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Pierfrancesco Favino: “essere è essere diversi”

Pierfrancesco Favino, attore di fertile e variegata carriera, poco prima di presentare Sanremo si è soffermato sui riferimenti del mestiere d’attore, sull’urgenza dell’ascolto, sulla funzione del teatro, sulle proprie passioni da spettatore. Intervista.

favino
Foto Ufficio Stampa

Il camerino di un attore è un luogo che sembra concluso in sé stesso, dà l’illusione che dentro ci sia ogni cosa per vivere. E c’è un silenzio quasi claustrale, una sensazione di essere ospite di un luogo sacro, privo di angoli. Pierfrancesco Favino l’ho incontrato nel camerino dell’Ambra Jovinelli dove ha portato in scena La notte poco prima delle foreste di Bernard-Marie Koltès, una scelta intima, quasi un dialogo privato con gli spettatori in sala proprio quella stessa sera e non altre, curiosamente proprio nel periodo che precede di poco l’avventura mediatica con più clamori: essere sul palco del Teatro Ariston per il Festival di Sanremo

Pierfrancesco, parli di questo testo come una melodia che ha accompagnato questi quindici anni, dal primo allestimento fino a oggi, un po’ la resistenza di una parte più intima nella diversità verso cui indirizza una carriera illustre. Un testo complesso, raffinato, a suo modo esclusivo e che non somiglia a nulla o quasi, come si coniuga con le varie forme cui ti conduce il tuo mestiere?

Io in realtà faccio molta fatica a dividermi: è intimo questo testo, così come lo è il cinema che faccio, che si tratti di drammi o commedie, o addirittura in questa per me nuova avventura sul palco di Sanremo, ma contemporaneamente intravedo anche nella scrittura di Koltès una leggerezza che fa diventare La notte poco prima delle foreste una sorta di “stand up drama”, in cui leggere anche i miei cambiamenti attraverso il tempo. Non amo l’abitudine a rinchiudere ciò che fa un attore in schemi prefissi e mi spaventa la parola “impegno”, per me è il tipo di energia e non la qualità. Uno dei miei maestri più cari, Mario Ferrero, si lamentava nel vedere in noi ragazzi la volontà di rientrare in categorie riconoscibili, diceva: “noi avevamo l’orgoglio di essere diversi”; intendeva dirci di non essere una sola cosa ma cercare di essere in ogni cosa, che abbia colori diversi, o un diverso contesto. Credo sia per questo che gli attori, nel passato, spaventavano la comunità al punto da non esserne permessa la sepoltura in terra consacrata.

C’è una frase di un poeta franco-egiziano, Edmond Jabès, che sembra avvicinare un nodo profondo del teatro di Koltès: “Tu sei qui, ma il luogo è così vasto che essere l’uno accanto all’altro è già essere tanto lontani da non riuscire né a vederci né a sentirci”…

È così, c’è sempre questa altalena tra essere accettati e la voglia di urlare la propria unicità, l’uomo del racconto chiede di appartenere a qualcosa e al contempo sta bene attento a segnare il margine di una sua diversità, pur chiedendo di non essere mai solo; penso che sia proprio la natura umana, in cui ciascuno ha il suo mondo e vorrebbe fino in fondo comunicarlo, ma poi c’è qualcosa di assolutamente indicibile, come sa quest’uomo che all’inizio chiede attenzione e dice “tu sei qui, qui con me”, ma che tra le ultime frasi pronuncia: “io non so ancora come dirti quello che veramente dovrei dirti”, perché forse non ha parole, forse non ce ne sono davvero per dire alcune cose…

Chissà che non ci sia Jabès tra le letture di Koltès, di certo condividono un certo pensiero sulla relazione tra differenza, solitudine e alterità, quella riflessione sulla condizione di straniero che ha mosso l’energia artistica di entrambi, così come ha nutrito un grande scrittore del Novecento come Albert Camus, non lontano da Koltès che sembra proprio averne rinnovato il senso del dolore, spostandolo verso una sofferenza più espressa e non retroflessa nel personaggio. Tutti e tre parlano all’uomo del proprio tempo, ma nell’urgenza di riportare La notte sul palco cosa hai notato possa dire all’uomo di questo tempo?

Sono così tanti gli stimoli per l’uomo contemporaneo che abbiamo sentito – con Lorenzo Gioielli regista dello spettacolo – di lasciare libertà allo spettatore di muoversi, senza imporre una lettura definita, perché possa rintracciare nel testo ciò che ha più urgenza per sé; ma certo ci sono temi come il lavoro, la necessità continua di spostarsi, il non avere o non trovare una radice, che a partire dalla Francia degli anni Settanta post-coloniale oggi urlano a questa nostra epoca. Proprio per questa qualità di poterci trovare urgenze diverse nel tempo è per me un vero classico, già quando l’ho fatto quindici anni fa non avrei mai immaginato di leggere i mille specchi che il protagonista si sente attorno come fosse il filtro della tecnologia, non era ancora il momento, mentre oggi è evidente come l’imposizione del volto, del profilo da dover tenere sempre visibile, sia un grande tema della contemporaneità. Ma questo è un testo che viene prima della connotazione politica che uno può dargli, parla di una differenza a priori, quest’uomo nasconde di essere chi è, ma partecipa, è in mezzo alle cose, alle persone a cui non appartiene, che decidono cosa e come dobbiamo pensare. Questo va al di là dei confini, del colore della pelle, è una condizione umana preesistente e dice l’estraneità da sé stessi prima di tutto, un male più radicato e invisibile: oggi ho davvero la possibilità di scegliere chi sono? Ciò di cui parla Koltès è il desiderio di essere visto per essere riconosciuto, quindi per esistere. È questo il tema universale: non l’integrazione, ma l’esistenza stessa.

Come agisci da attore per fare in modo che questa essenzialità possa esprimersi al meglio?

Io ho il privilegio di andare in scena e sentirmi vivo, ma per rispettare la forza di questa scrittura cerco di fare un passo indietro, la mia velleità non è interpretarla ma lasciarla libera fino in fondo di consegnare a chi assiste uno stato, veicolare una condizione dell’uomo, come fosse poesia, come fosse una lauda. Si sente, nel pronunciarla, una potenza espressiva ed emotiva che detta un tempo tutto suo, su cui l’attore può permettersi di scivolare come fosse agito dalle parole, come se queste gli parlassero piuttosto che al contrario debba essere lui a trovare il modo di dirle. E la sfida di questo allestimento è stata prima di tutto linguistica, l’accento del protagonista è stato modellato su ciò che è straniero per noi, ma secondo una condizione di estraneità più ampia della semplice connotazione geografica, per evidenziare come a un certo punto non sia più importante come il personaggio stia dicendo, ma cosa sta dicendo.

Parliamo un po’ del tuo mestiere che prima hai definito a partire dalla qualità di lasciare una scrittura libera di essere, attraverso l’offerta attorale. Hai un particolare modo di prepararti perché non restino detriti a ostruire quel particolare scivolamento nelle parole?

C’è ovviamente una variabile impazzita che Louis Jouvet diceva così: “oggi Dio è venuto. Oggi Dio non è venuto”. Ma è chiaro che se si desidera quell’abbandono un attore ha bisogno di fare spazio sufficiente perché quella specie di soffio che passa dentro possa risuonare. Di certo la cosa fondamentale è veramente parlare agli altri, il fuoco d’attenzione di un attore deve essere sempre fuori di sé, nel momento in cui qualcosa ti porta a un minimo godimento di ciò che stai dicendo c’è come un’interruzione nel far andare la parola fuori, verso l’ascolto necessario, quello dell’altro. La chiave è dunque la voce: se non è lontana da me ma risuona nella mia testa, resta a me e non è un regalo, non diventa di nessuno.

Il mestiere dell’attore trae sicuramente molto anche dall’osservazione, quindi anche dall’esperienza di spettatore. C’è una scena, uno spettacolo memorabile, che ricordi come fondamentale per la tua crescita e che ti ha dato la certezza di voler prendere questa strada?

Ho una provenienza popolare che non aveva a che fare con il mondo dell’arte, ma ho osservato tutti i grandi attori, la loro diversità prima di tutto: da Totò a Mastroianni o Volontè, da De Niro a Jean Gabin, fino alle cose più leggere anche viste in tv, lo stesso Festival di Sanremo è stato fondamentale! Ma il mio primo ricordo teatrale risale a sette anni, al Giulio Cesare, a vedere il Don Carlos di Schiller con Gabriele Lavia; prima ancora che iniziasse lo spettacolo, quando si aprì il sipario e vidi quella scatola nera che si prendeva tutta l’energia, ho sentito che dovesse essere un luogo meraviglioso se poteva accadere che ancora vuota avesse questo magnetismo.

Simone Nebbia

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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