STRADA MAESTRA (Niccolò Matcovich e Laura Nardinocchi)
Strada maestra è innanzitutto un viaggio che segue latitudini geografiche ed esperienziali restituite da Niccolò Matcovich e Laura Nardinocchi a partire da più di un anno di ricerche sul campo, focalizzate su un’indagine a partire dal rapporto tra uomo e natura, dal titolo iniziale Terramadre. Prima dello spettacolo, la compagnia invita gli spettatori di Carrozzerie n.o.t a sperimentare, attraverso una breve camminata attorno al teatro, il metodo dell’”osservazione oggettiva” da loro scelto come approccio scientifico, nel tentativo di eliminare quanto più possibile la componente di giudizio personale e dare spazio all’oggetto della ricerca. In seguito all’esternazione del percorso, da confermare o rettificare da parte di tutti, si crea una dimensione di dialogo aperto che funge da terreno comune per tutta la performance. Lo scambio avviene col tono del resoconto documentario, sebbene poi, pur partendo da quella pretesa di obiettività, i due autori ne ammettano il “fallimento soggettivo”, trovandosi faccia a faccia con il doversi scontrare con quanto accade. Il taglio è esistenziale, volontariamente scelgono di non affrontare di petto il coté politico ambientalista, ma rimangono in una dimensione contemplativa, di inchiesta dolce, dove l’aspetto ideologico può emergere a posteriori. Così raccontano di situazioni idilliache sulla carta ma raccapriccianti nella realtà o ancora di scelte di vita a volte ai limiti della sopravvivenza e però piene di gioia. Toccando gli estremi e le fasce intermedie di queste posizioni, i due ripercorrono le diverse tappe attraverso la lettura di alcuni stralci dei loro diari, facendo ascoltare voci e montando in scena una sorta di totem-umanoide realizzato con oggetti a loro donati dagli intervistati. Quasi a conclusione, Nardinocchi e Matcovich espongono una serie di affermazioni antitetiche raccolte in viaggio, che pendono a favore dell’uomo o della natura, chiedendo nuovamente al pubblico di scegliere di schierarsi, ma l’aspetto più interessante sta proprio nello scardinamento di questo dualismo, ovvero nell’impossibilità di ridurre a una scelta semplificante, pro o contro, invitando alla complessità. (Viviana Raciti)
Visto a Carrozzerie n.o.t, | di e con Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich | organizzazione Silvia Zicaro |scena Bruno Soriato e Giuseppe Frisino | sound design Dario Costa | luci Chiara Saiella | foto e video Simone Galli |produzione Florian Metateatro | con il supporto di Sementerie Artistiche; Ass. Ippocampo; Ferrara OFF; Laagam-ORA | IntercettAzioni Centro di Residenza della Lombardia; Teatri di Vita/ Elsinor - Teatro Cantiere Florida / TRAC – Centro di Residenza Pugliese nell'ambito del Progetto Cura 2023
VOID (Wim Vandekeybus / Ultima Vez)
Qualcuno sul fondo, in camicia, pantaloni grigi e cravatta; all’improvviso suona una sveglia, poi la suoneria di uno smartphone, il pubblico si tace. Ora la riconosciamo meglio, è una donna; nel centro del palco una scala con una sorta di lampadario sferico, la performer - è l’italiana Paola Taddeo - si avvicina a una batteria ma invece di suonarla si accorge che è il proprio corpo a risuonare. È come se qualcosa le invadesse gli arti, i muscoli e il tentativo allora è quello di fuggire: più volte tornerà in questo Void - creato da Wim Wandekeybus in stretta relazione con i performer - il tema di una sorta di possessione del singolo dentro la comunità di riferimento e la danza allora diventa vera e propria lotta o danza di liberazione da spiriti interni. Nell’incontro post spettacolo il regista e coreografo belga ha spiegato come abbia avuto la necessità di ricominciare dal vuoto del titolo dopo un'opera dalla costruzione imponente come Infamous Offspring, dominata dalla scrittura. In questo caso invece l’idea era di ripartire dall’essenzialità, dai performer: la creazione è nata proprio parlando con l’ensemble e cercando nelle biografie degli interpreti. Uno di questi, Adrian Thömmes, aveva una nonna finlandese poi emigrata a New York, che in seguito è tornata in patria, in scena con un caratteristico vestito blu incarna il ricordo di quella nonna con una grazia superlativa. Poi c’è una giovane che non vuole essere lasciata da sola in casa mentre i genitori escono, Lotta Sandborgh, c’è l’animalità del corpo di Iona Kewney, danzatrice esperta con incredibili doti da contorsionista e una attitudine recitativa di primo piano; il dinamismo e la fisicità di Hakim Abdou Mlanao. Questi fili si intrecciano e poi si sciolgono, tutto si fonde nella danza, nei diversi caratteri coreici: un’altra meraviglia è nell’approccio della hongkonghese Cola Ho Lok Yee, si libra senza gravità con l’ariosità e la precisione di una ninja. Nell’ora e mezzo di spettacolo c’è spazio anche per una sessione ritmica tenuta con dei piatti rotti a martellate, e poi vere e proprie epifanie tra prese acrobatiche e i classici soli in mezzo al cerchio. Rimane in mente il passo a due pieno di ironia e sfida - anche amorosa - tra Kewney e Thömmes. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Storchi regia e coreografia Wim Vandekeybus creato ed eseguito da Iona Kewney, Lotta Sandborgh, Cola Ho Lok Yee, Paola Taddeo, Adrian Thömmes, Hakim Abdou Mlanao assistente artistico e drammaturgia Margherita Scalise musica originale e sound design Arthur Brouns scenografia Wim Vandekeybus realizzato da Pepijn Mesure disegno luci Wim Vandekeybus, Benjamin Verbrugge costumi Isabelle Lhoas assistente ai costumi Juliette Lejeune tecnici Schröder, Pepijn Mesure, Benjamin Verbrugge distribuzione Julia Bouhjar produzione Heleen Schepens, Kenneth Raemaekers.
AMLETO² (di Filippo Timi)
A quindici anni dal debutto, Filippo Timi riporta sulla ribalta il suo Amleto², una rivisitazione dell’opera caposaldo del corpus shakesperiano in chiave parodistica e grottesca, senza temere di sfruttare le crepe della quarta parete. Elevato alla seconda potenza, è tutto fuorché un Amleto classico. Scanzonato, irriverente, annoiato, folle, frivolo e melodrammatico: sono tutti aggettivi che appartengono alla figura che si molleggia sul trono di legno al centro del palco. Intorno a sé, alcune balle di fieno, il cui odore intenso si sprigiona nella sala. La corte di Danimarca sembra proprio la stalla di uno zoo, o l’arena di un circo, allestita com’è dietro un’alta rete metallica che fa degli attori le bestie ammaestrate rinchiuse in gabbia e sbranate dagli occhi voraci del pubblico. Messi lì apposta per intrattenere, è quello che si prodigano a fare, sfiorando vette inaudite di trash, tra citazioni pop e finte flatulenze rumorose, mentre frammenti di luce riflessi su una palla da discoteca si proiettano, danzanti, sugli spessi tendaggi. Tutto intorno, tenuti ancorati al suolo da calamite, dei palloncini sospesi, che Amleto fa palleggiare sulla punta del suo spadino, mentre sembra chiedersi, distrattamente, tra uno sbadiglio e l’altro, “essere o non essere?”. È la domanda che si pone lo stesso Timi in merito alla sua natura di artista, incorporata dalla biondissima e svampita Marylin Monroe (Marina Rocco), un Amleto dei giorni nostri con la sua sorte tragica. Amleto, ormai stufo di interpretare un ruolo a cui è vincolato, cerca di impedire a Ofelia (Elena Lietti), l’unica rimasta fedele al copione, di recitare la parte che le è stata cucita addosso, andando così incontro al suo destino. Anche Gertrude (Lucia Mascino), sboccata e scandalosa, rinnega la sua scelta di fare l’attrice. Da strumento che inchioda lo zio al suo misfatto, il teatro si fa macchina i cui ingranaggi non riescono più a incastrarsi nei loro scomparti, consumati dalla crisi del meccanismo teatrale. Manipolato all’interno di una dissacrante opera di svalutazione e ricostruzione, il capolavoro ormai cieco torna a rivedere la luce. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Ivo Chiesa prodotto da Teatro Franco Parenti, Fondazione Teatro della Toscana Regia Filippo Timi Interpreti Filippo Timi e con Lucia Mascino, Marina Rocco, Elena Lietti e Gabriele Brunelli Luci Oscar Frosio
L’AVARO (di Molière, con U. Dighero, regia di L. Saravo)
Un interno sontuoso, ma asettico come la fredda luce da sala operatoria che lo illumina, privo di ogni effetto personale che non sia conservato alacremente dietro il vetro spesso di una teca. Quattro entrate, due su ogni lato, e una porta a doppio battente sul fondo che dà su un giardino la cui illusione è creata da proiezioni di alberi dal fogliame autunnale. È la casa di Arpagone (Ugo Dighero), noto per la sua avarizia, così esacerbata da opporsi alla felicità dei suoi stessi figli, Elisa (Elisabetta Mazzullo) e Cleante (Stefano Dilauro), intrappolandoli in matrimoni combinati che hanno il solo obiettivo di riempire ulteriormente le sue tasche. Ma per quanto i figli strepitino e tentino di dissuadere il padre dalla sua decisione, l’unica vera voce che riesce a penetrare il cuore avido di Arpagone è quella suadente dei soldi sonanti che gli si manifesta in forma di un ologramma di un coro di voci bianche, proiettato in corrispondenza della porta sullo sfondo, il quale cantilena minaccioso di tasse e spese imminenti. Alle spalle del coro, il giardino, dove Arpagone custodisce il suo più grande segreto: seppellita lì, vi è infatti una cassetta contenente diecimila scudi in argento di cui nessuno sa dell’esistenza. I fili dell’intreccio si annodano, sempre più stretti tra di loro, con cambi di scena resi possibili dalla prontezza degli attori e dagli spostamenti celeri delle teche, in modo da ampliare lo spazio o creare zone separate per rendere possibile lo svolgimento di scene in simultanea: Anselmo (Cristian Giammarini), l’amico di famiglia a cui Arpagone voleva dare in sposa Elisa, si scopre essere il padre a lungo perduto di Valerio (Fabio Barone) e Marianna (Rebecca Redaelli), rispettivamente gli innamorati di Elisa e Cleante. Con il contributo economico di Anselmo, tanto i desideri di Arpagone quanto quelli dei figli possono essere soddisfatti. La cassetta, sottratta impunemente dal servo di Cleante (Mariangeles Torres), ritorna al suo posto. Tra selfie rubati e un numero canoro finale sulle note di Money dei Pink Floyd, L’Avaro di Luigi Saravo strizza l’occhio alla generazione zeta, pur restando intrinsecamente millenial. (Letizia Chiarlone)
Visto al Teatro Gustavo Modena Produzione Teatro Nazionale di Genova, Artisti Associati Gorizia, Teatro Stabile di Bolzano, CTB Centro Teatrale Bresciano Traduzione e adattamento Letizia Russo Regia Luigi Saravo Personaggi e interpreti Scene Lorenzo Russo Rainaldi Luigi Saravo Costumi Lorenzo Russo Rainaldi Musiche Paolo Silvestri Movimenti coreografici Claudia Monti Luci Aldo Mantovani Assistente alla regia Cristian Giammarini - crediti completi
PARENTI TERRIBILI (di J. Cocteau, regia F. Dini)
Sono dei parenti davvero terribili quelli che Filippo Dini ha portato al Teatro Elfo Puccini, anzi, terribilissimi. È attraverso loro, e senza indugio alcuno, che il regista porta a compimento la sua trilogia sulla famiglia disfunzionale (con Casa di bambola di Ibsen e Agosto a Osage County di Tracy Letts) immergendosi nel testo del 1938 del francese Jean Cocteau, restituito nella traduzione da Monica Capuani. Nevrotici e dalla verve corrosiva, questi parenti non hanno scampo: sono intrappolati dalla curata scenografia, che li chiude in una morsa stretta e dall’alto gradiente tensivo, ora concentrata morbosamente sulla camera da letto, ora sospesa sopra i capi e “incombente” come il destino; sono intrappolati dalle distorte dinamiche relazionali, dall’amore non corrisposto della cognata Leonie (Milvia Marigliano), beffarda e affabile nel muovere i fili della trama, dal complesso edipico tra madre/figlio di Yvonne (Mariangela Granelli) e Michael (Cosimo Grilli), che ha un livello di tossicità davvero mortale, dalla ribellione di un padre (il regista stesso) a quello stesso complesso e dalle ripercussioni di questi moti familiari su una giovane relazione che fatica a reggerne il peso, quella tra il capriccioso figlio e Madeleine (Giulia Briata). Dini orchestra questi rapporti sulla scena con l’abilità dell’esperienza e alterna la strillante tragicità della madre, un pugno di angoscia e ansie, alla comicità di marito e cognata, che si trovano a gestire un tradimento e il suo inevitabile mascheramento. È una comicità che, tuttavia, urla anch’essa: in questa pièce, come anche in altri dei suoi lavori, la regia fa esplodere come una granata ogni personaggio, così dimostrando un’isteria fittizia, tutta nervi e monotono. Ed è forse questo quello che manca al lavoro di Dini, una modulazione più netta della tensione in scena che si articola tra momenti alti e bassi, tra acuti e gravità, che permetta di distillare il dramma per far emergere una comicità più naturale e meno esasperata. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Jean Cocteau, traduzione Monica Capuani, regia Filippo Dini, con Milvia Marigliano, Mariangela Granelli, Filippo Dini, Giulia Briata, Cosimo Grilli, produzione TSV – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Stabile di Torino - Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile Bolzano
DESIDERIO (di Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia)
Il linguaggio denudato ed ellittico di Silvia Garbuggino e Gaetano Ventriglia non presenta una semplice versione teatrale di Stalker. Desiderio è piuttosto un omaggio alla sintassi, al ritmo e alle temperature dell’operazione poetica di Andrej Tarkovskij. Il Professore (Ventriglia, fisico in cerca del Nobel) e lo Scrittore (Lorenzo Guerrieri, scribacchino in cerca di ispirazione) si affidano a una guida esperta ma misteriosamente reticente (Garbuggino è lo Stalker), per penetrare nella Zona, area sinistra e magica che emette energie in grado di dialogare con i destini e i desideri degli umani. La spedizione si trasforma in un simposio filosofico in cui la crociata spirituale si confonde con verticali capitomboli nel gorgo esistenziale. Lo spazio militante Spintime, fondamentale nel dare ospitalità a chi si trovi in necessità di alloggio creativo e non solo, stavolta non può forse dotare di giusta profondità di campo questo allegorico luogo dell’anima; i mezzi luministici e sonori tendono a chiudere l’azione in una rudimentalità che chiede al pubblico molta attenzione alla parola. Parola complessa e stratificata, che entra in vortici di vincente risonanza (ipnotica, sottilmente surreale) quando il lirismo sofferente e quasi canoro di Garbuggino ritrova lo spaesamento poetico del suo fedele compagno di scena, mentre le pose fisiche e vocali di Guerrieri risultano a volte sopra le righe. Della compressione spaziale fa le spese anche Alessandra Cristiani, presenza fantasmatica che occupa un altro piano narrativo senza trovare l’agio nella lenta danza di cui ben conosciamo la potenza. In questo esperimento scenico, che innesta la parabola messianica e mistica di Tarkovskij nel terreno dell’immagine e del simbolo si smette allora di cercare una nettezza estetica, e se pure una certa sovrabbondanza di testo tradisce la missione di sottrazione tipica di questo duo unico nel suo genere, ci si può abbandonare a una lenta, malinconica e a tratti terrea cavalcata nelle praterie dell’inconcludenza umana. (Sergio Lo Gatto)
Visto a Spintime Labs. da Stalker di Andrej Tarkovskij; con Alessandra Cristiani, Silvia Garbuggino, Lorenzo Guerrieri, Gaetano Ventriglia; regia Garbuggino Ventriglia
ROMEO E GIULIETTA (coreografia e regia di John Neumeier)
Inossidabile, iconico, immenso: insomma, una leggenda vivente. L’ottantacinquenne John Neumeier torna con l’Hamburg Ballet (oggi affidato a Demis Volpi) al Teatro La Fenice di Venezia. Ed è un evento. Romeo e Giulietta è lavoro addirittura del 1971, ripreso nel 1974 e poi nel 1981, datatissimo eppure attualissimo, e ripreso con cura di repertorio e forza interpretativa e sapienza scenica dal 2023 (e infatti Emma mi dice quanto tutto le sembri un po’ anni 80: e manco era nata...). Qui tutto è affare amoroso fra giovanissimi: Giulietta, strepitosa e tecnicamente perfetta e centratissima in termini espressivi in questa ribelle furiosa e pochissimo piagnona che diventa adulta all’improvviso, è Azul Ardizzone. Mentre Romeo, tonto il giusto e bello il giusto e forte il giusto e impetuoso il giusto è Louis Masin. Le scene perfette sembrano di Frigerio, ma sono invece di Jürgen Rose (pure i costumi). Della musica di Prokof’ev, vabbè, sapete già tutto. L’amore tra i due sboccia nell’immobilità di un prolungato sguardo, pieno poi di pudore e di risolini, e queste mani offerte: amore è questo essere nello sguardo dell’altro, questo darsi nelle mani dell’altro. Mercuzio è Alessandro Frola, ha un sorriso contagioso e ci mette un pomeriggio per morire, trafitto da Tebaldo, lo spigoloso Artem Prokopchuk (che si limona con Donna Capuleti, la scultorea Anna Laudere), ma ne vale la pena perché guardarlo è un vero diletto. L’improbabile Frate Lorenzo è Lennard Giesenberg, un biondone bambolone giovanissimo e bicipitato, che quando Romeo lo aggancia per fermarlo o lo abbraccia per gratitudine sembra subito un’illustrazione pin-up da magazine culturista stile Adonis. Non meraviglierà il suo essere fuori tempo nell’avvisare Romeo. Il Conte Paride di Florian Pohl è addirittura un Big Jim che torreggia la povera Giulietta la quale (giustamente) si rifiuta, punta i piedi sbatte i pugni per aria perché nemmeno vuol toccare sto marcantonio che sembra uscito da un’illustrazione Tom of Finland. La festa è bellissima ma nera e funebre, quella in piazza con tutti, compreso il carretto dei commedianti, piena di colori: ci sta che la vera vita sia fuori, e la morte il contrattempo più giusto per uscire di palazzo. Accorrete tutt* a vederlo: è imperdibile, davvero. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro La Fenice Orchestra del Teatro La Fenice coreografia e regia John Neumeier direttore Markus Lehtinen scene e costumi Jürgen Rose - Crediti completi
INTORNO AL VUOTO (di B. Nicoletti, regia G. Rappa)
Si è soliti identificare la memoria come un’immagine di solidità retroattiva, un magma che via via si condensa e crea ciò di cui l’essere è composto; non stupisce allora come la malattia che la attacca, l’Alzheimer, somigli proprio alla progressione disarticolata di una separazione tra l’essere e i propri ricordi, come se intere parti della vita prendessero via via congedo dalla vita stessa. C’è una famiglia sulla scena di Intorno al vuoto, testo che la giovane drammaturga Benedetta Nicoletti ha consegnato alla regia di Giampiero Rappa, seguendo l’esperienza e la volontà progettuale dell’attrice Paola Giorgi, in scena assieme a Gianluigi Fogacci e Fabiana Pesce allo Spazio Diamante. C’è una famiglia che, alla comparsa dei primi sintomi di Alzheimer nella donna – moglie e madre – che tiene in equilibrio l’intero nucleo, si sfalda ma così trasforma quell’equilibrio in un nuovo ordine, accompagnando a una maturazione i componenti. Carol e Paul sono sposati da molti anni, hanno una vita tranquilla di due professionisti scientifici, in una moderna New York; Liz è una figlia che cerca la sua strada e il teatro sembra parlare la lingua del futuro, si allontana da casa perché vorrebbe la libertà di scegliere che la madre sembra negarle. Ma ecco che la malattia sconvolge una condizione in apparenza stabile, a rivelare quanto tale non fosse. Paul non accetta il cambiamento, cerca nella scienza i lumi di una spiegazione e si indurisce, Liz è spaventata ma forse è la sola che accoglie la nascente condizione, pur nel dolore diventa davvero adulta ora che si trova ad accudire la propria madre; Carol è la sola che comprende subito, sa cosa sta per accadere, cerca di dirlo finché avrà la forza e ne mantiene fino all’ultimo, per consegnare anche quell’ultimo frammento amoroso al tempo che non vedrà. La regia di Rappa, che guida attori ispirati capaci di scavare in una drammaturgia decisa, è anch’essa netta, priva di un’estetica decorativa e dritta all’obiettivo: non si scherza quando si racconta la malattia, sembra dire, ponendo imponenti pannelli con una trasparenza fosca a negare e rivelare la vicenda, così come l’Alzheimer fa con la vita dei protagonisti. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Spazio Diamante di Benedetta Nicoletti scene Laura Benzi costumi Stefania Cempini luci Paolo Vinattieri musiche Massimo Cordovani assistente alla regia Michela Nicolai realizzato con il contributo di Regione Marche – Assessorato alla Cultura patrocinio I.N.R.C.A. Istituto Nazionale Ricovero e Cura a carattere Scientifico Premio Impronta d’Impresa Marche “le donne lasciano il segno” Camera di Commercio delle Marche produzione Bottegateatro Marche – Tf Teatro Teatro Menotti
ALTRI LIBERTINI (regia Licia Lanera)
C'è un momento dello spettacolo in cui Danilo Giuva e Giandomenico Cupaiuolo duettano, uno dei pochi botta e risposta dello spettacolo, vera e propria jam session in cui la recitazione si fa musica. Ma potremmo citare anche la malinconia di Roberto Magnani che riesce sempre a farsi rappresentazione credibile dei mondi di Pier Vittorio Tondelli; oppure il bellissimo e potente incipit di Licia Lanera, tutto trattenuto quasi fino all'implosione ,una sorta di prologo che ci porta al 1980, l’anno di pubblicazione del romanzo. Perché è tutto nella prova attoriale questo spettacolo, non c’è colpo di regia che possa fungere da rete di paracadute, i monologhi si stagliano nello spazio, e la scrittura scenica traccia linee immaginarie tra i personaggi dei vari racconti: in questo sta l’atto più autoriale di Lanera, nel cercare un intreccio prima drammaturgico, tra le storie che compongono il romanzo e poi scenico tra le tensioni dei corpi. E dopo quell’abbrivio la regista rimane in scena con gli altri sottraendosi quasi sempre però alla presa di parola in un tentativo quasi kantoriano di abitare lo spazio, da regista interna: segue i suoi con lo sguardo, sorride, talvolta gode con loro per qualche uscita funambolica, oppure il suo volto si fa specchio di un dolore universale. Noi spettatori accecati di tanto in tanto dai fari puntati sulla platea del Teatro Rasi (tornano in mente le luci di certi spettacoli di Antonio Latella di qualche anno fa) seguiamo i racconti di poveri cristi, di amori non ricambiati, di viaggi in cui perdersi, di studenti e spiantati in lotta con l’affitto e il mondo intero. Siamo con Miro - anzi tutti siamo stati Miro - abbandonato sull'autostrada da Andrea, il suo grande e impossibile amore. E allora forse lo comprendiamo quel bisogno di Lanera di trovare un ponte tra dimensioni lontanissime: le vite di quei malandati che negli anni ‘70 agognavano le mille lire per un panino, tra utopie, alcol, buchi e bestemmie e noi in un’epoca sterilizzata, ma in cui il dolore è ancora lo stesso, nelle stesse solitudini, forse ancora più vuote. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Rasi. Di Pier Vittorio Tondelli adattamento e regia Licia Lanera con Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva, Licia Lanera, Roberto Magnani luci Martin Palma sound design Francesco Curci costumi Angela Tomasicchio aiuto regia Nina Martorana tecnici di compagnia Massimiliano Tane, Laura Bizzoca “Sono un ribelle mamma” suonata dai Sunday Beens produzione Compagnia Licia Lanera in coproduzione con Albe/Ravenna Teatro si ringrazia Compagnia La Luna nel Letto Il testo “Altri Libertini” è edito da Feltrinelli
FESTE (Familie Flöz)
Lo spaccato di una villa, la porticina al piano terra, il piano nobile, lo scantinato, la portineria; sullo sfondo il mare, lampioni, qualche pianta e tanti sacchi della spazzatura. Questa anticamera esterna, spazio di soglia che lascia intravedere squarci di vite vissute, avvenimenti festosi che fungono da parentesi rispetto alla vita quotidiana, è il palco dell’ultima opera della compagnia berlinese Familie Flöz, Feste, programmata in Sala Umberto. Feste in maschera, feste di matrimonio, obbligo al divertimento che viene contrappuntato da una inestinguibile malinconia, da una sensazione di estraneità che non si riesce ad abbandonare. Il carosello di personaggi vive nel frattempo: tra piccoli acciacchi, promesse di matrimonio interrotte, antipatie e riappacificamenti, velleità lavorative e atti di fiducia conquistata, cancelli che devono rimanere chiusi anche se poi c’è sempre qualcuno che bussa alla porta; ciascuna emozione, ciascun intento è, come sempre nel loro teatro, frutto di un lavoro sul corpo meticoloso e vivido, nonostante (o forse proprio in ragione delle) maschere dagli occhi vitrei che indossano i tre magnifici attori, in grado di rendere sfumature di senso, non detti attraverso posture precise e perfettamente comprensibili nonostante l’assenza di battute. A essere un po’ più debole, stavolta, è l’impianto drammaturgico che vede svilupparsi in parallelo le vicende della coppia in procinto di sposarsi, con la piccola squatter la quale trova riparo tra i sacchi della spazzatura della villa. Le due storie si incontrano in più punti ma senza entrare in profondità, o innescare una riflessione che possa andare oltre la comparazione delle due sorti: una in teoria felice in vista del matrimonio eppure sempre malinconica, l’altra invece vitale e sempre generosa nonostante l’indigenza. Ciò che più colpisce è il contrasto e la purezza della giovane senza casa, l’unica che effettivamente dona benessere agli altri in maniera disinteressata, senza ricevere nulla mentre gli altri sono persi nella loro rinnovata serenità, troppo solipsisti per potersi accorgere di colei che gli ha ridato vita. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Sala Umberto | Un ’opera di Andres Angulo, Björn Leese, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk, Michael Vogel | Con Andres Angulo, Johannes Stubenvoll, Thomas van Ouwerkerk | Co-Regia Bjoern Leese | Una produzione di Familie Flöz |In coproduzione con Theaterhaus Stoccarda, Teatro Duisburg, Teatro Lessing Wolfenbüttel. con il supporto dell’ Hauptkulturfonds Regia di Micheal Vogel
I RAGAZZI IRRESISTIBILI(di N. Simon, regia M. Popolizio)
Qualche anno fa si nominava spesso – a dimostrazione della capacità “agglutinante” della lingua tedesca di coniare termini per i sentimenti ibridi o inesprimibili – la parola schadenfreude, il sentimento di piacere di fronte alle sfortune altrui. È a una simile gioiosità diabolica (addomesticata dalle convenzioni, ma così irresistibilmente radicata nel cuore di ciascuno) che si rifà la temperie scenica de I ragazzi irresistibili, adattamento della pièce del 1972, The Sunshine Boys, firmata da Neil Simon, che Massimo Popolizio governa con una regia salda e ritmica, capace di aggiornare, rispettandoli, gli schemi e i tempi farseschi del vaudeville, del quale Willy Clark (Franco Branciaroli) e Al Lewis (Umberto Orsini) sono stati, in gioventù, applauditissimi fuoriclasse. A causa di uno screzio, il duo si è infranto, consegnandoli entrambi, per decenni, a una vita lontana dalle scene, ai rispettivi rimpianti. Willy Clark sprizza ancora rancore, Al Lewis possiede un passo più lieve (e forse persino più sarcastico): la proposta di una reunion televisiva fa riaffiorare l’agonismo, le rivalse, le bizze. Sulla scena ospitale, segnata da un tratto fatiscente, di Maurizio Balò, Branciaroli e Orsini signoreggiano con maestria, con monumentale e rodata naturalezza. Il pubblico è conquistato, complice e, al tempo stesso, portato a rivolgere uno sguardo beffardo (ed ecco la schadenfreude) a questo duello in progressione – mai stereotipato – tra vedette cocciute, e ormai inermi. Eppure, il rovescio celato della derisione è la tenerezza. Vale sul palco, mantenendo la relazione tra i due sempre scattante e sempre sentimentale, vale in platea, liberando la consapevolezza di una singolare fraternità, definendo la compartecipazione, quasi consolatoria, di un destino. Freud, ne Il motto di spirito (1905), espone – come uno dei moventi del fatto comico – la “teoria della dominazione”, secondo la quale si ride per esercitare una forma di controllo sull’oggetto del riso, per esorcizzare il turbamento nel quale ci getta. Il gesto al quale siamo chiamati è quello di osservarci reciprocamente, come in uno specchio che, enfatizzando i tratti, ci restituisce il grottesco, la voragine, ma anche la grazia, la leggerezza della nostra umanità. (Ilaria Rossini)
Visto al Teatro Morlacchi. Crediti: di Neil Simon, regia di Massimo Popolizio; con Umberto Orsini e Franco Branciaroli: e con Flavio Francucci, Chiara Stoppa, Eros Pascale, Emanuela Saccardi; scene di Maurizio Balò; costumi di Gianluca Sbicca; luci di Carlo Pediani; suono di Alessandro Saviozzi; traduzione di Masolino D’Amico; una produzione Teatro de Gli Incamminati, Compagnia Orsini, Teatro Biondo Palermo in collaborazione con CTB Centro Teatrale Bresciano e con AMAT Associazione Marchigiana Attività Teatrali e Comune di Fabriano
GENNARENIELLO (di Eduardo De Filippo, Regia Lino Musella)
C’era del timore nei confronti di questo Gennareniello. Ma Lino Musella ha studiato tanto, moltissimo. Esattamente come De Filippo nelle versioni televisive delle sue commedie, l’attore appare a sipario calato per parlare col suo pubblico. Declama l’ultima lezione, quella del 1983, un anno prima della morte del drammaturgo. La vita e la morte sono momenti di un fluire: chi va via, lascia spazio al nuovo, e chi arriva deve studiare, conoscere ciò che è stato, amarlo, e andare oltre. Sollevato il pesante velluto rosso, c’è una terrazza napoletana: è il 1984 e sui muri si legge il furioso passaggio del terremoto di quattro anni prima. Dall’abitazione di una palazzina inguainata da impalcature, esce della musica e appare una bella ragazza. Gennareniello è la storia di un conflitto generazionale e di una fine, ma anche della forza dell’abitudine a volersi bene. Musella ha avuto la brillante intuizione di trattare Eduardo, Luca e Pupella come se fossero proprio delle maschere: sono attori e sono l’interpretazione dei personaggi. Questo ha prodotto una perfetta aderenza al modello originale, pur mantenendo gli specifici tratti: Tonino Taiuti è meravigliosamente Eduardo che interpreta Gennareniello, pur lasciando intravedere, leggerissimo e pudico, un ritmo jazz nei movimenti. Lo stesso Musella è Luca, pur cambiandogli aspetto e rendendolo simile a Nino D’Angelo e vagamente vicino a quella gioventù del primo Troisi, immobile e senza meta perché senza lavoro. Sarebbe un torto non ricordare il fulgore dell’interpretazione di Gea Martire, i cui pesanti e pensanti silenzi la rendono una meravigliosa Pupella. Musella riesce a restituire la normalità di una storia esemplare di una normalissima famiglia, con una tenerezza straziante ma senza eccessi. È il 1984, anno della morte di Eduardo. Oltre quella data, la sua umanità non può trovare spazio: Napoli era cambiata, come era cambiato l’occidente tutto. Gennareniello, messo in scena la prima volta nel 1932, è diventato il passato, ed è la fine che lascia spazio al nuovo. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro San Ferdinando, Crediti: Di Eduardo De Filippo; Regia Lino Musella; Con Tonino Taiuti, Gea Martire, Lino Musella, Roberto De Francesco, Ivana Maione, Dalal Suleiman, Alessandro Balletta, Daniele Vicorito; Scene Paola Castrignanò; Costumi Ortensia De Francesco; Foto di scena Ivan Nocera.
JAGO (di Roberto Latini)
Alla fine dello spettacolo, all’uscita dai piccoli camerini dell’Argot, gli dico che non ricordavo molti dei momenti comici, non ricordavo tutta quell’ironia. L’indomani mi risponderà che gli anni hanno forse aggiunto un certo disincanto e dunque una facilità alla risata che dunque risulta ancora più tragica. Per i suoi 40 anni di attività il teatro diretto da Francesco Frangipani e Tiziano Panici, tra le altre cose (mostre, proiezioni di film e festeggiamenti) si è regalato - regalandolo così ai fortunati che nelle poche repliche si sono stretti, spalla a spalla, nella piccola sala trasteverina - un’opera preziosa creata nel 2007, Jago di Roberto Latini. Carne e ossa dell’attore/autore, trucco per le lacrime nere, pelle per lo spolverino, stoffa, per i pantaloni neri e la camicia bianca, cuoio per le scarpe usurate in 16 anni di repliche - per quella specie di balletto sul posto con cui Jago friziona le suole sul pavimento mentre contorce l’Otello di Shakespeare riscrivendoselo addosso -, gli ambienti musicali di Gianluca Misiti e luci di Max Mugnai (due fattori che concorrono vividamente a fare di questa apparizione un’immagine che rimane inchiodata nella memoria), la plastica e il metallo dei due microfoni - uno per la voce senza effetti, quella di Jago soprattutto, l’altro per ricreare le voci di chi in fin dei conti altro non è che una proiezione del maligno alfiere. Eccola l’opera teatrale, performativa incarnata; non ha senso recensirla qui, se non per riportare quella vibrazione, quello sconcerto dello spettatore di anni fa che scoprì - in meno di un’ora, come in una folle corsa notturna - la possibilità di un teatro altro attraverso questo spettacolo, e che ora ritrova in quel corpo avvolto dal buio la capacità di farsi opera intera, di essere uomo-concerto, uomo-teatro e dunque uomo-libro. Katia Ippaso nel volume Io sono un’attrice evidenziava il potere erotizzante di Latini, che va oltre la questione di genere, ed è evidente in Jago quanto il potere della parola sia seduzione pura, un’energia che dalla testa arriva al ventre e viceversa. Si spera in un ritorno, meriterebbe qualsiasi palcoscenico. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Argot di e con Roberto Latini musiche e suono Gianluca Misiti luci e direzione tecnica Max Mugnai
FAUST (di Leonardo Manzan)
«Il teatro è diventato il posto perfetto per un comizio, una lezione o una conferenza». Così la scena di Faust, il nuovo spettacolo di Leonardo Manzan scritto con Rocco Placidi, non è che un tavolo da conferenza senza inizio né fine, invaso da fogli bianchi. Vi prendono posto quattro relatori che dialogheranno a lungo e a vuoto attorno al Faust di Goethe. Le luci di sala restano accese: rimaniamo sulla soglia del teatro, proprio come nell’incipit del grande dramma che presta il titolo allo spettacolo; ennesima trovata di Manzan, si dirà, per smascherare le pose di un teatro contemporaneo che guarda furbescamente ai classici solo per riempire cartelloni. Lo spettacolo non c’è, c’è solo un lungo prologo fatto di parole che suonano come rutti, calembour smaltati, tirati all’estremo: il gioco ironico prosegue anche quando prende la parola Faust, con la malinconia magnetica di Alessandro Bay Rossi. Alle loro spalle un sipario c’è, ma resterà chiuso, mosso soltanto da un vento di presagio, suggestivo ma innocuo. Annuncia l’arrivo di Mefistofele, un’energica Paola Giannini, a rappresentare il demonio o forse il teatro stesso, ovvero qualcosa in cui nessuno più crede, di cui nessuno più ha paura. Destinato a morire. Tra stacchetti da varietà televisivo, canzoncine, siparietti emerge il grido di una rivolta già stanca di se stessa, la capriola della satira che ritorna in posizione eretta, o prona, davanti al padrone di turno che le chiede di ruttare o di fare il verso della gallina. Se già vi allude la lunga rievocazione dei provini, la dichiarazione d’amore finale suggerisce che l’ennesima beffa di Manzan al teatro sia di usarlo per scopi personali, o almeno così farci credere. Forse però il destinatario di quelle parole d’amore struggenti è il teatro stesso. «Siamo possibili noi due». Se si potesse immaginarne la risposta, forse direbbe a Manzan: fallo, è ora. Puoi rialzare questa benedetta quarta parete se ti serve, credere in me e, come fai dire a Mefistofele/Giannini, «esprimerti senza pudore, con tutti i sentimenti, ed essere felice». (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro Vascello. Tratto da Faust I e II di J. W. Goethe. Di Leonardo Manzan e Rocco Placidi. Con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti. Regia Leonardo Manzan. Scene Giuseppe Stellato, costumi Rossana Gea Cavallo, music and Sound Franco Visioli, light designer Marco D’Amelio, fonico Filippo Lilli, datore luci David Ghollasi, macchinista Giuseppe Russo, assistente scenografa Caterina Rossi, aiuto regia Virginia Sisti. Produzione La Fabbrica dell’Attore - Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura in collaborazione Teatro della Toscana Teatro Nazionale. Foto di Manuela Giusto
ULTIMI ARTICOLI
Dov’è la vittoria. Senza interrogativo
Dove avevamo perso questo spettacolo? Un divertente racconto, scritto nel 2018, sulla cavalcata della prima candidata donna come Presidente del Consiglio. Vi ricorda qualcosa?...