letale di un buco nero che si spalanca di fronte agli occhi di chi sta per esserne inghiottito, una traviata che può solo far deragliare dal percorso prestabilito e risucchiare le risorse dell’amante di turno: è così che viene presentata Margherita dalle dicerie del demi-monde parigino, che si perpetuano negli sguardi e nelle parole della protettrice Prudenza (Nika Perrone) e dell’amico Gastone (Vito Vicino). Parole che compromettono la reputazione di Armando, il quale, geloso e possessivo, nel momento in cui la sua amata fugge, viene animato da propositi di vendetta in un crescendo delirante di sonorità elettroniche e luci intermittenti. Ma non viene permesso ad Armando (o, sarebbe meglio dire, Alexander Dumas figlio) di riscattare ancora una volta la sua porzione di colpe tramite il sacrificio di Margherita. Nella versione di Ortoleva la donna scende dal suo piedistallo, puntando il dito contro l’autore che l’ha trasformata in un immortale simbolo di perdizione per redimere la sua anima. Ancora, dunque, la storia di Margherita Gautier, ma anche di Alexander Dumas e di una maschera fragile che, dietro pretese di possesso, cela un profondo senso di inadeguatezza. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse, sala Aldo Trionfo. Liberamente tratto dal romanzo di Alexandre Dumas figlio drammaturgia e regia Giovanni Ortoleva dramaturg Federico Bellini scene Federico Biancalani costumi Daniela De Blasio musiche Pietro Guarracino movimenti Anna Manella disegno luci Davide Bellavia
ANNA CAPPELLI (di A. Ruccello, regia B. Buccellato)
Anna Cappelli è stato scritto nel 1986 da Annibale Ruccello poco prima che morisse, sotto richiesta di Benedetta Buccellato: l’attrice aveva letto un fatto di cronaca in cui era coinvolto un uomo giapponese che aveva divorato la compagna. Gli chiese di renderla quella che divora. Quasi quarant’anni dopo, Benedetta Buccellato è ancora Anna Cappelli. Il teatro di Ruccello è anche un teatro di oggetti, di oggetti che materializzano la presenza e la volontà di chi se ne circonda: una radio da cui si sente Pensiero d’amore di Mal, una sedia, un ombrello, un attaccapanni, un impermeabile da uomo e una tanica. Tutto intorno, invisibili ed evocati con ossessione, ci sono gli oggetti che Anna Cappelli vuole per sé e che non è disposta a perdere. È una donna senza qualità, trasferitasi a Latina per essere indipendente, e finisce in una relazione ambigua con un ricco ragioniere del posto. Il ragioniere Tonino Scarpa un giorno si stanca di lei e decide di abbandonarla. Anna parla con i suoi interlocutori in modo incalzante, ripetendo senza sosta i suoi desideri affinché vengano esauditi; non è compresa, e continua a ripetersi. Prima è compiacente, seppur petulante, ma poi l’ossessività diventa un malessere che schiaccia chi le è attorno. C’è una libertà di scrittura una e libertà attoriale sorprendente, un’attenzione umana mai morbosa per questa mente che si sgretola, per questa Filumena Marturano piccolo borghese che non potrà mai attirare su di sé le simpatie di preti e servitù perché è una meschina. È una scrittura che desidera veder vivere davvero tutto ciò che produce. Fa una strana sensazione leggere di un Annibale Ruccello sempre attuale, perché è ormai probabile che non lo sia più. È così evidentemente “altro” da quanto esiste oggi, per quanto lo si riconosca con così tanta facilità come qualcosa di intimo, che forse il suo tempo non è il sempre presente ma un “fu” sentimentale, un tratto genetico originario ormai non più dominante. Che incalcolabile perdita, che peccato.
Visto a Sala Assoli; Crediti: di Annibale Ruccello; Regia e con Benedetta Buccellato; Produzione Casa del Contemporaneo.
LA COPPA DEL SANTO (Gli Omini)
Toscanacci e anticlericali, radicali e poetici, demenziali e intelligentissimi, Gli Omini se ne vanno in giro per la penisola ormai da quasi vent’anni con il loro baule pieno di trovate comiche acidissime. Sono anche dei rabdomanti di storie, dato che molti dei loro progetti prendono vita da vere e proprie indagini antropologiche, dalle piccole province alle periferie delle grandi città. L’ultima formazione degli Omini è composta da Francesco Rotelli, Luca Zacchini, Giulia Zacchini: se la terza è una drammaturga i primi due sono attori, tra i migliori in circolazione, va detto. A Roma non tornavano da un paio di anni e nella prima delle due repliche al Basilica se la sono dovuta vedere con un pubblico composto da pochissime unità, per uno spettacolo che si basa interamente sull’interazione con la platea. Eppure La coppa del santo ha dimostrato di essere un congegno di precisione divertente e irriverente, in grado di nutrirsi delle storie dei santi per per creare un viaggio tra leggende popolari e distorsioni ironiche: la comicità - da sempre il campo d’azione principale degli Omini - qui è una frustata all’improvviso sulla morale comune, una scossa elettrica sul fenomeno dell’iconografia devozionale e su certe derive della società di massa; come nel caso di Padre Pio, un santo che «ha trasformato un’amena cittadina di provincia nella Gardaland del cattolicesimo». I mitici religiosi sono raffigurati su grandi carte appese su una griglia parallelamente al pubblico. Nei disegni di Luca Zacchini però non sono antropomorfi, sono dei pesci, tutti, perfino il valoroso San Giorgio o la biondissima Maria Maddalena. Scopo della serata, presentata da due preti "psichedelici", è far gareggiare i santi e le loro storie, sarà il pubblico a determinare il vincitore: cominciano i martiri contro i crocifissi e poi una carrellata di santi popolari e santi che sembrano inventati ma invece esistono davvero, come la Santa Nonna o la Santa Barbuta. Piccole storie al vetriolo che, in questa epoca di perbenismo, ci fanno ricordare dell’importanza della libera risata in libero Stato. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Basilica: Disegni di Luca Zacchini. Scritture di Giulia Zacchini. Con Luca Zacchini e Francesco Rotelli.
X DI XYLELLA, BIBBIA E ALBERI SACRI (Teatro Koreja, regia Gabriele Vacis)
C’è già la sinergia armonizzata delle voci in coro a fare da cornice non solo sonora, ma più propriamente ambientale, dimensionale all’ingresso nella sala che segue il bellissimo foyer dei Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Un complesso di teli bianchi plasma lo spazio performativo (pensato e curato da Roberto Tarasco) in un gioco di semitrasparenze, disvelamenti e disegni plastici che si avvicendano per e con le anatomie delle figure in costumi di colori essenziali nei toni del corda, del bianco, del beige, del tabacco, a restituire l’essenziale coerenza di un’armonia estetica tale da definire un lirismo di immagini, visioni all’occhio ben commisurate sul progredire dell’azione scenica. La più recente messinscena prodotta dal collettivo leccese (la cui origine vi raccontavamo qui) è diretta con eleganza delicata da Gabriele Vacis, su testo dello stesso e di Letizia Russo e Lucia Raffaella Mariani. Partendo da quella piaga, la xylella fastidiosa, che anni addietro ha colpito la Puglia e precipuamente il Salento, annientando un numero di alberi così doloroso da provocare una vera e propria modifica – non solo percettiva o percepita – della morfologia territoriale, lo spettacolo adopera il paradigma della malattia dell’albero per raccontare quella umana. Tra canti di fonie e idiomi differenti, versi tratti in parallelo dal libro sacro per eccellenza e vicende di vita quotidiana o personale, sette interpreti – il cui lavoro sulla connessione per un’omogenea in-tensione attoriale trapela, rivelando tuttavia le specificità di ognuna (siano esse più o meno incisive) – declinano quel paradigma avverandosi madri, figlie, nipoti, studentesse, dottorande, dottorate, dottoresse, … E non serve più chiedersi se l’afflizione sia del tronco o del corpo, della fronda o della mente, della radice, della linfa o dell’anima quando si realizza la pervicacia implacabile che questi connette, paragonabile solo alla cosmogonica forza della terra, da cui tutto viene, in cui tutto muta eppur rimane, a cui tutto è destinato a tornare. (Marianna Masselli)
Visto a Cantieri Teatrali Koreja di Lecce. Crediti: con Chiara Dello Iacovo, Luna Maggio, Emanuela Pisicchio, Maria Rosaria Ponzetta, Kyara Russo, Maria Tucci, Andjelka Vulic, regia Gabriele Vacis, scenofonia e allestimento Roberto Tarasco, assistente alla regia Lucia Raffaella Mariani, drammaturgia Lucia Raffaella Mariani, Letizia Russo e Gabriele Vacis, cura dei cori Enrica Rebaudo, consulenza e coordinamento artistico Salvatore Tramacere Tecnica Alessandro Cardinale, Mario Daniele, si ringrazia Stefano Martella, produzione Teatro Koreja in collaborazione con Potenziali Evocati Multimediali, foto Eduardo De Matteis/Archivio Koreja si ringrazia Stefano Martella
IL MOSTRO DI BELINDA (di Chiara Guidi e Vito Matera)
La magia di una fiaba è il suo legame profondissimo con una sincerità perduta. Ne Il Mostro di Belinda di Chiara Guidi e Vito Matera, ispirato alla già nota storia de La Bella e la Bestia, quella sincerità – di cui cerchiamo invano le tracce nel mondo degli adulti – affonda le proprie radici di esistenza nella dimensione sonora, composta da Scott Gibbons e curata da Andrea Scardovi: è nelle “voci di scena” (e senza corpo alcuno) dei più piccoli, che interrogano curiosi dall’alto la narrazione e ne scandiscono con entusiasmo il ritmo della trama, ma è anche nei sospiri increduli di quelli che con un’energia brulicante mi siedono accanto, gambe accovacciate e occhi stropicciati, così terrorizzati da quel fascinoso buio che permea l’atmosfera di tutto il palco. La magia, di cui vorremmo ancora tutti fare esperienza nel mondo adulto ma che continuamente sfugge per un fatto semplicemente anagrafico ed esperienziale, sembra essere restituita solo dall’afflato del loro giovane sentire: sono spaventati da quella notte senza luce, perplessi da una figura incappucciata, che è la Bestia, sempre coperta alla vista ma esposta nella lugubre vocalità, e poi divertiti da quel Ranocchio bisbetico che infastidisce la giovane fanciulla Belinda, ponendole però interrogativi nuovi e anche un po’ scomodi, per essere soltanto una rana. Eppure, nella creazione di Guidi e Matera, forse più nell’idea di usare con un approccio unico immagini e sonorità (un sottrarre alla visione ciò che può essere riempito dal suono) che nell’ essenzialità del binomio buono/cattivo, bello/brutto, ritroviamo quel “mistero della prima volta”, quella “energia dell’incanto” di cui parla Claudio Longhi nelle note di sala. Belinda capirà gli orizzonti di possibilità che scaturiscono da un semplice binomio e i bambini l’aiuteranno a prendere la scelta che solo il cuore può alla fine dettare, quella che supera le barriere della visione e approda ad un intimo, sincero e assolutamente magico sentire. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato. Crediti: da un’idea di Chiara Guidi, drammaturgia Chiara Guidi e Vito Matera, composizione sonora Scott Gibbons, scene, luci, costumi Vito Matera, con Maria Bacci Pasello, Eugeniu Cornițel, Alessandro De Giovanni, con le voci di Demetrio Castellucci, Chiara Guidi, Anna Laura Penna, Giulia Torelli, e con la voce di Lavinia Bertotti, voci infanti Bice e Maddalena Bosso; Eva, Lia e Nora Castellucci; Enrico, Iris e Michele Guerri; Amedeo Matera, Daphne Sophia e Ophelia June Nguyen; Gabriel Rotari; Agata e Federico Scardovi; Mia Valmori, cura del suono Andrea Scardovi, tecnica Francesca Pambianco
ARSURA (Gruppo Nanou)
Una indistinta figura appare nell’ombra che ancora permane, tra il reverbero che anticipa l’intensità di una entrante luce rossa. Appare come dal niente. Non ne percepiamo ancóra l’identità, ma la natura articolare di un corpo in azione che si muove senza centro. Più lo spazio si chiarisce vasto, e più la figura danzante diminuisce. Ma non d’intensità: solo nei rapporti fra gli schemi motori e il circostante. Qualcosa sembra con insistenza voler restare nascosto: mentre si espone e si anima al tempo dell’azione, qualcosa pensa di interporsi e disertare la presenza. Creando un bruciore, una nera tensione, un calore immerso nel buio. È Arsura del Gruppo Nanou, progettato e coreografato da Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, da quest’ultima danzato. Ha il volto coperto, annullato, o forse amplificato dentro questo costume (da lei progettato insieme a Arianna Gasparotti e Alberto Groja), che è il rovescio dell’identità, e che spiana dislivelli o asperità. Vi è, per tutto il pezzo, una continuità del movimento che impedisce qualsiasi distrazione, qualsiasi sospensione dell’attenzione: il fluire e lo scorrere, nel rosso e nel buio e nel breve blu intenso di queste luci materiche, espansioni coreografiche ben oltre la creazione della danza vera e propria, e il corpo in movimento. È anzi un decentramento del corpo come modello coreografico dominante, e un tentativo (ma è tutta la storia di questa compagnia ravennate che festeggia quest’anno il suo ventennale, e che meriterebbe davvero riconoscimento) di ammettere la molteplicità attraverso nuovi paradigmi compositivi e dispositivi scenici. L’ambiente sonoro è ugualmente una costellazione generativa, raccoglie le intense spazialità di Ryoji Ikeda, «un suono campionato di un neon rotto a firma di Roberto Rettura, confondatore di Nanou», e un brano dei Chromatics, «usato nella prima puntata della terza stagione di Twin Peaks come musica di coda» (così mi aggiorna Amico). Tutto però qui converge in quel silenzio finale, prolungato, una muta attesa che rimanda la fine, e crea una soglia temporale questa sì ferma, bloccata, spenta, ma capace di cattura. (Stefano Tomassini)
Visto alle Artificerie Almagià. Progetto, coreografie e scene Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci luci e colori Marco Valerio Amico costumi Rhuena Bracci, Arianna Gasparotto, Alberto Groja produzione Nanou Associazione Culturale, Rosa Shocking / Festival Tendance sostegno E Production contributo MIC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ravenna foto Simone Telari
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