Trasparenze Festival prosegue la sua interrogazione sull’alterità attraverso una densa proposta artistica e una giornata dedicata alle idee per una pratica di teatro sociale del futuro. Interrogativi e riflessioni
Trasparenze Festival è un insediamento occupante tutti gli spazi adiacenti al Teatro dei Segni, luogo della compagnia Teatro dei Venti diretta da Stefano Tè che ormai da sei anni organizza questa rassegna in apertura della stagione estiva. Un centro festival che al suo interno comprende ulteriori e distinti spazi che disegnano la geografia di questi quattro densissimi giorni: i Teatri Mobili con il loro Camion Teatro fermi nel piazzale di Largo Murialdo che hanno fatto rivivere nel chiuso della loro “casa viaggiante” la meraviglia dell’incanto perturbante del teatro di figura; il salotto all’aperto per le riunioni dei ragazzi della Konsulta (gruppo di giovani spettatori attivi tra i 16 e i 25 anni che collabora con la direzione nella scelta di alcuni spettacoli unito al gruppo degli Spettatori Erranti di Arezzo) trasformato da Giselda Ranieri, Anna Serlenga e Rabii Brahim in HO(ME)_project, workshop con gli abitanti del quartiere dedicato alla nostra fruizione e comportamento nell’ambiente casalingo; l’area food e quella musicale, e poi il Teatro dei Segni. Questo il nucleo ricettivo e punto di riferimento per il pubblico, i cittadini, gli operatori e gli artisti, che sorge a contatto con il centro anziani Casa Protetta San Giovanni Bosco, la scuola elementare e il parco. Non ci sono delimitazioni o distanze, tutto è ravvicinato, a misura di spettatore o del passante, del curioso o dell’anziano che decide di sedersi sulla panchina e osservare silenzioso la frenesia che lo circonda. La navetta accorcia la distanza che separa questo centro dalla Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia e dalla Casa Circondariale di Modena, con le quali il Teatro dei Venti lavora stabilmente grazie al Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, e all’interno delle quali risiedono i detenuti e gli internati che hanno preso parte allo spettacolo Ubu Re visto lo scorso mese di febbraio.
Il carcere non può essere considerato un luogo del festival, il carcere è una prigione, ci si entra dopo una lunga trafila di pratiche burocratiche, controlli e attese. Ci si siede in sala aspettando che entrino i detenuti scortati dalle guardie preposte, si assiste come unico e indifferenziato pubblico allo spettacolo, terminato il quale si attende seduti che i detenuti rientrino, e poi si abbandona la struttura penitenziaria. Una prassi rituale che sottolinea un’evidente distanza colmata però da un segno – quasi scontato nell’atmosfera festivaliera nella quale ci immergiamo nei mesi estivi – e cioè una locandina del festival appesa nella sala teatro, simbolo di come La Casa Circondariale di Modena, in cui abbiamo assistito a Requiem for Pinocchio de LeVieDelFool e a Esercizi per voce e violoncello sulla Divina Commedia di Dante di Chiara Guidi, sia uno spazio espugnato da Trasparenze Festival nel quale organizzatori, pubblico e artisti si fanno largo, ne oltrepassano le tante inaccessibili soglie e lo riempiono dall’esterno, modificandone, senza alterarla, la sua natura di fortezza. Se col requiem di Simone Perinelli dedicato al celebre burattino, il pubblico tutto ha potuto esperire quella tensione che rifugge l’inadeguatezza e aspira a invertire la fiaba sperando di ritornare in un corpo di legno, con Chiara Guidi il verso dantesco si fa poesia “incorporata” creando una comunità in dialogo tra gli spettatori detenuti in platea e quelli sul palco. A seguire la lettura del proemio del canto I e del canto V cerchio II dedicato a Paolo e Francesca, i detenuti attori del Carcere di Sant’Anna diretti dalla voce e dal gesto dell’attrice e dal violoncello di Francesco Guerri prendono in prestito i versi del prologo al V canto del Purgatorio per dire della loro condizione, restituendo quel senso di vita comunitaria che lega insieme le anime tra espiazione e attesa del perdono. L’esito di questa “conoscenza” di soli quattro giorni che ha legato l’artista ai detenuti-attori è privo di qualsiasi sovrastruttura registica che abbia costruito una forma data, al contrario vi è nell’orchestrazione delle partiture vocali e musicali, la sintesi di un discreto e rispettoso incontro tra voce, gesto, musica e biografia nel quale i detenuti-attori si raccontano per necessità.
Mantenere una dignità umana, sentirsi considerati come persone e non in base alle proprie colpe: queste esigenze sono solo alcune di quelle emerse dalla tavola rotonda dedicata al lavoro attorale e mediata da Horacio Czertok e Lorenzo Donati durante il convegno “Che arte sarà? Proposte e idee per una pratica di teatro sociale del futuro, tenutosi l’ultimo giorno e finanziato dalla compagnia Teatro Ebasko. Nel tentativo di rielaborare delle metodologie di ricerca e tecniche di lavoro, ci si è subito resi conto della difficoltà di riuscire a tracciare un profilo dell’attore di teatro sociale. Potremmo partire innanzitutto dalla consapevolezza che l’attore abbia o meno del suo ruolo, dalla necessità di ricorrere al teatro e di quanto questo possa essere funzionale alla sua biografia. Nei casi in cui la persona, per problemi di salute mentale, non possa sempre avere piena consapevolezza di questo ruolo, l’approccio dei professionisti che vi lavorano dovrebbe essere imprescindibilmente rispettoso della sua condizione straordinaria e «non estorcere e strumentalizzare il vissuto psichiatrico» come sottolineato da Roberto Cuppone. Gli interventi hanno cercato di preservarsi, ha ribadito Lorenzo Donati in apertura dei tavoli di lavoro, «inquieti e autocritici per non correre il rischio di cadere nell’autoassoluzione» ed essere sempre riformulati proponendo alla tesi il contraltare di un’antitesi al fine di sondare l’efficacia di pensiero. Come e perché siamo arrivati a dover categorizzare il teatro sociale in “teatro sociale d’arte”? Perché questa ulteriore ricerca di statuto? «Se del resto si fa “teatro”, si fa già arte e poesia, senza bisogno di specificazioni. Il nesso “teatro d’arte” che pare sensato a livello intuitivo pare presentare, sul piano analitico, il significato di “poesia di poesia” e di “arte di arte”, quindi non dice nulla di più circa l’essenza dell’avvenimento teatrico». Nel citare questo intervento critico di Enrico Piergiacomi da poco apparso sulle pagine di doppiozero, non possiamo fare a meno di riallacciarci agli interrogativi provocatori posti da Stefano Tè a sostegno della tesi secondo la quale bisognerebbe arrivare a parlare di «un teatro sociale, senza l’aggettivo “sociale”, un teatro e basta» ribadendone quel carattere tout court che si legittima nella sua stessa espressione, e missione.
Trasparenze Festival amplia ogni anno la riflessione attorno al movimento del teatro socialmente attivo non solo attraverso giornate di studio ma soprattutto presentando una selezione di esiti laboratoriali, spettacoli e performance che mettono in risalto, anche nelle incongruenze, le modalità di lavoro. Nell’esito del laboratorio con gli ospiti della Casa Protetta, il Teatro delle Ariette con Pastêla! La memoria del cibo, restituisce agli anziani del centro un momento di narrazione personale della propria vita attraverso il gesto di preparare la pasta fatta in casa che poi il pubblico mangerà alla fine. Gli anziani non potranno prendere parte al rito culinario per disposizioni date dagli operatori del centro che curano e seguono gli ospiti. Mentre alcuni di loro, donne soprattutto, impastano, Stefano Pasquini e Paola Berselli con microfono alla mano, girano per i tavoli raccogliendo frammenti di storie e i nomi dei genitori di ciascuno degli anziani. La memoria individuale emersa racconta di queste persone il loro essere figli e non padri, né tantomeno nonni, calandoci in una dimensione di tenera età passata. In questo, come anche nel caso di Blink, esito del laboratorio sul movimento e la presenza con il Gruppo l’Albatro, Teatro e Salute Mentale condotto da Compagnia Stalker/Daniele Albanese, si palesano proprio le fragilità di alcune operazioni in cui i pazienti sono investiti del ruolo di attori ma non hanno la capacità di gestirlo autonomamente, e vengono dunque gestiti. Da una parte, nel caso del Teatro delle Ariette, si creano drammaturgicamente “cornici sceniche” che fanno del paziente un attore inconsapevole: una delle signore anziane più vivaci continua a parlare ininterrottamente senza rispettare le indicazioni registiche e senza avere contezza della sua azione; dall’altra il nobile intento di «lotta allo stigma» di Albanese fallisce col suo intervento in scena al fianco dei pazienti mettendo in risalto lo scarto tra il suo controllo del gesto e l’assenza in quello del gruppo. Entrambi gli esiti denunciano la complessità processuale dell’approccio e della sua restituzione; non sempre il valore del tempo, del progresso riabilitativo, della cura interpersonale reggono però il confronto con il pubblico portato inevitabilmente a fruire la natura ibrida di queste operazioni, ponendosi a sua volta dubbi e considerazioni.
L’incontro con l’alterità è un atto di evasione, è superare la soglia assumendosi i rischi di entrare in un territorio a noi sconosciuto con proprie regole e una sua specifica grazia e naturalezza: «l’altro come enigma» ricorda Andrea Porcheddu. Tornando a “evasione”, questa è un’altra delle parole chiave di questa edizione e attorno alla quale hanno lavorato le compagnie bologninicosta, Cantiere Artaud e Generazione Disagio per il progetto CANTIERI curato da Giulio Sonno. Quattro i giorni a disposizione in cui le compagnie hanno avuto la possibilità di prendersi del tempo per ragionare attorno alla tematica, incontrare gli altri artisti, condividere e ripensare pratiche, senza avere l’obbligo di dover restituire al termine dei giorni un lavoro solido e autonomo. Seppur nella loro precarietà, questi brevi frammenti di studio sono apparsi ciascuno provvisto di una propria autorialità e inventiva creativa, dando valore all’aspetto processuale del progetto e presentandosi come la summa conclusiva di quelle che possono essere definite tre brevi residenze ospitate dal festival.
Affidarsi alla labilità di una scucitura, all’indefinitezza di un confine, entrare con passo cauto ma deciso in luoghi che non sono di facile accesso perché a difesa di una propria resistenza; accettare l’incertezza come a ricordarci che non è possibile definire e confezionare proposte, ché ci si muove nel segno delle ipotesi di incontri: alcuni riescono, altri meno, altri ancora falliscono. Tuttavia ogni soglia sorpassata è indice di evasione e se si può evadere da una prigione, è pur vero che lo si possa fare anche dalla stessa sregolata libertà e scegliere, come ricorda Gerardo Guccini, di «evadere nel teatro».
Lucia Medri
Teatro dei Venti – Modena, maggio 2018