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Violenza, simbolo, rappresentazione. Conversazione con Milo Rau

Milo Rau arriva a Romaeuropa Festival 2018 con The Repetition – Histoire(s) du Théâtre (I), al Teatro Vascello. Ci ha concesso una generosa intervista per parlare di violenza, crudeltà, teatro, rappresentazione, politica.

foto di Hannes Schmid

Lo spettacolo The Repetition – Histoire(s) du Théâtre (I) conclude la Trilogia della Rappresentazione, cominciata con Five Easy Pieces (2016) e proseguita con le 120 giornate di Sodoma (2017). Si tratta di un ragionamento complesso sulla messinscena a posteriori della crudeltà e della violenza, su come queste manifestazioni puramente umane impattino la coscienza del nostro tempo, su quanto passato e presente si ritrovino in un turbine di contraddizioni e generino un cortocircuito tra artista e spettatore, convocati dentro lo stesso orribile processo di ricostruzione mnemonica. Come in The Repetition, dove il finto cadavere resta qualche attimo riverso a pancia in giù, attorno al sangue appena versato. Prima di rialzarsi in piedi.

Quanto di quello che di terribile accade oggi ci chiama in causa da un punto di vista etico? Quanto il filtro della rappresentazione, che spinge la realtà dentro a un tritacarne di opinioni e giudizi, può influenzare il nostro senso della comunità? Quanto siamo disposti a restituire all’arte la capacità di dirci chi siamo e, soprattutto, chi possiamo essere?
The Repetition affronta un’analisi del meccanismo tragico del teatro per riassemblare dentro nuovi codici della rappresentazione l’elaborazione di un trauma. Mettendo sul palco attori professionisti e non, presenta al tribunale sociale un fatto di cronaca nera avvenuto a Liège, in Belgio. Il trentaduenne Ihsane Jarfi, ritrovato dieci giorni dopo la denuncia di scomparsa, picchiato a morte da un branco di aggressori, accanitisi contro di lui per un «effetto di gruppo» – dichiaravano i quattro arrestati – sfociato nella decisione di «dare una lezione a quel frocio».
Abbiamo raggiunto Milo Rau al telefono, mentre si trova in Libano a presentare il suo The Breivik Statement a Beirut. Ci ha dedicato parole profonde, con una voce chiara ed entusiasta, eppure a volte velata da una serietà improvvisa, che ci ricorda quanto l’arte e il teatro debbano rivendicare il proprio valore politico, in un mondo di emozioni anestetizzate dai media e dall’individualismo del nostro tempo.

foto di Hubert Amiel

Quanto lontano ci si può spingere nel raccontare la violenza?

È molto diverso se parliamo di un film, un testo o uno spettacolo teatrale. Al cinema puoi descrivere o mostrare più o meno tutto, attraverso il montaggio e la metafora, mentre il teatro è completamente diretto. Lì vedi davvero quel che ti viene mostrato ed è per questo che trovo così interessante il teatro, nella sua dialettica tra illusione e reale presenza di un’azione. Lì – come sappiamo tutti – ogni cosa deve essere ripetuta. Questo è uno dei significati di The Repetition: il fatto che si debba replicare lo spettacolo sera per sera, mentre un film lo giri una volta e poi lo proietti. Performance come quelle di Marina Abramović o di Joseph Beuys vengono fatte al massimo una volta l’anno. Prima di raggiungere Roma, gli attori hanno invece messo in scena l’assassinio di Ihsane Jarfi quasi cento volte. Lo spettacolo, dunque, è innanzitutto una riflessione sull’atto di rappresentazione, perché uccidere o morire sono gli atti di rappresentazione più reali che esistano. Per questo motivo trovo interessante ragionare sul cuore di ciò che chiamiamo “realismo”. Ho lavorato sul concetto della violenza in molti modi. Per esempio, The Congo Tribunal (proiettato l’8 novembre a Romaeuropa Festival, ndr) è incentrato sulla questione della giustizia e della rappresentazione di qualcosa di troppo complesso da rappresentare (la violenza dell’economia globale) e questo viene messo a paragone con la guerra civile in Congo, che ha causato milioni di morti. The Repetition può essere visto come un monumento all’impossibilità di comprendere la violenza. Per esempio, il lutto: che cosa significa perdere qualcuno che ti è vicino? C’è una bellissima citazione che abbiamo usato nel Prologo, recita: «Di fatto il teatro è un dialogo con i morti». Credo che si possa considerare la dichiarazione di intenti dello spettacolo.

foto di Hubert Amiel

Che tipo di relazione intende stabilire con il suo pubblico?

Io sono un teatrante piuttosto vecchio stile, mi interessa profondamente quello che si potrebbe chiamare “choc” o “aura” o “catarsi” o “compassione”; d’altra parte, però, mi interessa il sentimento della solidarietà. Credo che l’atto di solidarietà possa essere considerato come uno strumento di azione. Di certo alcuni miei spettacoli sono definibili come espressioni di “attivismo”, altri sono “poetici” o giudicati “pessimisti”, ma di fatto ogni singolo spettacolo si occupa di mostrare le cose così come stanno. Per esempio, in The Repetition il pubblico non ha possibilità di salvare Ihsane Jarfi, perché egli è morto e non risorgerà mai. Da un’altra prospettiva, però, è una persona, un individuo parte della società degli esseri umani, e tu capisci che potresti essere tu. Questo per me è l’atto teatrale per eccellenza, quale che sia il tuo modo di identificare te stesso con ciò che vedi e con le cose che io tento di rappresentare. Io non ho mai conosciuto Ihsane Jarfi e credo che nessuno lì a Roma l’abbia conosciuto; ma, al contempo, non abbiamo mai incontrato Edipo o Antigone, sono solo dei simboli di qualcosa che potrebbe accadere a tutti noi. E tutti moriremo, tutti perderemo qualcuno (come i parenti o i genitori di Jarfi), quindi si tratta di un’allegoria che sta a rappresentare la condizione umana e tutto ciò attraverso cui essa può passare.

foto di Hubert Amiel

Ricordo quando ho visto Five Easy Pieces, che racconta il caso del pedofilo Marc Dutroux a confronto con l’instaurazione del regime e della democrazia in Congo Belga. Ciò che lei dice a proposito della solidarietà lì si è reso molto visibile. C’è stato un momento nello spettacolo in cui tutto il pubblico si sentiva sempre più a disagio, era una situazione scomoda perché tutti eravamo, in qualche modo, forzati a essere testimoni e complici di quel crimine. Al contempo, era anche percepibile una sorta di disperata ricerca di un senso di unità tra gli spettatori.

Grazie di questa descrizione, perché in qualche modo quello era lo scopo dello spettacolo: sorprendere se stessi dentro a questa doppia condizione. Lo stesso accade anche in The Repetition. In tutti e tre i passi della Trilogia della Rappresentazione si può avvertire una diversa qualità di sguardo rivolto al pubblico, che dice: «Guarda, noi ne siamo usciti vivi, tu dove ti trovi?». Il momento più forte in Five Easy Pieces è, per me, il finale, quando vedi i bambini e ti rendi conto che era tutta una favola. Loro sono altrove, hanno un futuro, non sono traumatizzati, probabilmente sono gli unici a non essere realmente stati traumatizzati dal caso di Marc Dutroux. Credo che The Repetition punti a un risultato molto simile: finisce con una canzone e con un breve epilogo che cerca di ragionare su come concludere lo spettacolo, usando i versi della poetessa polacca Wisława Szymborska. Lei sostiene che l’atto più interessante di una tragedia non è il quinto, ma il sesto, quando tutti escono allo scoperto e si verifica una sorta di nuovo inizio, che mostra che dopo c’è dell’altro. Nell’arte c’è qualcosa di molto speciale e di molto diverso dalla vita o dalla politica. Quindi le domande sono: è possibile stabilire un dialogo con i morti? È possibile un altro tentativo? È possibile stimolare una forma di solidarietà? E questa è esattamente la realtà: la senti, lo sai, contribuisci a descriverla, mentre assisti a uno spettacolo teatrale. Ma per me questa è una realtà che esiste soltanto nell’arte e a volte nella politica, quando si prende parte a un’azione insieme ad altre persone, una manifestazione. Ma è qualcosa di veramente peculiare.

foto di Hubert Amiel

In Italia abbiamo una regola: se il numero degli spettatori è inferiore a quello degli attori sul palco “più uno”, gli attori sono autorizzati a non andare in scena. Non ci si può dunque trovare da soli in platea ad assistere a uno spettacolo, anche se è un monologo. Forse questo è di per sé un atto politico, perché è sempre un’azione di comunità. Allora le chiedo che tipo di atto politico oggi è permesso al teatro?

L’atto politico cambia profondamente di spettacolo in spettacolo. La gente a volte pensa a me come a un attivista, e al contempo pensa che io non creda realmente nel potere politico dell’arte. Ma io sono un situazionista: davvero dipende da che cosa presenti e dove lo presenti. Per esempio The Breivik Statement, la lettura delle dichiarazioni del terrorista responsabile dell’attentato di Utøya nel 2011: la scorsa settimana l’abbiamo portato a Beirut, e ha avuto tutto il senso possibile. Ma quando lo abbiamo portato a Parigi davvero non si capiva che cosa stessimo facendo, sembrava non essere più che un semplice testo, l’ennesimo argomento da portare nel salotto di un circolo socialista. Per me si tratta sempre di spalancare uno spazio simbolico. A Gent mettere in scena dei classici è praticamente proibito; non ti metteresti mai a presentare un Čechov, non avrebbe senso, sarebbe solo un ulteriore adattamento, un modo di mostrare quel testo a un pubblico che già lo conosce alla perfezione. Ma portare un Čechov a Teheran può rappresentare un atto davvero rivoluzionario. Qui si crea la condizione straniante: il teatro può essere realmente l’arte del qui e ora, e ti permette di aprire quello spazio simbolico. Che è la vera chiave per produrre un atto politico.

Sergio Lo Gatto

[L’intervista è stata condotta in inglese, la traduzione è a cura dell’autore dell’articolo]

Teatro Vascello, Roma (Romaeuropa Festival 2018), novembre 2018

THE REPETITION. HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE (I)
ideazione, regia Milo Rau
testo Milo Rau ed ensemble
performer Sara De Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen, Tom Adjibi, Fabian Leenders, Suzy Cocco
ricerca, drammaturgia Eva-Maria Bertschy
collaborazione alla drammaturgia Stefan Bläske, Carmen Hornbostel
scenografia, costumi Anton Lukas Video Maxime Jennes, Dimitri Petrovic
disegno luci Jurgen Kolb
direttore tecnico Jens Baudisch
direzione di produzione Mascha Euchner-Martinez, Eva-Karen Tittmann
assistente alla direzione Carmen Hornbostel
assistente alla drammaturgia François Pacco
assistente alla scenografia Patty Eggerickx
coreografia lotta Cédric Cerbara
vocal coach Murielle Legrand
pubbliche relazioni Yven Augustin
attrezzature tecniche e studi del Théâtre National Wallonie-Bruxelles
produzione The International Institute Of Political Murder (Iipm), Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles Supporto Capital Cultural Fund Berlin, Pro Helvetia, Ernst Göhner Stiftung
in collaborazione con Kunstenfestivaldesarts, NTgent, Théâtre Vidy-Lausanne, Théâtre Nanterre-Amandiers, Tandem Scène Nationale Arras Douai, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin, Théâtre De Liège, Münchner Kammerspiele, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a. M., Theater Chur, Gessnerallee Zürich, Romaeuropa Festival
con il supporto di ESACT Liège

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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