NIKITA (di Francesca Sarteanesi)
Le due sorelline da spostare all’ossario, che le permette di ricordare com’erano: vestite uguali, coi denti in orizzontale, inadatte a stare al mondo. Il buzzurro che la porta al casinò di Venezia e l’incontro con Julio Iglesias: il gioco di sguardi, la fuitina, il fazzoletto col profumo lasciato tra i seni per cadeau. «Io così in alto quella sera, dove pochissimi possono arrivare». La ruota panoramica, che «era il massimo tra le giostre»: punto di vista alternativo, momento di poesia che nessuno cerca più. I pesci rossi che ha nella boccia e che, nonostante gli abbia tolto il cibo e la torretta con la quale giocavano, «si ostinano a non morire», l’idiozia del marito, i ninnoli della credenza e questa «noia inconcepibile» cui accenna tra uno schiocco di bocca e un tiro al cocktail con la cannuccia. La Nikita di Francesca Sarteanesi parla, parla, parla, camicia colorata, posa da snob, ogni tanto gli occhiali da sole, mentre Nadia (Alessia Spinelli) ascolta e le fa la pedicure. Già, ma che dice? Presentata avara in brochure (si lava a pezzi per risparmiare l’acqua; «non sa condividere neanche una bottiglia di rosso della casa» leggo al Florida) mi pare una creatura fragile, che rimpinza il tempo di chiacchiere perché col silenzio riemergerebbero fallimenti e sconfitte. La giostra volgare che ora gestisce al luna park; la solitudine che le piomba addosso se tace. Narra dunque, o forse abbellisce ed inventa, seduta dietro un parapetto glitterato (addobbo d’effetto, pura apparenza), con Nadia piazzata a una distanza inverosimile (la lontananza a cui tiene la realtà). Tra musiche e avvisi da parco giochi e luci colorate che toccano la platea; infilzando i racconti coi ritornelli di canzoni infantili, la replica identica di frasi e di gesti, indovinelli senza risposta. E quando la dirimpettaia infine le parla, scaraventandole contro la miseria delle cose, Nikita spezza il dialogo dicendo come ha ucciso un tafano. Finché ci si mente insomma – e ti prego, reggimi il gioco – c’è ancora la possibilità di salvarsi.
Visto al Cantiere Florida. Crediti: con Francesca Sarteanesi e Alessia Spinelli, drammaturgia e ideazione Francesca Sarteanesi e Tommaso Cheli, regia Francesca Sarteanesi, costumi Rebecca Ihle, scenografia Rbecca Ihle e Lorenzo Cianchi, disegno luci Marco Santambrogio. sonorizzazioni Francesco Baldi, produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione e Teatro Metastasio di Prato, con il sostegno di Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale
CRISI DI NERVI (regia di Peter Stein)
Appartenenti al periodo di sperimentazione con il genere francese del vaudeville dopo l’insuccesso delle prime opere, i tre atti unici di Cechov presentati al teatro Ivo Chiesa per la regia di Peter Stein con il titolo Crisi di nervi hanno riscosso un grande successo. Il filo conduttore è, appunto, la nevrosi, che coglie indistintamente i vari personaggi manifestandosi nei modi più disparati: dalla furia cieca dell’Orso, al terrore frustrato del professore, al confronto isterico tra i due promessi sposi. Ne L’orso, una Maddalena Crippa vestita a lutto in un salotto elegante con sedie a sufficienza per accogliere ospiti che non verranno mai invitati, piange in solitudine la morte del marito fedifrago, salvo poi innamorarsi dello scorbutico ex ufficiale (Alessandro Sampaoli) che ha fatto irruzione nelle sue stanze per reclamare il pagamento di un debito. Al professore (Gianluigi Fogacci) de I danni del tabacco viene chiesto di sostenere una lezione sull’argomento, come segnala la scritta sulla lavagna, nonostante sia un accanito sniffatore. Emerge gradualmente un quadro di soprusi e abusi ad opera della dispotica moglie, che lo sfrutta e lo deride. La conferenza diventa così un pretesto per poter dar sfogo, in totale libertà, alla sua rabbia repressa. Il terzo e ultimo quadro, La domanda di matrimonio ha scatenato le maggiori risate, scaturite dal battibecco continuo tra il timido e nevrotico Ivan (Alessandro Averone), che soffre di tic e scompensi cardiaci, e la figlia del vicino (Emilia Scatigno), fiera e ostinata. È la figura del padre Stepan (Sergio Basile) a far da mediatore alla caparbietà dei due giovani, dichiarando appena cominciata la felicità coniugale. Con lo stesso cast dell’acclamato Il compleanno di Harold Pinter, andato in scena lo scorso anno, è portata in scena la comicità sottile della penna di Cechov, che mette in primo piano l’irrazionalità e la perdita di controllo. La spinta delle passioni estreme riacquisisce nuovo vigore, legittimandole e, al tempo stesso, disinnescandole: di fronte alla nostra stessa fragilità emotiva, a volte, non ci resta che ridere.
Teatro Nazionale di Genova: Crediti Produzione Tieffe Teatro, Quirino srl Adattamento Peter Stein e Carlo Bellamio Regia Peter Stein Interpreti L’orso: Maddalena Crippa, Sergio Basile, Alessandro Sampaoli I danni del tabacco: Gianluigi Fogacci La domanda di matrimonio: Alessandro Averone, Sergio Basile, Emilia Scatigno Scene Ferdinand Woegerbauer Costumi Anna Maria Heinreich Luci Andrea Violato Assistente alla regia Carlo Bellamio
COHORS (di Camilla Monga e Valentina Fin)
Ogni volta mi sorprende piacevolmente il sobrio eclettismo e l’austera bellezza motoria di Camilla Monga, sempre più spesso connessa per i suoi processi compositivi a musicisti, polistrumentisti, ora anche cantanti. Alla ricerca, non di rado inquieta, e in trasparenza umbratile, di una armonia possibile capace anche di scombinare, per spazî improvvisi, l’ordine del tempo con una preghiera, una voce, una gestualità diafonica (nella sua accezione musicale: ossia disgiunta, affinché sia più ampia la sua ricezione). A Vicenza, per il festival Danza in Rete Off, è stata la volta di Cohors, una «narrazione sonora» realizzata insieme alla cantante e compositrice Valentina Fin. In scena con Monga anche il danzatore Francesco Valli, e con Fin altri due musicisti: Manuel Caliumi (sax) e Marcello Abate (chitarra elettrica). Sullo sfondo di una sala di Palazzo Chiericati, circondata da una quadreria prevalentemente barocca, vi è un telo bianco nel mezzo dello spazio, a forte contrasto e rottura, come per richiamare un’idea di scena effimera, nomade, estemporanea (come una tenda di zingari accampata nel deserto). Dietro questo schermo si alternano silhouette di ombre, forse a contrasto coi corpi in alto dipinti. Un lenzuolo di luce che ospita confusioni cinetiche e giochi di forme: sono macchie che sembrano lacrime giganti o perle fuori formato, come da un viaggio di Gulliver. La più vera magia sono i brani eseguiti di musica antica (da Monteverdi a Purcell) che sbalzano dalla sala tra esoteriche sonorità elettriche e vibrazioni legnose degli arrangiamenti. E il canto, che spiana la strada a un sentire comune, condiviso. Fra le ombre della notte e i contorni del giorno. Sarà stato un indotto site-specific (come una tenda di zingari piantata al Louvre), in attesa di un compimento più teatrale, più meditato-studiato-preparato, epperò tanta istantanea e spasmodica bellezza dice la verità sul Barocco come «una cultura in sospensione imperfetta»: così insegnava Marzio Pieri, per scritture infinite che si squagliano e calchi di santi appestati «sotto teca — l’idea della puzza a maggior gloria di Dio e confusione del peccatore a boccaperta». È questa la meraviglia. (Stefano Tomassini)
Visto a Palazzo Chiericati per Danza in Rete Off progetto di Camilla Monga e Valentina Fin coreografia e allestimento scenico Camilla Monga interpreti Camilla Monga e Francesco Valli musica live di Valentina Fin (voce) Manuel Caliumi (sax) Marcello Abate (chitarra elettrica) produzione Nexus Factory
ETUDE 6 ON CROWD (di Gisele Vienne)
Una pulsazione ritmica, distante, emerge e si intensifica nell’ombra e anticipa l'ingresso di una luce fredda, intermittente, che squarcia il vuoto abitato da una macchina collocata in una posizione marginale del palco. Dai vetri della vettura intravediamo due giovani figure, nei corpi “nervosi” di Sophie Demeyer e Theo Livesey: non più una folla come nei lavori precedenti, ma i suoi residui oggettuali, i suoi “scarti”. Si tratta di un ripensamento sostanziale che Gisèle Vienne attua a partire da Crowd (2017) per ripensare ancora una volta il linguaggio del rave, scomponendone però la grammatica attraverso una riduzione al grado zero della sua sintassi coreografica. L’azzeramento, tuttavia, non annulla la ricerca performativa dei corpi o la presenza scenica degli oggetti – rifiuti abbandonati che si susseguono come ablazione di una vita altra – anzi esso permette l’irretire di tutti gli elementi fantasmali che contaminano l’universo della coreografa e regista franco-austriaca, restituendo altresì un complesso sostrato malinconico di mancanza, un bisogno viscerale di riempimento, di appartenenza. Se i movimenti collettivi non esistono più, allora non rimane che l’ossessione dell’io, l’incubo, l’abbandono. È qui che si intreccia la narrazione coreografica dei due performer in scena, fatta di fratture, accelerazioni improvvise e sospensioni irreali, acutizzata da sonorità techno roboanti: un rituale privato che mette in scena l'eco infestante di un rito collettivo, dove la temporalità si dilata e si contrae mentre la sua percezione sensibile si deforma. Anche le luci di Iannis Japiot amplificano queste fratture: ombre lunghe tagliano lo spazio, le silhouette emergono per poi dissolversi, in un gioco visivo che rifrange il senso stesso della presenza. Lo smarrimento, nella visione di Vienne, si costruisce così come condizione necessaria al riconoscimento, un esercizio di percezione che scava la presenza nell’assenza, che plasma e trasforma non più solo la collettività ma anche l’individuo. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Triennale di Milano. Crediti: concezione e coreografia Gisèle Vienne, con Sophie Demeyer, Theo Livesey, musica Underground Resistance, KTL, Vapour Space, DJ Rolando, Drexciya, The Martian, Choice, Jeff Mills, Peter Rehberg, Manuel Göttsching, Sun Electric e Global Communication, suono Adrien Michel, luci Iannis Japiot, produzione e tournée Alma Office - Camille Queval e Anne-Lise Gobin, produzione DACM, Compagnie Gisèle Vienne
NIVES (drammaturgia di R. Fazi e a cura di G. Zorcù)
«Può capitare che il cervello si metta a camminare. Lo sanno tutti: con le vite ferme le angosce navigano» ed è subito una ferita, un ascolto doloroso che il pubblico in cuffia - attento alle parole di questa storia, isolato nella sua bolla sensoriale registicamente costruita ad hoc - percepisce come una fitta che si incunea tra la mente e il cuore, il ricordo e il presente emotivo. Nives è lo spettacolo tratto dall’adattamento dell’omonimo romanzo di Sacha Naspini pubblicato da Edizioni E/O e tradotto in ben 25 lingue. Una telefonata fatta nel cuore della notte dalla vedova Nives (Sara Donzelli) al veterinario Loriano Bottai (Sergio Sgrilli) diventa il pretesto, fisiologico e non premeditato, per rivangare i dispiaceri e i rancori, e allo stesso tempo godere delle giovanili gioie forse, ormai, perdute. «Era la prima volta che quella sua vecchia amica si scopriva così, in fatti che affondavano nell’ignoranza popolare»; la qualità interpretativa è curata, dosata e sostenuta dalla maturità attoriale, in un saliscendi di temperature umorali che mescolano insieme un q.b. di dolcezza a ferale aggressività, straniamento a totale abnegazione, rispettando quasi pedissequamente il testo originale. Dinamica che viene resa in scena attraverso luci colorate in mutevoli sfumature, da un avvolgente drammaturgia sonora di rumori, e da una separazione netta e frontale del palcoscenico in due parti, in cui l’uno e l’altra si parlano attraverso la cornetta, il cui filo pende dall’alto come un cappio che si stringe e si allenta a seconda dei passaggi più o meno sofferenti. «Pensavo lo stesso di te» detta con un filo di voce è un sospiro di rassegnazione che dal passato arriva alle orecchie di oggi; una confessione giunta quasi alla fine di un lavoro di scrittura, letteraria e scenica, di originale e avvincente suggestione. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Tor Bella Monaca: dal romanzo di Sacha Naspini pubblicato da edizioni e/o, con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia Riccardo Fazi, a cura di Giorgio Zorcù, voci fuori, campo Graziano Piazza prologo, Elena Guerrini Donatella, costumi Marco Caboni, collaborazione ai movimenti Giulia Mureddu, disegno luci Marcello D’Agostino, disegno suono Umberto Foddis grafica Matteo Neri Accademia Mutamenti | Muta Imago | Con il contributo di regione Toscana, Città di Follonica / Teatro Fonderia Leopolda. Foto di Nicola Tisi.
SUPPLICI (di Serena Sinigaglia)
Ci sono delle radici al centro della scena. Poi, un tronco reciso – un altare funebre arboreo – e donne, vestite di terra e polvere, il pianto eterno delle madri, una voce collettiva che riecheggia da secoli, e parole che si spezzano, rami secchi, corpi che si piegano e racchiudono in una lamentazione condivisa. Le Supplici di Euripide, nella trasposizione a cura di Serena Sinigaglia, si presenta così come un'incisione netta nella memoria collettiva: nella tragedia antica le donne di Argo implorano il diritto a una degna sepoltura per i propri figli caduti in battaglia sotto le mura di Tebe. Non solo una tragedia ma un rituale di dolore che prende forma attraverso l’azione corale di sette donne, Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan e Debora Zuin, che riemergono dal testo euripideo e lo stratificano. Sono madri in lutto, pronte a tutto pur di riavere i corpi dei figli, sono anche uomini di potere, spinti dai desideri di conquista, dall’istinto di sopraffazione. Nella traduzione di Maddalena Giovannelli e Nicola Fogazzi, indagata dalla drammaturgia di Gabriele Scotti, questa stratificazione dei ruoli – che subisce talvolta un affaticamento nell’azione interpretativa delle attrici – sovrappone alle voci un tessuto testuale con citazioni di pensatori per un testo che così rielaborato, torna al passato, ai riferimenti filosofici, ma apre e insiste su una temporalità che invece è tutta contemporanea. Qui, la perdita diviene indice della narrazione: i frammenti, i vuoti, le vocalità spezzate, le braccia protese in attesa di ascolto, i movimenti netti, improvvisi, quasi convulsi, seguono una liturgia di separazione e di raccoglimento, enfatizzata da un bagliore sacrale, e mostrano come la democrazia si riveli ancora un equilibrio fragilissimo, minacciato dal conflitto, dalla prevaricazione, dalla doppia faccia del potere. Per “una storia che non è mai accaduta ma che è sempre esistita”. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Euripide, traduzione Maddalena Giovannelli e Nicola Fogazzi, drammaturgia a cura Gabriele Scotti, regia Serena Sinigaglia, con Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan, Debora Zuin, cori a cura Francesca Della Monica, scene Maria Spazzi, costumi e attrezzeria Katarina Vukcevic, luci di Alessandro Verazzi, musiche e sound design Lorenzo Crippa, movimenti scenici e training fisico a cura di Alessio Maria Romano, assistente al training Simone Tudda, produzione ATIR - Nidodiragno/CMC - Fondazione Teatro Due, Parma
BRUTTA. (di G. Blasi, regia F. Zecca)
Un training autogeno sulla cyclette, una seduta di psicanalisi junghiana e pure una lectio magistralis sulla libertà di “incazzatura”: Brutta. Storia di un corpo come tanti è una bella corsa, preparata con sano agonismo scenico, cromaticità recitativa e minimalismo registico; adattamento teatrale di e con Cristiana Vaccaro per la regia di Francesco Zecca del testo di Giulia Blasi. Partiamo dalla fine, dall’incontro post spettacolo in cui, il pubblico numeroso (sold out tutte le sere tanto da aggiungere una replica straordinaria) partecipa al dibattito sulla disparità di genere senza ansia da prestazione o pregiudizio politico o eccessivo accademismo. La presa di parola autodeterminata e autodeterminante della protagonista - sola in scena, sulla cyclette, al buio ma racchiusa in una cornice luminosa, a limite tra la tenerezza popolare delle luminarie di una festa di paese e la seducente attrattività delle insegne del Cotton Club – è il fulcro attorno al quale si sfoga questo «corpo come tanti» che dall’infanzia all’adolescenza e fino all’adultità – incisivi i riferimenti all’immaginario maschilista degli anni Ottanta – è condannato alla bruttezza. Qualità che non ha però nel testo un’accezione estetica quanto invece sociale, di genere; “brutta” ovvero, giudicata, esclusa, subordinata, ostacolata, sempre costretta a dover legittimare la propria esistenza sulla base di logiche performanti. Correlativo oggettivo di questo sforzo identitario è infatti la cyclette, unico oggetto scenico. Vaccaro è esuberante, cinica, sarcastica e a tratti compassionevole ma mai pietosa; salta, balla, urla e ride all’interno di una stessa ravvicinatissima sequenza di battute tirate una dietro l’altra e ammantate da un’aura pop grazie alla selezione musicale. “Brutta” è allora la consapevolezza propulsiva di una pedalata velocissima restando ferme e ben salde a terra. (Lucia Medri)
Visto allo Spazio Diamante: di Giulia Blasi, adattamento teatrale a cura di Cristiana Vaccaro, Regia Francesco Zecca, Con Cristiana Vaccaro, Aiuto regia Veronica Buccolieri, Musiche originali Stefano Switala, Disegno luci Camilla Piccioni, Responsabile tecnico Tommaso Orioli, Produzione Do7 Factory, Foto Laura Sbarbori.
OTELLO (di Lella Costa e Gabriele Vacis )
Scale rosse, due teli a far da quinte e poco altro in scena, come un piccolo teatro nel ben più grande palcoscenico del Teatro Vittoria: uscirà da qui Lella Costa mentre dalla platea arriverà il consueto applauso di rito - abitudine che ancora sopravvive con certi pubblici verso le maestre e i maestri della scena e che qui viene subito smorzata dall’attrice che ringrazia per «l’applauso preventivo». In un bianco semplice che in qualche modo rimanda alla lontana a vesti antiche e rinascimentali Costa dopo un piccolo preambolo sulla contemporaneità, con tanto di frecciatina al ministro della cultura comincia il suo attraversamento dell’Otello di Shakespeare; del bardo ci lascia un’immagine suggestiva: i suoi personaggi ci volano attorno, ci somigliano e dopo rimangono un po’ con noi. Non c’è spazio per attualizzazioni forzate o battute che servono solo per acchiappare la risata, la maestria di Lella Costa in questo spettacolo di 24 anni fa, con la regia di Gabriele Vacis, sta nel riportare sempre tutto al testo, alla parola che, come affermava Agostino Lombardo, diventa destino. «Jago oggi lo si definirebbe un underdog», anche quando Costa lancia un’immagine dei nostri tempi l’obiettivo è sempre quello di entrare nella comprensione dei meccanismi testuali, per rendere vividi e tridimensionali i personaggi ai quali dà di volta in volta parola. In fin dei conti è uno spettacolo di narrazione che prende in prestito un testo classico trasformando la performance in una lezione leggera, avvincente e appassionata. Il celebre ammonimento di Jago - definito da Costa un «pirata della parola» a Roderigo, «metti il denaro nella borsa», diventa un rap (per enfatizzare la musicalità della ripetizione shakespeariana della battuta) sulla musica di Soldi di Mahmood. Oggi chi rimarrebbe accanto a un uomo che come Otello impiega cinque minuti per trasformare il proprio amore in gelosia? La domanda retorica di Lella Costa trova risposta purtroppo nei fatti, ma oggi il mostro dagli occhi verdi non è e non può essere più una scusa.
Visto al Teatro Vittoria. Con Lella Costa drammaturgia di Lella Costa e Gabriele Vacis regia di Gabriele Vacis scenofonia Roberto Tarasco scene Lucio Diana produzione Teatro Carcano distribuzione Mismaonda
SETTE A TEBE (regia di Gabriele Vacis)
All’ingresso in sala la luce è accesa fra le poltrone e così resterà per tutto il tempo della messinscena, non serve indurre un’immersione identificativa ove tutto ciò che accade è così connaturato in noi da essere ben prima e ben dopo di noi. Il sipario è aperto, sul fondo bruno campeggiano avanzate sull’asse retto orizzontale e frontale alla platea undici sedie, nere come gli abiti essenziali degli interpreti che sono già in scena, in movimento. Singolarmente, in coppia o più numerosi cominciano a comporre nuclei di azione o meglio sarebbe dire di pre-azione, avendo come l’impressione che quella dinamica sia un modo e un moto necessario a preparare non solo loro, ma noi pure, al travalicamento dimensionale che trascina i fatti, le vicende, la storia, il mito fuori dal respiro corto in cui succedono, successero o succederanno per effonderli in un vortice il cui soffio potente e infaticabile li rivuole sempiternamente umani, ad agitare i corpi tra gli impulsi muscolari e la costruzione dei riflessi energetici messi in forma dalla visione, a plasmare le voci tra il diaframma e la cassa di fonazione della bocca. La drammaturgia che Gabriele Vacis ha composto con i ragazzi del PEM vede la tessitura di nuclei tematici e parole dette affiancata da una partitura suggestiva di suoni e canti. La presenza dei singoli (intendendo in questo modo l’unità di intenzione, azione, corpo e voce), si riverbera costantemente in quella del gruppo, un coro che si struttura a schiera o a cerchio e si vuole utile a ricalibrare una percezione di comunità, di società civile o forse di civiltà sociale, disseppellendo il filo che lega Eteocle e Polinice al Vietnam o al Donbass, Melanippo a una Beretta 92 FS. Come se la vacuità degli occhi di ciascuna morte sopraggiunta in battaglia, sia essa una battaglia bellica o esistenziale, potesse servire a domandarci se non sappiamo sottrarci al conflitto, se ci consegniamo e rimaniamo in guerra o se la guerra non sia in noi cui non resta, qui ed ora, che affermare che siamo vivi. (Marianna Masselli)
Visto al Teatro Comunale Lucio Dalla: Ispirato alla tragedia di Eschilo drammaturgia di Gabriele Vacis e PoEM con le attrici e gli attori di Potenziali Evocati Multimediali: Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Lucia Corna, Pietro Maccabei, Lucia Raffaella Mariani, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Letizia Russo, Lorenzo Tombesi, Gabriele Valchera regia di Gabriele Vacis scenofonia e allestimenti Roberto Tarasco cura dei cori Enrica Rebaudo fonico Riccardo Di Gianni produzione PoEM Impresa Sociale con Artisti Associati Gorizia, Fondazione ECM Settimo Torinese
Ballet Junior de Genève (coreografie di Marne Van Opstal, Rachid Ouramdane, Barak Marshall)
C’è un filo invisibile, un comune riflesso, un’impronta ospitale in questi tre lavori, diversi e temporalmente distanti, eppure segnati da una stessa amicizia: ed è quella con la cultura performativa europea. Qui si tiene insieme la musica di J.S. Bach al cànone come metodo compositivo nonché al genere del teatrodanza quale memoria culturale. (Quando i baroni dell’accademia italiana mi bocciavano continuamente a tutti i concorsi universitarî perché considerato fuori lobby e figlio di ignoti, o meglio da ignorare, da ignoranti, solo presso i programmi di finanziamento della commissione europea trovai pronta risposta e libero sostegno ai progetti di ricerca anche di vita che ostinato inseguivo.) La serata del Ballet Junior de Gèneve vista al Teatro Comunale di Vicenza per Danza in Rete Festival è senz’altro composita. Eppure perfettamente armonizzata, non solo dai contenuti ma anche dagli straordinari interpreti: 20 e più giovanissim*, tutt* da applaudire. Il primo lavoro è Touch Base di Marne Van Opstal, il suono è “period”: violini e clavicembalo dal repertorio concertistico bachiano. E il contrasto non potrebbe essere maggiore: questo fare il punto (nel titolo) traduce proprio uno stare al passo. Qui, tra movimenti collettivi, scatti decisi, duetti frizzanti continuamente intervallati da prese vigorose e spezzature continue, un contrappunto visivo prende forma capace di generazione continua di immagini sonore e di gestualità astratte di grande musicalità. Il secondo ha un titolo bellissimo, Tenir le temps, di Rachid Ouramdane. Ed è un lavoro in cui il principio del cànone costruisce e dissolve gerarchie di movimento, in un loop ritmico (e percussivo) da piano preparato di Jean-Baptiste Julien. Una mobilità di schiere, di file, di incroci e passaggi creano un’intensa visualizzazione musicale. La questione che si pone è semplice: chi tiene il tempo affinché tutto funzioni? chi domina il tempo per guidare e comandare senza però soverchiare, opprimere, tiranneggiare? Il terzo lavoro, «triste e divertente», è di Barak Marshall, Rooster, ispirato a un racconto di Isaac Leib Peretz in cui si processa il qualunquismo passivo di un uomo irrimediabilmente qualunque. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Comunale di Vicenza: Crediti completi
COSTELLAZIONI (di Nick Payne, regia di Raphael Tobia Vogel)
Se esistono davvero infinite versioni della realtà, come suggerisce la fisica quantistica, Costellazioni di Nick Payne le apre e le attraversa, mettendole costantemente in discussione. Diretto da Raphael Tobia Vogel e prodotto da Teatro Franco Parenti insieme a TPE - Teatro Piemonte Europa, lo spettacolo prende corpo grazie all'intensità di due attori umani, anzi umanissimi, come Elena Lietti e Pietro Micci, una scienziata specializzata in cosmologia quantistica e un apicoltore, che finiscono per ritrovarsi a Milano e incontrarsi una e altre mille volte. La scena è un luogo lucido e spoglio, firmato da Nicolas Bovey, che riflette su una superficie specchiante due anime inquiete, due particelle in eterna sospensione: attraverso la partitura luminosa di Paolo Casati che disegna ripetutamente nuove geometrie di senso, essa interroga e demoltiplica la relazione tra queste particelle, creando un altro livello di realtà che le contiene ma a cui, al tempo stesso, sfuggono continuamente. È questo lo spazio in cui si materializzano due mondi paralleli e le loro simultanee varianti, evocate dalla fisica quantistica: insicuro, istintivo e senza filtri quello di lei oppure docile e insofferente quello di lui che cerca invano di trattenere quelle infinite possibilità di una relazione d’amore che con leggerezza nasce e cresce, si complica e si interrompe, ricomincia, finisce. Una molteplicità che si riversa con forza anche in una drammaturgia che procede per frammenti, si sgretola e si consuma, per poi riavvolgersi e ripartire, mostrando come in uno “Sliding Doors” cosa succede se si decide di restare, cosa succede se si decide invece di andare via. Costruendosi come la somma di tutte le vite che si potrebbero vivere, in un fluire senza sosta che la regia incalza, Vogel costringe lo spettatore a perdersi in questo gioco metafisico delle varianti. A ritrovarsi nella possibilità di poter ancora scegliere. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Franco Parenti, Milano. Crediti: di Nick Payne, traduzione Matteo Colombo, regia Raphael Tobia Vogel, con Elena Lietti e Pietro Micci, scene e costumi Nicolas Bovey, luci Paolo Casati, produzione Teatro Franco Parenti
THE BODY SYMPHONIC (di Charlie Prince)
È un suono sottile, diffuso in uno spettro udibile le più volte impalpabile per uno spazio capillare, quello che nasce e prende vita da The Body Symphonic, performance-concerto del danzatore libanese Charlie Khalil Prince. Vista (dopo il debutto romano di Orbita) sul palco del Teatro Comunale di Vicenza, fa parte di Danza in Rete Festival che quest’anno ha maturato una programmazione curatoriale davvero di grande valore. Ci sono rumori e altri effetti in loop creati da una pedaliera, una chitarra elettrica sfregata anche con un archetto, campionamenti e registrazioni vocali con canti soffusi che provengono da un mini altoparlante wireless, diversamente posizionato. E poi la presenza del percussionista Joss Turnbull che intensifica l’atmosfera musicale mediorientale con ritmi e suoni esplorati sul tamburo anche attraverso dita, palmi, unghie e oggetti di metallo. E poi la gestualità di Prince, che è anche musicista laureato con specializzazione in studi religiosi. Una gestualità asciutta ed essenziale, minimalista e ascetica, continuamente negoziata tra una tensione spiraliforme, il richiamo a una gestica folclorica, il movimento seduttivo del bacino con la manipolazione degli arti e la staticità del chitarrista in un duetto irresistibile. Un corpo naturalmente musicale, ma che declina in termini ‘sinfonici’, ossia come in un tutto organico tra gesto e suono, una idea di presenza radicata nuovamente nella storia. Per danzare una meditazione giustamente archeologica, capace di far fronte testimoniale, attraverso il flusso sempre trasformativo della performance, «alle molteplici crisi politiche e geopolitiche in Libano», «attraverso rituali di scavo - rivelando mitologie nuove e sconfinate e consentendo un’agency illimitata di auto-rappresentazione e radicamento». È dunque una presenza politica che nello spazio, nel cono di luce che proviene da un faro dislocabile, dissemina e incarna traumi e domande che ricevono fragili risposte. Nella circolare mobilità del torso, nella lenta torsione delle braccia e delle mani, Prince descrive una equivalenza tra suono e corpo in frasi di movimento che, pur nella loro contenuta motilità, pulsano di potenza, come di un dolore sempre incombente, sempre alla carica. (Stefano Tomassini)
Visto al Teatro Comunale di Vicenza, Festival Danza in Rete: Crediti completi
IL SOGNO DI UNA COSA (di e con Elio Germano e Teho Teardo)
Una linea retta interseca il tempo e collega gli anni del dopoguerra al presente; la ciclicità degli avvenimenti con le sue urgenze si rinnova e i tre ragazzi del romanzo, il primo, di Pasolini ci parlano dei tanti e tante che oggi attraversano la rotta balcanica. Elio Germano e Teho Teardo adattano teatralmente Il sogno di una cosa in un concerto, anche se sono solo loro due gli autori e gli interpreti nella scena spoglia. La molteplicità dei punti di vista, da quelli dei protagonisti Nini, Milio ed Eligio, si allarga a quella corale dei paesi friulani dai quali provengono e che attraversano per giungere poi in Jugoslavia. La voce narrante di Germano e la sua corporeità diventano strumenti risonanti le parole e i loro significati, amplificati dalla tessitura sonora di Teardo, la quale riecheggia nelle note della chitarra, si amplifica negli echi elettronici e si eleva nel tintinnare delle campane. La “cosa” in cui si sogna è la rivendicazione politica contro l’oppressione, la fede in un comunismo, quello di Tito, nel quale si voleva riporre fiducia per scoprirne poi l’illusione idealistica, fiaccata dagli stenti e quindi anche dalla morte. La riconosciuta sapienza artistica di Germano e Teardo, la loro coerenza politica nelle scelte finora compiute, in questo caso purtroppo non riesce a sostenere la dimensione teatrale sia nella recitazione – che non suscita empatia tanto che si fatica a “credere” in quel neorealismo del racconto e i registri e le tonalità con cui viene detto spesso si uniformano in una sola monotonia – sia nella drammaturgia musicale, poco complementare al testo e che, soprattutto nei passaggi più virtuosistici, lo sovrasta. Tuttavia, prevale l’intento di far risuonare la tensione giovanile e l’ingiustizia storico sociale: un moto d’animo e politico, lo stesso che spinge le nuove generazioni di migranti ad andare fuori a scegliere il cambiamento, personale e collettivo. Del resto, non sono proprio i migranti i veri rivoluzionari? (Lucia Medri)
Visto a Spazio Rossellini: Liberamente tratto dal capolavoro di Pier Paolo Pasolini. Una produzione Pierfrancesco Pisani per Infinito Teatro e Argot Produzioni. In coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana. Con il contributo di Regione Toscana.
OGNISSANTI (di S. Petyx, regia E. Vetrano e S. Randisi)
Le mani, prima di tutto. Si agitano nello spazio conteso tra la luce e il buio, ossute ma non meno eleganti tagliano l’aria come si vedesse, come fosse tangibile, percorrono sentieri di azioni e li distendono, sembrano liberarli dagli ostacoli, perché ci possano star sopra le parole. Non va via questa immagine dal palco di Ognissanti, le mani sono di Enzo Vetrano, là alle sue spalle sulla parete c’è Stefano Randisi, immobilizzato dall’arte e dalla storia in egual misura, il teatro è il Fabbricone di Prato per l’ennesimo lavoro riuscito nella stagione ideata da Massimiliano Civica. Ci sono due santi, in questo testo di Sabrina Petyx scritto apposta per i due attori, sono raffigurati in due dipinti contigui, appesi alla parete di un possibile museo, tesi in posizioni evocative di una beatitudine da nobiltà religiosa, che lasciano intuire le azioni per cui hanno raggiunto in vita l’imperitura memoria ultraterrena. Eppure, chissà, saranno due santi anonimi? Sono loro stessi a dirlo quando, forse nella solitudine di un museo chiuso, iniziano a muoversi e parlare tra di loro. Vetrano compie il gesto di uscir fuori, sfonda i contorni del proprio riquadro e acquista la terza dimensione, quella della relazione con lo spazio e il tempo, mentre l’altro santo resta dentro, tiene lo scranno del proprio alto grado; ecco che le luci di Max Mugnai, forti e nette a battere tra il buio e il rosso cardinalizio, disegnano due piani in dialogo tra loro, un dentro e fuori non dalla scena ma dal dipinto. Ma sono poi davvero, questi, due santi? O forse solo due modelli di allora che la smemoratezza della finzione ha così dipinto? C’è un’impostazione pirandelliana in questi due personaggi in cerca d’autore, o meglio, in cerca di comprendere se il tempo abbia reso santi questi due inquisitori morti ammazzati o sono ancora due poveracci come allora. La regia di Vetrano e Randisi, sostenuta dalle musiche di Gianluca Misiti che sceglie un percorso classico, evolve con qualche lentezza nell’ascesa del climax, ma governa la commistione tra un comico da marionetta e il tragico con pazienza e maestria. Santi oppure no, “chiunque – dicono – darebbe la vita per una cornice dorata”. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Sabrina Petyx; interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi; scene e costumi Mela Dell’Erba; luci Max Mugnai; musiche originali Gianluca Misiti; produzione Teatro Metastasio di Prato
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