Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Il numero 75 si interroga sulle possibilità di vedere in Omero, non solo il primo drammaturgo ma anche il primo filosofo del mondo antico.
IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO CHE nel n° 75 si interroga sulle possibilità di vedere in Omero, non solo il primo drammaturgo, ma anche il primo filosofo del mondo antico.
L’origine della filosofia può anche risalire a una figura diversa da un filosofo. Questa era almeno l’opinione dell’autore della seconda Vita di Omero attribuita a Plutarco. Si tratta di un testo molto tardo e controverso, compilato presumibilmente da un grammatico del II-III d.C., che intende dimostrare che Omero sarebbe stato l’iniziatore di tutte le discipline, ivi comprese filosofia e teatro.
Nessuna delle tesi prospettate da questo biografo è di per sé originale. Il fatto che i poemi omerici nascondano insegnamenti filosofici dietro il velo dell’allegoria poetica risale almeno a un autore del VI secolo a.C., ossia Teagene di Reggio, che interpretava gli dèi omerici come simboli delle forze naturali. Già Platone aveva poi sostenuto che Omero fu il “padre” della tragedia. Aristotele avrebbe aggiunto anche la paternità della commedia, attribuendogli il poemetto eroicomico Margite – che tuttavia, oggi si ritiene concordemente essere di mano non-omerica. L’elemento che contraddistingue l’autore della Vita di Omero dai suoi predecessori risiede, semmai, nel suo intento di rintracciare sistematicamente i “semi” che la poesia omerica ha sedimentato nei campi di tutto il sapere umano e nel sottolineare che Omero ha raggiunto livelli inimitabili in ciascuna disciplina. Il fatto che egli non incorra negli errori della disumanità e dell’esagerazione dimostra, del resto, che le sue composizioni sono più perfette delle tragedie e delle commedie rappresentate nel presente.
Vi è però un’assenza significativa, nell’indagine sistematica compiuta nella Vita di Omero, che avremo modo di constatare più volte in seguito. Il poeta è considerato essere il fondatore del teatro, ma non dell’arte della recitazione degli attori. Quando infatti il biografo riconosce a Omero la qualifica di fondatore di alcune tecniche performative, egli fa esclusivo riferimento alla retorica. Inoltre, nell’unico caso in cui ricorre alla parola “recitazione”, l’autore della Vita di Omero le attribuisce il significato negativo di “menzogna”, nello specifico descrivendo la condotta dell’ironico che dice una cosa, intendendo però significare l’esatto contrario. E infine, il biografo aggiunge che i poemi omerici sono tragedie e commedie pensate più per essere lette, che per essere recitate e ascoltate. La bellezza e profondità dell’Iliade e dell’Odissea si dispiegano, del resto, solo al pensiero di una mente impegnata nella lettura.
Queste annotazioni e l’assenza di un qualsiasi riferimento alla nascita dell’arte della recitazione in Omero sono davvero singolari. Ciò emerge soprattutto se consideriamo che, in realtà, i poemi omerici erano originariamente composizioni orali, che i rapsodi recitavano in occasioni pubbliche e usavano per trasmettere all’uditorio tutto il sapere accumulato di generazione in generazione sulle più diverse discipline (medicina, strategia, divinazione, ecc.): la cosiddetta “enciclopedia omerica”. L’Odissea ci dà poi racconti di recitazioni dal vivo attraverso gli aedi Femio (1.150-154) e Demodoco, i quali potevano essere presi a pretesto per ascrivere la paternità dell’arte della recitazione a Omero.
Perché allora l’autore della Vita di Omero non fa questo passo, pur avendo a disposizione tutte le premesse per farlo? La risposta a quest’ultima domanda può essere, a mio avviso, una sola. L’autore della Vita di Omero non considera la recitazione un’arte, o almeno un’arte che vale la pena di essere ricordata e ascritta al padre illustre di ogni sapere, quale fu Omero. Si assiste, così, a una sorta di divaricazione tra la filosofia e il teatro rispetto al lavoro degli attori. Le une sono discipline nobili che vale coltivare con attenzione, l’altro un’attività umana che va lasciata inosservata e passata sotto silenzio.
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Il poeta non va rimproverato se nelle sue poesie rappresenta non solo le virtù, ma anche i vizi dell’anima, dolori e gioie, timori e desideri; al poeta, infatti, spetta di imitare non soltanto le affezioni nobili, ma anche quelle meschine (ché senza di essere non sussistono azioni straordinarie), dal cui ascolto diviene possibile scegliere le migliori. E se ha raffigurato gli dèi che si mischiano agli uomini, lo ha fatto non soltanto per attirare l’attenzione e sbalordire, ma anche per mostrare, in questo modo, che gli dèi si danno cura degli uomini, e non li trascurano (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, § 5)
In generale, in Omero la narrazione delle vicende è resa straordinaria e favolosa per riempire di ansia e meraviglia i lettori e per rendere stupefacente l’ascolto. (Per questo sembra narrare in modo improbabile. Non sempre infatti il verosimile fa seguito a ciò che è straordinario ed eccitante). Perciò egli solleva in alto e storna dal consueto non soltanto le vicende, ma anche le parole. Ed è chiaro a chiunque che sempre ammira le novità, quanto sia fuori dal comune e trascini l’ascoltatore. Peraltro, anche nei racconti favolosi se uno riflettesse in modo non superficiale ma con precisione su ciascuna delle cose che afferma, apparirebbe evidente che egli è padrone di ogni scienza e tecnica del pensiero, e che ha fornito a chi è venuto dopo di lui – e non ai poeti soltanto, ma anche agli scrittori di prosa storica e persino teoretica – molti punti di partenza e, come dire, semi per ogni sorta di discorsi e azioni (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, § 6)
Poiché ogni discorso elaborato dagli uomini è di tipo storico, <teoretico> oppure politico, orsù, vediamo se ancora una volta possiamo scorgerne i primi esempi in Omero. (…) Il discorso teoretico è quello che contiene le cosiddette “teorie filosofiche”, cioè la conoscenza della verità che deriva dall’applicazione di una tecnica. Da esse è possibile apprendere la natura degli esseri viventi e delle azioni divine e umane, e distinguere le virtù e i vizi del carattere, e imparare quale tecnica del pensiero sia adeguata per raggiungere la verità. Queste dottrine hanno ricercato coloro che hanno speso la vita nella filosofia, le cui parti costitutive sono la fisica, l’etica e la dialettica. E perciò, se noi venissimo a scoprire che, in ognuno di questi ambiti, fu Omero a fornire le origini e le sementi, come potremmo non considerarlo degno di somma ammirazione? Non bisogna, peraltro, pensare che sia una stranezza se rivela le dottrine tramite enigmi e racconti mitici: la ragione di ciò sta nell’arte poetica e nell’uso degli antichi di far sì che gli allievi, attirati con la bellezza dell’arte, potessero con più facilità ricercare e trovare la verità, e d’altro canto gli incolti non disprezzassero ciò che non sono in grado di capire. E infatti è in qualche modo attraente ciò a cui si allude implicitamente, mentre è banale ciò che viene detto apertamente (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, §§ 74 e 92)
Quale ambito del pensiero, quale scienza abbiamo dunque trascurato? Ma certo, anche la tragedia prese le mosse da Omero, con la sua altezza e maestosità di vicende e di stile! Troviamo in Omero ogni tipologia di tragedia: azioni grandi e incredibili, epifanie di dèi, discorsi pieni di saggezza, imitazioni di caratteri di ogni tipo. In poche parole, i suoi poemi altro non sono che drammi, eleganti e magnifici nella dizione, nel pensiero e nei contenuti, privi di esibizioni di empietà, di nozze illegittime, di assassini di figli o di genitori, e di tutte quelle mostruosità della tragedia più recente; al contrario, anche quando si trova a dover menzionare qualcosa del genere, preferisce tentare di nascondere la colpa piuttosto che biasimarla, come fa nel caso di Clitennestra. Dice infatti che «era di nobile animo» [Odissea, libro III, v. 266] all’inizio, fintantoché aveva presso di sé il cantore (cioè una sorta di maestro) che Agamennone le aveva assegnato perché la esortasse al meglio. Ma fu Egisto che se lo tolse dai piedi e indusse la donna al crimine. Lo stesso fa anche nel caso di Oreste, di cui racconta la giusta vendetta del padre con l’uccisione di Egisto, mentre tace l’assassinio della madre [Odissea, libro III, vv. 306-310]. Tanti altri esempi del genere è possibile osservare in Omero, autore di tragedia elegante e non disumana. Anche la commedia, e non in misura minore, ricavò le sue origini; infatti trovò in Omero, narratore di vicende solenni e altissime, anche alcuni episodi capaci di suscitare il riso, come nell’Iliade Efesto è rappresentato zoppicante, che versa da bere agli dèi: «E un riso interminabile sorse tra gli dèi beati» [libro I, v. 599]. (…) In generale, infatti, è proprio della natura umana non soltanto stare in tensione, ma anche rilassarsi, per poter sostenere le sofferenze del vivere. Tale è dunque il tipo di lietezza che si trova in Omero. E chi ha scritto commedie dopo di lui non potrà affermare di aver inventato qualcosa di più, se ha impiegato un linguaggio scurrile ed esplicito per procurare il riso. Ché infatti Omero ha menzionato anche, con moderazione, scene e discorsi erotici, come quando Zeus dice: «Mai un desiderio così forte mi ha avviluppato il cuore» [Iliade, libro III, v. 442] e seguenti. (…) Invece gli altri poeti hanno rappresentato in modo incontrollato e fuori misura gli uomini presi dalla passione. Su questo si è detto abbastanza (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, §§ 213-214)
In Omero è frequente e variato il discorso alla prosopopea. Infatti senz’altro porta in scena molti e diversi personaggi dialoganti, ai quali inoltre attribuisce caratteristiche d’ogni tipo. Ma qualche volta s’immagina pure personaggi non presenti, come quando dice: «Oh, come piangerebbe Peleo, il vecchio guidatore di carri» [Iliade, libro VII, v. 125] (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, § 67)
Questo discorso intorno agli dèi sembra in linea di massima rientrare nell’ambito di ciò che è inopportuno e anche sconveniente: racconta infatti miti sugli dèi niente affatto convenienti. Alcuni rispondono a questa accusa in base al testo, ritenendo che tutte le cose siano state dette allegoricamente in rapporto alla natura degli elementi, ad analogia della contrapposizione tra gli dèi. Infatti dicono che il secco combatte con l’umido, il caldo con il freddo, il leggero con il pesante: inoltre che l’acqua ha il potere di spegnere il fuoco e il fuoco di prosciugare l’acqua. E ugualmente che c’è opposizione tra tutti gli elementi dei quali è composto il tutto, e che talvolta può esserci una parziale distruzione, ma il tutto rimane eterno. Egli [Omero] compone le battaglie chiamando il fuoco Apollo, Elio ed Efesto; l’acqua Posidone e Scamandro. E poi la Luna Artemide; l’aria Era e così via. Ugualmente talvolta anche alle disposizioni dell’animo dà nomi di dèi: alla saggezza Atena, alla follia Ares, al desiderio Afrodite, al discorso Ermes, e le associano a questi. Questo tipo di difesa, che è molto antico e fu iniziato da Teagene di Reggio, il quale per primo scrisse su Omero, è quello che si fonda sul testo (Teagene di Reggio, Testimonianza 4 Biondi = Porfirio, Commento all’«Iliade» di Omero, libro X, v. 67)
E allora, Glaucone, quando ti capiti di incontrare lodatori di Omero che dicono che questo poeta ha educato l’Ellade, che è degno da un lato di esser ripreso e studiato in vista del governo e dell’educazione delle cose umane, dall’altro che si viva tutta la propria vita fondandola sull’insegnamento di questo poeta, bisogna mostrare loro amicizia e affetto perché, per quanto possono, sono ottime persone, e concedere che Omero è grandissimo nella poesia e primo fra i tragici (Platone, Repubblica, libro X, 606e1-607a2)
Come Omero è stato soprattutto poeta di cose serie (unico non solo perché ha composto bene, ma anche perché ha realizzato imitazioni drammatiche), così è stato anche il primo a insegnare la caratteristica principale della commedia, che non drammatizza l’invettiva, ma il ridicolo. Il Margite, infatti, rivela un’analogia: l’Iliade e l’Odissea stanno alle tragedie come questo sta alle commedie. (…) Perciò, come già detto, anche per questo Omero risulta divino rispetto agli altri, in quanto neppure a proposito della guerra <di Troia>, benché avente inizio e fine, ha tentato di comporla nella sua totalità – troppo grande, la sua trama non sarebbe stata abbracciabile con lo sguardo, o, se contenuta nella grandezza, troppo complicata dalla molteplicità. Avendone separato invece una parte unitaria, ha poi fatto uso di molti episodi, ad esempio il catalogo delle navi e altri <tra quelli> che compongono il poema. Gli altri, viceversa, compongono intorno a un unico personaggio, a un unico periodo di tempo e a un’azione costituita da molte parti, come colui che ha composto i Ciprii e la Piccola Iliade. Proprio per questo dall’Iliade e dall’Odissea si può comporre solo una tragedia o due, mentre dalle Ciprie se ne possono comporre molte e dalla Piccola Iliade [più di otto: ossia Il giudizio delle armi, Filottete, Neottolemo, Euripilo, Il mendicante, Le Spartane, Il saccheggio di Troia, Il ritorno per mare, Sinone e Le Troiane] (Aristotele, Poetica, 1448b34-1449a2 e 1459a30-b7)
Il discorso politico fa parte dell’arte retorica, nella quale Omero fu, come sembra, il primo ad avventurarvisi. Se infatti la retorica consiste nella capacità di parlare persuasivamente, chi più di Omero si è distinto in questa capacità, lui che eccelle su tutti per la magniloquenza e che mostra la stessa forza nei pensieri e nelle parole? (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, § 161)
Troviamo in Omero anche l’ironia, un’affermazione che tramite l’opposto svela l’opposto in virtù di una certa recitazione, come è l’esempio di Achille: «Si scelga un altro fra i Danai, / che sia degno di lui, che sia più re di me!» [Iliade, libro IX, vv. 391-392]; mostra infatti che non potrebbe, invece, trovare un altro che sia più regale (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, § 68; trad. modificata)
Anche grazie a un altro esempio – tra i molti possibili – possiamo osservare che i poemi sembrano pensati più per essere visti che per essere ascoltati. Per esempio, nei versi in cui Omero, parlando della cicatrice di Odisseo, riporta le parole di Euriclea [Odissea, libro IX, vv. 467-477]: «La vecchia quando toccò con le mani la ferita / la riconobbe, e lasciò andare il piede: / la gamba cadde nel catino, fece rumore il bronzo / e subito da una parte si inclinò: per terra si versava l’acqua. / Insieme gioia e dolore le presero l’animo, e gli occhi / le si riempirono di lacrime, e grossa si fece la voce. / E sfiorando il mento di Odisseo gli diceva: / “Odisseo sei tu, figlio caro! E io prima non ti riconobbi, / prima di toccare il mio re”. Disse, e volse lo sguardo a Penelope / volendole dire…» eccetera. Qui, infatti, mentre ciò che è accessibile all’occhio viene mostrato, come su un dipinto, emerge, in più, anche qualcosa che non può essere colto dalla vista, ma dal solo pensiero: la sorpresa che le fa lasciare il piede, il rumore della coppa di bronzo, l’acqua versata, il dolore e insieme la gioia della vecchia, le sue parole rivolte a Odisseo e quelle che rivolgerà a Penelope appena la incontra. Molte altre scene sono descritte da Omero in modo figurativo, come è possibile osservare semplicemente leggendolo (Pseudo-Plutarco, Vita di Omero, vita II, § 217)
Ma quando la voglia di vino e di cibo cacciarono / i pretendenti, altro piacque loro nel cuore, / musica e danza: essi sono ornamento al banchetto. / Pose l’araldo la cetra bellissima in mano a Femio, / il quale cantava per i pretendenti, costretto (Omero, Odissea, libro I, vv. 150-154)
L’araldo arrivò portando la cetra sonora / a Demòdoco; e questi venne nel mezzo e intorno dei giovani / nel primo fiore gli stettero, i più esperti i danza, / e battevano coi piedi il ritmo divino: Odisseo / l’agile gioco dei piedi ammirava e stupiva nel cuore. / Ed ecco tentando le corde intonò un bel cantare / l’aedo: gli amori d’Ares e d’Afrodite bella corona, / quando la prima volta s’unirono nella casa d’Efesto / furtivi, e molti doni le diede e il letto disonorò / del sire Efesto; ma a lui fece la spia / il Sole, perché li vide abbracciati in amore (Omero, Odissea, libro VIII, vv. 261-271)
[La Vita di Omero pseudo-plutarchea è ora accessibile nella traduzione italiana di Francesco Caruso in Emanuele Lelli, Giuliano Pisani (a cura di), Plutarco: Tutti i moralia, Milano, Bompiani, 2017. Le altre edizioni citate sono:1) Daniele Guastini (a cura di), Aristotele: Poetica, Roma, Carocci, 2010;
2) Francesca Biondi (a cura di), Teagene di Reggio rapsodo e interprete di Omero, Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore, 2015;
3) Mario Vegetti (a cura di), Platone: La Repubblica. Vol. VII: libro X, Napoli, Bibliopolis, 2007;
4) Rosa Calzecchi Onesti (a cura di), Omero: Odissea, Torino, Einaudi, 1989;
Enrico Piergiacomi