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Quei ciliegi che resistono a una vita in vacanza

Il giardino dei ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso di Kepler 452, con Nicola Borghesi, Paola Aiello e Lodo Guenzi, sala Thierry Salmon del Teatro Arena del Sole di Bologna. Recensione

Foto di Luca Del Pia

Dobbiamo immaginare di avere detto la verità almeno una volta, se non con gli altri l’abbiamo detta mentre ognuno era in compagnia della faccia sua. È necessario fare lo sforzo di ricordare cosa c’era intorno, potrebbe essere un giardino: lunghi e fittissimi filari di ciliegi capaci di riflettere l’immagine dritta di noi che, di nascosto a loro, torturiamo di altre forme.

Il giardino di ciliegi – Trent’anni di felicità in comodato d’uso è uno spettacolo che si forma nella pancia della verità e la racconta, a cominciare da quando Annalisa e Giuliano Bianchi, due bolognesi “immaginari realmente esistenti”, incontrano una compagnia teatrale che gli presenta Čechov perché scoprano che qualcuno ha scritto la loro storia prima che esistessero.

Anton Čechov dalla sua era un uomo che le circostanze avevano obbligato al movimento perpetuo, nel corso della vita ha piantato ciliegi ovunque si trovasse a stare e a scrivere. Sono le prime piante che ha conosciuto nella casa dove è nato, la proiezione che qualcosa possa rimanere davvero nel posto che gli viene assegnato per essere ritrovato. Prima di morire – poco mancava alla rivoluzione russa – scrisse di un giardino di ciliegi in mano a ricchi proprietari terrieri, Ljuba e Gaev, che era andato all’asta per debiti e che fu ricomperato da un ex contadinello della gleba, con la faccia sporca, che aveva usato buona parte del suo tempo per riscattarsi, diventando padrone e simbolo della nuova classe borghese.

Foto di Luca Del Pia

Accade che un secolo dopo i giardini di ciliegi esistano ancora e vadano perdendosi proprio come allora. Giuliano nella vita fa il catturatore di piccioni, il tassidermista esperto e sua moglie Annalisa gli regge le mani e la mente; per trent’anni hanno vissuto in una casa colonica della periferia di Bologna che il Comune gli ha concesso in comodato d’uso gratuito. Come Gaev e Ljuba sono ricchi possidenti, se ricchezza è non avere un ricordo più felice di altri perché per trent’anni ci si è svegliati felici sempre: surreali e comunisti, abitavano in via Fantoni 47 in un ménage con babbuini, boa constrictor, una vacca nera, un pappagallo Ara, un lupo, tre fennec (che poi sarebbe una ricchezza anche già soltanto sapere che i fennec sono delle volpi del deserto senza farselo spiegare) e una lista di altri ospiti lunga persino per l’immaginazione, che non arriverebbe ad aggiungere oltre agli animali pure 40-50 detenuti, compresi alcuni ex-41 bis che mangiavano con loro perché «gli uomini devono mangiare con gli uomini».
Nel 2015, proprio di fronte al giardino dei due coniugi sta per aprire FICO-Fabbrica Italiana Contadina, un parco a tema che per tema ha l’alimentazione, quella da conservare in luogo fresco e asciutto, una spinta maniacale di preservazione che scrive il nome degli arbusti bene esposto su un cartellino, perché si sappia che l’ordine è alleato di conoscenza e memoria. In concomitanza con l’imminente apertura di FICO, Giuliano e Annalisa Bianchi ricevono un avviso di sfratto, la Capo Area Benessere di Comunità (eufemistica nomenclatura dell’Istituzione bolognese per indicare il dipartimento delle politiche sociali) dà mandato al Corpo di Polizia Municipale di procedere coattivamente alla liberazione dell’immobile da persone e cose.

Foto di Luca Del Pia

Nicola Borghesi, che si può dire un regista degli incontri (lo provano due esempi piuttosto recenti come La rivoluzione è facile se sai come farla e Manifesto) è un trentenne che non sa stare in superficie, lavora sulle relazioni personali raccogliendo scarti della sincerità di ognuno per fare in modo che sia di tutti.
Il lavoro teatrale della sua compagnia Kepler-452 (oltre ai due non professionisti, in scena ci sono Paola Aiello, lo stesso Borghesi e Lodovico Guenzi, ad assisterli alla regia Enrico Baraldi) adegua il principio di improvvisazione allo schema drammaturgico, un percorso di ricognizione fatto attraverso il mantenimento del realismo di chi chiama sul palcoscenico, che solitamente non è del mestiere e con cui ha già instaurato un rapporto di là dalla scena, esteso via via a tutti i componenti del gruppo. Prima di essere personaggi, quelle che sceglie Nicola Borghesi sono persone del tutto prive di sovrastrutture drammatiche, a cui gli attori di Kepler si uniformano perdendo il distacco che soltanto l’azione del mettere in scena potrebbe comportare e restituendo al pubblico un testo in una struttura modellabile e compartecipata. Quando ad Annalisa e Giuliano, infatti, viene assegnata una partitura, sono stonati e quanto mai lontani da loro stessi, basta però che distolgano gli occhi e la memoria per essere lei un’anima sciolta tra tristezza e consapevolezza insieme e lui un guerriero vaticinante e ostinato.
Raccontano la propria vicenda aderendo il più possibile al testo cechoviano e allacciandosi a un espediente per ogni atto che li traghetti nella loro contemporaneità.

Foto di Luca Del Pia

Anche gli attori si raccontano, pur essendo dentro alla storia di altri due (che hanno immancabilmente intrecciato alla propria): Paola Aiello è una cornice vagheggiante i ricordi di tutti che non potrebbe essere altro da se stessa, Borghesi ha i fili della vita in una mano e nell’altra il timore di non sapere come muoverli e poi Lodo Guenzi, «quello dello Stato Sociale», talmente famoso che ha scritto «una di quelle canzoni che mettono a FICO e nei centri commerciali in genere» e se a Sanremo poteva sembrare un consacrato fenomeno, qui si sveglia in una figurina lucida e incastrata nei suoi stessi incitamenti, non pensare per sentirsi deresponsabilizzati su note sparse ad alto volume.
Nessuno pare volersi dimenticare chi è, persino il teatro stabile della regione Emilia-Romagna, un Teatro Nazionale che ha prodotto lo spettacolo investendo sul costante ricambio tra generazioni, pensando a essere strumento concesso alla polis per misurare e sorvegliare la realtà del proprio territorio, per dialogare in forma diretta con il pubblico, anche quello dato per perduto, giovane e più che mai complice.

Francesca Pierri 

ideazione e drammaturgia Kepler – 452 (Aiello, Baraldi, Borghesi)
regia Nicola Borghesi
con Annalisa e Giuliano Bianchi, Paola Aiello, Nicola Borghesi, Lodovico Guenzi
regista assistente Enrico Baraldi
assistente alla regia Michela Buscema
luci Vincent Longuemare
suoni Alberto “Bebo” Guidetti
scene e costumi Letizia Calori
video Chiara Caliò
produzione EMILIA ROMAGNA TEATRO FONDAZIONE

Si ringraziano per l’ospitalità e la disponibilità ATER Circuito Multidisciplinare, Teatro Comunale Laura Betti e Teatro dell’Argine

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Francesca Pierri
Francesca Pierri
Laureata in Filologia Classica e Moderna con una tesi magistrale in Letteratura Comparata all'Università degli Studi di Macerata, frequenta il master in Critica Giornalistica con specializzazione in Teatro, Cinema, Televisione e Musica presso l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" a Roma. Ufficio stampa e comunicazione, continua la sua attività redazionale collaborando con la Rai - Radiotelevisione Italiana. Vive a Roma e da gennaio 2017 è redattrice di Teatro e Critica.

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