Il teatro è uno dei veicoli più potenti per provare sentimenti scomodi in compresenza, per portare sullo stesso piano emotivo l’attore in scena e lo spettatore, seduto spesso di fronte, in platea. Cerchiamo di riflettere su quale tipo di relazione ne nasca…
Mettere in scena. Mettere in vita. Ricorrente tra le esperienze di platea è la visione di opere che si misurano con temi complessi della contemporaneità, nuclei irrisolti del mondo in divenire, il mondo che non si è fatto ancora e che proprio attraverso la discussione, la dialettica, si permette di mutare. L’arte ne è veicolo a tal punto importante da farsi fondativo, diventa cioè poi la base solida su cui erigere la struttura del progresso civile, l’edificio che consente all’umanità di andare quel poco più in là nel processo evolutivo. Eppure, non di rado, gli argomenti espliciti di cui l’arte scenica decide di occuparsi non sono privi della sofferenza, anzi, sempre più spesso i temi si caricano di un dolore profondo, bucano la superficie delle situazioni sceniche, indagano la sofferenza con una sonda lubrificata di sangue, la scavano oltre i limiti del ragionamento, affondando in essa come parte del nostro meccanismo conoscitivo. Si sviluppa dunque una straordinaria qualità osmotica che, ponendo in analisi la pena dell’individuo contemporaneo attraverso l’indagine di una storia esemplare, finisce con l’indagare il dolore privato, intimo, di chi lo ascolta, di chi lo vive a distanza minima di percezione: dal palco alla platea.
Ma l’arte non ha mai mancato di porre luce sulla pena umana: lo stesso Dante nella Commedia, con il fine di focalizzare il grande paesaggio dell’universo medievale, lo inquadra disponendo come il castigo del sottomondo sconti la colpa del mondo attraverso il dolore della carne e dello spirito; il poeta sviluppa così la possibilità di una comprensione emotiva e non cerebrale, estesa a una formula basilare: gli uomini non devono capire, per capire; devono, semmai, avvertire sensibilmente assieme. Il teatro assume su di sé questo proposito di sovvertire un razionalismo di natura tecnologica che dalla fine del Novecento a oggi ha occupato l’esperienza artistica, lasciando a questi territori nascosti del contatto e della relazione – il teatro, appunto – di conservare nel dispositivo il ricorso a un canale calibrato sulle emozioni.
La sofferenza come veicolo di contiguità emotiva tra palco e platea, ossia un sentimento assiduo e non riducibile con l’uso di ironia o rassegnazione, testimonia dunque come una volta di più il teatro riguardi l’artista nel momento in cui pone sotto indagine la sensibilità dello spettatore, come se dunque fosse ribaltata, almeno idealmente, l’idea classica che il teatro abbia l’attore come fondamento primario, sostituito – forse raggiunto – dallo spettatore ormai consapevole, conscio di ciò che può chiedere e a cosa può essergli utile. Tale rovesciamento, pertanto, segnala il teatro per essere il metro di misura più adatto alla contemporaneità, forse proprio per ciò il più rimosso.
È questa un’epoca incapace di ravvisare stimoli dilatati, di dare continuità sentimentale a ogni livello; ecco dunque come, per un sentimento qual è la sofferenza che si radica in profondità e non conosce se non l’illusione di miracolosi ribaltamenti improvvisi, ci sia bisogno di uno stato emotivo espanso perché vi attecchisca una coscienza sedimentata. A sorprendere è semmai, più nel dettaglio, la facilità con cui tale spettatore di ciò si faccia consapevole senza magari saperlo riferire, come se il passaggio avvenisse a uno stadio precedente rispetto all’esplicita acquisizione. Ma in un contesto umano sempre più velocizzato, che ormai produce da sé stesso le immagini prima ancora della realtà subordinata all’esperienza virtuale, è ancora al teatro che chiediamo lo sforzo di ribadire la priorità del corpo, attraverso cui fidarci di raggiungere confini mai toccati, come tornasse Leopardi a dirci finito il mondo e infinito l’uomo, come si sapesse bucare con tutti i sensi la scatola nera della messa in scena ed esplorare il mistero mai rivelato della messa in vita.
Simone Nebbia