A quasi dieci anni dal debutto, torna all’Arena del Sole di Bologna 32, rue Vandenbranden della compagnia belga Peeping Tom. In vista di questo ritorno in Italia della pièce, abbiamo intervistato Franck Chartier, fondatore della compagnia insieme a Gabriela Carrizo.
Abbiamo assistito a 32, rue Vandenbranden per la prima volta nel 2013 a Biennale Teatro dopo che, sempre in Italia, la pièce era stata presentata a Drodesera Festival nel 2010, un anno dopo il suo debutto. Oggi lo spettacolo torna in Italia a quasi dieci anni dalla propria nascita. La compagnia belga Peeping Tom, fondata e diretta da Gabriela Carrizo e Franck Chartier, sembra creare uno spettacolo all’interno di un percorso che è in grado di consegnare le opere alla tradizione del contemporaneo. A poche ore dal riallestimento della pièce, in scena all’Arena del Sole di Bologna, abbiamo avuto la possibilità di intervistare Franck Chartier, per provare a intercettare alcune delle questioni che alimentano questa prodigiosa continuità decennale.
Come evolve in dieci anni uno spettacolo come 32, rue Vandenbranden?
La pièce viene trasformata dai performer, da quello che vivono all’interno di loro stessi. La struttura dello spettacolo non è cambiata, ma cambia il loro sentire. Viviamo nel momento presente e quello di cui la compagnia fa esperienza giorno dopo giorno fa evolvere i nostri spettacoli, li rende più ricchi e più profondi. C’è da tenere in conto sicuramente un cambiamento fisico, perché i danzatori sono gli stessi del debutto, ma hanno dieci anni di più, quindi i movimenti del corpo cambiano. Dal punto di vista formale, probabilmente il movimento è meno “definito”, tuttavia il passare del tempo è importante perché dona profondità al lavoro. In un certo senso, si potrebbe dire che la componente mentale, di pensiero, bilancia i cambiamenti del corpo. Per me è difficile rendermi conto di questa evoluzione, bisognerebbe rivedere un video del 2009 e probabilmente si noterebbero dei cambiamenti; tuttavia, sono certo che oggi ci sia maggiore profondità, ma anche più felicità e più sofferenza, più vita.
Riflettevo sul fatto che, forse, potremmo considerare alla stregua di un lusso il fatto che una pièce sia ancora in tournée a dieci anni di distanza dal suo debutto, mentre il mercato dell’arte – e in particolar modo quello della danza – è veloce e spesso concede alle produzioni una vita breve. Resistere a questa “macchina” è il risultato di diversi fattori, specialmente in questi anni che sono stati attraversati da cambiamenti, traumi, trasformazioni, sia sul piano artistico che su quello politico e sociale. Come influisce la quotidianità con i vostri lavori? Ci sono dei punti di continuità?
Per esempio, nel prossimo spettacolo torneremo a lavorare con un’ambientazione esterna. Già dieci anni fa ci eravamo confrontati con un amico, Christophe Marthaler, il quale ci aveva sconsigliato una scenografia che riproducesse uno spazio esterno. Era un rischio, ma quando abbiamo creato 32, rue Vandenbranden ci interessava davvero l’idea di lavorare su una versione iperrealista dello spazio che, in fondo, è un classico del teatro. Penso per esempio al balletto, a un balletto come Giselle, dove la sovrapposizione di scenografie dipinte riproduce un bosco. Abbiamo voluto creare qualcosa di simile, qualcosa che creasse sul palco l’ambientazione esterna. Questa è stata una sfida per noi, e credo che sia piuttosto piacevole vedere, sul palco, questa finestra aperta sulle montagne. Fa immediatamente viaggiare, libera il pensiero e l’immaginazione. Questo crea il piacere di rivedere lo spettacolo e stimola la nascita di un pensiero. Forse questo crea una continuità.
In 32, rue Vandenbranden vengono affrontati dei temi che, nel tempo, si sono fatti più attuali. Potrebbe essere che lo spettacolo sia più “contemporaneo” oggi di quanto lo fosse dieci anni fa?
Dieci anni fa eravamo partiti da una fascinazione per L’uccello di fuoco di Stravinskij, una musica che rappresenta la ricerca del destino; questo tema ha immediatamente creato un rapporto particolare tra esterno e interno. Durante le prove, il nostro danzatore Seoljin Kim ha fatto un’improvvisazione in cui si muoveva dentro la scenografia, che comprende anche un cielo di plastica, e diceva: «C’è cielo dappertutto, siamo chiusi dentro». Quando abbiamo creato la pièce, ci interessava il fatto che fosse ambientata in montagna, in un ambiente inospitale dal quale sarebbe naturale fuggire, eppure queste persone vi restano, e perché vi restano? Perché sono nate lì, perché sono rimaste vicine alle proprie famiglie… Volevamo parlare dell’attaccamento culturale, di quello che porta le persone a restare in un luogo poco vivibile. Poi, nello spettacolo ci sono due stranieri che arrivano in questo luogo e se questo accade significa che un percorso per arrivare esiste, e quindi esiste anche la possibilità di andarsene. Dei due stranieri, uno riesce a integrarsi, mentre l’altro nel finale si suicida. Ma se decidono di restare entrambi, nonostante le difficoltà, significa forse che nei luoghi da cui arrivano la situazione era ancora più invivibile. Il tema dell’emigrazione e dell’immigrazione, familiare e sociale, era un tema importante per noi, ma nel 2009 ancora non era esplosa la crisi dei migranti per come la conosciamo oggi. Credo che oggi questo tema sia molto attuale, per l’Italia, penso per esempio a quelle persone che tentano di attraversare le Alpi.
Prima la pièce si situava in un ambito di riflessione personale, famigliare, mentre oggi sembra essersi spostata su un piano sociale e politico. Dopo, però, siete tornati alla riflessione sulla famiglia con gli spettacoli Vader (Padre) e Moeder (Madre); quale continuità esplora questa vostra ricerca?
Ci interessa esplorare la famiglia, forse perché stiamo attraversando un momento difficile, dovuto alla crisi di mezza età. La famiglia è per noi quel progetto nel quale abbiamo messo tutti noi stessi: abbiamo sognato di avere dei figli, di creare un nucleo familiare… oggi ci interessa analizzare questa dimensione. Ci chiediamo che cosa sia davvero importante per noi, e ci siamo detti che vogliamo parlare del padre e della madre in quanto individui, anche al di là del ruolo che ricoprono e delle attese che si hanno nei loro confronti. A giugno iniziamo la creazione del terzo capitolo della trilogia, dedicato al figlio, Kind. Ci guardiamo allo specchio e interroghiamo questi ruoli di padre, madre, figlio…
Normalmente iniziate a creare le pièce a partire dalla scenografia. Come entra in gioco il lavoro del corpo?
È importante, all’inizio di una nuova creazione, sapere dove ci si trovi. La scenografia crea una drammaturgia e dà una direzione alla pièce. In un certo senso ci costringe. Ci piace lavorare con delle restrizioni. Per esempio, se ci troviamo “costretti” in un movimento, in una postura del corpo, che cosa possiamo fare? Così, iniziamo a ricercare, a partire da una restrizione. Abbiamo sempre sognato di partire da un libro o da un film, ma partendo dalla scenografia lavoriamo diversamente. Per 32, rue Vandenbranden abbiamo innanzitutto condiviso la visione del film La ballata di Narayama e poi via via ciascun artista ha portato i propri suggerimenti e le proprie suggestioni. Le chiamiamo “composizioni”: noi diamo dei temi e ciascuno porta le proprie idee. Da qui, costruiamo le idee da inserire nello spettacolo. Così nascono anche i ruoli, i personaggi: sono delle composizioni che ci piacciono e che sviluppiamo. Non c’è quasi improvvisazione, in scena, perché il timing è molto importante. Piuttosto, lavoriamo molto con l’empatia, la telepatia… ci piace l’idea che la danza sia “pensiero in movimento” e che uno spettatore possa avere la sensazione di leggere nella mente di chi danza. Questa telepatia chiede all’artista di essere pienamente nel presente, concentrato, vivo, ed è per questo che usiamo i nostri nomi propri negli spettacoli. Ci possono essere delle azioni anche molto forti da compiere, la situazione sostiene la scena senza il bisogno di “recitare”. Ci basta quindi essere noi stessi nello stato in cui ci troviamo in quel momento, e in questo modo ogni rappresentazione è un’esperienza nuova.
In quale categoria dello spettacolo contemporaneo inserite il vostro lavoro? Danza, teatro, …?
Siamo danzatori. Abbiamo lottato per la danza durante la nostra breve carriera di danzatori, che è sempre troppo breve. Dedichiamo la nostra ricerca al movimento, per noi è essenziale. Con Gabriela ci siamo incontrati nella ricerca del movimento, dell’espressione del corpo, senza parole. Che cosa implica un corpo che si muove? Per noi la danza è bella, è un modo puro e primitivo di esprimersi. Immagino che la danza sia venuta prima del linguaggio, nonostante essa stessa sia un linguaggio. Per noi, cercare un nuovo movimento è sempre interessante. Dedichiamo molto tempo a questo, ci piace il virtuosismo, cerchiamo qualcosa che ci faccia dire “wow”. Cerchiamo dei “movimenti-wow”. Pensiamo al pubblico, sperando che possa sorprendersi davanti ai nostri spettacoli. Con 32, rue Vandenbranden abbiamo lavorato con l’idea di fare un film sulla scena, abbiamo cercato un equilibrio tra la danza, la musica, l’immagine che emerge dalla scena. Infatti abbiamo collaborato anche con un montatore cinematografico. Il nostro obiettivo è utilizzare al minimo la parola, cercando di ridurre all’essenziale il testo, a favore del corpo. 32 rue Vandenbranden è uno spettacolo che indaga la ricerca della propria strada: all’epoca del debutto i danzatori avevano tra i 25 e i 30 anni; ora stiamo vivendo un momento simile, con Kind, perché esploreremo i sogni dell’infanzia, le fantasie, le proiezioni… Sono due pièce che trattano della possibilità di ricercare il proprio destino, pensare il futuro, come nella suggestione che abbiamo avuto nel 2009 da L’uccello di fuoco.
Gaia Clotilde Chernetich
Teatro Arena del Sole, Bologna – 25 – 26 maggio 2018
32 RUE VANDENBRANDEN
idea e regia Gabriela Carrizo, Franck Chartier
creazione e performance Jos Baker, Eurudike De Beul, Marie Gyselbrecht, Hun-Mok Jung, Maria Carolina Vieira (in precedenza: Sabine Molenaar), Seoljin Kim
drammaturgia Hildegard De Vuyst e Nico Leunen
assistente alla regia Diane Fourdrignier
composizione sonora Juan Carlos Tolosa e Glenn Vervliet
scenografia Peeping Tom, Nele Dirckx, Yves Leirs, Frederik Liekens
realizzazione scene KVS-atelier e Frederik Liekens
disegno luci Filip Timmerman e Yves Leirs
costumi Diane Fourdrignier, HyoJung Jang
direttore tecnico Filip Timmerman
produzione PEEPING TOM
coproduzione KVS Brussel, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, Le Rive Gauche Saint-Etienne-du-Rouvray, La Rose des vents – scène nationale Lille Métropole – Villeneuve d’Ascq, Theaterfestival Boulevard ’s-Hertogenbosch, Theaterhaus Gessnerallee Zürich, Cankarjev Dom Ljubljana, Charleroi/Danses, Centre chorégraphique de la Communauté française de Belgique
un ringraziamento speciale a Théâtre de la Ville, Paris
con il supporto di Flemish Government
foto di Herman Sorgeloos