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Andrea Cosentino: «Prima regola, non fingere di non fingere»

Andrea Cosentino debutta al Teatro Palladium di Roma con Kotekino Riff. In questa intervista riflettiamo sulle teorie e pratiche alla base del suo lavoro.

Andrea Cosentino è un narratore, ma è anche un comico, un artista girovago che di luogo in luogo porta storie, oggetti, autobiografie; tra situazioni popolari e momenti altissimi in cui sfida e irride le arti contemporanee. Il critico Nico Garrone parlava di «non-scuola romana» per definire una serie di artisti che emergevano nella stesa generazione: da Lucia Calamaro, passando per Daniele Timpano e Antonio Tagliarini, fino ad Andrea Cosentino. Il tratto comico veniva sintetizzato da Garrone nella sigla I.C.C.P. – iconoclasti, comici, concettuali, poetici- quella stagione e l’intuito di Garrone sono ben raccontati qui da Graziano Graziani.
Intanto però sono passati quasi quindici anni da quella stagione, i protagonisti della «non-scuola» sono cresciuti e hanno visto mutare il proprio percorso insieme al repertorio. Intervistiamo Andrea Cosentino per fare i conti con la sua comicità oggi, per interrogarci su cosa voglia dire abitare la scena per l’artista di origini abruzzesi.

Una volta affermavi che invece di raccontare vere e proprie storie racconti spettacoli. Ti consideri ancora una sorta di meta-narratore?

È una definizione che nasceva in relazione a una stagione in parte consumata o comunque metabolizzata. Ai miei esordi, sul finire degli anni Novanta, ho dovuto marcare delle differenze rispetto ai narratori. Si parlava anche di anti-narrazione. D’altra parte è qualcosa che ha a che fare con quelle che, schematizzando, sono ancora oggi le mie due direttive principali di ricerca: la messa in crisi del teatro come luogo della rappresentazione e la messa in discussione del teatro come luogo di rappresentanza. Raccontare spettacoli piuttosto che storie voleva dire accettare che il teatro ha smesso da tempo di essere luogo privilegiato della rappresentazione del contemporaneo, e farlo diventare un medium vivente attraverso il quale provare a destrutturare le modalità che il contemporaneo utilizza per autorappresentarsi e mistificarsi. Il teatro come luogo dove smontare il giocattolo senza però smettere di farlo funzionare. Perché poi la vera difficoltà di questa operazione, a volte un vero e proprio equilibrismo, è di non cadere nel concettuale e non perdere, anzi se possibile potenziare, il senso ludico ed emotivo dell’evento teatrale. La mia Telemomò – la povertà del linguaggio televisivo mimata attraverso la povertà di un teatrino artigianale fatto di barbie, pupazzi e parrucche – ne è l’esempio più lampante e addirittura, per certi versi, didascalico.

I tuoi lavori sono intrisi di una comicità che opera a più livelli: da quelli più alti a quelli più bassi e «gastronomici» per dirla con Bertolt Brecht. Che cosa vuol dire per te far ridere?

È l’amplificazione del nucleo politico del teatro, del suo essere un fatto comunitario. Ridere è una triangolazione – non si ride mai da soli – non è il teatro borghese che mira al singolo spettatore, ma è uno stare fianco a fianco e confrontare le proprie reazioni con quelle del vicino. La comicità è un argomento infinito e controverso, esiste in tante modalità, dalle più raffinate alle più chiassose, dalle più eversive alle più reazionarie. Quella che mi interessa è la comicità carnevalesca. Il mescolamento dell’alto e del basso, il rovesciamento di ogni gerarchia: sono procedimenti tipici di questa forma di comicità, il cui orizzonte utopico è la festa, ovvero il crollo di ogni barriera e l’indistinguibilità virtuale dei ruoli di attore e spettatore. Come rilevava Bachtin, alla festa non si assiste ma si partecipa. La risata carnevalesca distrugge tutto ma accoglie chiunque. È un ridere aperto. Quella che detesto, ed è purtroppo molto diffusa in quei luoghi d’intrattenimento da élite culturale che stanno diventando le nostre scene, è la risatina da strizzata d’occhio, quella artificiosa che lo spettatore lancia per dire “io sì che ti sto capendo, io sì che sono d’accordo”. Un richiamo di riconoscimento e di distinzione, che può essere culturale o politico o anche da affinità elettive sentimentali. Il carnevale è altra cosa, è una società momentaneamente senza distinzioni culturali e di classe. La festa che mi piace celebra un noi che non si contrappone al loro, ma all’io, all’illusione e alla miseria dell’individualismo. Niente di più attuale e necessario, credo.

Nella presentazione di Kotekino Riff affermi che vuoi togliere di mezzo l’opera. È possibile farlo del tutto? E che cosa rimane?

Ci sono due facce di questa affermazione. Una è polemica verso un sistema teatrale sempre più mortifero, che costringe le compagnie alla messa in opera compulsiva di spettacoli, prime e eventi site specific, a inventarsi a ogni cambio stagione un giocattolino nuovo e spesso effimero per gli appetiti bulimici degli addetti ai lavori e degli algoritmi ministeriali, con la conseguenza di una inevitabile spremitura precoce del limone. Mentre la vera sfida – per noi teatranti e per tutto il sistema della cosiddetta ricerca – dovrebbe essere di portare i risultati migliori e più solidi del nostro lavoro a un pubblico nuovo e più ampio, sperando di interessarlo e di offrirgli un’alternativa valida rispetto al mainstream. Io ho due risposte. Una è tenere i miei spettacoli il più a lungo possibile in repertorio, continuando a farli girare, fosse anche nelle piazze estive o negli appartamenti. L’altra, che per certi versi si sovrappone alla prima, è diventare io stesso la mia opera.
L’altra faccia di questo voler togliere di mezzo l’opera è invece la mia ossessione verso quello che io chiamo “il teatro che non fa testo”, e verso l’improvvisazione, che per me rimane la forma più pura di espressione artistica. L’orizzonte mai davvero raggiungibile. Provare a considerare seriamente che il teatro è l’unica forma d’arte dove chi guarda è al contempo guardato. Solo in teatro, in definitiva, l’opera può dissolversi in favore dell’evento. Certo è che questo dato di fatto, sulle nostre scene, si risolve spesso in performance di partecipazione che sono a volte grossolane, o peggio mistificanti, perché rendono concettuale ed espongono in maniera didascalica qualcosa che è invece da secoli il motore e il sangue di una sapienza e di una pratica specifica dell’attore. Mi riferisco a un certo attore di tradizione comico popolare o, per giocare ad essere più contemporanei, di un certo tipo di performer, che va da Petrolini a Totò fino a Carmelo Bene e oltre.
Al fondo la questione sarebbe semplice: lo spettacolo come oggetto estetico o lo spettacolo come accadimento e incontro. Ho l’impressione che accettare davvero la seconda opzione metterebbe in crisi tutto un sistema valoriale. Io ci sto provando, a rischio di accettare il silenzio o il biasimo della critica. Kotekino Riff va decisamente in questa direzione, è un dispositivo di gioco e di improvvisazione, è il mio spettacolo “che non fa testo”, non puoi coglierlo dal di fuori. O stai al gioco o non ne cavi nulla. D’altra parte se col passare degli anni non hai il coraggio di diventare sempre più estremista, rischi di invecchiare precocemente, ma soprattutto stai sprecando la tua esperienza, capitalizzandola a tuo uso e consumo anziché continuare a condividerla e metterla in gioco.

In molti hanno scritto a proposito della tua “anti-narrazione” e “anti-recitazione”. Si riferiscono a quel tuo modo di raccontare e parlare che sembrerebbe non mettere in campo una vera interpretazione e che evidenzia ancora di più i momenti in cui invece entri nei tuoi piccoli personaggi comici. Come sei arrivato a una prassi del genere?

Il grado zero del teatro per me non è la recitazione, ma neanche la sincerità, che sulla scena è inevitabilmente artificio e affettazione. Il grado zero di chi sta in scena è la gioia dell’esibizione. La prima regola dunque è: non fingere di non fingere. I miei personaggini comici, così come anche, mutatis mutandis, il mio teatro di figura degradato fatto di pupazzi e giocattoli, sono ciò che io concedo al teatro come spettacolo. Mi piace molto l’idea di farti divertire ma anche commuovere per una bambola di plastica. È l’atteggiamento che io chiamo “lanciare il sasso senza nascondere la mano”, ma appunto cercando comunque di colpire il bersaglio ed evitando di lanciare direttamente la mano.
Anni fa lessi un passo di Jean Baudrillard che mi è rimasto impresso. Baudrillard trattava dell’esibizione di una spogliarellista del Moulin Rouge, parlando della seduzione come del contrario dell’amplesso, analizzando come la ragazza, nei suoi ritmi e nelle sue movenze, in qualche modo si appropriasse e incorporasse i gesti dell’altro, costruisse il fantasma di un partner, l’atto del mimare un apparente accoppiamento che in realtà era l’apoteosi del solipsismo. Su questo altalenarsi di apparente disponibilità ma di reale esclusione risiede il potere della fascinazione. La mia anti-recitazione non è un tentativo di sincerità, tutt’altro, io sono per la verità della finzione ed ho in orrore la finzione della verità in teatro. Il mio modo dimesso di abitare la scena è piuttosto orrore ideologico per la seduzione e per ogni forma di potere. Ho sempre evitato un teatro “fascinatorio”, in maniera evidente nel mio utilizzo parco di effetti scenici, e in maniera forse più sottile nel mio modo di abitare la scena. Un modo sghembo e irrituale, se vuoi.

Andrea Cosentino in una scena di Telemomò

Cosa ti aspetti che provi e capisca il pubblico dei tuoi spettacoli?

Ogni spettacolo è differente, e ogni serata è differente. Per essere coerente con i discorsi di prima, dovrei parlarti di quel che io mi aspetto di capire dei miei spettacoli attraverso il pubblico. Quello che posso dire, al di là dei paradossi, è che sempre più per me è fondamentale pensare il teatro come modello di interazione sociale, come un’interrogazione sul farsi comunità. Il che è particolarmente delicato ma, proprio per questo, interessante dal punto di vista di un performer solista. È un modello di comunicazione che può scivolare facilmente nel tribunizio, nel paternalistico o nella confessione intima. Mi stimola pensare il teatro come palestra politica. Non essere didattico né didascalico, evitare di innescare dinamiche di rappresentanza, che finiscono con l’essere sempre consolatorie. In definitiva essere inaffidabile. Non mi interessa l’opera, come qualcosa di compiuto e chiuso che non ha che da essere svolto dinanzi allo spettatore: se irrompe un animale in scena, non ti aspetti che qualcosa si svolga, ma che possa accadere qualunque cosa.

Ti sei mai considerato un artista d’avanguardia? Ora lo sei?

Avanguardia è un’etichetta piuttosto polverosa, ed è una specie di paradosso appiccicarsela addosso nel 2018. E tuttavia, sarò novecentesco, il termine mi piace molto e mi scalda più di quanto facciano “ricerca”, “sperimentazione” o sinonimie varie. Mettiamola così. Io credo, lo dico sommessamente, negli ultimi venti anni di avere messo a fuoco due o tre cose, chiamiamole pure modalità drammaturgiche o dispositivi, che in seguito altri, in varie forme e declinazioni, hanno approfondito e messo in bella copia. Rifinire e confezionare non mi appassiona, mi diverte di più cercare strade nuove. È una questione di carattere e vocazione ancora prima che una scelta. In questo senso sì, direi che un artista d’avanguardia lo sono stato e spero di esserlo tuttora. O almeno mi incoraggia dirmelo, se non altro per dare un senso alle difficoltà e alle incomprensioni che continuamente tocca affrontare, e non sono certo un caso isolato. Contemporaneamente il teatro è la celebrazione del qui e ora, e devi farlo per chi c’è: puoi anche stare avanti ma non devi mai staccarti dal gruppo. D’altronde io cerco di fare dell’arte popolare, avendo coscienza che non si sa più bene che fine abbia fatto l’arte e ancor meno che cosa sia divenuto il popolo. Nel gioco di questa apparente contraddizione, diciamo di questo fare dell’avanguardia popolare, trovo le mie frustrazioni ma anche gli stimoli per pormi sempre nuove sfide.

In questo momento storico l’attore e autore di teatro che tipo di responsabilità ha?

Accettare la marginalità del teatro, metterne a fuoco le specificità e lavorare per farne sopravvivere e risplendere l’eccezionalità.

Andrea Pocosgnich

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sabato 20 ottobre 2018 – ore 20,30
domenica 21 ottobre 2018 – ore 18,00

Teatro Palladium
Piazza Bartolomeo Romano, 8 – Roma

KOTEKINO RIFF
Esercizi di rianimazione reloaded
di e con Andrea Cosentino
musiche in scena Michele Giunta
supervisore dinamico Andrea Virgilio Franceschi
assistente Dina Giuseppetti
produzione ALDES / AKRÒAMA (2018)
in collaborazione con CapoTrave/Kilowatt 2017
con il sostegno di MIBAC Ministero per i Beni e le Attività Culturali / Direzione Generale per lo spettacolo dal vivo, Regione Toscana / Sistema Regionale dello Spettacolo

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

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