Rosario Palazzolo firma la regia del suo testo La veglia, ultimo della trilogia dal titolo Santa Samantha Vs – sciagura in tre mosse, presentato in prima nazionale al Teatro Biondo di Palermo con l’interpretazione di Filippo Luna. Recensione
Qual è il prezzo da pagare per la pretesa di realtà? Quant’è possibile ricrearla e fino a che punto è giusto pretenderla: ovvero, cosa comporta avere a che fare con essa all’interno di quell’equazione tra pratica performativa e suoi diretti interlocutori?
Queste domande potrebbero apparire di segno leggermente sfalsato nel momento in cui il discorso si sposti tra il teatro e la dimensione televisiva. L’ultimo spettacolo di Rosario Palazzolo, prodotto e presentato al Teatro Biondo di Palermo (e oggi, in attesa di una tournee più cospicua, in replica a Reggio Calabria all’interno dell’Horcynus Festival) si fa carico di tali istanze inserendole in una dimensione concreta, scenica e drammaturgica.
La veglia si apre con un parto, un bambolotto al posto del neonato espone fin da subito la dimensione iper-finzionale; lo dichiara l’autore dicendo del suo come di uno «spettacolo dello spettacolo nello spettacolo», ma è anche lo stesso personaggio a sottolinearlo: «è un bambolotto, si vede, secondo me non ci credono». Carmela introduce il suo pubblico, o meglio i pubblici, nell’ambiente in cui si trova (forse un po’ troppo abbozzata la scena di Luca Mannino per potersi dire significante anch’essa): dentro uno studio televisivo, in una cella-confessionale dove poter condividere la storia sua e della figlia, per un periodo capace di compiere miracoli poi riciclatasi come venditrice televisiva e quindi suicida. Carmela, che, ci dice – ma forse anche questa è un’informazione da prendere con le pinze – di non parlare da 21 anni, alterna momenti in mondovisione-live a pause in cui dialoga con la sua presunta platea di spettatori, domanda, provoca con le parole e con uno sguardo affilato di chi agisce per compressione e contiene a stento sentimenti di segno opposto. Passa il tempo tra un on air e l’altro finché non arriverà il punto cruciale in cui saranno gli ipotetici telespettatori a decidere le sue sorti, il suo bisogno di poter riappropriarsi della salma della figlia senza cederla né alla Chiesa che vorrebbe beatificarla spiritualmente né al pubblico mondiale che vorrebbe beatificarla mediaticamente.
Del mondo televisivo si presentano diversi elementi cardine: sul piano formale la chiacchiera tipica da intrattenimento appena strutturato; una netta differenza tra discorso in diretta e quello off records e la rottura della quarta parete da parte di chi abitualmente si rivolge direttamente al proprio pubblico senza aspettarsi in fondo una reazione. Inoltre va rilevata anche la particolare qualità della lingua di Palazzolo, che modula con equilibrio un italiano “sporcato” tanto da regionalismi quanto da neologismi anglofoni, un italiano medio che, tuttavia, lungi dall’istaurare una distanza giudicante dal personaggio, riesce, grazie anche all’interpretazione di Filippo Luna, a spiazzare e ad avvicinarci empaticamente. «Una lingua spuria anche, – così la definisce il regista e drammaturgo palermitano – ragionatissima, scaturita dal silenzio, masticata dalla rabbia, e super falsa, che facesse del disagio per il neoreale una prodigiosa contingenza della realtà».
Sotto una prospettiva tematica i punti nodali ruotano attorno una componente sensazionalistica, i continui plot twist, la parabola umana di tanti personaggi più o meno famosi che, una volta raggiunto l’apice della notorietà, facilmente cedono il passo a una dimensione ancora più degradata. Pur se in una prospettiva che non contempla il confronto con l’ipercondivisione dell’era social, Palazzolo lancia i semi di una visione fortemente critica poiché del caso “che ha commosso tutti” svela non tanto i trucchi quanto le conseguenze che derivano dall’affidare il proprio privato in pasto al pubblico. In maniera sempre più lampante semina il dubbio che ciò che viene proposto come occasionalità imprevista e dunque necessariamente vera, possa invece essere al contrario estremamente artificiale, non spontanea, architettata; cosa succede allora se la verità di un atto estremo viene ribaltata, se si scopre falsata, se l’esplosione è finta e la minaccia soltanto detta?
Funziona allora la scelta di non cedere alla tentazione di inglobare del tutto nello spazio teatrale quello televisivo, che rimane evocato all’interno di una dimensione “live”, rafforzata dall’interpretazione di Luna, in grado di costruire un personaggio complesso, «una mostruosità palese, un rebus privo di risoluzione, un’iperbole lanciata verso il ridicolo», il cui corpo vive tanto nell’ottusità rigida quanto nella sfrontatezza più sorniona. La stessa scelta di utilizzare un uomo per la parte di una donna probabilmente rientra sempre in questa volontà smascheratrice, che dichiara il trucco pur se contemporaneamente lo cela. Probabilmente allora poco aggiunge il gioco iniziale di rottura della quarta parete: sebbene da un punto di vista drammaturgico la scelta sia supportata anche da una componente comico-giocosa, effettivamente il nostro coinvolgimento passa attraverso un altro piano, molto più vicino a quello di un normale (tele)spettatore che a un ipotetico pubblico di un programma live a cui viene demandato un certo grado di interazione.
Questo “grande fratello” supera il Big Brother di orwelliana invenzione: se il protagonista di 1984 nutriva ancora la possibilità della propria esistenza a dispetto di quella del fantomatico dittatore oceanico, Carmela riprende quasi alla lettera le parole del carnefice O’Brien, ammette di non esistere bensì di essere soltanto la realizzazione di un bisogno di chi osserva. Il suo pubblico è spietato, tanto più è ingenuo quanto più affamato: vuole tutto, e lo vuole Verissimo, vuole perdersi in quell’illusione di mondo smorzando la distanza che pone il soggetto del proprio guardare, fino alla totale neutralizzazione. Allora si racconterà una versione diversa di Biancaneve, quella in cui la matrigna osserva impotente, la gente chiama il guardiacaccia, i nani pretendono i miracoli e nessuno si domanda più se quella teca di vetro era una protezione da se stessa o dal resto del mondo.
Viviana Raciti
Teatro Biondo – marzo 2018
LA VEGLIA
testo e regia di Rosario Palazzolo
con Filippo Luna
scene Luca Mannino
costumi Daniela Cernigliaro
luci Alice Colla
musiche e effetti sonori Francesco Di Fiore – video Gandolfo Schimmenti
assistente alla regia Angelo Grasso – assistente di scena Clara De Rose
produzione Teatro Biondo Palermo