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Questo spettacolo è per il popolo! Ma il pubblico che fine ha fatto?

Una riflessione dopo la prima del Teatro delle Albe all’Argentina, Va pensiero di Marco Martinelli.

Foto Silvia Lelli

«Se lo spettacolo vi è piaciuto, parlatene. Abbiamo bisogno di carne in platea», afferma Marco Martinelli con la passione che da sempre lo contraddistingue, neanche fosse un esordiente alle prese con i problemi di incasso di un piccolo teatro; invece a parlare è un pezzo di storia del teatro italiano, in carne e ossa. Il regista e drammaturgo del Teatro delle Albe durante gli applausi ha preso la parola per spiegare che questo ultimo lavoro del gruppo ravennate è stato concepito per vivere di fronte a una platea popolare e popolata. Lo spiega al pubblico romano del Teatro Argentina, davanti a una platea che lascia libere decine di posti e con i palchetti quasi interamente disabitati, che lo guardano dall’alto come tanti occhi chiusi.

Ma attenzione, lo dice anche di fronte al Presidente (e direttore pro tempore) Emanuele Bevilacqua e al direttore generale degli uffici del Mibac per lo spettacolo dal vivo, Ninni Cutaia, oltre che a qualche giornalista e al professor Guido Di Palma, che della commissione prosa del Fus è presidente. Testimoni, tutti quanti, anche chi scrive, di una prima anomala, nella quale un’importante compagnia, qui prodotta da un altro Teatro Nazionale, L’Ert (Emilia-Romagna Teatro Fondazione) riceve nella Capitale un benvenuto tutt’altro che caloroso. La situazione non è migliorata di molto nei giorni successivi: il Va pensiero scritto da Martinelli e diretto con Ermanna Montanari non è riuscito a far scattare quel passaparola salvifico: al Teatro di Roma sperano nel weekend che, da sempre, è momento di sbigliettamento assicurato.

È un peccato, perché questo spettacolo sicuramente non ha l’obiettivo di colpire attraverso una qualità legata al lavoro sui linguaggi o a un’attitudine che possa sorprendere il pubblico; è però una sorta di apologo sintetico dei nostri giorni, un affresco deformato di quella povera patria di cui, quotidianamente, le destre più o meno estreme cantano le qualità virili, sovraniste e securitarie. E qui invece Martinelli scrive e dirige un lavoro che è anche un canto patriottico, perché racconta la figura di qualcuno che non si arrende: un vigile urbano con il pallino del giornalismo, che cerca di far emergere le infezioni della mala politica e le collusioni di questa con la Mafia, in un silente e apparentemente pulito paesino della rossa Emilia-Romagna. Possibile che sia proprio questa attitudine morale ad aver spaventato il pubblico insieme alle due ore e mezzo di spettacolo? Il testo è ambientato a Brescello (ricordate le avventure di Giovannino Guareschi e dei suoi Peppone e Don Camillo?). Stratificato per significati, citazioni e percorsi, riprende una vicenda, accaduta all’inizio degli anni 2000. La «Zarina» (sontuosa Ermanna Montanari per la qualità della recitazione, arricchita da numerosi slittamenti vocali) è il soprannome di una Sindaca – ma lei odia farsi chiamare al femminile – che fa affari con mafiosi calabresi e imprenditori votati al raggiro; sarà lei a licenziare il vigile/giornalista per le sue inchieste.

Foto Silvia Lelli

C’è spazio anche per sotto-trame non meno significative: una gelateria napoletana deve vedersela con il “pizzo”; nessuno che crede alla coppia di partenopei fuggita dalla propria città proprio per non pagare la tassa mafiosa, perché lo sanno tutti che al nord la mafia non esiste; poi c’è una festa in piazza da organizzare, cosa che dà la possibilità di riflettere sul binomio (quasi mai felice in questo Paese) politica-cultura. Tanti gli spunti, forse troppi per la forma quasi didattica, “brechtiana”, scelta da Martinelli, che si avvale delle proiezioni di brevi didascalie atte a chiarire i luoghi o la cronologia e di cori recitati e cantati. In questo caso Giuseppe Verdi era intonato dall’ensemble della città di Anzio. Il testo, edito da CuePress, strappa una vicenda alla realtà e ne rimodella i contorni teatrali rendendola esemplare; tutto avviene in una scena fredda, occupata da una pedana e da pochi oggetti di volta in volta spostati, calibrando una recitazione non sempre efficace e alla ricerca di una distanza emotiva.

Nella metropoli che ancora deve riprendersi dal terremoto di Mafia Capitale, che combatte quotidianamente clan e micro criminalità mafiosa sul proprio litorale (e non solo), il Va pensiero delle Albe potrebbe essere un momento collettivo importante, di riflessione e, perché no, di incoraggiamento. Ma già un paio di giorni fa Andrea Porcheddu, arrivando la mattina dopo della prima, rifletteva sulla questione relativa ai biglietti. Il Teatro Nazionale di Roma può definirsi come un teatro per l’élite?
Volendo acquistare un biglietto per una poltrona in platea bisogna sborsare 40 euro (senza nessuna differenza tra i posti centrali e quelli molto laterali), per scendere a costi meno onerosi bisogna salire verso i palchetti più alti – 25 euro per il III, IV e VI ordine. Ovvero con il costo di un biglietto valido per uno di questi palchetti alti del Teatro Argentina, alla bolognese Arena del Sole, gestita da un’altra importante istituzione nazionale, l’Ert, si acquista un ticket per la platea proprio a 25 euro. Al Piccolo di Milano, in qualche modo epicentro della prosa italiana dalla seconda metà del Novecento, ci si ferma a 35 euro, toccando le 40 solo per le produzioni internazionali e per i concerti; al Carignano di Torino arrivano a 37 euro, ma all’altra sede storica, il Teatro Gobetti, non si supera quota 25; scendendo a sud, allo Stabile di Napoli, San Ferdinando e Mercadante non vanno oltre quota 29 euro per le poltrone di platea del weekend. Dal Teatro di Roma ci tengono a specificare che il prezzo medio, contando card e “scontistica” è di 13 euro. Ma le forme di promozione legate agli abbonamenti necessitano di una cultura teatrale cittadina viva e in salute: esiste a Roma? Inoltre, sempre dal teatro, mettono in evidenza i successi di pubblico registrati da Davide Enia ed Emma Dante all’India e il futuro tutto esaurito per The Deep Blue Sea allestito da Luca Zingaretti.

Foto Silvia Lelli

La nostra, teatralmente parlando, è forse la Capitale degli operatori. Spesso lo abbiamo detto. E anche alla fine di questa estate abbiamo spiegato, ad esempio, l’impatto di un festival come Short Theatre proprio su una comunità disgregata come quella romana. Questo bacino potenziale, arrivando al quale si riempirebbe gran parte delle platee cittadine (basti pensare a chi il teatro lo pratica da professionista o a chi lo studia nelle numerose scuole) ha però bisogno di relazioni precise con lo Stabile, che dovrebbero tradursi anche in costi contenuti di accesso. Invece gli operatori, da questo punto di vista, si sono visti riconoscere, nell’ultima stagione pensata da Antonio Calbi, un raddoppio del costo del biglietto a loro dedicato, passato da 7 a 14 euro. Tutto questo senza pensare al lavoro di formazione sul pubblico, alle relazioni con le scuole, oppure al semplice lavoro di marketing e promozione rispetto al quale il Teatro di Roma deve vedersela con la concorrenza agguerrita dei teatri privati: loro sì che si preoccupano di questa stessa concorrenza, attraverso manifesti ben visibili, nell’attrarre pubblico. Possibile che la principale istituzione teatrale pubblica della città non riesca (o non possa), pur destinando una parte del proprio budget per la cartellonistica o per la pubblicità in generale, ad attrarre nuovo pubblico? Sono più di una, sui social media, le conversazioni che mettono in discussione la chiarezza della comunicazione visiva del Teatro di Roma. E i risultati si vedono, oggi, chiaramente. Soprattutto quando la comunicazione si limita alla stagione completa, senza privilegiare le virtù del singolo titolo.

Siamo in una terra di mezzo, in attesa del prossimo direttore del Teatro Nazionale. Chi avrà l’onore e l’onere di guidare questa istituzione dovrà ripartire anche da qui, da quella platea mezza vuota alla prima del Teatro delle Albe. Dovrà essere in grado di raccontare le proprie scelte e di difenderle davanti a una, ormai, conclamata marginalità del teatro.

Andrea Pocosgnich

Prima, 13 novembre 2018, Roma, Teatro Argentina

VA PENSIERO
di Marco Martinelli
ideazione e regia Marco Martinelli ed Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari, Alessandro Argnani, Salvatore Caruso, Tonia Garante, Roberto Magnani, Mirella Mastronardi
Ernesto Orrico, Gianni Parmiani, Laura Redaelli, Alessandro Renda
con la partecipazione della Corale Polifonica Città di Anzio nell’esecuzione di alcuni brani dalle opere di Giuseppe Verdi
incursione scenica Fagio, Luca Pagliano
arrangiamento e adattamenti musicali, accompagnatore e maestro del coro Stefano Nanni
scene Edoardo Sanchi
costumi Giada Masi
disegno luci Fabio Sajiz
musiche originali Marco Olivieri
suono Marco Olivieri, Fagio
consulenza musicale Gerardo Guccini
editing video Alessandro Renda
fotografie dello spettacolo Silvia Lelli

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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