SECONDO LEI (di Caterina Guzzanti)
Sul palco della sala Petrassi c’è una pedana con uno sfondo bianco opaco: il palchetto servirà, attraverso una botola, a far cadere la protagonista in una sorta di piano inferiore, quello dell’inconscio; la tenda opaca avrà il compito di fare da schermo per qualche gioco d’ombre. Una giovane donna, vestita di rosso è seduta, appoggiata alla pedana: spiega come prima fosse una donna viva. «Ho la sindrome del cane pastore», così parla della sua tendenza ad organizzare le serate con gli amici. Poi arriva lui: «ci siamo innamorati spostando sedie e unendo tavoli», un’immagine che poi diventerà anche una canzone alla Myss Keta. Chi fosse venuto a teatro per ritrovare le maschere comiche, quelle politiche più graffianti con le quali Caterina Guzzanti ha rinnovato (insieme ai suoi fratelli la comicità televisiva dalla fine dei ‘90) ha forse sbagliato epoca. E aggiungiamo, per fortuna, perché altrimenti non avremmo avuto la macchina teatrale di precisione andata in scena all’Auditorium. Un lavoro che non si appesantisce di inutili orpelli, sia dal punto di vista scenico che drammaturgico: la scrittura della stessa attrice (un debutto registico e drammaturgico) è infatti un efficace meccanismo che fa riflettere su un argomento tabù come l’impotenza maschile, ma è anche ammantata di una poetica leggerezza, «io la notte vengo esclusa dal respiro del mondo», afferma la donna quando ormai la crisi è conclamata. Federico Vigorito è una spalla perfetta non solo per innescare le trovate comiche di Guzzanti ma anche per impersonare la maschera di un uomo tragicamente immobile. I due non riescono a fare sesso, lui si intesta tutto il problema ma non si impegna per risolverlo, non ha il coraggio di chiedere un aiuto esterno e così la relazione si trascina nei mesi, addirittura negli anni senza riuscire mai a cominciare davvero. Eppure i due si amano, anzi proprio per questo lei cerca di non dare troppo fastidio; «io ho bisogno che tu abbia bisogno di me» afferma lui palesando così la figura fragile di un’uomo che non è in grado di vivere con una donna libera e autonoma. Ma il sesso forse è solo la parte per il tutto, ci sono paure che pietrificano e impediscono che la vita possa sbocciare. (Andrea Pocosgnich)
Visto all'Auditorium Parco della Musica Scritto e diretto da Caterina Guzzanti, con Caterina Guzzanti e Federico Vigorito. Prossima data: 19 giugno 2025 Campania Teatro Festival
PERLE SPARSE (Vashish Soobah)
Ci sono spettacoli che non si guardano soltanto, ma che si devono attraversare perché richiedono di abitare uno spazio altro, sospeso, in cui i frammenti della memoria riattivano una narrazione collettiva e si insinuano sottopelle. Perle sparse di Vashish Soobah è un racconto dell’attraversamento, un rituale di ricomposizione affettiva. In scena, un sistema di segni ripercorre le geografie e le acque oceaniche, intrecciando le isole della memoria con quelle della migrazione. Qui, c’è una mappa silenziosa che si compone gradualmente, fatta di fili tesi, tappeti stesi al suolo, video proiettati – che sono frame di terra acqua e radici - appunti visivi di un archivio personale. Ci sono oggetti che assumono un valore simbolico preciso: i sarees appesi al soffitto sono presenze liturgiche legate alla figura materna, tessuti sospesi in una fragranza di incenso che avvolge ogni cosa segnando una cesura con il mondo fuori. Il lavoro, presentato alla Triennale di Milano per il festival FOG e sostenuto da FONDO, network per la creatività emergente promosso dal Santarcangelo Festival insieme ad altri partner culturali, nasce da un’urgenza profondamente autobiografica: Soobah, nato a Catania nel 1994 da genitori mauriziani, parte da sé per riflettere sull’identità diasporica, sulla trasmissione intergenerazionale, sull’eredità coloniale che attraversa i corpi e le biografie. Ma il filo conduttore è quello della memoria, che si fa gesto, ricerca di un archivio orale e visivo, legame parentale: «Lavoro spesso con mia madre - racconta Soobah - perché è la figura di mezzo che mi trasmette le radici». È questa complicità familiare, che costituisce a tutti gli effetti l’asse portante dello spettacolo, che si muove tra i canti séga trasportati in Italia come bagaglio invisibile e l’immagine nitida di un campo di canna da zucchero, simbolo stratificato di colonialismo e resistenza. C’è una delicatezza tutta intima, una cura artigianale, seppur ancora embrionale, nel modo in cui questi frammenti si compongono, in un retro del palco che diventa il luogo ideale per accogliere e riscoprire storie marginali. «Finisco così per riscoprire un po’ come vivevano i miei genitori quando avevano la mia età, come si adattavano in un paese che non era il loro, mentre ora hanno interiorizzato il linguaggio di qui. Perché il cambiamento avviene anche su di loro, non solo su di me». (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: di Vashish Soobah, supporto drammaturgico Muna Mussie. Progetto sostenuto da: FONDO Network per la creatività emergente sviluppato da Santarcangelo Festival con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali, Centrale Fies, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Fabbrica Europa per le arti contemporanee, Fondazione I Teatri – Reggio Emilia, Fuorimargine / Centro di produzione della danza in Sardegna, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino / Centro di Residenza Emilia-Romagna, Lavanderia a Vapore / Fondazione Piemonte dal Vivo, OperaEstate Festival Veneto / CSC Centro per la Scena Contemporanea, Ravenna Teatro, SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione della Liguria, Teatro Pubblico Campano, Teatro Pubblico Pugliese – Consorzio Regionale per le Arti e la Cultura, Teatro Stabile dell’Umbria, Triennale Milano Teatro
ISLANDS (di Carolyn Carlson Company)
Ritorna a Genova la Carolyn Carlson Company con un programma di tre assoli che indagano l’animo umano istintuale, la dimensione rituale e la memoria. In The seventh Man, Riccardo Meneghini attraversa lo stadio della nudità infantile, del trionfo dell’istinto e poi, riluttante come un adolescente ribelle, indossa una camicia rossa, lasciandola aperta sul davanti. Il suo corpo luccica, madido di un sudore che penetra fin dentro il tessuto, la sua fronte è imperlata e gocce cadono copiose infrangendosi sul telo bianco sopra cui danza. Distende al suolo tre camicie, sopra cui cammina ripetutamente, esprimendo forse uno sprezzo per quelle catene sociali che vogliono rivestire di strati il suo corpo nudo e vivo. Le età della vita scorrono di fronte agli occhi degli spettatori come istanze autonome, quasi esistenze a parte, separate l’una dall’altra. A deal with instinct viene presentato in prima nazionale e vede come suo interprete unico e principale Yutaka Nakata. Il controllo del movimento si scontra con il crescendo della tensione musicale, in un eterno contrasto tra l’esercizio dell’equilibrio della mente, placida spiaggia, e il maremoto dell’istinto, pronto a infrangersi sul lido e a trascinare via con sé gli ultimi rimasugli di autocontrollo. Room 7, interpretato da Tero Saarinen, affronta il tema della memoria che, come lo strascico del suo costume, ci si trascina inevitabilmente dietro. Tero gioca con i fantasmi delle persone che abitano quella stanza e che fanno tutte parte di un frammento di ricordo, fino al distacco definitivo. Lo strascico cala sul tavolo e sulle sedie, e Tero prende posto in disparte, sotto una lampadina appesa a un filo, rivendicando la possibilità di lasciarsi il passato alle spalle e sancire, così, un nuovo inizio. Grazie alle musiche evocative e alla cura dell’apparato illuminotecnico, prende vita una dimensione altra in cui ci è permesso sbirciare, spiando quelle pulsioni e quei meccanismi segreti che ribollono sotto la superficie. Carolyn Carlson denuda l’animo umano e ci piazza di fronte a uno specchio. Siamo noi a scegliere di guardare nel riflesso. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse. Visto al Teatro della Tosse. Crediti completi
EDIPO. UNA FIABA DI MAGIA (di Chiara Guidi)
“Io chi sono?” è la domanda che svetta su un cartello tenuto in alto, ben visibile agli occhi del pubblico di piccoli spettatori a cui è rivolta, e forse un po’ anche a me, l’adulta intrusa ad uno spettacolo per bambini. Una messinscena che di infantile, però, ha ben poco: il tema della ricerca dell’identità da parte del soldato zoppo si intreccia con quello della sfida verso l’ignoto per ottenere la risposta. Infatti, quello che poi si scoprirà essere Edipo, giunge al cospetto della misteriosa Sfinge per porle la sua domanda. La creatura ineffabile è semplicemente una voce dietro un telo candido spesso e gonfio, che si agita come Edipo lo fruga con le mani, nel tentativo di risalire alla fonte. Risolvendo l’enigma della Sfinge, Edipo riuscirà finalmente a penetrare oltre la coltre, trovando al di là un giardino arido. Alcuni bizzarri personaggi, con indosso costumi grotteschi, fanno la loro apparizione: il giovane Tubero, con il suo dorso coriaceo, desideroso di crescere, tormenta il Bulbo con una pioggia di domande. Si chiede quando giungerà la Primavera, e perché questa sia così connessa allo svelarsi della Verità. Si consulta con gli abitanti di questo paesaggio arido: i rami secchi, il ragno, il rapace Creonte, la restia talpa Tiresia e, infine, Madre Natura, che svetta in posa materna, statua erosa dal tempo, al centro del giardino. Il luogo in questione è stato privato della sua vitalità dal compiersi di un atto terribile: un uomo di nome Edipo vi ha ucciso il re. Edipo inizialmente nega, poi finisce per accettare la Verità e assumersi le sue colpe. Gli abitanti del giardino insorgono, ma Madre Natura invoca il perdono, non solo da parte di questi ultimi ma dello stesso Edipo nei confronti del suo misfatto. Sulle note di un sottofondo musicale persistente e dissonante che contribuisce a creare un’atmosfera surreale, Chiara Guidi, in dialogo con Vito Matera, presenta al pubblico una fiaba delicata, privata degli aspetti più truci della vicenda sofoclea, eppure in grado di pizzicare le corde nascoste del cuore. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro della Tosse ideazione Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera con Francesco Dell’Accio, Francesca Di Serio, Maria Bacci Pasello, Vito Matera, Daniele Fedeli e con le voci di Eva Castellucci, Anna Laura Penna, Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Pier Paolo Zimmermann musica Francesco Guerri, Scott Gibbons cura Irene Rossini scena, luci, costumi Vito Matera produzione Societas coproduzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
NON È UNO SPORT ACQUATICO (di e con Daniele Parisi)
L’estate è fatta per fare cose e raccontarle, oppure non fare niente e aspettare che i fatti accadono. In questa intercapedine del tempo tra smania e apatia, in cui ci si divide tra chi può e chi non può farsi le vacanze, Daniele Parisi colloca il suo condominio di Non è uno sport acquatico, monologo da lui diretto, interpretato e presentato al debutto a Fortezza Est. Nella sonnolenza di un pomeriggio d’estate, l’avvocato Fideli sale sul cornicione del palazzo per suicidarsi. Il fatto è il motore d’innesco che aziona un bestiario di voci, dialetti e posture che Parisi incorpora e colora con cadenze dialettali, gestualità caratterizzanti, mimiche camaleontiche e vocalizzi in loop. Parisi è il condominio: vestito con pantaloni e camicia, servendosi di microfono e pedale campionatore, è Antonio, il portiere, ma anche l’artista Pinetti, il napoletano Fusco; è Calogero Intorchia - diremmo la nemesi siciliana di Antonio – è pure l’erborista Tassi, l’ottuagenaria signora Pieri, e la famiglia Giuliotti, compresi i figli che vorrebbero giocare in cortile a “Estorsione”, “Tangenti”, “Rapimento”. I condomini sono appellati per cognome, a ribadire una distanza di classe, il portiere invece, è solo (un) Antonio. Da quello regressivo di Ballard (High Rise e/o Condominium, 1975), alla guerriglia di quello fantozziano (Fantozzi subisce ancora, 1983), a quello dei drammi irreversibili di Nick Hornby (Non buttiamoci giù, in inglese A Long Way Down, 2005), il condominio è da sempre una sineddoche di mondo e nel suo Parisi, con virtuosismo autoriale e finezza attoriale, fa precipitare tutta l’umana commedia delle riluttanze e vanità, tanto meravigliose quanto grette e meschine. Anche se verrà rimossa presto, il portiere Antonio si congeda nel finale raccontando che sul mattonato ristrutturato e bianco del cortile di questo palazzo come tanti rimarrà l’alone di una macchia indelebile, di quelle che stanno lì a ricordare certe cadute che non andrebbero mai dimenticate, un po’ come quella, umoristica, nel salotto de Il Fantasma di Canterville di Wilde che proprio non se ne andava via… (Lucia Medri)
Visto a Fortezza Est: di e con Daniele Parisi, con il sostegno di Fortezza Est
BLUSH (di C. Josephine, regia M. Cotugno )
«Mi piacerebbe tirargli fuori i bulbi oculari uno per uno, fino a farlo trentamila volte, schiacciandoli sotto il mio peso…». Sono le prime parole pronunciate dal personaggio DONNA UNO in Blush dell’inglese Charlie Josephine, autore non binario cui riferirsi con lui/loro, nello spettacolo con regia di Marcello Cotugno che al Teatro Biblioteca Quarticciolo ha diretto in scena Arianna Cremona e Claudio Righini, assegnando loro i ruoli di DONNA UNO, DONNA DUE E DONNA TRE, e le parti di UOMO UNO e UOMO DUE. Il testo, tradotto da Marta Finocchiaro, e prodotto dal Teatro La Contrada, verte sugli abusi a mezzo immagini sessuali postate sul web. La rabbia della battuta citata appartiene a un personaggio femminile la cui sorella diciottenne ha subito 30.000 visualizzazioni di suoi ritratti nudi ad opera del suo ex fidanzato, con tentativo di suicidio della ragazza vittima. L’indole più proletaria della DONNA DUE è messa alla prova da selfie pornografici maschili che malgrado tutto creano un’ignorante intimità, senonché l’uomo poi sparisce e lei verrà così ghostata: la rivalsa consisterà nel leggere in un parco pubblico una lettera ad alta voce. DONNA TRE è un essere fragile, e le sue foto intime scatenano un ricatto virale, al punto che su un autobus le parrà d’essere riconosciuta da un passeggero: ma nella sua condizione lei troverà un modo per fare pace con sé stessa, accettando la vergogna diffusa e le conseguenze. UOMO UNO è maturo, è un capofamiglia, ma ha inclinazioni per ragazzine postadolescenziali, andrà incontro a un corto circuito visuale quando avrà di fronte il corrispettivo del manifesto di Hello Kitty conservato in casa da sua figlia. Il carrierista UOMO DUE ha incarichi di conferenze a New York, ci prova con una che si ribella, generando un caos bestiale: su Twitter. I due interpreti lasciano qua e là attoniti, tanto veloce è la loro bravura. E come sempre Marcello Cotugno, alter ego di Neil LaBute, ha guidato un imperdibile puzzle scomodo, con pochissime vie d’uscita. (Rodolfo di Giammarco)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo traduzione di Marta Finocchiaro regia, disegno luci e colonna sonora di Marcello Cotugno con Arianna Cremona e Claudio Righini scene di Luigi Ferrigno musiche Rival Consoles, Frank Zappa, CHVRCHES, Graham Lambkin, The Books, Crass, Thomas Ross Fitzsimons, Scala & KolacnyBrothers produzione La Contrada
LA FURIA DELLE SIRENETTE (regia Maria Vittoria Bellingeri)
Barbara e Lydia Giordano ci accolgono in piedi al nostro arrivo nella Sala Bausch del Teatro Elfo Puccini: sotto una coppia di slanciate luci al LED che le circoscrivono, si muovono a ritmo lento, producendo misteriosi e ovattati mugolii modulati assieme a suoni elettronici a bassa intensità. Gli abissi del mare non sono esposti attraverso maestosi oggetti di scena, ma suggeriti per via sonora e gestuale, mentre la soffusa luce bianca dei LED ci restituisce un ambiente allo stesso tempo rassicurante e sospeso. A popolarlo, infatti, non ci sono mostri leviatanici, ma due buffe sirene, Olga e Olivia, sorelle protagoniste del testo di Thomas Quillardet, La furia delle sirenette, tradotto da Maria Vittoria Bellingeri, autrice anche della regia, dei costumi e delle scene. La storia inizia con una delle due, Olga, che convince l’altra a lasciare la loro casa natia e avventurarsi per il mondo, senza sapere dove andare e quando, eventualmente, tornare. Il cammino delle due prosegue in maniera piuttosto piana tra abbacinanti scoperte, nostalgie di casa e incontri con inquietanti personaggi – tutti inscenati da Graziano Siressi, capace di essere ora guardingo come una patella, ora dinoccolato come un’anguilla. Nonostante la brillantezza degli interpreti, tuttavia, il testo appare un poco ingenuo, con personaggi monolitici nelle loro volontà, pulsioni e paure, non intenzionato a confrontarsi con le origini radicali della “furia” e, quindi, con un pubblico effettivamente uscito dall’età infantile. A questo fa da contraltare la scena che, invece, emoziona per intero, soprattutto quando si abbandona a se stessa, diventando una camera delle meraviglie di suoni, di corpi e di luci slegata da ogni supporto testuale. La storia sorprende nel finale quando, di fronte a un’insolubile differenza di orizzonti, non avviene una riconciliazione disneyana, ma una separazione lucida e pacata, in cui le sorelle scelgono di seguire ognuna la propria strada. Ci dicono, come canterebbe Dimartino, che sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile. (Matteo Valentini)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Thomas Quillardet regia, scene, costumi, traduzione Maria Vittoria Bellingeri con Barbara Giordano, Lydia Giordano, Graziano Sirressi composizione sonora originale di FILOQ disegno del suono e direzione di scena Emanuele Pontecorvo luci Maria Vittoria Bellingeri collaborazione al light design Marco Giusti assistente alla regia Margherita Fabbriregia, scene, costumi Maria Vittoria Bellingeri produzione Rosamiranda e Nutrimenti Terrestri con il sostegno di Progetti Carpe Diem (Sardegna), Di Terre e di Acque – Luoghi da custodire, Arti e spettacolo (Aquila, Abruz- zo), Sementerie artistiche (Crevalcore, Bo) foto di Serena Serrani
TEKKEN DRAMA (di e con Francesca Becchetti, regia di Alice Conti)
Il mese scorso ha ceduto una mensola. Mi sono chiesto quand’ha iniziato a rompersi davvero. Il perno che si piega, la calce che si sgretola senza farsi vedere. Il fatto mi torna in mente guardando Eveline (Francesca Becchetti) non se dice d’essersi lasciata col «bastardo», che non è qui il punto, ma quando racconta il fastidio che prova per la fine d’un rapporto offensivo quanto un insulto. Eveline soffre per lo schifo perduto, com’è possibile? O, per dirlo altrimenti, quando ha interiorizzato la mano sul culo, le cosce chiuse, il bisogno di coprirsi, la disparità di valore, l’uso subìto della parola «puttana»? Quand’è cominciato? Quando la mensola ha iniziato a cadere? Con la scomparsa del padre? Quando ha notato la mamma fissa, sempre lì? Nei giorni di Mtv? O quando ha considerato più figo il fratello? Le corse fino al muro, Lara Croft, Geri Halliwell, le mosse di wrestling, l’idea che stare coi maschi sarebbe stato più facile. L’idea di somigliare alla madre, l’attesa d’una telefonata. E ora? Sta davanti a un pannello di legno ferito (la cicatrice da cui viene la luce) con le voci nella testa che mischiano spunti pop che fanno ridere il pubblico, frasi misogine da convegno, citazioni femministe e le facili rassicurazioni di un’amica mentre lei avverte una voragine invece, che riguarda anche me (io quando sono diventato l’uomo che sono?), e di cui vuol capire l’origine. Questo mi pare Tekken Drama, tra soluzioni consuete oramai (testo in frammenti, frontalità, microfono in pugno) e un lavoro pluriennale di ricerca (“Sister”, lab triennale per sole adolescenti su affettività e sessualità; “Le disgraziate”, corso di Anomalia Teatro per donne e persone trans) da cui viene il bisogno di parlarne. Un appunto: perché sia anche un atto politico, come sento uscendo da Sala Assoli, dove si svolge il Napoli Queer Festival, occorre una platea che non sia già d’accordo. Dobbiamo porre specchio al Re direbbe Shakespeare, perché avvenga il conflitto. Che altrimenti resteremo ad annuire tra noi. (Alessandro Toppi)
Visto a Sala Assoli. Di e con Francesca Becchetti. Regia di Alice Conti. Scenografia Prisma. Luci Ilaria Bertozzi. Costumi di Simona Randazzo. Produzione Anomalia Teatro, con il sostegno di Montagne Racconta.
THE BARNARD LOOP (di DispensaBarzotti)
The Barnard Loop è il sogno sognato da un altro. Inizia prima che ci s’accomodi in sala, nega ciò che sta compiendo (dormire) e per reiterazione comica, rilanci immaginari e smentita delle attese, distorce il plausibile (un uomo che ha difficoltà a chiudere gli occhi) rendendolo assurdo quanto un incubo. Comincia col sorso di camomilla, la sveglia puntata, la posizione da dare alle mani, le ossa incriccate, il lenzuolo steso o arrotolato a una gamba, il cuscino sulla faccia, il ronzio d’una zanzara, la luce da spegnere, lo squillo al telefono, i tuoni e i fulmini, il letto che cigola – oddio, ho sentito uno squittio simile a quello dei topi – e termina con la scena d’un crimine e un tuffo in valigia dopo aver mostrato libri che bruciano, frame di Frankenstein junior e cupecake divorati in un pugno. Visione intensa ed effimera, che dura quanto dura lo spettacolo, per chi crede che un uomo stia sia in piedi che nel letto, che una moka serva litri di caffè o che una pianta prepari la colazione sa di magia (gli «ooohhh» del pubblico e le bambine e i bambini che al termine vorrebbero smontare il giocattolo per sapere com’è che funziona); chi ha la fantasia atrofizzata, per dirla con Benjamin, è curioso invece dei numeri che seguono ai numeri e applaude gli interpreti (Jacomo Maria Bianchini e Rocco Manfredi) – tra mimo, clownerie e acrobatica: «bravi, no?» mi chiede una signora all’uscita – mentr’io ho amato i residui, i difetti: il lampadario che cala prima d’un millesimo svelando che verrà colpito tra un attimo, la botola del materasso intravista due volte, il buio tardivo che mostra l’attore che s’affretta a prendere posto; il terriccio caduto dalla pianta, le piume volate dal cuscino, un fiammifero scappato alla scatola e che resta per tutto lo spettacolo ai bordi del letto. Sono come il trucco slabbrato che Ripellino nota ai lati della bocca d’un pagliaccio romano prima di una capriola, e mi ricordano che il teatro, questa cosa fatta dagli uomini per gli uomini, infine non conosce la perfezione. Per fortuna. (Alessandro Toppi)
Visto al Teatro Area Nord. Ideazione e scrittura di Rocco Manfredi e Alessandra Ventrella, regia di Alessandra Ventrella, con Jacopo Maria Bianchini e Rocco Manfredi, luci di Alessandra Ventrella, sostegno logistico Cie Les Karnavires, produzione DispensaBarzotti
ANONIMASEQUESTRI (di Leonardo Tomasi)
C’è un regista sardo laureando al DAMS, poi due attori trentenni in cerca di ruolo e un ostaggio incappucciato. C’è una telecamera che riprende live ma in lieve differita, c’è un tavolo di lavoro, due birrette e due tipici berritas. C’è anche una nonna, che compare in delle foto segnaletiche e in un video messaggio. È tutto nello spettacolo anonimasequestri, in cui a essere sequestrato è il pubblico da un gruppo, poco organizzato, di banditi che come riscatto chiedono la loro stessa identità. Vincitore del Premio Scenario 2023, il lavoro è una drammaturgia maleducata (e meno male!) che ibrida il linguaggio scenico con incursioni cinematografiche, battute dai toni “pulp” à la Quentin Tarantino, di cui riconosciamo l’influenza stilistica sin dall’inizio e poi dichiarata in un divertente mash up teatrale in dialogo con Mr. Blonde de Le Iene. Il brano Stuck in The Middle with You, che nel film fa da memorabile colonna sonora, diventa qui sul palco emblematico della condizione di questi trentenni, stuck/bloccati alla ricerca di un’identità che sia il più possibile lontana dall’«antica terra brulla di Sardegna», dai nuraghe, dai culargiones, dalle maschere dei Mamuthones e Issahoderes, e pure dall’Anonima Sequestri di Graziano Mesina. Anche se a volte la scrittura si compiace in dei passaggi ridondanti, che la fanno attorcigliare sul già detto creando una sorta di litania, il lavoro fa emergere il grottesco di questa ricerca/sequestro/riscatto creando - grazie proprio ai riferimenti cinematografici, giornalistici e televisivi delle serie poliziottesche - una sovrapposizione di piani del racconto e di senso in cui la strenua rivendicazione politica decade, messa in crisi da una sequenza ritmata, incessante, di gag comiche. Tra tutte, l’espressione “tipicamente sarda”, un po’ superba, anche menefreghista, del tecnico luci Alessandro è un perfetto contraltare mimico, e sinceramente identitario, che si contrappone alle velleità confuse del regista e dei due attori. (Lucia Medri)
Visto al Centrale Preneste Teatro per la rassegna YOU. The YOUng City – I grandi racconti Under 35: con Federico Giaime Nonnis, Daniele Podda, Leonardo Tomasi e un ostaggio, dramaturg e assistente alla regia Sonia Soro. Il lavoro è stato sviluppato in residenza presso Teatro Due Mondi, è una produzione Teatro di Sardegna e Teatro Metastasio di Prato e Vincitore Premio Scenario 2023. Foto Impresa sociale Nuovi Scenari (Agostino D'Antonio)
VANITAS (di G. Giannini, F. Novembrini, R. Racis)
Giovanfrancesco Giannini, Fabio Novembrini e Roberta Racis firmano Vanitas, che definiremmo un’“installazione figurativa”, la cui scrittura coreografica è assolutizzata in una successione di pose lentissime, nette, a tratti pornografiche - per l’esibizione sfrontata di bocca, lingua e fondoschiena – che tendono all’immobilismo, per bloccarne la bellezza giovanile in un’eterna immanenza. Per questo è attraente l’inserimento, quasi fosse un quarto interprete, di una mini videocamera che come uno specchio passa di mano in mano imprimendo la gestualità filmata su di un dispositivo che rende quella stessa immagine riproducibile tecnicamente. Bellezza e Piacere, Disinganno e Tempo, sono gli altri protagonisti, assenti in scena ma la cui essenza è proiettata sullo sfondo nei quadri di nature morte e nei telegrafici estratti da Il trionfo del tempo e del disinganno, libretto del cardinale Benedetto Pamphilj, poi musicato nel primo oratorio di Händel. Le pose scelte, la nudità, e i costumi – una sorta di specchio riflettente che copre il corpo seminudo di Racis, una gorgiera a circoscrivere il volto di Novembrini e una tuta e sneakers a svelare la figura di Giannini – completano, profanandola però, la sacralità dei quadri Santa Maria Maddalena di Mattia Preti e Vanitas, Putto con teschio, specchio e civetta del Guercino. Il lavoro si fruisce con lo stesso atteggiamento con cui si visiterebbe una mostra, e in alcuni momenti non nascondiamo un vago senso di noia, ciononostante Vanitas crea una conturbante e voyeuristica fascinazione, stimolando la sensorialità: inebriante il quadro scenico con l’altare di fiori recisi che investono di profumo le prime file. Progressivo è invece il disegno luci che illumina in tagli obliqui, orizzontali e laterali l’ultima scena, a indicare lo scorrere del tempo in un’indefinita infinitezza, tanto da lasciare il pubblico indeciso su quando iniziare a applaudire. Non avere certezza della fine dello spettacolo, ma viverla, è un tranello formale e contenutistico curioso, funzionale a scardinare con ironia la seriosità del progetto. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo per la stagione danza di Orbita Spellbound: un progetto di Giovanfrancesco Giannini, Fabio Novembrini, Roberta Racis, direzione tecnica e light design Valeria Foti, progetto sonoro Samuele Cestola, foto e video Luca Del Pia, produzione Körper-Centro Nazionale di Produzione della Danza, coproduzione Santarcangelo Festival, Théâtre L’Aire Libre, St Jacques de Lande, Le Joli Collectif con il sostegno di Primavera dei Teatri Castrovillari, Centro di Rilevante Interesse per la Danza Virgilio Sieni, Fattoria Vittadini, Istituto Italiano di Cultura di Parigi nell’ambito di R.O.M -Residencies On the Move di Théâtre l’Aire Libre -le Joli collectif in collaborazione con La Balsamine (Belgio), Santarcangelo Festival (Italia), Le Grütli (Svizzera), Théâtre Prospero e Teatro Periscopio (Canada) rete finanziata dall’Unione Europea
MARIO E MARIA (di Natalia Vallebona e Faustino Blanchut)
L’intuizione che avevamo da piccoli che un nome potesse influenzare la personalità pare confermata da alcune ricerche scientifiche. Avere un nome comune favorirebbe l’adattività psicologica e sociale, aumenterebbe persino le possibilità di essere assunti. Mario e Maria partono dunque avvantagiat* nel gioco dell’esistenza, che in fondo è tutta una grandiosa questione di adattamento. Come in Italia, anche in Belgio nascono molte Marie: 1,05 al giorno, secondo una ricerca dell’Istituto di statistica intercettata dai Poetic Punkers, collettivo internazionale nato a Bruxelles nel 2014 e diretto da Natalia Vallebona e Faustino Blanchut – chissà se il gruppo conosceva la commedia protofemminista omonima di Lopez Sabatino, drammaturgo e critico teatrale italiano, del 1916. Mario (Blanchut) è un autore, un regista, un coreografo, un mini-dittatore della scena e della vita domestica. II suo autoritarismo fatto di romantici diktat produce una sequenza di indicazioni sceniche rivolte a un altro Mario (Florian Vuille) e a due Marie (Julia Färber Data, Marianna Moccia), che allo schioccare delle dita animano la scena con una gestualità circense sospesa tra danza e dramma. Muoiono, sputano, si baciano. Corrono, risorgono, dilagano in platea battezzandoci Mari e Marie. Si regalano e ci regalano rose finte, senza odore – a rose is a rose is a rose: l’evidenza simbolica dell’amore che cancella l’amore scimmiottandolo. Mario è pieno di spunti, ma lontano da ogni forma di verità: il suo autoritarismo, che ricorda il sadismo à la Rezza-Mastrella, è obbedienza cieca alle convenzioni del dire e del fare (teatro). È possente nella gestualità da domatore, ma incapace di consequenzialità. Quando infine pare rivolgerci parole franche, chiedendoci se da piccoli avessimo anche noi un giardino e un albero del cuore su cui arrampicare, ci irride smascherando la vezzosità borghese del possedere l’albero e il giardino. La sclerosi di ogni possibile significato, magnificamente veicolata dai due Mario e dalle due Marie in un ipnotico crescendo di idiomi e linguaggi performativi, sposa causticamente commedia e tragedia, regalandoci abbondanti risate e una profonda amarezza nel riflesso della nostra incapacità congenita a gestire il potere. Un lavoro magistralmente prepolitico. (Andrea Zangari)
Visto all’Arena del Sole – Sala Thierry Salmon, scrittura testo Natalia Vallebona e Faustino Blanchut, coreografia e regia Natalia Vallebon, drammaturgia Faustino Blanchut, con Faustino Blanchut, Julia Färber Data, Marianna Moccia, Florian Vuille, drammaturgia sonora Patrick Belmont, disegno luci Christophe Depr, scenografia e costumi Natalia Vallebona, fotografia e video Bartolomeo Lapunzina, produzione Poetic Punkers ASBL, coproduzione Théâtre Les Riches-Claires, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, con il sostegno di La Maison des cultures de Saint-Gilles, ADLIB’S Attic, Centre Culturel de Chénéé, nell’ambito di CARNE focus di drammaturgia fisica
STORIA DI UN CINGHIALE. Qualcosa su Riccardo III (di Gabriel Calderón)
Un attore. Un attore nei panni di un attore, un uomo che finge di essere un attore nei panni di un attore. Francesco Montanari è il principio e la fine di questo complesso gioco metateatrale riscritto e diretto da Gabriel Calderón. Storia di un cinghiale. Qualcosa su Riccardo III, è difatti un monologo, un flusso inesauribile e affabulatorio di parole, gesti, azioni in cui il protagonista indugia tra finzione e realtà autobiografica confondendone i confini, attraverso un ritmo concitato, vorticoso e un linguaggio che ripercorre e fugge al tempo stesso quei pentametri giambici shakespeariani. Montanari è quindi un attore, che è se stesso ma che è prima di tutto personaggio, capace di trasformare la propria pelle, pronto a “fare la muta” servendosi dei costumi finemente elaborati da Gianluca Sbicca, ora vesti reali ora vesti “mostruose”. Nel mezzo di una carriera costruita su ruoli marginali, ecco che l’attore ora riceve l’incarico della vita: interpretare Riccardo III. Ma le difficoltà dell’impiego, tra maestranze e la relazione con la compagnia di attori, alimentano un rancore sempre esistito, fatto di disillusioni e sconfitte, sedimentato lì, al di sotto dello sterno, pronto ad esplodere in qualsiasi momento, a trasformarlo davvero nel duca di York. Sullo sfondo di un palchetto teatrale composto da ingegnosi ingranaggi, nella scenografia ideata di Paolo Di Benedetto, la narrazione di Calderón procede dinamica, entra ed esce furiosamente dal personaggio, entra esce e mette in discussione i versi del Bardo, dimenticandosi però di dover arrivare alla fruizione immediata del pubblico, in un virtuosismo autoriale e registico che mina di continuo quel contatto con la platea, caratterizzata prevalentemente da giovani studenti che invece a Shakespeare cercano di avvicinarsi. L’invettiva alle problematicità teatrali si perde nell’ingegno, e noi tutti ci perdiamo alla ricerca di Riccardo III. (Andrea Gardenghi)
Visto al Piccolo Teatro di Milano. Crediti: liberamente ispirato a Riccardo III di William Shakespeare , scritto e diretto da Gabriel Calderón, traduzione Teresa Vila, scene Paolo Di Benedetto, costumi Gianluca Sbicca, luci Manuel Frenda, con Francesco Montanari, produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Carnezzeria
TERRA MATTA (regia di Vincenzo Pirrotta)
Terra Matta è il titolo dell'autobiografia di Vincenzo Rabito, bracciante originario di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa. Dal 1968 al 1975, questi ha battuto a macchina la storia della propria esistenza, avvalendosi di un proprio linguaggio originale: un groviglio di parole e glifi per mezzo dei quali l'autore, non alfabetizzato, ha descritto la propria «maletratata e molto travagliata e molto desprezata» vita. Vincenzo Pirrotta la porta in scena in un omonimo spettacolo, prodotto dal Biondo di Palermo e dallo Stabile di Catania. Nelle intenzioni l'obiettivo era quello di valorizzare gli aspetti più grotteschi del "romanzo", sciorinando una teoria di personaggi farseschi e richiamandosi al teatro dadaista. Ora, Vincenzo Pirrotta è senz'altro un interprete di significative capacità attoriali, sia nell'eloquio che nel gesto: ritmo ed espressione conservano intatta la lezione di Cuticchio. Ma questo non è stato sufficiente a garantire l'efficacia del suo Terra Matta, dove l'esperienza linguistica di Rabito si risolve nel susseguirsi di episodi in cui prevalgono la caricatura e, talvolta, i facili sentimentalismi. Certamente Pirrotta riesce a rendere teatrale un linguaggio davvero impronunciabile, tormentato da scelte grammaticali non convenzionali anche dal punto di vista grafico; ma mel macchiettismo non sempre convincente dei protagonisti, l'asprezza agreste di Rabito si perde in un sorriso troppo ammiccante e sornione. La farsa ha trovato espressione in una comicità di situazione non sempre adeguata alla cruda asperità del testo; la fedeltà ad esso non ha saputo reggere a eccessi didascalici, nonostante le soluzioni sceniche volessero forse scongiurare proprio questo rischio. Dove ci aspettavamo la rottura, abbiamo trovato un racconto più lineare e rassicurante del dovuto.
Visto al Teatro Biondo, Crediti: Dall’omonima autobiografia di Vincenzo Rabito (Einaudi editore) adattamento teatrale, scene e regia di Vincenzo Pirrotta musiche originali Luca Mauceri costumi Francesca Tunno luci Antonio Sposito con Vincenzo Pirrotta, Lucia Portale, Alessandro Romano, Marcello Montalto e con Luca Mauceri (percussioni, elettronica, chitarra classica), Mario Spolidoro (organetto, chalumeau, chitarra), Osvaldo Costabile (violino, violoncello) aiuto regia Nancy Lombardo direttrice di scena Valentina Enea coordinatore dei servizi tecnici Giuseppe Baiamonte fonico Mauro Fontana macchinista Alberto Mangiapane capo sarta Erina Agnello produzione Teatro Biondo Palermo / Teatro Stabile di Catania. Foto di Rosellina Garbo.
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