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Deflorian/Tagliarini: «Nel nostro teatro noi e le nostre vite non siamo altro che un punto di partenza»

Abbiamo intervistato Daria Deflorian, Antonio Tagliarini e Francesco Alberici. In attesa del debutto di “Quasi niente” a Romaeuropa Festival e a partire da “Scavi”, presentato a Santarcangelo Festival, una conversazione per affacciarsi nel mondo della compagnia Deflorian/Tagliarini e sul modo in cui gli artisti dialogano con il cinema di Michelangelo Antonioni.

Foto Elizabeth Carecchio

Al termine di Scavi, uno dei “capitoli” che la compagnia Deflorian/Tagliarini dedica quest’anno al mondo di Michelangelo Antonioni, si può percepire come scavare e immaginare siano due verbi molto più prossimi di quanto possa sembrare. C’è un andare in sottrazione, quando parliamo dei modi in cui la memoria della nostra vita tocca la realtà e con essa si trasforma verso qualcosa di ulteriore, esprimendo la possibilità di un desiderio ancora da venire. L’immagine cinematografica, come un frammento di memoria, incendia la riflessione che si proietta nel futuro. La scelta di volgere lo sguardo al passato diventa allora un esercizio di immaginazione, attività autobiografica per eccellenza, che restituisce un senso a quello che ci circonda, sollevandolo da quella stanchezza, quella spossatezza che deriva dalla mancanza di una proiezione altra, ulteriore. A Santarcangelo Festival 2018Scavi è accaduto nell’intimità di una stanza piena di sedie (un’aula della Scuola Pascucci) dove Daria Deflorian, Antonio Tagliarini e Francesco Alberici intrecciano suggestioni provenienti dall’universo di Antonioni e autobiografia in un racconto che dispiega, dal personale all’universale, una drammaturgia che sferza l’ascolto con parole che incutono pensiero, definendo un tempo d’ascolto prezioso, per un teatro che dolcemente sconfina.

«Mi fanno male i capelli», la frase che Monica Vitti pronuncia in Deserto rosso, il vostro punto di partenza all’interno del mondo di Antonioni, ha tutte le caratteristiche per diventare oggi una frase di culto. In Scavi voi avete “assorbito” la questione del pettinarsi e dei capelli, che ha molto a che fare col teatro del quotidiano ovvero col modo in cui ci presentiamo, o rappresentiamo, agli occhi degli altri. Questo è qualcosa che nel cinema viene teatralizzato attraverso il filtro dei personaggi, in Scavi invece, come spesso accade nel vostro teatro, ci siete voi con le vostre vite, le vostre esperienze.

DD- Stamattina, leggendo il giornale, ho trovato in un’intervista una frase di Flaubert: «La prosa è come i capelli, brilla pettinandola». L’associazione con la brillantezza dei capelli mi ha colpito: c’è la dimensione del lavoro quotidiano, della disciplina. La tua osservazione solleva una questione delicata: l’io privato e l’io pubblico. Sentiamo che ogni volta va evitato il rischio di “pornografia” nell’usare il proprio vissuto in scena. Nel nostro teatro noi e le nostre vite non siamo altro che un punto di partenza. Cerchiamo di lavorare su “un momento di vita” che poi modelliamo, tagliamo, cuciamo per andare a toccare non tanto le nostre proprie questioni ma “le questioni”. Non è una riscrittura, le parole rimangono quelle ma, come per uno scultore, si tratta di trovare la forma nel pezzo di marmo. In Scavi questo è ancora più evidente per la “condizione” che assegniamo al pubblico, quella di partecipanti alla nostra “conversazione”. Proviamo a lungo per ritrovare qualcosa che ricordi l’immediatezza di alcuni momenti di vita. 

AT- Una delle questioni su cui stiamo lavorando, anche in maniera diversa in Quasi niente, è la questione della commedia della vita. Dov’è il vero Antonio? C’è magari chi ha un rapporto maggiormente “di facciata” con l’esterno. Soprattutto negli anni di Antonioni, nelle fotografie, che rappresentano un ulteriore filtro, c’era sempre un rapporto molto costruito con l’esterno. C’è comunque un giudizio costante che riceviamo, nel bene e nel male, dal mondo, in base a come appariamo.

Foto Elizabeth Carecchio

C’è qualcosa di emozionante, in ogni caso, nel modo in cui poesia, abitudine e trauma si intrecciano nei nostri corpi e nel modo in cui li presentiamo al mondo. 

DD- Il verso di Amelia Rosselli che citiamo in Scavi non lo abbiamo trovato da nessuna parte. Forse è una poesia non pubblicata. Questi versi hanno creato il terreno per un’improvvisazione a partire dal rapporto meraviglioso che Amelia Rosselli ha tra malattia e corpo. «Mi fanno male i capelli». Antonioni ha assorbito profondamente la lezione “fisica” della Rosselli: era un artista molto legato ai corpi. Quello dei capelli è un tema infinito, anche mitologico: si perde la forza quando vengono tagliati, per esempio.

AT- Già ne Il cielo non è un fondale io racconto un sogno e parlo dell’alopecia, una mia paura. Non è una paura estetica, ma il fatto che l’alopecia possa essere il segno di una malattia più misteriosa, come un vulcano, qualcosa che da dentro esce fuori.

FA- I capelli sono il grado più alto dell’identità di una persona. Nelle carceri si rasano le persone a zero: è un modo per annullarle.

La malinconia sembra essere un altro motore importante in Scavi, non tanto perché nello spettacolo domini uno sguardo rivolto al passato, ma perché c’è una forma molto positiva di nostalgia. È una nostalgia che spinge verso il futuro e che si esprime anche nel finale che avete scelto, in cui guardate tutti e tre fuori dalla finestra.

FA- Gli spettacoli sono sempre una combinazione di idee, oggetti d’ispirazione e momenti. Sicuramente il momento in cui Scavi è nato, a Parigi, è stato un momento di transizione, di ripensamenti  per tutti e tre. Nonostante questo non si tratta, effettivamente, di una malinconia buia.

L’altro elemento che mi sembra importante, in questa vostra ricerca, è l’ossessione per la fine. In che rapporto sono i due lavori?

AT- Abbiamo attivato una ricerca a partire da Deserto rosso. La questione centrale, in entrambi gli spettacoli, viene dall’osservazione del personaggio di Giuliana, che esprime la difficoltà di stare dentro alla realtà. Antonioni ha realizzato il film nel pieno del boom economico, quando si credeva nel progresso, nella tecnologia, ed era in corso un cambiamento storico a tutti i livelli. Giuliana si aggira in questo paesaggio e “sbatte”, letteralmente, non sa dove stare. Grazie a Scavi siamo entrati all’interno della questione, dopo la prospettiva si è allargata.

DD- C’è inoltre una questione spaziale che separa nettamente i due lavori. Scavi trova la propria forza nel rapporto di intimità che chiediamo al pubblico e che ci concediamo. Questo permette di rimanere vicino, come dicevo prima, alla dimensione delle prove, un momento in cui non c’è netta separazione tra il dentro e il fuori scena. Anche durante le prove di Quasi niente è stato come se non ci fosse nessuna soglia tra chi fa e chi guarda. In uno studio che abbiamo presentato a Mondaino tutte le entrate avvenivano dal lato del pubblico, tanto per dire. Abbiamo bisogno, per questo secondo lavoro, di trovare un rapporto col pubblico che preveda la distanza e la lontananza. Questa è la “scommessa” rispetto agli spazi dove presenteremo lo spettacolo. 

FA- Scavi si apre a tutto il lavoro di Antonioni, mentre Quasi niente si apre a Deserto rosso e in particolare alle figure che sono dentro il film, più che all’opera in generale. Ci siamo spostati anche dietro la macchina da presa, ci interessavano le foto di backstage, i provini di Monica Vitti, … Quasi niente è interno al film e questo spostamento all’interno riecheggia anche nella scelta per cui in scena non ci sono Daria, Antonio, etc. Ci sono delle figure.

DD- I personaggi dello spettacolo sono altri rispetto ai personaggi del film. Quello che sento è che la dimensione autobiografica, finalmente, è un po’ sotto. La figura mi permette di essere nascosta e, proprio perché sono nascosta, posso dire le cose liberamente. Tutto è scrittura, in Quasi niente, ed è nel suo insieme, nel suo essere scrittura, che il lavoro parla.

I due titoli hanno però in comune il fatto di essere “in sottrazione”: Scavi, Quasi niente

AT- La sottrazione è presente nelle opere di Antonioni. La sceneggiatura di Deserto rosso è scarna; quando Giuliana dice: «Che cosa devono vedere i miei occhi?», chiaramente siamo davanti a una domanda esistenziale, ma la parola è accompagnata dalle immagini di Antonioni. Teatralmente, non tanto in Scavi ma soprattutto in Quasi niente, cerchiamo di trovare delle cadute verticali di senso, dove alcune volte è anche nel non dire, o nello svuotamento dell’azione, che qualcosa riesce ad accadere. Antonioni riesce a farlo, ed è un grande stimolo per noi.

Antonioni è una passione comune a tutti voi?

DD- No. Personalmente, Antonioni non è un autore che appartiene alla mia storia. Ma da due anni sono precipitata dentro il suo mondo e adesso lo adoro.

Foto Elizabeth Carecchio

Avete fatto un lavoro specifico sul maschile e sul femminile?

DD- Non è successo in modo razionale, ma in tutto il progetto Antonioni ci sono dei momenti in cui siamo tutti dalla stessa parte e momenti in cui siamo nettamente divisi tra maschi e femmine. Lo trovo molto vivificante, non è una questione di contrapposizioni. Ma di differenze. 

FA- In Scavi, all’inizio resisteva questa dimensione del triangolo che è presente nel film Deserto rosso: Ugo, la moglie Giuliana e l’amante Corrado. È il piano di lettura più banale del film, ma esiste. 

DD- In Quasi niente abbiamo scelto di attraversare la figura del triangolo avendo in scena tre “Giuliane”. Volevamo lavorare con Monica Piseddu, ci piaceva l’idea di avere una trentenne, Francesca Cuttica, una quarantenne e una sessantenne e a quel punto abbiamo cercato due uomini che apparissero coetanei. Abbiamo fatto dei provini e abbiamo incontrato Benno Steinegger e ci ha colpito il suo modo di procedere. Francesco, oltre ad aver realizzato con noi Scavi, collabora in Quasi niente alla drammaturgia e alla regia. 

Oltre alla contrapposizione tra maschile e femminile, vi è capitato di confrontarvi con la questione dell’altro, della differenza, dell’alterità? 

DD- Quando in sala prove il gruppo si divide in femmine e maschi, non è facile e nessuno tra noi ne esce “contento”, però ce lo concediamo. Oggi si tende a a frequentare, coltivare, legittimare solo l’Uguale. Ma è attraverso il Diverso che si incontrano, si conoscono le cose. Il Diverso ci cambia, l’Uguale ci anestetizza. Quello che vogliamo fare è sollevare una “giulianite” che non veda in scena una distinzione tra malati e sani, controllori e controllati, etc. C’è stato un momento molto liberatorio del lavoro in cui ci siamo detti: «Siamo tutti Giuliana». Uno degli aspetti interessanti del momento storico che stiamo vivendo è che l’uomo si trova a lavorare sulla propria fragilità, mentre la donna si trova a lavorare su quello che potrebbe essere “il rischio del potere”. “Essere tutti Giuliana”, in questo senso, ci è sembrato importante. 

Gaia Clotilde Chernetich

Scuola Pascucci, Santarcangelo di Romagna, Santarcangelo Festival 2018 – luglio 2018

SCAVI
progetto
Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
scritto e interpretato da Francesco Alberici, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
consulenza letteraria Morena Campani
organizzazione Anna Damiani
accompagnamento e distribuzione internazionale Francesca Corona
coproduzione A.D. e Santarcangelo Festival in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi
residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t Roma

In prima nazionale a Romaeuropa Festival 2018:

QUASI NIENTE
progetto Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Deserto rosso di Michelangelo Antonioni
Collaborazione alla drammaturgia, Aiuto regia Francesco Alberici
Con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini
Collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
Consulenza artistica Attilio Scarpellini
Luci Gianni Staropoli
Suono Leonardo Cabiddu, Francesca Cuttica (Wow)
Costumi Metella Raboni
Direzione tecnica Giulia Pastore
Organizzazione Anna Damiani
Accompagnamento, Distribuzione internazionale Francesca Corona / L’Officina Produzione A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, Emila Romagna Teatro Fondazione
Coproduzione Théâtre Garonne, scène européenne Toulouse, Romaeuropa Festival, Festival d’Automne à Paris / Théâtre de la Bastille – Paris, LuganoInscena LAC, Théâtre de Grütli – Genève, La Filature, Scène nationale, Mulhouse Sostegno Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, FIT Festival – Lugano

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Gaia Clotilde Chernetich
Gaia Clotilde Chernetich
Gaia Clotilde Chernetich ha ottenuto un dottorato di ricerca europeo presso l’Università di Parma e presso l’Université Côte d’Azur con una tesi sul funzionamento della memoria nella danza contemporanea realizzata grazie alla collaborazione con la Pina Bausch Foundation. Si è laureata in Semiotica delle Arti al corso di laurea in Comunicazione Interculturale e Multimediale dell'Università degli Studi di Pavia prima di proseguire gli studi in Francia. A Parigi ha studiato Teorie e Pratiche del Linguaggio e delle Arti presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e Studi Teatrali presso l'Université Paris3 - La Sorbonne Nouvelle e l'Ecole Normale Supérieure. I suoi studi vertono sulle metodologie della ricerca storica nelle arti, sull’epistemologia e sull'estetica della danza e sulla trasmissione e sul funzionamento della memoria. Oltre a dedicarsi allo studio, lavora come dramaturg di danza e collabora a progetti di formazione e divulgazione delle arti sceniche e della performance con fondazioni, teatri e festival nazionali e internazionali. Dal 2015 fa parte della Springback Academy del network europeo Aerowaves Europe, mentre ha iniziato a collaborare con Teatro e Critica nel 2013.

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